Giorgio Ieranò
Euripide e le meraviglie del teatro
Nel secondo libro della Leggi di Platone, Clinia e l’Ateniese discutono su quali siano le forme di spettacolo più adatte alle diverse età. I bambini più piccoli, argomenta il dialogo platonico, se interrogati in proposito, «darebbero la loro preferenza a chi propone uno spettacolo di marionette», mentre per «i ragazzi più grandi, la preferenza andrebbe a chi mette in scena la commedia». La tragedia invece, argomenta Platone, è fatta per «le donne colte, i giovani, e in genere la maggioranza delle altre persone». Annamaria Piccione ha deciso di sfidare la rigida tassonomia platonica. E di dimostrare, invece, che anche bambini e ragazzi possono appassionarsi alla tragedia. Bisogna dire che la sfida è perfettamente riuscita: lo dimostra peraltro già il successo delle due precedenti Tragedine, dedicate a Eschilo e a Sofocle. Ma bisogna aggiungere anche che Annamaria Piccione dà voce a un altro lato della riflessione platonica, che affiora invece nella Repubblica. Dove il filosofo si mostra perfettamente consapevole dell’importanza dei miti (mythoi) nell’educazione dei più piccini: «Non comprendi», scrive qui Platone, «che ai bambini raccontiamo anzitutto miti? E queste in genere sono cose false, non prive però di verità. Per educare i bambini ci serviamo più dei miti che delle palestre». E dunque -‐ questo è il problema che si poneva allora Platone, e che ci poniamo ancora noi oggi -‐ come raccontare questi miti? Qual è la forma migliore per presentare a chi ha ancora una mente vergine le straordinarie storie mitologiche della tragedia greca, che da millenni sono uno dei pilastri della cultura occidentale?
La tragedia greca, ad Atene, era uno spettacolo popolare e interclassista. Non presupponeva un pubblico colto e sofisticato. Esigeva invece un pubblico disposto a cedere alla magia della scena, pronto a farsi trascinare emotivamente dalla finzione, come se la finzione fosse realtà. «La tragedia» scriveva il sofista Gorgia «è un inganno dove chi inganna è più onesto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare più saggio di chi non si lascia ingannare». Potremmo dire, insomma, che la vera saggezza dello spettatore della tragedia sta nel farsi un po’ bambino. Si può comprendere il teatro solo se, per qualche ora, siamo pronti a sospendere le regole del mondo reale e a rifiutare le leggi della verosimiglianza. Solo se siamo pronti ad accettare l’impossibile: dobbiamo credere che i grandi eroi del tempo andato, Edipo, Antigone, Medea, Aiace, stiano veramente tornando a muoversi lì, sotto i nostri occhi, grazie alla magia del travestimento e della maschera. Come sapeva Aristotele, la tragedia parla, prima che alla nostra intelligenza, alla nostra emotività: essa deve suscitare phobos ed eleos, la paura e la compassione, deve farci vivere le sventure degli eroi come se fossero le nostre. Può sembrare incredibile che, nella cultura greca, la consapevolezza del teatro come inganno convivesse con il riconoscimento del suo straordinario potere emotivo. Ma, se ci pensiamo bene, anche noi, quando andiamo al cinema, viviamo un’esperienza simile: sappiamo che i personaggi che appaiono sullo
schermo sono finti, e tuttavia, per il tempo breve di un film, piangiamo, soffriamo e proviamo paura per loro e insieme a loro.
Se vogliamo veramente avvicinarci al mondo della tragedia greca, dunque, non possiamo trattare i drammi antichi come creazioni puramente intellettuali, come manifesti di una riflessione etica, filosofica o religiosa. Dobbiamo riuscire a entrare nel meccanismo magico della macchina teatrale, scendere a patti con tutte le sue assurdità e i suoi paradossi. Ed è così che il libro di Annamaria Piccione, parlando ai ragazzi, in realtà serve anche agli adulti: aiuta a restituire alla tragedia la sua natura meravigliosa, ci mette sulla strada giusta per ritrovare le radici primarie del suo incanto. Certo, sono storie truci e terribili quelle della tragedia. Come truci e terribili, in genere, sono tutti i miti e anche tutte le fiabe: la storia di Cappuccetto Rosso non è poi tanto più lieve di quella di Edipo e Medea. Si obietterà che nelle favole, però, c’è il lieto fine. Ammesso che ci sia (non era sempre così nelle versioni originarie delle fiabe più note), non è comunque questo l’elemento che distingue il racconto tragico di un mito da una fiaba. Anche molte tragedie terminano con un lieto fine, almeno apparente: la storia di Oreste si conclude felicemente davanti all’Areopago e le terribili Erinni diventano «la Benevole» (Eumenidi); Alcesti ritorna dal regno dei morti; Ifigenia viene salvata dal sacrificio da Artemide che la sostituisce con una cerva; Filottete parte con Neottolemo per mettere il suo arco al servizio della conquista di Troia. I finali catastrofici, in realtà, appartengono più al dramma elisabettiano che a quello greco. Ma la tragedia ci turba al di là dell’esito della vicenda. Perché è il mondo dove, come diceva il grande ellenista Jean-‐Pierre Vernant, gli eroi da “modelli” diventano “problemi”. Gli eroi tragici toccano note profonde e segrete della nostra anima e della nostra vita, ci aprono squarci su mondi, interiori o cosmici, che preferiremmo non conoscere. Non per caso, Sigmund Freud ha costruito la psicanalisi intorno al mito di Edipo, mentre Medea è evocata dai giornali ogni volta che una madre uccide una figlia. E qui si torna al problema iniziale: come raccontare ai più piccoli storie così terribili?
Annamaria Piccione fa una scelta: non censurare nulla. E’ una scelta da condividere. Innanzitutto, perché ciò che spaventa noi non è sempre ciò che spaventa anche bambini e ragazzi. Questi ultimi, com’è noto, sono attratti dall’orrido e dallo spaventoso, ed è in fondo un’attrazione sana, e anche educativa, perché permette di sublimare istinti e pulsioni che altrimenti potrebbero essere male incanalati. Alcuni anni fa, ai pedagogisti che s’indignavano perché ai bambini venivano regalati fucili e pistole, anziché giochi pacifici e formativi, Umberto Eco rispose con la sua consueta arguzia, in una Lettera a mio figlio, pubblicata nel Diario minimo. E lo fece appellandosi appunto ad Aristotele e alle sue dottrine sulla tragedia greca: «Credo di dovere il mio profondo, sistematico, colto e documentato terrore della guerra ai sani ed innocenti sfoghi, platonicamente sanguinari, concessimi nell'infanzia, così come si esce da un film western (dopo una scazzottatura solenne, di quelle che fan crollare le pareti del saloon, in cui si fracassano i tavoli e i grandi specchi, si
spara sul pianista e si schiantano le vetrate) più puliti, buoni e distesi, disposti a sorridere al passante che ti urta con la spalla, a prestar soccorso ai passerotti caduti dal nido -‐ come Aristotele ben sapeva, quando chiedeva alla tragedia di agitare ai nostri occhi il drappo rosso del sangue per purificarci a fondo, col divino sale inglese della catarsi finale. E mi immagino invece l'infanzia di Eichmann. Prono, lo sguardo da ragioniere della morte, sul rompicapo del meccano, seguendo le istruzioni del manualetto; avido ad aprire la scatola variopinta del piccolo chimico, sadico nel disporre i suoi attrezzetti di gaio falegname con pialletta larga una spanna e sega di venti centimetri su legno compensato. Temete i giovani che costruiscono piccole gru!».
Parole sante, quelle di Umberto Eco. E, per questo, fa bene Annamaria Piccione a raccontare anche ai più piccoli le tragedie così come sono, senza edulcorarle con veli ridicolmente pietosi. Ma naturalmente c’è dell’altro. Le tragedie non sono interessanti solo di per sé ma anche perché sono una porta d’accesso, da un lato, all’affascinante mondo del mito e, dall’altro, al non meno affascinante mondo della vita quotidiana, sociale, politica e religiosa degli ateniesi. Annamaria Piccione riesce a trasformare i drammi in una tavolozza di colori accesi con cui plasmare un quadro vivace dell’Atene di quel tempo, un quadro che coinvolge i ragazzi più di quanto possa farlo un manuale tradizionale di storia o mitologia antica. E poi c’è l’aspetto del linguaggio. L’esperienza di autrice di libri per ragazzi ha insegnato ad Annamaria Piccione a parlare ai bambini senza bamboleggiare (cosa che i bambini odiano) e a trovare il registro giusto per coinvolgere i ragazzi nel mondo della tragedia greca. Può sembrare a volte un linguaggio troppo diretto, troppo gergale, troppo colloquiale? Può darsi ma non è comunque un sacrilegio. Gergo e colloquialismi, in fondo, non erano estranei neppure alla lingua tragica, in particolare a quella di Euripide. Purtroppo, molti pensano che il linguaggio della tragedia sia sempre e solo quello aulico e roboante delle cattive traduzioni. Quel “traduttese” che infastidiva già Salvatore Quasimodo, quando recensiva i Persiani di Eschilo andati in scena nel teatro greco di Siracusa nel 1950. Tragedie riscritte, diceva Quasimodo, in «un linguaggio inventato dai filologi e costruito sulla sintassi greca e latina con parole secche e scricchiolanti come papiri. Linguaggio dove le inversioni sono una regola, una costante matematica (‘La rutilante d’oro Babilonia / inviò di commiste torme eserciti’». Certe parole, i “propugnacoli”, i “tostamente”, proseguiva Quasimodo, esistono ormai solo in alcune traduzioni della tragedia greca. Come, appunto, nella traduzione dei Persiani del 1950, firmata dal peraltro illustre grecista Ettore Bignone, dove quelle che Eschilo chiamava semplicemente «le spiagge di Salamina» diventavano, con effetto comico involontario, «i lidi salamini».
Questo terzo volume della Tragedine è dedicato a Euripide, “il più tragico dei tragici”, come diceva Aristotele. Euripide è, forse, ancora più di Eschilo e Sofocle, il poeta ideale per estrarre dallo spartito del dramma antico tutte le note e le sfumature possibili. In Euripide, per esempio, il gusto per il favoloso (che pure
affiorava, per esempio, checché se ne dica, anche in Eschilo) offre il destro per far viaggiare i ragazzi ancora più lontano con la fantasia. Favolosa è la stessa vita di Euripide così come ci è tramandata dagli antichi. La sua leggenda biografica ha essa stessa i tratti di un mito: Annamaria Piccione la legge giustamente sotto questo aspetto, con arguzia e forse anche con maggiore rigore di certi filologi che ancora prendono sul serio alcuni tratti leggendari della vita di Euripide. Favolose sono molte tragedie euripidee. Ifigenia in Tauride, per esempio, può essere letta anche come uno straordinario racconto di avventure. La storia di un fratello e di una sorella, due ragazzi anche loro in verità, divisi dal destino, che si ritrovano senza, in un primo momento, riconoscersi, e rischiando che la sorella uccida il fratello; lo scenario favoloso del tempio maledetto dove si fanno sacrifici umani a una divinità oscura: sono tutti elementi che ritorneranno per secoli nella narrativa (e anche nel cinema) di avventura. Ad Annamaria Piccione non sfuggono questi aspetti dei drammi euripidei, così come certamente non sfuggiranno nemmeno ai suoi lettori più piccoli.
Quello di Annamaria Piccione, insomma, è un libro educativo. Lo è per i più grandi, perché li spiazza, e aiuta a vedere la tragedia con occhi nuovi. Lo è per i più piccoli, che entrano nel mondo del mito dalla porta principale e non da una porticina costruita su una loro misura falsamente minuscola. Ed è un libro educativo, innanzitutto, perché non ha l’aria di esserlo: non cerca di estrarre dalle tragedie greche una facile morale, un messaggio banalmente precettistico. E’ giusto così, perché i drammi antichi insegnano molto ma non offrono mai morali facili o precetti banali. Per cui siamo pronti a scommettere che lo stesso Euripide si sarebbe divertito molto con le Tragedine.