• Non ci sono risultati.

Il contributo del movimento GLBT italiano alla costruzione di una società più laica, libertaria e non violenta

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il contributo del movimento GLBT italiano alla costruzione di una società più laica, libertaria e non violenta"

Copied!
66
0
0

Testo completo

(1)

Ai miei genitori, Bruno e Francesca, per avermi sempre sostenuto e incoraggiato

“Il Movimento gay esiste da trent'anni, e da trent’anni persegue scientemente una lotta nonviolenta: per convinzione, non per debolezza.”

(Giovanni Dall’Orto1)

“Ecco perché decisi – insieme a lui (Pier Paolo Pasolini, ndr), come sempre – di non accettare, di disobbedire, di dare scandalo, di denunciare cosa può accadere ad un uomo pulito “in un paese orribilmente sporco”. E cominciai a raccogliere tutte le condanne a morte che gli erano state decretate con l’accordo delle destre nere e delle sinistre nere che stavano dietro la rete, tra i morti viventi”

(Laura Betti2)

1 Giornalista e militante del movimento glbt, lettera aperta, 7 giugno 2002.

2 Attrice. Il suo nome è legato al lungo sodalizio artistico ed umano che la unì al poeta, scrittore e regista. Dal 1996 e fino alla sua scomparsa (avvenuta nel 2004), è stata direttrice del “Fondo Pasolini”.

(2)

INDICE

Introduzione...4

1. Le origini del Movimento GLBT…...5

1.1 La rivolta di Stonewall...5

1.2 La Stonewall italiana...6

1.3 Il “paradiso” degli omosessuali...7

1.4 Giornate particolari: il fascismo...9

1.5 Condannati al silenzio...11

1.6 Il caso Braibanti...13

2. Uscire “Fuori!”…...16

2.1 Gli anni '70: “la rivoluzione è gioia”...16

2.2 La piccola Stonewall italiana...17

2.3 Il rifiuto dei metodi di lotta di stampo militare...19

2.4 Finocchi contro peperoni...21

3. Il movimento GLBT, la guerra e la nonviolenza…...23

3.1 Gay, lesbiche e trans contro la guerra...23

3.2 Un'altra piazza e possibile...26

4. Le associazioni GLBT…...30

4.1 La nascita dell'Arcigay...30

4.2 Arcilesbica e non solo...32

(3)

5. Favolose narranti…...38

5.1 La soggettività transessuale...38

5.2 Transfobia...40

6. Il World Pride 2000…...43

6.1 “Purtroppo c'è la Costituzione”...43

6.2 Carri allegorici e carri armati...44

6.3 Senza patrocinio...46

6.4 Una giornata particolare...48

6.5 I dissidenti...49

6.6 La scomunica...50

6.7 Monsignor Macho (post Pride)...51

6.8 Il (contro)canto del Gallo...54

7. Orgoglio gay di provincia…...55

7.1 L'Altro Volto – Lucca gay lesbica...55

7.2 Svastiche e “Gay raus” sulla vetrina...56

7.3 Duemila in piazza...57

7.4 Per chi suona la campanella...60

Conclusioni – Prospettive…...62

Ringraziamenti...64

(4)

Introduzione

Il movimento glbt (gay, lesbico, bisessuale, transessuale) italiano, rispetto all'omologo americano o di altri paesi europei, è contraddistinto da una gestazione più lunga , ed irrompe sulla scena politico - sociale soltanto nei primi anni '70, sull'onda dei fermenti del '68. Da subito incrocia quello che diventerà un vero e proprio modello di riferimento e un alleato, il movimento delle donne, al quale lo lega la comune discriminazione, il rifiuto teorico e pratico della violenza e la condivisione dell'idea di dover cambiare una società sessuofobica, fondata sul dominio del maschio virile, sul familismo, sulla morale cattolica. Una società che non tollera eccezioni alla norma eterosessuale, che non ha nel proprio vocabolario la parola autodeterminazione, che reprime duramente ogni forma di amore e di sessualità “contro natura”. Un “modello unico”, esplicitamente sostenuto e difeso dalla Chiesa cattolica, dalle forze politiche conservatrici, ed implicitamente da quelle che si dicono riformiste.

La lotta dei gay, delle lesbiche e delle transessuali, proprio perché rivoluzionaria (nel senso più nobile e autentico del termine), rifiuta da subito, come fanno le donne, di utilizzare gli stessi metodi, strumenti e linguaggi appartenenti al modello che intendono cambiare: “Solamente l'autocoscienza femminista e la presa di coscienza omosessuale”, scrive Mario Mieli3, “possono dar

vita a una visione del mondo completamente alternativa rispetto a quella maschile – eterosessuale e a un'interpretazione chiara e rivoluzionaria delle problematiche offuscate da secoli, o addirittura messe all'indice, dal dogmatismo patriarcale o dall'assolutizzazione della Norma; ciò perché il punto di vista delle donne contiene la potenzialità antitetica fondamentale rispetto al “potere” maschile, mentre il punto di vista gay rappresenta l'antitesi eversiva principale opposta alla Norma sessuale stabilita e ipostatizzata da quel “potere” che, come abbiamo visto, è in tutto e per tutto funzionale al perpetuarsi del capitalismo(...). Nelle donne soggette al ”potere” maschile, nella soggezione degli omosessuali alla Norma e in quella dei neri al razzismo dei bianchi, si riconoscono i soggetti storici concreti in grado di ribaltare i piani odierni della dialettica sociale, sessuale e razziale, per il conseguimento del “regno della libertà.”.

Il movimento gay italiano, nonostante le esigue forze, ha modificato profondamente la società italiana, facendole fare lenti ma costanti passi in avanti. Tutto ciò, ricorrendo in ogni situazione a linguaggi nuovi, sperimentali, ironici, spesso provocatori ma mai violenti. Un percorso originale, contraddistinto dall'incessante ricerca e costruzione di una società più libera, laica, nonviolenta. Raccontare e analizzare questa esperienza (tutt'ora in corso), valutando anche le prospettive future che può avere, è quello che cercherò di fare nelle pagine seguenti.

3 Mario Mieli (1952 – 1983), intellettuale, tra i fondatori del movimento glbt in Italia, autore di Elementi di critica omosessuale (Einaudi editore, Torino 1977), a tutt'oggi il più importante saggio teorico prodotto in Italia nell'area del movimento di liberazione omosessuale.

(5)

Capitolo 1

Le origini del movimento glbt

1.1 La rivolta di Stonewall

La nascita del movimento gay, lesbico e transessuale avviene in luogo e in una data ben precisi: “una notte, era il 28 giugno del 69, in un locale gay di New York (il bar Stonewall, nel Greenwich village), alle solite angherie della polizia – quella che ti scheda, ti picchia, ti sfotte – qualcuno decise di reagire. E fu una rivolta che si estese e durò. Durò anni: e ce la portiamo ancora addosso. Non perché ci piacciano le barricate, né perché ci piaccia far sventolare il nostro corpo come una bandiera (…). Dura anche ora. E lo chiamiamo “pride”, orgoglio: con una parola che suona virile e pomposa. Per gusto del paradosso, per “inversione” semantica. Ma è la fierezza di aver varcato il cono d'ombra della più ancestrale delle paure, il coraggio temerario di rendere visibile il proprio amore. Questo amore non sarà mai più una smagliatura o un fonema strozzato, una lordura o una malattia.4”.

La rivolta è generata da un gesto della diciassettene Silvia Rivera, transessuale, prostituta, ispanica, emarginata: il lancio di una scarpa col tacco contro uno dei poliziotti. L'uso di quell'”arma” impropria, è l'emblema del carattere atipico e nonviolento che, fin dalle origini, caratterizza le lotte del movimento glbt. Racconterà molti anni dopo Silvia Rivera: “Non va dimenticato che a dare il via alla protesta furono le transessuali, che non avevano niente nel '69, e continuano a non avere nulla ora(...). Chi scese in strada furono coloro che, in qualche modo, erano già coinvolti in altre battaglie politiche: dalle lotte per le minoranze razziali, fino al movimento contro la guerra in Vietnam.”5

La rivolta di Stonewall è una spinta propulsiva, un fuoco che riesce a bruciare le residue resistenze, le paure, le autoflagellazioni. Da quel momento “I gay smisero di restare sull'uscio della società con il cappello in mano, in attesa di un benevolo permesso di sopravvivenza o di una casella di tolleranza. Si levarono dalla faccia quel loro “sguardo ferito”, come disse Allen Ginsberg.6

4 Nichi Vendola, Gay in paradiso, in “Liberazione”, 31 maggio 2000.

(6)

1.2 La Stonewall italiana

In Italia, però, si era già verificata una sorta di Stonewall ante litteram. Scrive Massimo Consoli, decano della militanza gay: “il 31 agosto del 1512, un gruppo di trenta giovani aristocratici, riuniti sotto il nome di Compagnacci, fece irruzione nel palazzo del governo, costringendo un alto funzionario alle dimissioni e chiedendo che il consiglio comunale abrogasse le condanne di quei sodomiti ch'erano stati condannati all'esilio o a perdere il lavoro per la loro omosessualità(...). L'iniziativa fu clamorosa e, una volta studiata la situazione della Firenze rinascimentale, se ne capisce meglio la straordinarietà(...). La città toscana era famosa in tutta Europa per la liberalità dei costumi e per l'ampia diffusione dell'omosessualità, a tal punto che in Germania, per indicare un sodomita, lo si chiamava con l'appellativo di “florenzer”, fiorentino(...). Tutto ciò non andava bene alla chiesa cattolica che(...) premeva sulle autorità civili per una stretta di vite. Così, nel 1432, la città creò un nuovo corpo di guardie speciali, incaricate di occuparsi delle accuse, delle prove e dei processi di sodomia(...): gli “Ufficiali di notte”. Poco più tardi anche Lucca, nel 1448, istituì una magistratura simile”7

La delazione, in quel contesto, era non solo il mezzo più usato per colpire gli omosessuali, ma anche per sbarazzarsi di avversari eterosessuali, ai quali, una volta raggiunti dall'accusa di sodomia, non restava che nascondersi, carichi di vergogna. Il sistema era semplice: “le denunce venivano presentate anonimamente, infilate in apposite cassette sparse per la città. Una delle vittime più illustri fu Leonardo Da Vinci. L'8 aprile 1476, qualcuno depositò nella cassetta di Palazzo Vecchio un foglio con su scritto che il pittore aveva una relazione con il giovane Jacopo Saltarelli. Di quel lungo periodo di settanta anni, dal momento della loro costituzione fino al 1502, si sono conservati tutti i documenti raccolti a Firenze, che evidenziano(...) 17.000 casi di sodomia(...). “8

C'era poi chi, come il frate Bernardino da Siena9, invitava i fedeli a sputare sul pavimento di Santa

Croce, sempre a Firenze, al grido di “al fuoco, bruciate tutti i sodomiti!(...). Essi sono sotto gli occhi di tutti; i bambini li reputano normali perché li incontrano dentro casa, invitati da genitori

7 Cfr. Massimo Consoli, Manifesto gay, i primi documenti del Movimento glbt italiano, Malatempora editrice, Roma 2005, Cit. p. 117.

8 Ivi, p. 118. Le informazioni su Firenze, viene spiegato nel libro, sono tratte da uno studio di Micheal Roche, Homosexuality and male culture in renaissance Folrence, 1996.

(7)

incoscienti che non capiscono il male che fanno loro(...)”. E lanciava una singolare raccomandazione: “Non mandate i vostri figli a giocare per le strade, dove rischiano di essere violentati perché troppo belli. Mandate le vostre figlie, invece.” 10

E così, già da allora, i destini dei gay e delle donne iniziano ad incrociarsi, per comune discriminazione.

1.3 Il “paradiso” degli omosessuali

Andando avanti nel tempo, a Firenze si manifestano fermenti importanti e del tutto inediti. “La traduzione italiana del poema di Edward Carpenter, L'amore diventa maggiorenne, uscita nel 1896, stimolò la nascita di un embrionale collettivo gay, il Gruppo giovani per le libertà sessuali, che militava nell'area socialista. Un'eccezione si dirà, ma sufficiente a ridimensionare un po' l'idea che in Italia regnasse incontrastata una beata (o beota) incoscienza, mentre altrove i gay e le lesbiche combattevano le prime durissime battaglie per la propria libertà. Un personaggio molto interessante, ancorché piuttosto isolato, contribuisce a mitigare ulteriormente la spensierata immagine tradizionale. Si tratta di Aldo Mieli, (1879-1950), nel quale potremmo riconoscere il primo militante omosessuale “full time” della nostra storia. Gli addetti ai lavori lo conoscono come storico e filosofo della scienza. Meno noto, fino a qualche anno fa, era il suo ruolo nel divulgare teorie che avevano il preciso scopo di sollecitare un'evoluzione della mentalità in materia di costumi sessuali e di far cessare le persecuzioni contro i gay. Nato a Livorno da una ricca famiglia ebraica, e conquistato giovanissimo dagli ideali socialisti, dovette ben presto sperimentare a proprie spese l'avversione per i “pederasti” che allignava anche tra chi lottava per un mondo migliore. All'inizio del 1903 fu espulso dal Partito socialista proprio per accuse riguardanti le sue preferenze sessuali. Nel 1921 fu l'unico partecipante italiano al primo “Congresso internazionale per la riforma sessuale”, organizzato da Magnus Hirschfeld11. Ed è a partire da quell'anno che Mieli

diede vita alla “Rassegna di studi sessuali”, organo ufficiale – come si poteva leggere sul frontespizio della rivista- della Società italiana per lo studio delle questioni sessuali. All'ombra dell'illuminismo scientifico del quale Mieli era apostolo, la “Rassegna” prendeva in esame argomenti scottanti come divorzio, aborto, prostituzione e naturalmente omosessualità(...).”12 10 Ivi, p. 119.

11 Magnus Hirschfeld (1868-1935), medico specialista in malattie nervose, fu il protagonista indiscusso della prima battaglia di lunga lena del movimento gay, quella per l'abolizione del paragrafo 175 del codice penale tedesco, che puniva con il carcere gli atti omosessuali tra maschi. Per ottenerne l'abolizione e per affermare la piena legittimità dell'amore tra persone dello stesso sesso, Hirschfeld, si impegnò in una lotta più che trentennale, costringendo l'opinione pubblica e il mondo politico a schierarsi a favore o contro le sue tesi.

(8)

Facciamo però un passo indietro.

All'inizio del XX° secolo l'Italia godeva di una solida fama di paradiso degli omosessuali, attirando da regione più fredde e bacchettone d'Europa sciami di ricchi estimatori dell'”amore che viene da Atene”. Il perché di questo “esodo” è facilmente spiegabile: “in Italia, per prima cosa, non esistevano le leggi repressive che avevano reso possibili casi clamorosi come quello di Oscar Wilde (che aveva scontato due anni di prigione per sodomia ). Il codice penale italiano, diversamente da quello inglese e tedesco non faceva parola degli atti omosessuali tra adulti consenzienti: il ruolo di cane da guardia in materia di etica sessuale era per tradizione affidato alla chiesa cattolica e la consuetudine non era stata smentita dalla nascita dello stato laico e liberale.”13

L'omosessualità, nelle regioni del sud Italia, era considerata complementare e subordinata al modello eterosessuale coniugale. Una delle valvole di sfogo tacitamente tollerate dell'esuberanza dei giovani maschi, così come i rapporti con le prostitute. Non a caso, come spiega Gianni Rossi Barilli, giornalista e storico esponente del movimento gay, “al momento dell'unificazione, nel 1861, quando il codice penale del regno sardo diventò legge anche nel resto del paese, la norma che puniva atti omosessuali non venne estesa alle regioni meridionali, dando vita a un doppio regime risolto solo nel 1889, con l'entrata in vigore del codice Zanardelli, il primo dell'Italia unita, che depenalizzava definitivamente i rapporti omosessuali tra adulti consenzienti, almeno in privato e senza motivo di pubblico scandalo.”14

Una situazione, almeno dal punto normativo, quasi ideale, che però presenta un risvolto negativo paradossale e tutt'altro che irrilevante. È evidente che “lo scarso impegno con il quale la società reprimeva i comportamenti omosessuali (o la sua capacità di gestirli in una complessa trama di ipocrisie e convenienze), frenò fin da subito(...) la nascita dei movimenti di liberazione di gay e lesbiche. Laddove, come in Gran Bretagna e Germania, un uomo che andava a letto con un altro uomo rischiava la galera in base a ben precise norme del codice penale, attecchirono non a caso i primi fermenti di rivolta , le prime rivendicazioni del diritto fondamentale alla dignità(...).

Là, dove i rigori morali della cultura protestante hanno prodotto divieti più rigidi, in base al principio di azione e reazione si sono create le condizioni per la nascita di una comunità gay in grado di agire per ottenere i diritti che rivendicavano. Una certa flessibilità mediterranea, regolata con severità variabile dalla chiesa cattolica, ha invece fatto sì che in Italia non si sviluppasse una coscienza omosessuale altrettanto forte e dunque nemmeno un movimento politico in proporzione, a riprova del fatto che l'identità gay e le pratiche omosessuali sono cose ben distinte.”15

13 Ivi, p 2.

14 Ivi, p. 4

(9)

Non è un caso, quindi, che in altri paesi europei le battaglie civili a favore dei diritti degli omosessuali comincino già alla fine dell'ottocento, mentre in Italia si dovrà attendere ben oltre la metà del secolo successivo.

1.4 Giornate particolari: il fascismo

Con l'avvento del fascismo, le condizioni di vita degli omosessuali subiscono un prevedibile peggioramento. La strategia messa in atto dal regime per contrastare gli “invertiti” ed evitare che “contagino” l'italica gioventù, è però nettamente diversa da quella adottata dal nazismo. Mentre in Germania, sulla base di una precisa disposizione normativa, il famigerato paragrafo 175 del codice penale (che prevede il carcere per gli atti sessuali tra maschi), vengono arrestati e deportati nei campi di concentramento di Sachsenhausen, Mathausen, Buchenwald e Dachau un numero impressionante di omosessuali16 (riconoscibili perché “marchiati” con un triangolo rosa17), la

dittatura di Mussolini adotta altri metodi. Nel 1936, sull'onda delle leggi razziali, il fascismo decide di riclassificare i gay, fino a quel momento trattati come semplici “delinquenti comuni”. Nel 1939, allo scoppio del conflitto mondiale, si assiste però ad una marcia indietro. Viene stabilito che “coloro che erano stati inviati al confino politicoperché omosessuali, e in quanto tali nemici della razza, fossero rimandati alle loro case. Il paradosso che in così poco tempo scardinò la decisione del regime è presto detto: perseguitare un gruppo sociale in quanto gruppo richiede, innanzi tutto, che si riconosca che di un gruppo si tratta. Ma nel caso della repressione del comportamento omosessuale, la nostra società ha sempre sostenuto che gli omosessuali non costituiscono un gruppo sociale, una categoria, una cultura, uno stile di vita. L'omosessualità non è, e non può essere, uno stile di vita ed una scelta di vita autentica: è semplicemente una deviazione dalla giusta via, è un errore di valutazione morale, è un vizio. In Italia, l'inserimento degli omosessuali fra i gruppi di cittadini da colpire la tutela della razza avvenne palesemente per scimmiottare la Germania nazista, ma venne goffamente trapiantato su un terreno culturale del tutto incongruo. Si spiega così il risultato modesto di questa politica: meno di 90 condanne al confino politico, per la difesa della razza, inflitte ad omosessuali tra il 1936 e il 1939, e di queste ben 42 sono opera di un unico questore di Catania, Molina, che prese eccessivamente sul serio una decisione che i suoi colleghi, per lo più si limitarono a snobbare. Altri metodi repressivi furono il pestaggio, l'uso delle classiche bottiglie d'olio di ricino, il licenziamento se si lavorava per un ente pubblico, e molto spesso anche l'ammonizione (una specie di arresto domiciliare mitigato) sotto la sorveglianza costante della polizia.”18

16 Dai dati trovati e dalle poche testimonianze raccolte, il professor Rudiger Lautmann, docente di sociologia presso l'Università di Berna, ha costruito stime statistiche, e ritiene realistico parlare di circa centomila arresti,

cinquantamila condanne, al massimo trentamila deportati e quindicimila vittime nei campi.

17 “L’ordine è un cerchio, il disordine è negli angoli e nelle linee spezzate. Il rosa è a sfottere, cromatura femminea per dire dei giochi “contro-natura” (Nichi Vendola, Gay in paradiso, in “Liberazione”, 31 maggio 2000).

(10)

Il fascismo sceglie questa via non certo per indulgenza, ma per cercare di negare e seppellire sotto una fitta cortina di silenzio, ogni traccia di omosessualità. “Gli italiani sono troppo virili per essere omosessuali”: ecco la parola d'ordine del regime. “L'omosessualità è un tipico vizio da inglesi e da tedeschi”, era stato ripetuto, e ora proprio il fascismo avrebbe dovuto confessare l'inconfessabile, e cioè che l'omosessualità esisteva perfino in Italia? Non stupisca insomma che le leggi razziali italiane non abbiano portato con sé nessuna legge antiomosessuale(…). Il fascismo operò questa scelta perché sapeva che in Italia esisteva già un'altra agenzia di potere a cui poteva essere affidato il controllo e la repressione dell'omosessualità: la Chiesa cattolica. Il controllo occhiuto del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei vicini risultava più efficace e meno costoso.”19

Detto questo, le storie degli omosessuali spediti al confino, riportate alla luce grazie alle ricerche di Giovanni dall'Orto, bastano per smentire l'immagine di un fascismo tutto sommato bonario verso i gay. Inoltre non va dimenticato che “il disprezzo e la persecuzione dell'omosessuale non fa che garantire, anche nel dopoguerra, la solidità delle categorie su cui si fonda l'immagine del vero uomo: la politica demografica, la “tutela” della famiglia e “il corpo sano” erano, assieme alla

difesa dei costumi e alla moralità, gli argomenti più usati dalla propaganda nazista e fascista, ma sono stati anche i principi ispiratori della nascente Repubblica italiana. Prova ne sia che nella “civile” Italia del dopoguerra furono presentati progetti di legge20 per inserire nel codice penale il

reato di omosessualità - non presente nello statuto Albertino, né nel codice Rocco – sia da parte di esponenti del ricostituito partito filo-fascista Movimento Sociale Italiano, sia da parte del Partito Socialdemocratico21.

Milano 2003, cit. p.48

19 Ivi, p. 49

20 La proposta di legge del Movimento Sociale Italiano (1960), recitava: “Chiunque ha rapporti sessuali con persone dello stesso sesso è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 10.000 a 100.000. Se dal fatto deriva pubblico scandalo la pena è aumentata. Se tra persone che hanno rapporti sessuali con persone dello stesso sesso vi siano uno o più minori di anni 18, la pena sarà aumentata nei confronti del maggiore e dei

maggiorenni. Nel 1961, un'analoga proposta di legge del Partito Socialdemocratico Italiano, prevedeva pene da sei mesi a tre anni, multe da 50.000 a 500.000 lire; la reclusione era aumentata da cinque a dieci anni per rapporti con minori di 17 anni. La proposta, intendeva anche introdurre il reato di opinione. Il testo infatti disponeva che: “chiunque, a mezzo della stampa, della radio, del teatro, del cinema, di convegni o riunioni dovunque tenuti e di ogni altro sistema di propaganda e diffusione, si renda promotore, organizzatore ed esecutore di azioni e manifestazioni che abbiano come finalità l'apologia della condotta omosessuale è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”. (Atti parlamentari, Camera dei Deputati, disegni di legge, n. 1920 – 22/01/1960 e n. 2990 – 29/04/1961, in Omofobia, Paolo Pedote e Giuseppe Lo Presti, Stampa Alternativa, Milano 2003, cit., p 97.).

21 Cfr. Circolo Pink (a cura del), Le ragioni di un silenzio. Le persecuzioni degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo, Ombre corte, Verona 2002, p. 82.

(11)

Il trattamento riservato alla “questione omosessuale”, evidenzia una continuità tra la dittatura e il regime democratico. Alla caduta del fascismo, non ha fatto seguito la caduta dei pregiudizi e delle ostilità anti gay. La discriminazione ha solo cambiato sembianze, materializzandosi, in certi casi, in forme più politicamente corrette e furbe, senza tuttavia mutare nella sostanza.

1.5 Condannati al silenzio

A riprova di quanto sostenuto in precedenza, c'è un fatto incontrovertibile: nonostante che la persecuzione degli omosessuali sotto il regime fascista sia da tempo conosciuta e documentata, le associazioni glbt si sono viste negare per anni il diritto di parola durante le celebrazioni organizzate per commemorare le vittime della dittatura. Come se i gay e le lesbiche fossero estranei a quella vicenda o vittime di serie b.

Una discriminazione dei discriminati, una negazione di pari dignità tanto più insopportabile perché messa in atto dalle istituzione democratiche adducendo ridicole motivazioni “tecnico-organizzative”, o non motivando affatto. Due casi, verificatisi in due città diverse, servono da esempio.

Verona, 25 aprile 1997. “In quella data”, racconta il presidente del Circolo Pink, Gianni Zardini, “volevamo dare voce ai gay, alle lesbiche, e ai travestiti vittime della persecuzione nazista e fascista, partecipando alle manifestazioni ufficiali del Comune e deponendo una corona triangolare di fiori rosa sul monumento cittadino con il triangolo bronzeo. Così, fatte le opportune richieste all'ufficio comunale e al comitato a ciò preposti, ci sentiamo rispondere che “il Sindaco rappresenta già tutti i cittadini, quindi non c'è bisogno che ci sia una nostra rappresentanza specifica”. Anno dopo anno, si aggiungono nuove giustificazioni a negazione della nostra richiesta: “vi sono rigide regole di protocollo”, “quel giorno la piazza è un presidio militare”, “le uniche corone di fiori ammesse sono quelle del Comune, della Provincia e del Prefetto”, e altre simili, documentate dalla corrispondenza(...). Così, in disparte, dopo le fanfare e le bandiere del mattino, di pomeriggio facciamo la nostra commemorazione, come ormai da anni, con anarchici e politici.

Nel 2000 la svolta (o quasi). Per interessamento di un consigliere comunale, il comitato organizzatore ci contatta e ci comunica che anche noi possiamo partecipare alle manifestazioni ufficiali come tutti gli altri. Pronti, si va in piazza con ebrei e partigiani, con un piccolo striscione con su scritto: “Uccisi dalle barbarie, sepolti dal silenzio”. Le forze dell'ordine, purtroppo, non avvisate in tempo ci chiedono a più riprese di togliere lo striscione, e non sembrano convincersi dell'ufficialità della nostra presenza nemmeno dopo aver visto la lettera d'invito. Nel 2001 si è replicato, con l'aggiunta della questione labaro. Già, perché se volevamo partecipare alla commemorazione del 25 aprile, dovevamo presentarci come le altre associazioni di combattenti, reduci, internati e perseguitati: con il labaro(...). Dunque facciamo confezionare il labaro. Per chi non lo sa, questi oggetti si confezionano nei negozi di articoli militari, che in genere non sono molto avvezzi a servire clientela omosessuale e a confezionare materiale per le loro feste. Stabilita la forma, la tonalità di rosa del triangolo e il testo, il labaro si fa. Ma il 22 aprile 2001 c'è uno stop(…): non siamo iscritti ad un particolare registro nazionale di associazioni di perseguitati riconosciute dal Ministero della Difesa e perciò non possiamo partecipare. Così ho un colloquio con un ufficiale dell'Esercito, peraltro cordiale, il quale mi dice che volevano solo sincerarsi del fatto che non si facessero moti di piazza, e che il labaro poteva esserci, ma fuori dalle transenne. Dunque, noi

(12)

e dietro il labaro con i triangoli rosa e nero (per le lesbiche) sovrapposti. Poi corteo e discorso in Comune. I partigiani, gli Alpini e i Bersaglieri d'altri tempi curiosi ci chiedono: “Ma cos'è quel triangolo rosa?”. E noi a rispondere pieni d'emozione.”22.

Quindi presenti, ma solo dopo aver superato un difficile percorso a ostacoli; una “prova” a cui nessun altro gruppo di perseguitati è stato sottoposto. Comunque sia, c'è un motivo per cui essere soddisfatti, dato che ci sono realtà in cui le cose vanno decisamente peggio, come ad esempio a Lucca, dove nell'aprile del 2003 l'associazione L'Altro volto - Lucca gay lesbica, decide di presentare richiesta a Comune, Provincia e Istituto storico della Resistenza per far inserire il proprio presidente tra gli oratori delle celebrazioni ufficiali del 25 aprile, che ogni anno si svolgono nel centro della città: “Tra i soggetti perseguitati dal nazifascismo – viene scritto nella lettera indirizzata alle tre istituzioni – vi furono anche gli omosessuali, che negli ultimi anni vengono ricordati nelle cerimonie ufficiali anche nella nostra Regione. Già nel 2002, il presidente onorario dell'Arcigay nazionale, Franco Grillini, e il presidente di Arcigay Toscana, in rappresentanza della comunità omosessuale, hanno potuto commemorare l'anniversario dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, accanto al Sindaco, che ha garantito loro una presenza stabile all'interno del Museo della Resistenza. Nel gennaio del 2003, in occasione della giornata della memoria, lo stesso Grillini ed esponenti locali della comunità gay e lesbica, hanno deposto una corona di fiori insieme alle autorità locali presso Roccatederighi (Grosseto), luogo in cui sorse uno dei più importanti campi di concentramento italiano”.

L'11 aprile la Provincia comunica che la richiesta è stata accolta, e che, quindi, un rappresentante dall'associazione potrà intervenire dal palco, dopo i discorsi del Sindaco, del presidente della Provincia e del direttore dell'Istituto storico della Resistenza. L'emozione e la soddisfazione tra i membri del circolo glbt è grande: per la prima volta, in una città conservatrice come Lucca, un rappresentante di un gruppo omosessuale (il primo nella storia della città), parlerà pubblicamente, da un palco istituzionale, delle vittime gay e lesbiche del regime fascista. Un evento non da poco, testimoniato anche dallo spazio che i quotidiani locali gli riservano. Tutto fila liscio fino alla vigilia della cerimonia, quando (nel pomeriggio) arriva una telefonata dalla segreteria del Presidente della Provincia, con la quale si comunica che il discorso del rappresentante de L'Altro Volto è stato cancellato dalla scaletta degli interventi. Motivo? “È stato ritenuto che l'esponente dell'Istituto storico della Resistenza, con il suo intervento, rappresenti tutte le realtà perseguitate dal fascismo. Se avessimo accettato la vostra richiesta, avremmo dovuto far intervenire anche un esponente della comunità ebraica, i testimoni di Geova, i sinti, i rom ecc..”. Serve a poco far notare che nessuno di quei gruppi, a differenza del circolo omosessuale, ha avanzato richiesta in proposito. La motivazione addotta per l'esclusione non regge, ma a nulla valgono le proteste dei membri de L'Altro volto, i quali, anche per la ristrettezza dei tempi, non possono far altro che prendere atto del diniego, senza tuttavia rinunciare a far sentire comunque la propria voce il giorno successivo, sotto forma di protesta. Mentre partecipano al corteo del 25 aprile, indetto da associazioni e gruppi politici locali, gli attivisti distribuiscono un volantino dal titolo “Condannati al silenzio”, dove, oltre a riassumere la vicenda, pongono alcune domande: “Perché comunicarci l'esclusione solo il giorno prima? Perché se l'Altro Volto - Lucca gay lesbica è stata l'unica associazione a chiedere di parlare, tirare in ballo altre realtà? Che sia il solito modo garbato con cui storicamente in Italia si glissa su questo argomento? A queste domande, ci auguriamo che le istituzioni vogliano rispondere al più presto in maniera chiara.”

22 Circolo Pink (a cura del), Le ragioni di un silenzio, le persecuzioni degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo, Ombre corte, Verona 2002, cit. p. 7, p. 8

(13)

Le istituzioni, però, non hanno mai risposto, dimostrando, al di là delle frasi di circostanza, che l'ostracismo nei confronti delle persone glbt è ancora ben radicato, e messo in atto non solo da coloro che si richiamano alla tradizione fascista, ma anche da chi si presenta come sostenitore di valori alternativi-antitetici a quell'esperienza.

Vale quindi più che mai la domanda-amara riflessione posta da Gianni Zardini: “ancora oggi, alcuni morti meritano di più e altri di meno. Quanti anni ci vorranno per un 25 aprile di tutti, senza transenne e permessi, senza protocolli e iscrizioni in albi e registri?”23

1.6 Il caso Braibanti

È proprio un ex partigiano e intellettuale di sinistra, Aldo Braibanti, il protagonista, alla fine degli anni '60, di una vicenda che provoca forti polemiche, dato che, tramite l'applicazione di una norma “fumosa”, si tenta di mettere fuori legge ogni forma d'amore (o comunque di relazione) omosessuale, contraria alla morale dominante.

Nonostante le ventate di libertà provocate dal movimento del '68, nel nostro paese continuavano incessanti “le iniziative di questori e magistrati in difesa della decenza, pronti in ogni occasione a ricordare che l'omosessualità, pur non essendo in sé un reato, non poteva certo essere vissuta liberamente(...). Era tollerata ma scoraggiata e all'occorrenza poteva essere punita. Quanto duramente, fu rivelato dalla sentenza pronunciata il 12 luglio 1968 contro Aldo Braibanti, condannato a nove anni di carcere in base all'art. 603 del codice penale, che così definiva il reato di plagio: "Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque ai quindici anni"24. Un reato introdotto dal

legislatore fascista, rimasto unico nel quadro giuridico europeo, e non caso abrogato successivamente dalla Corte Costituzionale, anche se soltanto nel 1981.

Quello contro Braibanti, fu percepito dall'opinione pubblica come un processo alla diversità. Sottolinea Massimo Consoli: “Mai nessuno era stato accusato di un reato del genere nel nostro paese, anche perché, se veramente si fosse voluto applicare quell'articolo, i primi a farne le spese sarebbero stati i preti cattolici, visto che il reato di plagio riguardava il rendere una persona quasi come un oggetto nelle mani di un'altra, privarla della sua volontà, assoggettarla totalmente”25. 23 Ivi, p. 8

24 Gianni Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano 1999, Cit., p. 45.

25 Cfr. Massimo Consoli, Manifesto gay, i primi documenti del Movimento glbt italiano, Malatempora editrice, Roma 2005 Cit. p. 20.

(14)

Il caso si svolse in provincia di Piacenza, dove Braibanti conobbe Giovanni Sanfratello, diciannovenne e quindi minorenne per la legge in vigore all'epoca, ed iniziò ad intrattenere con lui una relazione profonda. Gabriele Farluga, che ha ricostruito minuziosamente la vicenda in un libro26, racconta: “Giovanni con l'aiuto di Braibanti intendeva allontanarsi dalla famiglia e costruire

la propria vita. I due si amavano, e nell'intenzione di vivere insieme si trasferirono per un breve periodo a Firenze e poi definitivamente a Roma. Qui la famiglia Sanfratello si recò spesso per cercare di convincere Giovanni a rientrare a casa, inutilmente(...). Il padre di Giovanni, Ippolito Sanfratello, fu “illuminato” da un suo amico sacerdote sulla natura del rapporto che intercorreva tra Braibanti e il figlio e denunciò Braibanti per plagio”27. Da quel momento per il giovane iniziò un

vero e proprio calvario, parallelo a quello giudiziario di Braibanti: “ Il padre, insieme ad alcuni altri membri della famiglia, si presentò alla pensione dove la coppia viveva e rapì Giovanni, portandolo con la forza in manicomio, luogo dove restò per circa un anno, inchiodato alla diagnosi di “schizofrenia” e sottoposto a tutte le “terapie” previste all’epoca, cioè elettroshock e coma insulinici.

Il procuratore (che tenne aperta l’inchiesta per quattro lunghi anni, nonostante a norma di legge non potesse farlo), fece arrestare Braibanti verso la fine del 1967. Il processo fu una sfilata incredibile di personaggi legati alla destra, talvolta estrema, come nel caso del perito nominato dalla Corte, Aldo Semerari”28. Giovanni non accusò mai Aldo Braibanti di plagio, ma anzi lo difese

nel processo, testimoniando che aveva sempre avuto con lui rapporti sessuali consenzienti. Questo però non fece crollare il castello accusatorio. Anzi, lo rafforzò: “Si disse che evidentemente Giovanni doveva essere ancora sotto l’influenza di Braibanti e questo provava l’avvenuto plagio”29.

“Il risvolto omosessuale della vicenda”, scrive Gianni Rossi Barilli, “era ovviamente la più eloquente prova di colpevolezza. Rientrava però, secondo il pubblico ministero, in un più generale quadro di abiezione e si trovava accanto alle idee comuniste e alla personalità anticonformista dell'imputato. “La corruzione morale”, sosteneva il pubblico ministero per confortare la sua richiesta di una pena esemplare (quattordici anni), “consiste nel bisogno del corrotto di diffondere il vizio, così come il drogato diffonde la droga: è questa diffusione della corruzione che permette ai corrotti di vivere”30. 26 Gabriele Farluga, Il processo Braibanti, Silvio Zamorani editore, Torino 2003.

27 Ivi.

28 Ivi.

29 Ivi.

(15)

L'omosessualità, dunque, intesa come “vizio” e paragonata a una dipendenza, a una malattia. Un processo che si trasforma in messa in stato di accusa di uno stile di vita, di un modo di essere. A quel punto, però, anche se tardivamente, prese corpo una mobilitazione di intellettuali e politici di sinistra in favore di Braibanti, tra cui Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Marco Pannella, Umberto Eco, Cesare Musatti. Un'iniziativa accolta però freddamente da Braibanti: “Evidentemente”, ricorderà in un'intervista del 1979, “ad un certo momento hanno capito che dovevano fare qualcosa per difendere se stessi. Pasolini difendeva anche se stesso e quando si è capito che l'attacco era globalmente contro la cultura di sinistra, in ultimo si è mosso il Partito comunista italiano, quando ha capito che non sbagliava tasto”31. Scoppiò dunque un caso politico

di eccezionale risonanza, che portò a una parziale retromarcia nel processo d'appello: “Bisognava trovare un compromesso”, riassume Braibanti, “secondo il quale io potessi essere rimesso in libertà e i giudici non ci facessero una figura di merda. Allora hanno fatto coincidere la condanna d'appello con i giorni della mia liberazione. Sono stato condannato a sei anni, di cui due trascorsi in prigione, due di condizionale e due e due condonati perché partigiano32”. Una sconfitta in piena

regola per coloro che avevano imbastito e portato avanti quella campagna repressiva-moralizzatrice, che comunque aveva lasciato segni profondi sulle vittime e contribuito a propagandare un’immagine deformata, negativa, “malata” dell’omosessualità e dei rapporti affettivi tra persone dello stesso sesso.

Una vicenda che la dice lunga sul modo in cui veniva considerata e trattata l'omosessualità in quegli anni, e che solleva un interrogativo non certo secondario: se una campagna tanto feroce e violenta ha determinato ripercussioni così importanti nella vita di un uomo dalle “spalle larghe” come Aldo Braibanti, quali effetti negativi può provocare nella vita di individui psicologicamente e socialmente più vulnerabili?

31 Ivi.

(16)

Capitolo 2

Uscire “Fuori!”

2.1 Gli anni ’70: “la rivoluzione è gioia”

Nel '68, Il vento di rivolta che soffia in America e in Europa occidentale, investe ben presto anche l'Italia. “Nacquero forti movimenti di protesta decisi a rimettere in discussione tutti i rapporti di potere su cui si reggeva la società, con l'immane progetto di abbattere il sistema capitalistico e costruire un mondo più libero(...). Diventavano programmatiche, anche se non per tutti, le spinte verso una piena libertà di espressione degli uomini e delle donne. Le nuove e radicali domande poste con l'occupazione di scuole e università, gli scioperi e le manifestazioni di piazza aprirono una stagione di forti conflitti politici e sociali, all'interno dei quali si crearono effettivamente le condizioni per rimettere in discussione tutto: assetti sociali, stili di vita, convinzioni e convenzioni. La sfera della sessualità e delle relazioni tra le persone fu tra le più sconvolte dal vento del cambiamento. La rivoluzione sessuale investiva i ruoli codificati, portava con sé la critica del femminismo e offriva una possibilità anche alle rivendicazioni dei gay e delle lesbiche”33, che come

abbiamo visto in precedenza avevano dato vita in America ad una rivolta che aveva fatto scalpore, diventando un simbolo e un modello. Non a caso, dopo quell’episodio “gli omosessuali fondarono il Gay liberation front, che mise ben presto solide radici in molte città degli Stati Uniti soppiantando le preesistenti e moderate associazioni omofile(...). In Italia non c'era alcun precedente storico di organizzazione politica degli omosessuali. Il salto fu dunque ancora più impegnativo che altrove . All'inizio degli anni settanta esistevano già piccoli gruppi di militanti che andavano in cerca di una forma organizzativa ciascuno per conto proprio, a Torino, Milano e Roma34”. L'iniziativa più decisa

fu presa dai torinesi, ma il “concepimento” vero e proprio della prima formazione glbt avvenne a

33 Ivi. p. 46, p. 47.

34 Maria Silvia Spolato, nell'estate del 1971 aveva fondato a Roma il Flo (Fronte di liberazione omosessuale) che poi confluì nel “Fuori”. Cfr. Maria Silvia Spolato (a cura di), I movimenti omosessuali di liberazione, testimonianze e foto della rivoluzione omosessuale, Samonà e Savelli, Roma 1972.

(17)

Milano, “una sera di maggio del 1971 nella casa di Fernanda Pivano35(...), non omosessuale che è

amica di alcuni di noi e da tempo, e che ha avvertito da diretta interessata alle liberazioni di tutti, la necessità di parlare di libera omosessualità anche in Italia, lei che tornava al solito dagli Usa ed aveva visto in America come i nuovi omosessuali si stessero organizzando(...). Quella sera nacque ufficialmente il movimento, tra accese discussioni e calmi, discreti interventi di Fernanda Pivano36.

Il primo atto del neonato movimento è la creazione di un giornale, mezzo ritenuto indispensabile per smontare i luoghi comuni omofobi e l'immagine negativa e stereotipata che la stampa italiana dava dei gay e delle lesbiche. La rivista, adotta lo stesso nome scelto per il movimento: “Fuori”, acronimo di Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano. Un evidente richiamo al Fhar francese e all'inglese come out (uscire fuori), parola d'ordine dei gay anglosassoni. Come il Fhar, il “Fuori” cerca un proprio spazio nella sinistra rivoluzionaria, aderendo quindi al suo programma di abbattimento del capitalismo, ma dichiarando fin dall'inizio di voler estendere la lotta dal campo della struttura economica a quello della morale borghese, per mostrare che l'oppressione prodotta dal capitale e quella causata dalla società patriarcale sono tutt'uno.

Un modello ineludibile per il movimento gay risulta perciò essere il femminismo, che in quegli stessi anni mette sotto accusa il dominio maschile sulla donna, equiparandolo a quello del borghese sul proletariato, e che soprattutto elaborava e sperimentava pratiche tendenti a cambiare da subito i rapporti tra i sessi e le relazioni tra gli individui. “La rivoluzione è gioia”, proclamavano gli omosessuali del “Fuori” sul numero uno della rivista, “e lo è nel momento stesso in cui, superate tutte le barriere di una condizione non vitale, diventa liberazione.”37

Comincia quindi a manifestarsi, anche se ancora in forma embrionale, un movimento che da lì a poco farà irruzione sulla scena politico – sociale italiana.

35 Fernanda Pivano (Genova, 18 luglio 1917 – Milano, 18 agosto 2009), è stata traduttrice, scrittrice, giornalista e critica musicale. L'inizio della sua carriera letteraria risale al 1943, quando pubblica per Einaudi la traduzione della Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, sotto la guida di Cesare Pavese e traduce il romanzo di Ernest Hemingway Addio alle armi. Questa traduzione le costerà l'arresto, e il romanzo non sarà pubblicato in Italia fino al 1949, perché ritenuto lesivo dell'onore delle Forze Armate dal regime fascista, sia per la descrizione della disfatta di Caporetto, sia per un certo antimilitarismo sottinteso nell'opera. A metà degli anni ’50, dopo aver tradotto e studiato i lavori dei maggiori classici americani, promuove la valorizzazione in Italia degli scrittori della Beat Generation, tra cui Allen Ginsberg e Jack Kerouac.

36 Ivi, p. 48, cit. tratta da A. Cohen, La politica del corpo, p.24

(18)

2.2 La piccola Stonewall italiana

La prima uscita pubblica dei gay e delle lesbiche del “Fuori “è datata 5 aprile 1972. La “piccola stonewall italiana” si svolse a Sanremo, ma stranamente non in occasione del noto festival della canzone. “Il Centro italiano di sessuologia, un organismo di ispirazione cattolica, pensò bene di organizzare nella città ligure un congresso internazionale sulle devianze sessuali. Nel programma figuravano una tavola rotonda e molti interventi specificamente dedicati a cause e terapie dell'omosessualità38.” Le cosiddette “terapie”, preannunciate sulla stampa e illustrate nel corso del

convegno, erano davvero originali, e vale la pena di ricordarne alcune. Ad esempio, la terapia dell'avversione proposta dallo psichiatra inglese Philip Feldmann consisteva nel proiettare la diapositiva di un uomo nudo visto di spalle davanti a un omosessuale. Se questi indugiava più di otto secondi ad ammirarla riceveva una scossa, un piccolo choc, attraverso degli elettrodi applicati ai polpastrelli. Poi la diapositiva dell'uomo scompariva, sostituita da quella di una bella donna anch'essa nuda. In questo caso l'omosessuale non riceveva alcuna scossa. Così, al senso di dolore prodotto dalla vista dell'uomo avrebbe dovuto sostituirsi il senso del piacere dovuto al non ricevere scosse alla vista della donna.

Il professor Jefferson Gonzaga dell'università di San Paolo preferiva invece affidarsi all'ipnosi per guarire gli omosessuali, avvertendo però che il trattamento “può durare anche dieci anni. Per integrarlo sarebbe utile che subito dopo ogni seduta, l'omosessuale incontrasse come per caso nel corridoio della clinica una donna compiacente che prendesse l'iniziativa di accompagnarsi con lui”39. Molto più radicale e rapida la “cosiddetta tecnica di Reder”, consistente “nel produrre una

lesione in quella zona del cervello che si chiama nucleo ventricolare mediale.” I militanti del “Fuori”, date queste premesse, temevano che l'iniziativa servisse a promuovere un disegno di legge contro l'omosessualità, così com'era già accaduto in Spagna, dove la dittatura franchista, nel 1970, aveva prescritto l'obbligo di cura per questo tipo di “malati” attraverso l'internamento in apposite strutture. Così organizzarono una clamorosa e inedita contestazione, chiedendo aiuto anche a gruppi glbt di altri paesi europei. La mattina del 5 aprile 1972, una quarantina di gay e lesbiche aderenti al “Fuori”, al Fhar francese, al Mhar belga, al Gay liberation front britannico e all'International homosexuelle rèvolutionnaire (Ihr), si ritrovarono davanti l'ingresso dello stabile dove si sarebbe svolto il congresso, “armati di cartelli che non lasciavano dubbi: “Psichiatri, siamo venuti a curarvi”(...), avevano tanta rabbia in corpo contro i padroni del sesso e delle omosessualità, ma tanta dolcezza, tanta gioia nei canti, nei cartelli, nei volantini, negli slogan, nelle danze davanti all'ingresso del casinò municipale della cittadina, quello stesso che ospita il festival della canzone(...) e che quella mattina vedeva grigi signori del sesso entrare insospettiti nel salone

38 Ivi, p. 54

(19)

dei congressi, adirati e confusi dalla presenza inaspettata degli e delle omosessuali”40. La portata di

quel fatto è enorme: “tutti i partecipanti alla contestazione”, scrive Gianni Rossi Barilli, “avevano la piena consapevolezza di compiere un gesto storico: mostrare, per la prima volta nel nostro paese, che si doveva e poteva lottare a viso aperto, come finocchi e come lesbiche, contro l'omofobia.”41

La protesta acquistò ancora più visibilità in seguito all'arrivo della polizia, fatta intervenire dai sessuologi. I manifestanti furono identificati e, alcuni di loro, accompagnati in questura per accertamenti. Tutto ciò sotto gli occhi dei giornalisti presenti che scrissero per le proprie testate cronache molto dettagliate dell’accaduto, facendo così da cassa di risonanza all'evento. Tanto più che la contestazione proseguì anche all'interno, dove alcuni militanti gay regolarmente iscritti ai lavori chiesero e ottennero, non senza difficoltà, di intervenire. “Per il movimento gay si trattò di un successo su tutta la linea. Il congresso non fu seguito dalla paventata proposta di legge antiomosessuale, mentre il “Fuori” ricavò dall'impresa un sensazionale lancio pubblicitario, proprio a ridosso dell'uscita in edicola del suo giornale. La grande stampa diede un risalto senza precedenti all'azione di boicottaggio e almeno in parte rinunciò ad attingere al consueto armamentario di luoghi comuni. Uscì addirittura qualche articolo piuttosto simpatizzante. A buon diritto, la cronaca dei fatti di Sanremo sul primo numero del “Fuori” venne intitolata Come si vince contro chi ci opprime42.

Era solo l'inizio. Da quel momento in poi, a piccoli passi, i gay, le lesbiche e le transessuali porteranno avanti con sempre maggiore determinazione un progetto di visibilità e di riconoscimento di dignità e diritti. Un cammino lungo e difficile, costellato da difficoltà e ostacoli giganteschi, ma che era finalmente cominciato.

2.3 Il rifiuto dei metodi di lotta di stampo militare

La contestazione di Sanremo, prima grande prova di visibilità del neonato movimento italiano,

interruppe il dibattito, tutto interno al movimento, su quale fosse la strategia più efficace da portare avanti per conquistare diritti e contrastare le discriminazioni: “quella dei piccoli passi, a questo punto, doveva però rivelarsi perdente di fronte al salto epocale che la nuova generazione - politicamente parlando - di gay militanti seppe far compiere alla questione omosessuale(...). Quei giovani che gridavano “io sono frocio” e “io sono lesbica”, rifiutando la normalità e la tolleranza, contribuirono moltissimo a mutare la mentalità collettiva. Quei giovani con la loro rabbia, la loro

40 Alfredo Cohen (a cura di), La politica del corpo, Savelli editore, Roma 1976, cit., p.18.

41 Gianni Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano 1999, cit. p. 58.

(20)

gioia, inflissero un colpo decisivo a pregiudizi vecchi di molti secoli43”. Ma la strada da percorrere

per ottenere una reale e piena liberazione era appena iniziata, e il terreno su cui muoversi era piuttosto accidentato e scosceso. Alcuni punti fermi, però, rendevano la traiettoria ben definita. Uno di questi era il rifiuto dei metodi di lotta “classici”, di stampo militare, caratteristici di certi gruppi politici che, all'epoca, monopolizzavano i cortei e le piazze. Il frasario, le pratiche e tutto quanto prescritto dal “manuale del perfetto militante”, risultava estraneo e incompatibile col movimento glbt, identità nuova, originale e intenzionata a cambiare la società attuando una rivoluzione culturale nonviolenta.

A ciò va aggiunto che, molto spesso, coloro che si dichiaravano rivoluzionari “doc”, rispetto al tema dell'omosessualità o avevano le idee confuse, o dimostravano una certa insofferenza. Un esempio illuminante di questo atteggiamento, è dato dal resoconto dell'iniziativa organizzata dal “Fuori” romano a Campo de' Fiori, il primo maggio del 1972, a poche settimane dalla contestazione di Sanremo. “Una festa della gioia, contro il lavoro e per la rivoluzione sessuale, a cui parteciparono molte femministe, il movimento di liberazione maschile, il movimento ippi, anarchici e libertari. Si distribuivano volantini, e si intonarono cori, intavolando animate discussioni con i passanti, meravigliati forse delle cose che dicevamo, ma disposti a discutere, anche se venivano messi in crisi proprio nei loro valori più sacri, come la famiglia o la loro funzione di maschi”44. La festa venne

interrotta da “alcuni extraparlamentari, dichiaratisi poi iscritti a Potere operaio, che al grido di “via i froci da Campo de' Fiori” cominciarono a tirare secchiate d'acqua sui manifestanti45”. Commenta

Gianni Rossi Barilli: “I secchi d'acqua e gli insulti di Campo de' Fiori non erano poi un caso troppo isolato ed erano la rappresentazione rozza di un più generale atteggiamento di chiusura e di aggressività. “Cercare una collaborazione con la sinistra rivoluzionaria (di cui lo vogliamo o no siamo parte)”, affermavano i militanti del “Fuori” romano, “ci verrebbe spontaneo, poiché queste sono le forze che più delle altre dicono di odiare le regole dell'attuale società. Però, non appena si parla di sesso, di aborti, di lotte femminili, di omosessualità, anche i compagni più avanzati hanno improvvise e inaspettate esitazioni, sembrano considerare questi problemi, quantomeno, un argomento a parte46”. In effetti, non c'era molto spazio per questi temi nell'elenco delle priorità dei

vari programmi rivoluzionari”. Nei confronti degli omosessuali, in particolare, prevaleva ancora un rigido moralismo, sorretto dalla “teoria” secondo la quale essi erano “portatori” di un vizio borghese. “L'impatto esplosivo del femminismo avrebbe cambiato molte cose nel corso del decennio, ma nel 1972 la lotta condotta dal “Fuori” era ancora considerata del tutto estranea dalla

43 Ivi.

44 Quando il maschio è di classe, in “Fuori” n.5, novembre 1972

(21)

principali organizzazioni della nuova sinistra. Come accadeva nei partiti tradizionali, gli omosessuali che militavano in Lotta continua, Manifesto, Avanguardia operaia o Movimento studentesco, nella maggior parte dei casi tenevano nascoste le loro inclinazioni amorose, o tutt'al più si dichiaravano bisessuali, ma di certo non cercavano di imporre la liberazione gay come obiettivo di lotta”47.

È evidente da questi racconti il difficile rapporto tra la comunità omosessuale e i cosiddetti gruppi antagonisti che, oltre a tenere in vita le classiche forme di pregiudizi e discriminazioni anti gay, hanno costantemente riproposto un armamentario ideologico datato e conservatore, ben lontano da quel “vento” del '68 di cui il sono fatti interpreti il movimento delle donne e il movimento glbt.

Per fortuna c'erano anche le eccezioni: il Partito radicale. “Una forza non marxista che venendo da una minoritaria ma dignitosa tradizione di sinistra liberale, aveva incontrato le ragioni del '68. Il Pr aprì le sue sedi ai gay e alle lesbiche e accettò di buon grado di inserire le loro rivendicazioni nel suo programma libertario. Marco Pannella, su “Notizie Radicali”, intervenne a motivare una scelta contro la quale si era scagliata la destra e si era levata qualche protesta anche nelle vicinanze del partito: “L'obiettivo d'una lotta per una sessualità vissuta da laici e da libertari”, affermava, “è necessariamente nostro48”.

2.4 Peperoni contro Finocchi

Eppure, nonostante le difficoltà, con l'andare del tempo il movimento lgbt stava acquistando una

sempre maggiore coscienza e determinazione, e soprattutto il coraggio di rispondere politicamente, a viso aperto, alle angherie subite in silenzio per anni. Pisa, fu una delle città dove si manifestò per prima questa temeraria determinazione, questa voglia di non nascondersi più. Il 24 novembre del 1979, fu infatti organizzata dal locale collettivo Orfeo, una manifestazione contro la violenza subita dagli omosessuali, dato che l'estate precedente, nella vicina Livorno, due gay erano stati uccisi. “Episodi di questo genere, nell'Italia di allora come in quella di oggi, insanguinavano abitualmente le cronache. Il fatto straordinario fu la decisione di reagire49”.

47 Ivi.

48 Ivi.

(22)

Il resoconto di quella giornata, ci restituisce uno spaccato autentico e sorprendente di quel (grande) corteo, caratterizzato dal clima non proprio amichevole che si respirava in una città considerata da sempre progressista e, soprattutto, dalla estrema necessita dei tanti manifestanti di farsi sentire, sfilando per le vie del centro a volto scoperto, senza paura. “All'appello risposero circa 500 gay e lesbiche50. L'impatto con la città fu piuttosto duro: una popolazione stravolta e

minacciosa. Non mancarono le provocazioni, con lanci di acqua, peperoni e uova, misere e impotenti nella loro tecnica fascistoide, a cui si rispose in genere soltanto verbalmente. Eppure, mano a mano che avanzava il corteo, sempre più sciarpe caddero dalle nostre facce, dimostrando come fosse possibile vincere la paura di essere scoperti, pubblicizzati. Finocchi contro peperoni51”.

“Fu un vero rito liberatorio, con tutto il folclore del caso, ed ebbe un successo insperato(...). Il baccanale che tanto scioccava i bravi pisani proseguì per due giorni con toni appena meno appariscenti, e non bastò a interromperlo nemmeno una letale quanto inconcludente assemblee a su omosessualità e mass media52.”

Il movimento gay aveva aperto un'altra breccia, questa volta in un muro che inizialmente era stato valutato come più facile da demolire (data la fama di città aperta detenuta da Pisa), ma che invece si era dimostrato solido, quanto a pregiudizi, al pari di altri.

Passo dopo passo, venivano bruciate le tappe e, contemporaneamente, perfezionate le tecniche per rendere più incisiva e originale la propria azione politica.

50 Questa cifra doveva restare la più ragguardevole raggiunta da un corteo glbt fino alla manifestazione del 2 luglio 1994 a Roma.

51 “Lotta Continua”, 29 novembre 1979

(23)

Capitolo 3

Il movimento glbt, la guerra e la nonviolenza

3.1 Gay, lesbiche e trans contro la guerra

Come abbiamo visto anche in precedenza, la nonviolenza ha sempre contraddistinto le pratiche di

lotta portate avanti dai gay, dalle lesbiche e dalle transessuali. Questa caratteristica, però, è stata sempre messa poco in risalto, scarsamente analizzata.

Giovanni Dall'Orto, giornalista e voce tra le più autorevoli del movimento glbt, ha cercato di porre rimedio a questa lacuna con diversi scritti, partendo dall'abc per poi inquadrare e contestualizzare la questione, in modo da rendere visibile questo legame primordiale e inscindibile.

Nel 1991, mentre è in pieno svolgimento la guerra del Golfo, scrive: “Il movimento gay si basa interamente nella sua tattica e nelle sue proposte sul pensiero nonviolento(...)”. E spiega: “Esiste un tragico equivoco sulla nonviolenza. Esso consiste nello scambiare l'acquiescenza verso l'ingiustizia, che è tipica dei cristiani (“tanto siamo nati per soffrire…”) con la nonviolenza. Se qualcuno ti prende a sberle, porgi l'altra guancia. Peccato che questa non sia la nonviolenza, bensì masochismo(...). No, la nonviolenza non è uno schizzinoso rifiuto dell'uso della forza anche se per fini di difesa, bensì l'uso della forza assoggettata ad un principio irrinunciabile, cioè che la vita umana è sacra. Vale a dire che la nonviolenza non è una rinuncia a difendersi, ma è una strategia di difesa che esclude l'assassinio e il ferimento di altri esseri umani(...). Mi è facile rispettare i diritti umani del mio nipotino o del mio ragazzo; molto più difficile rispettare il mio nemico. Ma è proprio per questo che è necessario ripetere che la vita è un diritto che gli esseri umani hanno in quanto esistono, non in quanto si “meritano” o meno di essere lasciati in vita. Ricordiamoci che erano i nazisti ad arrogarsi il diritto di decidere chi “meritasse” di restare in vita e chi no(...). Il nonviolento è colui che combatte l'ingiustizia ma non con l'assassinio legalizzato, bensì con lo sciopero (arma nonviolenta per eccellenza), la disobbedienza, il sabotaggio, la diserzione(...).53

È in corso in quel periodo un dibattito molto accesso tra il sostenitori delle guerre “umanitarie” e il movimento pacifista, che si mobilita in ogni parte del mondo per dire no alal guerra “senza se e senza ma”. Dall'Orto entra nel vivo di questa dialettica affermando: “In questi giorni i socialisti ci hanno detto, per “dimostrare” che esistono “guerre giuste” che tale fu per esempio la Resistenza, dimenticando che se oggi ricordiamo la Resistenza non è per i suoi successi militari(...): l'apporto

(24)

strettamente militare [fornito] è del resto mostrato dagli sforzi compiuti dal generale Alexander per disarmare i partigiani italiani...

No, se la nostra Repubblica è “nata dalla Resistenza” ciò si deve al fatto che in primo luogo essa fu tutto ciò che oggi i socialisti odiano: fu la diserzione da un esercito legittimo e da una “guerra giusta” combattuta per “difendere la patria” contro un nemico “affamatore e arrogante”(...). La disobbedienza paga. Quasi l'intera comunità ebraica danese fu salvata dall'Olocausto nazista per mezzo del rifiuto nonviolento di obbedire. Al contrario, le comunità ebraiche di popoli in armi contro il nazismo furono annientate. E, tragedia nella tragedia, molte autorità ebraiche collaborarono col nazismo nella vana speranza di salvare qualcosa. Meglio sarebbe stato se avessero disobbedito e sabotato fin dal primo istante.”54.

Nel 2003, in occasione della guerra in Iraq, Dall’Orto ribadisce e specifica: “Noi omosessuali siamo, assieme al movimento delle donne e a quello ecologista, una degli esempi più coerenti di movimento che da decenni lotta per i propri diritti sempre e solo in modo nonviolento. Anche se troppi amerebbero dimenticarsene, la nonviolenza è addirittura inserita nello statuto dell’Arcigay. Noi omosessuali non abbiamo mai pensato che risolveremmo in modo più radicale e definitivo i nostri problemi assassinando i preti, spaccando il cranio ai naziskin, dando fuoco alle sedi di Forza Nuova, mettendo le bombe nelle troppe trasmissioni tv omofobe, uccidendo gli autori di libri omofobi, aggredendo per strada i politici che ci osteggiano… Abbiamo sempre seguito una strategia infinitamente più faticosa, lenta, che ci ha chiesto un prezzo salato: quella della lotta rigorosamente nonviolenta. Ci abbiamo così messo trent’anni per una manifestazione delle dimensioni del World Pride55, ma quando ci siamo arrivati, la nostra vittoria è stata limpida,

indiscutibile, non ambigua: è stata una vittoria di civiltà che ha scosso le coscienze ed ha cambiato il Paese, non solo noi. Al contrario, ogni tentativo di arruolarci nella logica maschilista della violenza, di dimostrare che “anche” noi gay siamo “all’altezza” dell’uso della violenza e dell’assassinio, proprio come gli etero, è fallita clamorosamente”56.

Il riferimento è all'arruolamento dei gay nell'esercito, un'operazione che, a detta dei sostenitori, infrangerebbe un tabù e favorirebbe l'”integrazione” delle persone omosessuali. Tesi singolare, apertamente avversata da dell'Orto che giustamente fa notare: “coloro che vent'anni fa han sposato la battaglia per "i gay nell'esercito”, hanno sbagliato nettamente, scoprendo infine che l’esercito non esiste per garantire libertà, civiltà, pari opportunità, ma per il motivo opposto: per imporre con le ragioni della forza ciò che rifiuta di farsi risolvere con la forza della ragione. Quell’esercito statunitense che deve andare a portare la democrazia (e a prendere il controllo dei pozzi petroliferi per il petroliere George Bush) in Iraq, non ha mai espulso tanti gay e tante lesbiche

54 Ivi.

55 Il World Pride si svolto a Roma l'8 luglio del 2000.

(25)

come da quando è iniziata la battaglia per “i gay nell'esercito”. Le espulsioni di gay aumentano di anno in anno. “Per fortuna”, dico io. Ma qualcuno non dovrebbe farsi, dopo vent’anni, un mea culpa rispetto alla sua visione dell’esercito come faro di giustizia ed eguaglianza, e iniziare a chiedersi se non abbia ragione chi, come me, sostiene che è l’esatto opposto?(...).57

Fatte queste puntualizzazioni, il discorso si incentra sulla guerra, o meglio sulla sua inappellabile condanna: “la guerra è ingiusta non solo per motivi morali, ma anche perché non funziona(...). Non funziona se lo scopo dichiarato è portare giustizia e libertà. Serve invece benissimo per eliminare fisicamente qualcuno, distruggere una città, cancellare un Paese dalla scena internazionale, sterminare un popolazione: a questo serve eccome. Per questo i dittatori la amano, e la scatenano. Ma nessuna giustizia è mai nata dalla guerra. Mai(...).58

L'esponente del movimento gay, smonta tutti gli argomenti cardine dei fautori dell'intervento “umanitario” : “tutte le guerre sono “risolutive”; Tutte sono l'ultima. Tutte porteranno giustizia e democrazia. E lo fanno: visto che sono i vincitori a stabilire cosa sia la giustizia e la democrazia (Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant: “fanno il deserto, e lo chiamano pace”, questo è Tacito, duemila anni fa). Le guerre le vincono sempre coloro che avevano ragione(...). Magari si chiamano Josif Stalin, magari hanno massacrato venti milioni di persone, ma vincendo la guerra han fatto vincere la democrazia e la libertà.

La verità che tutti sanno è che la violenza chiama violenza: Israele dovrebbe insegnarcelo. Ma non l’ha insegnato agli israeliani che dalla violenza della Shoah non hanno dedotto l’inumanità della violenza, figuriamoci se l’ha insegnato a noi “popoli cristiani” che la Shoah l’abbiamo perpetrata. O forse, vedendo le città colorate da due milioni di bandiere arcobaleno, dovrei dire “non l’hanno insegnato ai nostri governi”, perché la gente lo sa? (…).

L'essere gay, consente di valutare la questione basandosi sull'esperienza diretta, essendo da sempre le persone omosessuali i bersagli privilegiati di violenze verbali e fisiche: “come parte di un gruppo sociale che la violenza l’ha sempre subita sulla sua pelle, ho imparato che la violenza genera problemi, e non li risolve mai (…). E purtroppo le guerre le vincono i più forti e i più cattivi e spietati, e non certo coloro che hanno più ragioni. Anzi, di solito ricorre alla guerra chi non ha nessuna ragione, come il balletto delle bugie sulle introvabili armi dell’Iraq ha dimostrato in questi mesi”59

Le forme di lotta violente non hanno mai portato benefici sociali, e la vicenda del terrorismo in Italia, ricorda dall'Orto, è lì a dimostrarlo: “noi omosessuali siamo un gruppo minoritario (che quindi non può contare di imporre le proprie richieste ottenendo la maggioranza dei voti in Parlamento. Perché allora non proviamo a farci rispettare attraverso l'uso della violenza?(...). E' lecito prendere in mano le armi e condurre la “inevitabile” guerra contro uno Stato ingiusto? Purtroppo ci fu chi rispose “sì” a questa domanda: fu così che nacquero realtà come le “Brigate rosse”, che hanno scatenato uno dei periodi più bui della storia italiana. Abbandonando la fase in cui la lotta nonviolenta (lo sciopero, la controinformazione e la disobbedienza) aveva ottenuto

57 Ivi.

58 Ivi.

Riferimenti

Documenti correlati

Usando le due squadre, traccio il lato assegnato

Con apertura di compasso AB, centro in B, traccio un arco e trovo il punto T.. Centro in M, apertura di compasso MT, traccio un arco e trovo il punto

Usando le due squadre, traccio il lato assegnato A-B2. Centro in A, apertura di compasso AB, traccio

Usando le due squadre, traccio il lato assegnato A-B, lo prolungo di pari distanza e trovo il punto H2. Con apertura di compasso AH, centro in A, traccio un arco e trovo il punto L

Centro in O, apertura OA, traccio una circonferenza5. Riporto sulla

Usando le due squadre, traccio il lato assegnato A-B e il relativo asse2. Centro in O, con raggio OA, traccio una

Centro in O, con raggio O ’ BA, traccio un arco e trovo il punto O, centro del decagono.. Centro in O, con raggio OA, traccio una

Usando le due squadre, traccio il lato assegnato A-B e il relativo asse r 2.. Centro in O, con raggio OA, traccio