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Verita' e apparenza. Uno sguardo di genere sul mito di Circe nel Rinascimento

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione 5

Capitolo I

I mille volti della femminilità di Circe dall’Antichità al Rinascimento 1.1 L’ingannatrice di Eea

1.2 L’episodio omerico dell’incontro con l’eroe 1.3 Immagini negative dall’Antichità al Medioevo

1.4 Significati morali e riferimenti misogini nella riflessione rinascimentale 7 8 17 28 37 Capitolo II

Il regno notturno di Circe: L’Asino di Niccolò Machiavelli 2.1 La sovrana e la sua ancella

2.2 Fisionomia della metamorfosi

2.3 La rappresentazione del mondo guasto

44 45 57 64 Capitolo III

Fra ambiguità e disinganno: La Circe di Giambattista Gelli 3.1 La complicità tra Circe e Ulisse

3.2 Il discorso di Ulisse e la cerva 3.3 Il rovesciamento del finale

71 73 81 93

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Capitolo IV

L’inganno esteriore e la rivalutazione dell’incantesimo: il Cantus Circaeus di Giordano Bruno

4.1 Il potere benefico di Circe 4.2 Il rapporto tra Circe e Meri

100 102 117

Conclusione 133

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Introduzione

È più che una mostruosità della natura che una donna governi e abbia potere sull’uomo. Sostenere che una donna abbia potere su qualunque reame, nazione o città è ripugnante alla natura, contumelia a Dio… e infine, è il sovvertimento del giusto ordine, di ogni equità di giustizia.

JOHN KNOX The First Blast of the Trumpet Against the Monstrous Regiment of Women, in M. L. King, Le donne del Rinascimento, cit., pp. 185-186.

Chiamare una donna circe significa reputarla una seduttrice, una lusingatrice, un’ingannatrice. Questo uso del termine deriva dall’idea che la Circe presentata da Omero nel X canto dell’Odissea sia stata una crudele e potentissima maga in grado di sedurre tutti gli uomini che approdavano sulla sua isola e di trasformarli in animali, riducendoli così a un’esistenza estremamente infelice. Gli esegeti del poema omerico, che indagarono a fondo il testo alla ricerca del recondito messaggio morale e delle velate verità edificanti che credevano avesse voluto tramandare ai posteri il loro poeta, videro nel potere metamorfico di Circe e nel suo essere donna le due chiavi per interpretarne l’episodio. Circe diventa così una figura di seduzione e di trasgressione, una minaccia all’integrità fisica, morale e cognitiva, un simbolo della caduta dell’uomo dal regno della razionalità allo stadio degli istinti più bestiali. Ma chi sia davvero Circe e quale significato sia lecito attribuire alle sue azioni è una questione complessa, su cui molti si sono già interrogati. Il compito è arduo perché i volti della figlia del Sole sono ambigui e molteplici non solo nelle svariate letture del mito che si sono avvicendate nei

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secoli, ma già a partire dallo stesso Omero. La filosofia, del resto, ha sempre avuto il compito di mettere in dubbio l’ovvio e lo scontato, cercando di guardare le cose da ogni prospettiva possibile nel tentativo di avvicinarsi all’oggettività.

Il presente lavoro, quindi, cerca di indagare come sia stata recepita e interpretata la figura di Circe nel Rinascimento – un momento nel quale il mito conosce un successo straordinario – in relazione alle considerazioni maschili sulla natura femminile in generale. Il primo capitolo è dedicato a ricercare delle costanti misogine nelle varie immagini di Circe che sono state presentate dall’Antichità al Rinascimento, e all’esposizione delle fonti a cui avrebbero attinto i filosofi del XVI secolo per la loro interpretazione personale del mito della dea. Nei tre capitoli successivi si passa quindi a un’analisi più puntuale del significato che il potere metamorfico di Circe ha avuto in tre opere del Cinquecento: l’Asino(1517) di Niccolò Machiavelli, la Circe (1549) di Giambattista Gelli e il Cantus Circaeus (1582) di Giordano Bruno. Ognuno degli autori rivolge lo sguardo alle condizioni morali del proprio tempo e della propria società, modellando il mito dell’età antica nell’età moderna, e scoprendovi una nuova ricchezza tematica, che sarà declinata in tre nuove proposte. L’interesse per il ruolo che Circe ha di volta in volta in questi tre componimenti cinquecenteschi è sempre accompagnato da un’indagine degli elementi misogini o, al contrario, a favore della donna, che si rintracciano nei testi. In ognuna delle opere, infatti, oltre al personaggio principale di Circe, è presente anche un secondo personaggio femminile – l’ancella nell’Asino e nel Cantus, la cerva nella Circe – che aggiunge valore alla ricchezza e al fascino delle scelte di Niccolò Machiavelli, Giambattista Gelli e Giordano Bruno.

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Capitolo I

I mille volti della femminilità di Circe dall’Antichità al Rinascimento

Quando parliamo di Circe alludiamo quasi sempre al personaggio femminile a cui sono riservati i canti X, XI e XII dell’Odissea. Il famosissimo episodio omerico della dea «dai bei capelli»1 che trasformò i compagni di Odisseo in maiali è infatti il rappresentante capostipite di un motivo letterario che ha ispirato la fantasia di pittori, scrittori e poeti fino ai nostri giorni. Nella sua plurisecolare fortuna artistica, Circe è stata presentata proprio come una creazione di Omero, anche se esegeti e critici sono unanimi nel dichiarare che il poeta abbia accolto il mito da una tradizione precedente. Gli studiosi credono di rintracciare nel folklore e nella letteratura orientale – soprattutto nella dea Ishtar del Poema di Gilgamesh – delle precorritrici di Circe, da cui Omero avrebbe attinto per plasmare la protagonista del suo racconto. Ma dal momento che gli interpreti non possiedono elementi sicuri e completi per dimostrare una tesi simile, l’idea che il poeta fosse già a conoscenza di narrazioni in cui spiccava il motivo della donna capace di mutare le proprie vittime umane in animali rimane per ora solo un’ipotesi. Inoltre, chiarire se Omero abbia usato o meno una qualche forma preesistente di Circe per costruire un episodio delle peregrinazioni di Odisseo non risulta necessario al fine di una spiegazione esaustiva delle caratteristiche della dea e delle vicende in cui è coinvolta. Anche se Omero fosse stato influenzato da figure straniere e lontane, ci troveremmo di fronte appunto a degli influssi, dai quali il poeta avrebbe preso

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spunto per una rielaborazione originale e un adattamento al proprio codice epico. La Circe dei canti centrali dell’Odissea manterrebbe in definitiva delle peculiarità che non la ridurrebbero a semplice copia del passato2. Specificità dalle quali

vorremmo far partire un’indagine al femminile del suo mito, così come è stato raccontato da Omero e poi riletto e interpretato nel Rinascimento.

1.1 L’ingannatrice di Eea

Circe, nata dal dio Sole e dalla ninfa Perse, figlia di Oceano, fu sorella di Eete, re della Colchide, e di Pasifae, moglie di Minosse, nonché zia di Medea3. Al di là della discendenza divina, che faceva di Circe una dea, anche se non del rango olimpico, è interessante notare quale sia il carattere ereditario che contraddistingue questa famiglia solare. Ogni membro della genealogia in questione è legato all’altro da un elemento comune, che si sviluppa in modo più o meno marcato a seconda del genere del discendente. Partendo dal fratello maschio Eete, egli è citato da Odisseo nel X libro delle sue peregrinazioni con l’appellativo «crudele»4. I presupposti per capire il significato di questo aggettivo si trovano in un altro racconto di viaggio noto già al tempo di Omero, ma di cui non ci è pervenuto alcun poema precedente (ammesso che ne sia esistito uno). Si tratta della saga degli Argonauti, le cui avventure erano collocate in un periodo

2 E. S. Hatzantonis, La resa omerica della femminilità di Circe, in «L’Antiquité Classique»,

43, 1974, pp. 39-45; per un approfondimento cfr. M. Bettini e C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino 2010, pp. 121-153.

3 Secondo altre tradizioni, invece, Circe nacque dal Giorno e dalla Notte, oppure da Eete ed

Ecate, genitori anche di Medea, di cui sarebbe quindi la sorella maggiore.

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antecedente alla guerra di Troia: motivo per il quale Odisseo può semplicemente evocare per allusione Eete come personaggio conosciuto5. Il re della Colchide era divenuto famoso per aver imposto condizioni inaccettabili a Giasone, il capitano di «quell’Argo che tutti celebrano»6 giunto nel suo regno per impadronirsi del

Vello d’Oro. Quando Giasone riuscì a superare le prime prove ordinategli da Eete, questi rinnegò spudoratamente il patto concluso e minacciò di dar fuoco all’Argo e di massacrare l’intero equipaggio. Non immaginava che ad aiutare il comandante ci fossero le arti magiche della figlia Medea, che dopo aver scoperto le feroci intenzioni del padre condusse Giasone al Vello d’Oro e scappò con gli Argonauti verso la Grecia. Secondo la versione di Diodoro Siculo (storico del I secolo a.C.) non era la prima volta che la principessa salvava uno straniero dall’ira del re Eete:

Quanto a Medea, (…) aveva l’abitudine di sottrarre ai pericoli gli stranieri che approdavano lì e a volte otteneva dal padre, a forza di suppliche e blandizie, che la vita di gente che era già stata condannata a morte venisse risparmiata, altre volte li liberava lei stessa dalla prigione ed escogitava il modo di mettere al sicuro quei disgraziati7.

Ma con Giasone le cose andarono diversamente e ben presto le azioni di Medea furono guidate dall’indole brutale che le aveva trasmesso il padre. Abile nel riconoscere le proprietà di erbe e radici naturali, utilizzò le proprie competenze nella preparazione di phármaka (farmaci) non solo per assecondare colui che

5 M. Bettini e C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi,

Torino 2010, p. 298, nota 10.

6 Odissea, cit., XII, v. 70.

7 Diodoro Siculo, IV 45, in Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia

a oggi, cit., p. 240. Scrivendo questo passo probabilmente si stava rifacendo all’opera andata perduta di Dionisio Scitobrachione (III secolo a.C.) Argonauti, di cui rimane solo la tradizione indiretta, cfr. ivi, pp. 238-239.

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l’aveva fatta innamorare pazzamente, ma anche per eliminare qualsiasi ostacolo intralciasse il suo percorso. Dopo aver fatto giurare Giasone su tutti gli dei dell’Olimpo che le sarebbe rimasto per sempre fedele, la principessa ingannò prima il padre e poi tese una trappola al fratello Apsirto per farlo a pezzi. In seguito, ormai priva di qualsiasi sentimento di bontà e innocenza, non si fece scrupoli nell’uccidere i propri figli per vendicarsi del compagno che l’aveva abbandonata. Quando Giasone ripudiò il giuramento che aveva fatto in precedenza e si mostrò intenzionato a sposare la corinzia Glauce, Medea si finse rassegnata e mandò alla futura moglie un dono di nozze per mano dei suoi figli: una corona d’oro e un lungo manto bianco. Non appena Glauce li ebbe indossati, subito si levarono fiamme talmente indomabili che divorarono chiunque si trovasse nel palazzo.

La vendetta nei confronti di un uomo infedele per mezzo di una magia terribile è una soluzione che adottò anche Pasifae con Minosse. Già nota per essersi accoppiata con un toro e aver generato il mostruoso Minotauro, la sorella di Circe ed Eete seguì le inesorabili orme di famiglia e lanciò una maledizione sul marito traditore. Ogni qual volta il re di Creta aveva rapporti con un'altra donna, egli eiaculava scorpioni e serpenti che irrompevano nel ventre dell’amante, lacerandolo.

In base a queste descrizioni non stupirà vedere come nell’Odissea il nome di Circe sia subito associato all’aggettivo «terribile»8. La dea infatti perpetuava l’eco

di violenza e malvagità che contraddistingueva il suo stemma familiare e anzi ne rappresentava, in un certo senso, l’apice. Esperta in ogni sorta di incantesimi e

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pozioni, aveva inventato un farmaco in grado di tramutare in animale qualunque uomo giungesse nel suo regno e accettasse l’invito a ristorarsi alla sua tavola. Dimora di Circe era l’isola di Eea (dell’alba o dei lamenti), al centro della quale viveva sola con le sue ancelle, in un palazzo circondato da fitti boschi e bestie mansuete, stregate dai suoi rimedi maligni. Omero non fa menzione di come vi fosse arrivata, ma sempre secondo Diodoro Siculo vi giunse per aver già dato prova della sua indole feroce:

Si dice (…) che fu data in sposa al re dei Sarmati, che alcuni chiamano Sciti. Per prima cosa fece fuori il marito con dei phármaka, quindi, avendo ereditato il regno, commise una gran quantità di azioni crudeli e violente nei confronti dei sudditi. Per questo fu deposta dal trono e secondo alcuni, scrittori di miti, fuggì nell’Oceano dove, occupata un’isola deserta, si stabilì con alcune donne che l’avevano seguita nella fuga; secondo altri, autori di opere storiche, dopo che lasciò il Ponto si trasferì in Italia sull’altura che ancor oggi viene chiamata dal suo nome Circeo9.

Circe, quindi, racchiude aspetti di ognuno dei suoi familiari – come la crudele violenza e l’abilità magica – ma questi elementi vengono declinati in modo originale nella dea attraverso un duplice movimento: prendendone le distanze e amplificandoli. Con la sorella Pasifae e la nipote Medea condivide il ricorso a miscele e incantesimi dal potere distruttivo, ma lo scopo per il quale le tre consanguinee utilizzano phármaka in modo ostile risulta differente. Mentre Pasifae e Medea sono guidate nelle loro azioni dalla passione d’amore e perseguono finalità ben precise di ribellione, punizione e vendetta, Circe non ha

9 Diodoro Siculo, IV 45, in Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia

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un bersaglio specifico (almeno non nell’Odissea10), e si pone come nemica di un

branco indistinto di uomini. In questo senso sembra avvicinarsi maggiormente al carattere del fratello Eete, perché improntato a una crudeltà congenita e gratuita. Pur essendo lontana dall’irrazionalità intollerante e capricciosa che poteva esibire un sovrano come lui, Circe comunque ricorda il re della Colchide nel rappresentare un pericolo costante per ogni straniero. I compagni di Odisseo che ebbero la sventura di inoltrarsi «tra la macchia e il bosco»11 dell’isola di Eea scoprirono infatti che una volta varcata la soglia della casa di Circe niente della loro umanità avrebbe potuto salvarli dal potere della dea.

Trovarono in un vallone la casa di Circe / fatta di pietre lisce, in un luogo protetto. // Intorno c’erano lupi montani e leoni, / stregati da lei con cattivi farmaci. // Non assalirono gli uomini, anzi / si alzarono a blandirli con le code diritte. // Come i cani fanno la festa al padrone che torna / dal banchetto portandogli qualche leccornia, / così attorno a loro i lupi e i leoni facevano festa, / ma quelli tremavano di fronte alle belve terribili. // Si fermarono nell’atrio della dea dai bei capelli; / sentirono Circe cantare con la sua bella voce / mentre tesseva una grande tela immortale, come sono i lavori / delle dee, splendidi, graziosi e sottili. // Parlò tra loro Polite, capo d’eserciti, / che era il più caro e il migliore dei miei compagni: / “Amici, c’è dentro una donna che tesse una grande tela / e canta splendidamente – tutta la terra risuona – / una donna o dea; chiamiamola presto!” / Così disse, e quelli la chiamarono. Subito / aprì le porte splendenti e uscì, e li chiamò, / e tutti le tennero dietro nella loro stoltezza. // Solo Euriloco restò fuori, temendo un inganno. // Li condusse a sedere su seggi e troni, / e versò loro formaggi, farina e miele / nel vino di Prammo, ma unì nel vaso / cattivi farmaci perché scordassero la loro patria. // Dopo che

10 Nelle Metamorfosi di Ovidio si trovano due racconti in cui Circe utilizza il proprio potere

metamorfico per vendicarsi di qualcuno che le aveva recato offesa; XIII, v. 898 sgg. Cfr. infra pp. 35-37.

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glielo ebbe offerto e lo bevvero, / subito li colpì con la bacchetta e li chiuse / nei porcili. Avevano testa, setole e voci / di porci, ma la mente era salda come prima. // Così furono rinchiusi piangenti, e Circe dava / loro da mangiare ghiande e corniole, / quello che mangiano i porci voltolandosi in terra12.

La freddezza dei suoi gesti, spogliati da qualsiasi sentimento positivo, e la quasi meccanicità nel recitare un copione identico per tutti i nuovi arrivati sono la dimostrazione che il potere di Circe è teso a neutralizzare senza distinzioni qualsiasi uomo le si avvicini. Questo atteggiamento distaccato nei confronti delle proprie vittime e insieme l’uso di incantesimi terribili che non lasciano via di fuga le fanno raggiungere quel culmine di malvagità che la contraddistingue rispetto agli altri membri della sua famiglia – Eete, Pasifae e Medea.

Ma l’apice di insensibilità rappresentato da Circe è anche il risultato di una questione diversa dalla semplice compresenza di più elementi negativi. Prima di essere una dea, Circe è innanzitutto una donna, e come tale risente delle valutazioni che si sono succedute fin dall’Antichità sul genere femminile. Quando l’ombra di Agamennone parla con Odisseo nel canto XI dell’Odissea, per esempio, gli consiglia delle misure da adottare nei confronti delle donne che lasciano poco spazio al fraintendimento:

Così dunque anche tu con tua moglie non essere mite, / non dirle ogni parola che sai, ma qualcuna / dilla e qualche altra rimanga nascosta. (…) Un’altra cosa ti voglio dire, e tu mettitela bene in mente: / fa’ approdare la nave alla tua patria / di nascosto e non apertamente; non c’è da fidarsi delle donne.13

12 Ibid., vv. 210-243. 13 Ivi, XI, vv. 441-456.

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D’altra parte Esiodo racconta nella Teogonia e nelle Opere e giorni che la prima donna in assoluto della mitologia greca, Pandora, fu responsabile di un avvenimento che cambiò irrimediabilmente l’esistenza umana in negativo. La sua irrefrenabile curiosità la spinse ad aprire il vaso che le era stato raccomandato di non toccare e nel quale erano racchiusi tutti i mali che potevano affliggere l’uomo. Non appena Pandora schiuse lo scrigno proibito, la vecchiaia, la fatica, la malattia e le altre pene dannose per l’umanità si riversarono nel mondo attaccando i mortali14.

La credenza che la donna sia un essere infido per natura spiega per quale motivo le azioni di Eete passino in secondo piano se paragonate a quelle di Circe, ma anche se confrontate con quelle di Pasifae e Medea. Nonostante il re della Colchide fosse descritto come animato da pura cattiveria, le decisioni della figlia e delle sorelle spiccano sulle sue per l’estrema perfidia, che non risparmia nemmeno le persone a loro più care. Le tre donne agiscono con intenzioni ponderate molto più meschine rispetto a quelle di Eete, comportandosi adeguatamente a quanto era espresso dai giudizi dispregiativi verso il genere femminile. Pandora, del resto, era stata modellata per volere di Zeus come una creatura tanto bella quanto malvagia e ingannevole: la prima di una lunga serie di donne come lei15.

La prima donna diventa archetipo femminile ed espressione di una misoginia che sfocia inevitabilmente nell’ostilità e nella diffidenza nei confronti delle sue discendenti. Uno stereotipo di bellezza irraggiungibile, crudeltà e insidia che riusciva a giustificare la differenza di valutazione legata appunto alla questione di

14 R. Graves, Greek Myths (1963); I Miti Greci, traduzione di E. Morpurgo, presentazione di U.

Albini, Longanesi, Milano 2012, par. 39, p. 127 sgg.; cfr. V. Andò, L’ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, Carocci, Roma-Bari 2005, pp. 196-198.

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genere. Mentre un uomo nella sua malvagità compiva un esercizio di forza quasi obbligato in quanto detentore del potere, una donna, come essere inferiore, doveva adottare degli stratagemmi al fine di sottometterlo e assumerne il controllo. E così prima Eete e poi Giasone vengono ingannati da Medea, Minosse da Pasifae – anche se le loro vendette non sono sempre indirizzate ai diretti colpevoli, ma spesso ad altre donne: Glauce e le amanti del re di Creta – e i compagni di Odisseo da Circe. Senza degli espedienti, dei raggiri e degli artifici magici le donne non avrebbero avuto possibilità di riuscita: non è un caso che l’uso di phármaka per fini maligni fosse una prerogativa prettamente femminile. Se l’uomo ne aveva conoscenza e sapeva come prepararli diventava un medico e si parlava di cure che portavano giovamento all’umanità; la donna che esercitava le proprie competenze sugli stessi ingredienti e principi naturali era vista come un’avvelenatrice contagiosa, nemica del genere umano16. La convinzione che

fossero le donne ad avere un rapporto privilegiato con pozioni e filtri magici rimarrà talmente radicata nella società che arriverà pressoché invariata fino al Rinascimento, passando per il triste capitolo della caccia alle streghe. In un passo del Malleus maleficarum scritto da due inquisitori tedeschi, Heinrich Krämer e Jacob Sprenger, e pubblicato nel 1486, sembra che i giudizi sulle donne si siano come cristallizzati.

Passiamo al primo punto: perché nel sesso tanto fragile delle donne, si trova un numero di streghe tanto maggiore che fra gli uomini? (…) Si può notare che c’è come un difetto nella formazione della prima donna, perché essa è stata fatta con una costola curva, cioè una costola del petto ritorta come se fosse contraria all’uomo. Da questo

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difetto deriva anche il fatto che, in quanto animale imperfetto, la donna inganna sempre …17

Ciò che viene imputato maggiormente alle donne è sempre la menzogna, la trappola, il sotterfugio. Che inganni con l’aspetto, con il comportamento, con un gesto, con le parole, con il canto, con un sorriso, la donna rimane per propria natura una creatura debole e per questo infida: un’ingannatrice. E il primissimo accenno che Odisseo fa di Circe rimanda proprio a questo suo lato femminile. Approdato naufrago presso i Feaci, unico superstite dell’intero contingente itacese partito vent’anni prima da Troia, l’eroe, nel raccontare le sue disavventure al popolo che l’aveva accolto, ricorda la dea in questo modo:

«(…) e anche Circe mi tratteneva nella sua casa / l’ingannatrice di Eea, volendomi per marito; / ma non poteva persuadere il mio cuore.»18

Se ci soffermassimo solo sulle parole di Odisseo Circe sembrerebbe una figura mitologica aderente a uno stereotipo preciso, definibile secondo i canoni di una donna irrimediabilmente perfida e temibile – modello divino perfetto di insidia femminile. Questi aspetti sono semplicemente quelli che sorgono più diretti e spontanei nella narrazione di Odisseo; in realtà, andando a fondo in ogni dettaglio che ruota intorno al mito di Circe, non sarà difficile constatare che essa vive nell’indeterminatezza. Il segno di Circe è l’ambiguità. Un’ambiguità espressa perfino dalla sua origine: essa è figlia del Sole e nipote dell’Oceano. Dea solitaria avvolta nel mistero, Circe è una figura ambivalente, che nella vicenda prima

17 H. Institor (Krämer) e J. Sprenger, Il martello delle streghe, Marsilio, Venezia 1977, pp.

86-95, in M. E. Wiesner, Women and Gender in Early Modern Europe (2000); Le donne nell’Europa moderna (1500-1750), traduzione di D. Aragno, introduzione di A. Groppi, Einaudi, Torino 2003, cit., p. 309.

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trasforma e poi si trasforma, oscillando tra modelli di comportamento che denotano una stessa concezione misogina. Nel ricordare così la dea, Odisseo commette l’errore di paralizzarla in uno statuto negativo di malvagità. Ma l’eroe aveva avuto ben altra esperienza dimorando in casa di Circe.

1.2 L’episodio omerico dell’incontro con l’eroe

Dopo molte disavventure e altrettante perdite, Odisseo e i compagni rimasti in vita sbarcarono sull’isola di Eea «dove abitava / Circe dai bei capelli, terribile dea / dalla voce umana (…)»19. Per due giorni e due notti rimasero sulla spiaggia

inerti e disperati, ma all’alba del terzo giorno il loro capo si scosse da quel torpore doloroso, prese la lancia, la spada e salì su un’altura per guardarsi intorno. Notò che dal centro di una valle saliva del fumo, segno che qualcuno vi abitava, ma in dubbio se avanzare verso la radura o tornare alla nave, alla fine decise che fosse più saggio riscendere a riva dai compagni. Lungo la via del ritorno uccise un enorme cervo che trascinò verso la spiaggia e con cui prepararono un banchetto che si protrasse fino al tramonto. L’indomani però Odisseo raccolse tutti intorno a sé e disse:

Amici, qui non sappiamo dov’è la tenebra e dove l’aurora, / dove il sole che illumina gli uomini cala sotto la terra / e dove risale. Pensiamo dunque al più presto / se c’è ancora un mezzo di salvarsi: io non credo ci sia. // Ho visto, salendo di vedetta sopra una roccia, /

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l’isola che è tutta circondata dal mare. // È un’isola piatta: ho visto con i miei occhi / del fumo nel mezzo tra la macchia e il bosco.20

Capirono che il loro capo non aveva il coraggio di fare una richiesta esplicita, ma che l’unica speranza di rimettersi in mare seguendo una rotta corretta era quella di andare a cercare aiuto. Nonostante avessero iniziato a piangere disperatamente, Odisseo li divise in due gruppi di ventidue uomini e per ciascuno nominò un capo: se stesso per una squadra ed Euriloco per l’altra. In un elmo di bronzo tirarono a sorte chi dovesse partire in esplorazione e toccò a Euriloco, il quale si mise subito in marcia lasciando Odisseo e gli altri ad aspettarli trepidanti. Quando lo videro tornare solo, con il volto sconvolto e segnato dalle lacrime, subito lo interrogarono, ma Euriloco non riusciva neanche a parlare. Dopo le sollecitazioni esasperate dei suoi compagni descrisse finalmente ciò che era accaduto:

Andammo nel bosco come ci avevi ordinato, splendido Odisseo, / e trovammo in un vallone la casa di Circe / fatta di pietre lisce, in un luogo protetto. // Dentro una donna tesseva una gran tela e cantava / splendidamente, una donna o una dea; la chiamarono. Subito / aprì le porte splendenti e uscì e li chiamò, / e tutti le tennero dietro nella loro stoltezza. // Solo io restai fuori, temendo un inganno. // Sono tutti scomparsi, nessuno di loro è riapparso: / sono rimasto seduto a lungo a spiare.21

A sentire queste parole, Odisseo afferrò subito la spada e un arco e ordinò a Euriloco di guidarlo sulla stessa via per andare a soccorrere i compagni, sicuro che fossero in pericolo. Euriloco lo implorò di scappare finché avessero potuto

20 Ibid., cit., vv. 190-197. 21 Ibid., cit., vv. 251-260

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evitare un destino funesto, ma Odisseo non lo ascoltò e si allontanò nel bosco senza un piano preciso. Del resto la scelta di Euriloco non era da biasimare: essendo stato l’unico a non farsi incantare dall’apparente tranquillità di una voce melodiosa intenta a tessere, egli non aveva nessuna intenzione di andare di nuovo incontro all’ignoto. Prima di inoltrarsi nel bosco nessuno avrebbe potuto augurarsi niente di più rassicurante di una donna (o una dea) dotata delle qualità tradizionali adatte a una ragazza di buona famiglia: la grazia nel canto e l’abilità al telaio22. Ma tutti avrebbero dovuto insospettirsi nel momento in cui quella stessa donna li stava accogliendo di persona nella propria casa23. Ancora più dell’incontro con fiere docili, avrebbero dovuto diffidare di una situazione in cui una donna aveva il permesso di offrire volontariamente ospitalità a degli sconosciuti. Un fatto – quello di non essere sottoposta ad alcun controllo maschile – che sarebbe dovuto sembrare molto strano ai compagni di Odisseo. Del resto forse anche il loro capo non si sarebbe stupito di quella particolare circostanza, cadendo nella trappola della dea, se non fosse accorso in suo aiuto un altro dio. Quando Odisseo stava per arrivare alla casa di Circe, gli venne incontro un giovane di bellissimo aspetto che prendendolo per mano gli rivolse queste parole:

Dove vai, infelice, per questi colli, / senza conoscere il luogo? I tuoi compagni sono chiusi / in casa di Circe come maiali dentro solidi recinti. // Tu vieni a liberarli? Ti dico che neanche tu tornerai, / ma resterai dove sono quegli altri. // Ma su, voglio liberarti e salvarti dai mali. // Entra in casa di Circe con quest’erba benefica, / che ha il potere di difenderti dal destino di morte. // Ti racconterò tutti gli inganni funesti di Circe.24

22 Cfr. Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p. 149. 23 Ivi, p. 174.

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Mentre lo informava su quello che sarebbe successo una volta giunto a destinazione e gli suggeriva come agire per uscirne indenne, il ragazzo raccolse da terra un’erba dalla radice nera e dal fiore bianco chiamata moly, che soltanto gli dei potevano riconoscere e strappare, e la porse a Odisseo. L’eroe allora capì che si trattava di Hermes, e dopo aver accettato il suo dono proseguì verso la dimora di Circe, rincuorato dell’antidoto fornitogli dal dio, ma consapevole che lo attendeva una prova dura e pericolosa. Arrivato davanti alla porta della dea iniziò a rivivere quello che era accaduto ai suoi compagni, con la differenza che egli già sapeva chi avrebbe trovato dentro quel palazzo e a cosa stava andando incontro. Si mise quindi a gridare aspettando l’arrivo di Circe, la quale non si fece attendere e lo invitò a entrare. Angosciato, Odisseo la seguì e dopo essere stato accomodato su un trono ornato d’argento vide che la dea gli stava porgendo una tazza d’oro con dentro una bevanda. Hermes l’aveva avvertito del veleno che la dea avrebbe messo nel miscuglio, ma l’aveva anche tranquillizzato dicendogli che ne sarebbe rimasto immune grazie al moly. Odisseo quindi finse di essere all’oscuro delle trame maligne di Circe e bevve quella pozione. Non appena l’ebbe finita fu colpito dalla dea con la bacchetta e gli venne rivolto questo ordine: «Va’ nel porcile, assieme agli altri compagni»25. Odisseo, memore delle istruzioni di Hermes, di tutta risposta sguainò la spada affilata dal fodero lungo la gamba e balzò addosso a Circe come se fosse intenzionato a ucciderla.

Da questo momento in poi la scena si capovolge completamente. Circe, la terribile dea che parla il linguaggio degli uomini e che aveva fatto sentire la propria voce solo come canto melodioso o comando funesto, adesso urla, corre ad

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abbracciare le ginocchia di quell’uomo che non è stata capace di sottomettere e lo supplica di risparmiarla. Ma la dea non è ancora del tutto cambiata; a parlare è nuovamente la donna ingannatrice, che cerca di circuire il suo avversario attraverso un altro strumento tipicamente femminile: la seduzione carnale.

Chi sei? Qual è la tua città? Chi sono i tuoi genitori? / Sono stupita che hai bevuto senza subire l’incanto. // Nessun altro uomo ha potuto sopportare il veleno, / una volta che l’ha bevuto ed è entrato nella sua bocca. // Ma tu hai in petto un cuore refrattario agli incanti: / certo sei il versatile Odisseo, che l’uccisore di Argo / dall’aurea verga [Hermes] mi diceva sempre che sarebbe venuto, / tornando da Troia con la sua nave. // Ma su, riponi la spada nel fodero e noi adesso / saliamo nel mio letto e facciamo l’amore, / e abbiamo fiducia l’uno dell’altro.26

Circe, privata della sua potenza divina, reagisce esattamente come gli uomini pensavano potesse reagire una donna. Priva delle virtù maschili che consentono al guerriero di ribellarsi di fronte al pericolo, Circe può sperare di ritornare un soggetto attivo nella vicenda soltanto sfruttando il proprio potenziale seduttivo. Questa potenzialità che la tradizione mitica assegna alle donne serve a sfidare chi il potere (sessuale e politico) lo detiene realmente e ne ha il riconoscimento sociale27. Ma l’uomo virile, Odisseo, non può rischiare di mostrarsi debole subendo il fascino di Circe perché altrimenti scivolerebbe in un ruolo passivo che lo renderebbe equiparabile al comportamento femminile. A un eroe non si addice cedere alle lusinghe di una donna attenuando la propria autonomia decisionale,

26 Ibid., cit., vv. 325-335.

27 Cfr. Andò, L’ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, pp. 192-193. Sul potere

della seduzione femminile si veda anche E. Cantarella, Ragione d’amore. Preistoria di un difetto femminile, in «Memoria», 1, 1981, pp. 7-13.

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perché il rischio è quello di diventare «vile e fiacco»28. E così Odisseo non si abbassa all’offerta di Circe, e continuando ad attenersi ai consigli di Hermes riesce a superare la prova.

Circe, come puoi invitarmi a fare la pace / dopo aver trasformato in porci i miei compagni, / e adesso con inganno mi inviti / a venire a letto e a unirmi a te nell’amore, / per denudarmi e rendermi vile e fiacco. // Io non entrerò mai nel tuo letto / se non vorrai, dea, prestarmi il giuramento solenne / che non tramerai contro di me nessun’altra sciagura.29

Circe invece accetta immediatamente la richiesta e dopo aver pronunciato il gran giuramento degli dei entra nel suo bellissimo letto con Odisseo. Ecco la ricompensa e la piena vittoria dell’eroe nel duello, che afferma la propria volontà riuscendo a domare la dea grazie alla potenza virile della propria spada.

Intanto la sala del palazzo veniva sistemata dalle quattro ancelle di Circe, ninfe dei boschi, fiumi e sorgenti, per offrire a quell’ospite straordinario un’accoglienza regale e un banchetto sontuoso. Quando fu pronta l’acqua per un bagno tiepido, fu proprio Circe a lavare accuratamente e dolcemente l’eroe, cospargendolo poi di olio e vestendolo con una tunica e un bel mantello. L’ordine naturale della relazione tra generi è ristabilita – dal punto di vista maschile ovviamente – e Circe assume il ruolo dell’amante leale e della compagna attenta e accondiscendente: quello che dall’Antichità è sembrato come il giusto equilibrio delle cose. Prima dell’arrivo di Odisseo, l’isola di Eea era una terra abitata unicamente da donne, in cui ogni minaccia maschile veniva trasformata nella sudditanza mansueta di una

28 Odissea, cit., X, v. 301, v. 341. 29 Ibid., vv. 337-344.

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bestia, e quindi neutralizzata all’istante30. C’era bisogno del potere virile di un

eroe che arrivasse a sanare una situazione pericolosa e assurda come quella di una donna che governi un regno, per giunta esclusivamente femminile, in modo incontrastato. Forse non a caso la realtà di cui Circe è padrona è un’isola, quindi un luogo lontano e separato dalla società, a riprova che non era concepibile un dominio in cui l’autorità era rappresentata da una singola donna. Dal punto di vista di una questione di genere dunque, Circe, come rappresentante femminile, è il simbolo enigmatico di un’irresistibilità e una pericolosità a cui va trovata soluzione: la sottomissione all’uomo è la via con cui la società risolve il problema, perché la donna torna a manifestare la sua vera natura di impotenza – il potere le tocca solo mediatamente attraverso l’uomo, Odisseo.

Tornando al racconto omerico, Circe invita l’eroe a mangiare, ma egli non riesce a toccare cibo, ancora troppo afflitto dal pensiero dei suoi compagni sventurati. Circe, vedendolo fermo e in silenzio, gli chiede se stia temendo un altro inganno e lo rincuora affettuosamente dicendogli che il grande giuramento divino verrà rispettato. Odisseo allora le rivela il motivo del proprio dolore, ottenendo un ulteriore slancio di umanità da parte della dea, che da terribile quale era si dimostra adesso comprensiva e coinvolta emotivamente con le sue vittime.

“Circe, chi mai sarebbe quell’uomo giusto / che avrebbe il coraggio di prendere cibo o bevanda / prima di liberare i compagni e vederli con i suoi occhi? / Ma se sinceramente mi inviti a mangiare e a bere, / libera i miei compagni, che possa vederli.” // Così dissi, e Circe uscì dalla sala / con la bacchetta in mano, e aprì le porte / del porcile e li spinse fuori: sembravano porci di nove anni. // Stavano di fronte a lei, ed essa, passando dall’uno

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all’altro, / li ungeva tutti con un altro farmaco. // Cadevano dalle loro membra le setole / nate dal veleno funesto che diede loro l’augusta Circe; / tornarono uomini, più giovani di come erano, / molto più belli e alti a guardarli. // Mi riconobbero e mi strinsero tutti la mano / e tutti furono presi da un desiderio di pianto; / la casa riecheggiava terribilmente e la dea stessa ebbe pietà.31

L’ambivalenza della descrizione di Circe si manifesta interamente in questa sua trasformazione da dea indifferente a sovrana benevola, i cui farmaci non sono più droghe maligne che conducono all’oblio e all’abbrutimento, ma erbe benefiche capaci di rigenerare ed esaltare coloro che vi vengono a contatto. Inserita in questa nuova dimensione di disponibilità, Circe invita Odisseo a richiamare anche quei compagni che erano rimasti sulla spiaggia e a soggiornare da lei per riprendere le forze perdute. Restarono per un anno intero ospiti della dea, banchettando e godendo dei suoi servigi e di quelli delle sue ancelle, ma arrivò il giorno in cui i compagni di Odisseo lo ammonirono esortandolo a rimettersi in mare per provare a raggiungere la loro patria. Tramontato il sole, l’eroe allora entra nel letto di Circe, le abbraccia le ginocchia in segno di reverenza e la implora di aiutarli a ripartire – di nuovo un rovesciamento di ruolo: non è più la dea a supplicare l’uomo cingendogli le gambe, ma è Odisseo a pregare Circe compiendo un gesto di sottomissione. Forse l’eroe si aspettava una reazione ostile e vendicativa da parte della dea, ma sentendo la sua risposta deve ricredersi: «Illustre figlio di Laerte, astutissimo Odisseo, / non rimanete contro il vostro volere nella mia casa (…)»32. Circe rimane calma, non prova nemmeno a trattenerlo e anzi gli spiega

cosa dovrà affrontare per tornare a Itaca: Odisseo deve scendere nel Tartaro e

31 Odissea, cit., X, vv. 383-399. 32 Ibid., cit., vv. 488-489.

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interrogare Tiresia, il veggente che gli avrebbe profetizzato ciò che lo attendeva in patria e negli anni seguenti al suo ritorno. Ma nessun mortale avrebbe potuto portare a termine una tale impresa senza l’aiuto divino, e così Circe rivela a Odisseo anche i passaggi e i rituali necessari per la sua discesa nel regno dei defunti. Dopo essere stata una seduttrice, una rivale sconfitta e un’amante, Circe si mostra anche un’amica fidata perché fornisce a Odisseo tutti gli strumenti per affrontare quell’impresa tremenda che però lo potrà finalmente ricondurre in patria. Le qualità della nuova Circe ricalcano quelle dell’umiltà e della devozione di una donna verso il proprio uomo: sono le virtù richieste a una buona moglie. E un dettaglio legato al corpo di Circe sembra confermare questa trasformazione da ragazza libera a donna sposata. Alla fine del suo lungo monologo di istruzioni Circe «indossò un ampio manto candido / sottile, grazioso; sui fianchi cinse una fascia / bella, dorata, e mise sul capo il velo.»33 Come poi anche nel

Rinascimento, subito dopo il matrimonio la donna copriva il capo, poiché la capigliatura lunga e fluente indicava che era sessualmente accessibile34. Prima di essere sconfitta da Odisseo Circe è descritta come «bei capelli»35, quindi come

una donna che si fa vedere dagli altri a capo scoperto. Questo fatto dimostra la sua indipendenza da una subordinazione maschile e dunque una lecita manifestazione di tutto il proprio potenziale seduttivo. Quando però sopraggiungono l’eroe e la condivisione del letto36, Circe è costretta a mettere un freno alla propria libertà disinibita, perché una forza maschile che prende il suo posto come uomo di casa e

33 Ibid., cit., vv. 543-545.

34 Cfr. Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p. 197, cfr.

Wiesner, Le donne nell’Europa moderna (1500-1750), p. 245.

35 Odissea, cit., X, v. 136, v. 220; XI, v. 12; XII, v. 150.

36 Sul letto come simbolo dell’unione matrimoniale si veda N. Felson e L. Slatkin, Gender and

Homeric epic, in R. Fowler (a cura di), The Cambridge Companion to Homer, Cambridge University Press, 2004, p. 103.

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quindi come se fosse il marito, impone alla donna una certa discrezione. Il velo sul capo di Circe la identifica dunque come una giovane sposa pudica che si agghinda e si mostra servizievole con il proprio uomo. Infatti, quando Odisseo e i compagni riapprodano a Eea per dare sepoltura all’amico Elpenore che era morto cadendo dal tetto della casa di Circe, vediamo la dea spostarsi dal proprio palazzo e accorrere alla spiaggia per portare cibo e vino ai reduci del viaggio nell’Ade – Odisseo aveva seguito alla lettera le disposizioni di Circe e tutto si era svolto nel migliore dei modi. L’accoglienza di Circe è solenne e le sue parole sono piene di ammirazione:

Infelici che siete scesi da vivi alle case dell’Ade, / due volte mortali, quando gli altri muoiono una volta sola, / adesso mangiate il cibo e bevete il vino / e restate qui tutto il giorno; all’apparire dell’alba / riprenderete il mare: vi mostrerò la rotta e vi dirò tutto, / in modo che non vi troviate a soffrire pene / sulla terra o sul mare, per una trama maligna.37

Non appena tutti si furono addormentati Circe prese per mano Odisseo e lo condusse in disparte per farsi raccontare ogni dettaglio di quel terribile viaggio, proprio come farebbe una compagna premurosa. L’eroe le racconta ogni cosa con ordine e concluso il suo resoconto ascolta le ultime parole della dea a cui aveva fatto riferimento per un anno. Circe elenca a Odisseo le prove che ancora lo stanno aspettando e gli indica chiaramente come superare le insidie che gli riserverà il viaggio di ritorno verso Itaca. Arriva l’alba e Odisseo guarda la dea sparire nel bosco della sua isola. Non una parola di più né un saluto. L’eroe valoroso torna alla nave e dà l’ordine di salpare.

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Odisseo, prima di arrivare all’isola di Eea era disorientato; adesso, grazie a Circe, sa che cosa lo aspetta e come comportarsi. Quello che sembrava un ostacolo al suo ritorno a casa, in realtà si è dimostrato un aiuto necessario proprio al raggiungimento dell’obbiettivo. La dea terribile e antagonista, che può essere vinta solo grazie all’intervento divino di Hermes, diventa essa stessa una guida concreta e fondamentale. Donna insidiosa e ingannatrice, si trasforma in divinità protettrice che lo informa su altre figure femminili pericolose e infide – le Sirene e poi Scilla e Cariddi – che minacceranno il suo percorso. Circe non è un mostro irrimediabilmente negativo che deve essere eliminato per sempre, né una creatura che è stata portata a un livello superiore. Circe, come la donna in generale, è una semidea, costantemente a metà tra l’avere una natura negativa, mendace e prossima all’oscurità (svolge la funzione di mediatrice con il regno dei defunti) e una presenza sublime, bellissima, vicina alla luce (è figlia del Sole). È una dea terrena che si muove tra l’umano e il bestiale, l’uomo e la natura, concedendo a Odisseo un anno d’amore ma anche un viaggio verso la morte38. Possiede quindi

sia il dono di dare l’amore – la vita – sia una funzione distruttiva e degradante. Circe, come la donna in generale, è per gli uomini una figura ambivalente e complessa, maligna e benigna, pericolosa e inferiore, terribile e malleabile, diabolica e angelica.

Potendo adesso confrontare le parole di Odisseo ai Feaci – «(…) e anche Circe mi tratteneva nella sua casa / l’ingannatrice di Eea, volendomi per marito (…)»39

– con il racconto completo, sorge spontaneo domandarsi perché l’eroe abbia voluto intrappolare Circe nel suo primo ruolo malvagio, dimenticandosi che aveva

38 C. Segal, Circean Temptations: Homer, Vergil, Ovid, in «Transactions and Proceedings of

the American Philological Association», 99, 1968, p 428.

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trascorso un anno a Eea in piena libertà. Del resto l’eroe seguiva le indicazioni di Hermes, che gli aveva raccomandato: «Tu allora non rifiutare il letto della dea, / perché ti liberi i compagni e si prenda cura di te (…)»40. È possibile che Odisseo

avesse davvero sfruttato la dea soltanto per aiutare i propri compagni e se stesso? Il dubbio rimane, mentre «dietro alla nave scura, mandava un vento / propizio alle vele, un buon compagno, / Circe dai bei capelli, terribile dea dalla voce umana»41.

1.3 Immagini negative dall’Antichità al Medioevo

In tutta la letteratura antica il mito è stato uno strumento essenziale per cercare di spiegare i problemi del genere umano e per fornire le grandi categorie con cui l’uomo potesse comprendere la propria esperienza. Attraverso il racconto leggendario le domande sulla natura, la società e la vita stessa trovavano risposta in immagini idealizzate che spostavano l’attenzione dalle inquietudini terrene alla dimensione rituale e contemplativa. Grazie alle avventure di dei, dee, eroi e altre creature fantastiche, l’uomo antico poteva cogliere il mistero dell’esistenza e paragonarsi a figure limpide e concrete che lo aiutassero a discernere il vizio dalla virtù. Pensati per confrontare l’archetipico con il quotidiano, i protagonisti di queste vicende avevano quindi un ruolo ogni volta definito nell’esemplificazione del giusto comportamento e dell’errore, rimanendo in una dimensione a metà strada tra la familiarità del reale – da cui traevano origine – e la lontananza del divino.

40 Ivi, cit., X, vv. 297-298. 41 Ivi, cit., XII, vv. 148-150.

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La peculiarità del mito classico, però, sta soprattutto nella possibilità ad esso intrinseca di ispirare svariate letture interpretative. Questo genere di narrazione, infatti, non si snoda solo in modo lineare e univoco, dal momento che l’intreccio e i suoi personaggi possono essere sempre giudicati da diverse angolazioni, presentando ora risvolti positivi ora lati terribili. Uno stesso modello di giustizia, se guardato da un altro punto di vista, può apparire per esempio corrotto e capriccioso, un aiuto può rivelarsi nefasto, una minaccia può dimostrarsi vantaggiosa, e così via. Le figure mitologiche quindi, benché si ricolleghino a una tradizione che sentiva il bisogno di porre e chiarire il proprio presente, non sono suscettibili di collocazione stabile. Esse risultano senza tempo, prive della possibilità di essere inserite in strutture di significato assoluto e coerente. Questa loro natura permette non solo molteplici interpretazioni da parte dei commentatori, ma anche nuovi usi e riscritture nei secoli, elaborate da coloro che si servono del mito per arricchire le proprie tesi. Potenzialmente è un percorso che non conosce limitazioni, perché un mito classico, come uno specchio, riflette l’immagine distintiva di colui che lo ritrasmette, modificandosi a seconda della lente personale del poeta, scrittore o filosofo che vuole farne risaltare una forma. Le prospettive variano ulteriormente in linea con lo stile e le preoccupazioni del singolo e dell’età in cui il mito viene assorbito, allontanandosi dal modello di partenza in rimaneggiamenti di cui è impossibile stabilire la futura portata.

Così, dopo Omero, quando il mito di Circe venne ripreso nella letteratura antica in lingua greca e poi latina, alla caratterizzazione della dea toccarono in sorte molteplici interpretazioni, che fecero emergere alcuni aspetti piuttosto che altri in base alle idee dei loro portavoce. La tendenza generale, però, fu quella di

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mettere al primo posto la negatività del potere metamorfico di Circe, enfatizzandone la perfidia e la crudeltà – elementi del suo agire che nell’Odissea erano stati soltanto iniziali e transitori. I tratti della sua ambiguità e il suo divenire collaborativa e protettiva dopo l’incontro con Odisseo furono totalmente sorvolati, per dare invece risalto agli effetti drammatici del venire a contatto con il potere inquietante di una dea simile, adesso vista più come un demone42. Allo stesso modo di Odisseo, che di fronte ai Feaci, prima del racconto completo della sua permanenza a Eea, aveva accennato a quella vicenda solo come a una disavventura, così anche i poeti dei secoli a seguire si erano voluti dimenticare dell’anno di armoniosa convivenza tra Circe, l’eroe e i suoi compagni, circondati da comodità, lusso e delizie.

Nel I secolo a.C. Circe ricompare in un altro celebre poema epico dell’Antichità. È descritta da Virgilio all’inizio del VII libro dell’Eneide, quando Enea sta per approdare con la sua nave troiana in Italia, dove potrà compiere il suo destino di fondatore della città di Roma. Quando i Troiani avvistano il promontorio del Circeo, il limite da varcare prima di giungere nella terra promessa, l’ultimo pericolo che minaccia di impedire all’eroe di fare il proprio ingresso nel Lazio, «spirano brezze nella notte e la candida luna asseconda il corso, i flutti risplendono sotto una tremula luce»43. La differenza con la descrizione omerica, ambientata di giorno, è già evidente: l’oscurità e l’atmosfera

42 L’accostamento di Circe a un’atmosfera cupa, evocante l’immaginario della magia nera, era

avvenuto in età ellenistica, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Qui il Circeo è descritto come un cimitero pieno di cadaveri, i quali sono appesi con delle corde a salici e tamarischi (III, vv. 200-209) – il salice e il pioppo erano considerati alberi funerari, sacri alla dea della morte Persefone. Si veda Graves, I Miti Greci, p. 141 (3), p. 163 (7), p. 553 (b), p. 671 (b), p. 680 (5).

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notturna risultano congeniali alla dimensione maligna e inquietante in cui Virgilio stava per presentare la sua Circe.

Rasentano per prime le coste della terra circea, / dove la ricca figlia del Sole fa risuonare / di assiduo canto i boschi inviolati, e nel superbo palazzo / brucia alle stelle notturne cedro odoroso, / percorrendo con stridulo pettine lievi tele. // Di qui si ode il rabbioso lamento dei leoni / che si ribellano ai ceppi e ruggiscono nella fonda notte, / e setolosi porci o orsi nei recinti infuriare, / e grandi forme di lupi lanciare ululati. // Uomini furono, e la crudele dea Circe con erbe / potenti li aveva mutati in ceffi e dorsi di fiere.44

Come in Omero, Circe è intenta al canto e ai comuni lavori domestici, ma nella versione virgiliana, a questi suoni rassicuranti, si uniscono prepotentemente note agghiaccianti di belve incatenate che ruggiscono, infuriano e ululano esasperate, nel tentativo (vano) di liberarsi. Se la Circe omerica sottometteva le sue vittime rendendole mansuete e ubbidienti, la Circe virgiliana istiga le sue creature alla violenza e alla ribellione45, meritandosi nel poema l’appellativo di «crudele». L’insistenza sull’elemento brutale della scena rappresentata da Virgilio serve al poeta per definire Circe secondo le caratteristiche di una dea totalmente malvagia, spogliata da qualsiasi sentimento umano. La sua Circe è primariamente un’incantatrice pericolosa in un regno totalmente animale, una dea della morte e non insieme della morte e dell’amore46. Non c’è alcun indizio del fatto che Enea,

come Odisseo, possa trarre giovamento da una permanenza sull’isola di Circe o

44 Ibid., cit. vv. 10-20.

45 Cfr. Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p. 219.

Secondo Bettini e Franco a costruire questa differenza potrebbe aver contribuito l’ambiente culturale di riferimento dei Romani, i quali avevano un’esperienza di relazione con le bestie feroci praticamente sconosciuta ai Greci; ivi, pp. 221-226.

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riesca ad apprendere cose importanti da lei. Mentre in Omero Circe è una dea che alla fine favorisce il viaggio ed il ritorno di Odisseo in patria, in Virgilio è un pericoloso ostacolo di origine soprannaturale, che simboleggia le conseguenze di una curiosità nascosta47 che va assolutamente evitata. A neutralizzare il possibile esito della curiosità dei Troiani di spingersi oltre, verso quella terra terrificante che non lascerebbe scampo una volta accostata, interviene (anche qui) un dio: «Perché i pii troiani non soffrissero questi prodigi, / sospinti nel porto, e non approdassero alle terribili sponde, / Nettuno gonfiò le vele di favorevoli venti, e concesse / la fuga e li condusse oltre le secche schiumanti»48. L’effetto di attrazione e repulsione della costa di Circe è potente, e soltanto un dio può evitare che Enea e i suoi compagni si lascino sopraffare dal desiderio di seguire il richiamo dei sensi – vista, olfatto e soprattutto udito. In Virgilio, più che in Omero, l’aspetto seducente del canto femminile è infatti molto marcato: Circe canta in modo continuo, senza posa, per attrarre ogni navigante di passaggio – non si sente la voce melodiosa di Circe soltanto una volta arrivati alla porta del suo palazzo, ma anche avvicinandosi con la propria nave al luogo in cui vive. In questo senso Circe sembra accostarsi a un altro tipo di personaggio mitologico femminile molto conosciuto: le Sirene, metà donne e metà animali, che con il loro sapere (il canto) seducevano gli uomini portandoli inevitabilmente incontro a un destino di morte. Le Sirene, e in generale i mostri femminili, erano caricati di pericolosità e al tempo stesso di fascino inquietante e seduttivo, portando alle

47 Ivi, p. 430.

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estreme conseguenze il giudizio espresso nei confronti della donna49. Nel combattimento, infatti, l’uomo proiettava la sua angoscia in queste creature ambigue, che doveva necessariamente superare o vincere se pretendeva di chiamarsi eroe50. Per i Greci poi gli altri ambiti in cui si esplicavano le propensioni del mostro femminile erano la sfera erotica e quella dell’aldilà; per cui il parallelismo con Circe sembra essere ancora più immediato. L’elemento bestiale sarebbe costituito dal prolungamento del suo potere terrificante e le sue fattezze totalmente umane andrebbero a riconfermare la sua abilità a ingannare, nascondendo un temperamento crudele e distruttivo in un corpo perfetto ed estremamente seduttivo.

Un secolo più tardi Circe è protagonista di tre episodi delle Metamorfosi di Ovidio, relativi al suo amore per Odisseo, Pico e Glauco. Il trattamento ovidiano dell’episodio di Odisseo segue molto da vicino quello omerico, ma l’atmosfera è molto più cupa. La storia non è raccontata dall’eroe stesso, ma da Macareo, uno dei compagni che è stato trasformato in maiale da Circe e poi salvato dal suo capitano. Mentre la scena della metamorfosi indugia sui dettagli, il seguito della vicenda è narrato con una certa sbrigatività, interrompendo il racconto con la gioia degli uomini per la riconversione in forma umana, e sorvolando quindi sul ruolo benigno della dea nell’anno di convivenza a Eea. Odisseo qui arriva esplicitamente come «vendicatore»51, Circe è chiaramente terrorizzata da lui e l’atto d’amore che sussegue non è un invito, ma il risultato della sua sottomissione.

49 C. Mainoldi, Mostri al femminile, in R. Raffaelli (a cura di), Vicende e figure femminili in

Grecia e a Roma, atti del convegno Pesaro 28-30 aprile 1994, Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna della Regione Marche, 1995, p 70.

50 Ivi, p. 74.

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A lui il dio Cillenio, messaggero di pace, aveva dato un fiore bianco: gli dei lo chiamano moly; si regge su una radice nera. Protetto da quel fiore e insieme dagli avvisi celesti, entra nel palazzo di Circe e invitato all’insidioso beveraggio respinse la dea che tantava di sfiorargli i capelli con la verga e, impugnata la spada, l’impaurì facendola desistere. Dopo vengono dati giuramenti con strette di mano e accolto nel talamo chiede come dono di nozze la riconversione dei compagni in forma umana.

Le altre due favole condividono poi lo stesso soggetto: Circe è innamorata di qualcuno che non ricambia i suoi sentimenti e, non riuscendo ad accettare il rifiuto, si vendica in maniera violenta e crudele. Qui la dea è chiamata a testimoniare una passione così estrema che distrugge chiunque impedisca la sua soddisfazione: è una figura sinistra, una pericolosa dea connessa alle forze della natura.

Ma quella sparge una sostanza nociva e succhi velenosi e chiama la Notte e gli dei della Notte e Erebo e Chaos e prega con lunghi urli Ecate: dalla loro sede si staccarono le selve (mirabile a dirsi) e il suolo emise gemiti e gli alberi vicini persero il colore e i pascoli furono madidi e spruzzati di gocce di sangue e parve che le pietre emettessero rauchi muggiti, latrarono i cani e la terra fu piena di neri serpenti e si videro le anime volteggiare per l’aria.52

La sua potentissima magia nera si rivela, però, completamente inutile a manipolare i sentimenti. In altre due opere, L’arte dell’amore e La medicina dell’amore, Ovidio menziona Circe sempre in riferimento all’impossibilità di

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poter controllare la passione erotica con la magia; altrimenti la dea «avrebbe trattenuto Ulisse (…) se tale arte valesse a conservar l’amore»53. E aggiunge:

Che giovarono, a te, l’erbe persèie, / o Circe, quando il lor propizio vento / via si si portò le neriziane navi? / Tutto facesti tu perché lo scaltro / ospite non partisse: a una decisa / fuga le piene vele egli rivolse! / Tutto facesti perché un fiero ardore / non ti bruciasse; nel tuo reluttante / animo a lungo tenne il regno Amore! / Gli uomini trasmutare in mille forme / ben tu potevi; non però la legge / tu dell’animo tuo mutar potevi.54

Circe dunque ama Glauco, che le preferisce Scilla; ama Pico, ma egli non ha occhi che per Canente; amerà Odisseo, e lo perderà per Penelope. Nell’episodio omerico, però, la relazione tra Circe e Odisseo non era caratterizzata da note sentimentali. Quando l’eroe chiede a Circe di farlo ripartire, la dea non oppone alcuna resistenza, e anzi si mostra sollecita e premurosa, mantenendo sempre un portamento regale. In Ovidio, invece, Circe costituisce un esempio negativo di amore come ossessione55. Il suo atteggiamento perde eleganza e diventa quello di

una donna che sta per essere abbandonata e che inutilmente si tortura cercando di trattenere il proprio amante. Nelle Metamorfosi, poi, la frustrazione di un amore non corrisposto diventa la spinta principale all’azione del suo personaggio. Specialmente nella metamorfosi di Pico in un picchio e in quella di Scilla in un mostro marino è evidente come le trasformazioni di Circe non siano, come in Omero, una dimostrazione di potere da parte di una divinità arcaica, ma siano chiaramente motivate da vendetta personale. Nonostante la sua natura divina,

53 Ovidio, L’arte dell’amore. La medicina dell’amore, testo latino e versione poetica di G.

Vitali, Zanichelli, Bologna 1968, cit., p. 111.

54 Ivi, cit., p. 341

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Circe si comporta come una donna delusa, abbandonata, ferita, furiosa, gelosa e vendicativa. «“Non la farai franca (…) e imparerai dai fatti cosa sia capace di fare una donna offesa, che cosa un’innamorata, che cosa una femmina”, e aggiunse “e proprio Circe è innamorata, è offesa, è una femmina!”»56.

Il ritratto ovidiano in particolare, che la presenta come un’incantatrice crudele e senza scrupoli, ha attirato l’attenzione degli allegoristi cristiani, che l’hanno interpretata come una figura demoniaca, personificazione del legame tra il femminino, l’irrazionale, la morte, la seduzione e le forze oscure ed istintive della natura. Privata di ogni qualità positiva, Circe si adattava bene alle teorie cristiane sulla natura demoniaca della donna e della sessualità femminile promulgate dal Medioevo57. Nell’età di mezzo Circe diventa principalmente incarnazione della lussuria, della passione, dei pericoli dell’abbandono al piacere sensuale58 che

rischiano di far assumere alla donna una posizione dominante sull’uomo. Si tendeva anche a interpretarla come una donna svincolata da ogni controllo maschile, pronta a sottomettere gli uomini riducendoli a vivere “come” bestie. E questo tipo di rappresentazione razionalizzante arrivò a identificare Circe con una volgare prostituta, emblema di seduzione e trasgressione che minaccia l’integrità fisica e morale di chi la incontra59. Un altro testo che ebbe larga diffusione nel Medioevo e costituì uno dei principali veicoli di trasmissione delle vicende di Odisseo dopo la fine del mondo antico fu la Ephemeris de Historia Belli Troiani, traduzione latina di un’opera attribuita al personaggio favoloso di Ditti Cretese,

56 Ovidio, Metamorfosi, cit., XIV, vv. 382-385.

57 Cfr. Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, pp. 112-116. 58 C. Segal, Mito e filosofia nelle «Metamorfosi»: l’augusteismo di Ovidio e la conclusione

augustea del libro 15, in Id., Ovidio e la poesia del mito. Saggi sulle Metamorfosi, Marsilio Editori, Venezia 1991, p. 107.

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che si riteneva fosse stato testimone oculare della guerra di Troia. L’episodio di Circe è menzionato fuggevolmente nel libro VI, dove, secondo la tradizione razionalizzante, si racconta che Ulisse giunse su una delle isole Eolie e vi incontrò la regina Circe, che aveva l’abitudine di trattenere i propri ospiti facendoli innamorare60.

L’interpretazione allegorica, però, restò sempre quella primaria e più diffusa, e gli sfortunati Achei tramutati in porci servirono da esemplare illustrazione della morale che si volle ricavare dall’intero episodio: il vizio porta inevitabilmente l’uomo verso un miserabile abbrutimento.

1.4 Significati morali e riferimenti misogini nella riflessione rinascimentale

Quando il mito di Circe giunse nel Rinascimento, l’immagine della dea omerica, come abbiamo visto, era stata già segnata da una lunga serie di interpretazioni che contavano moltissimi autori e altrettanti secoli di distanza. Le ulteriori interpretazioni che nacquero nel Rinascimento, nei secoli di rinnovato interesse culturale per l’Antichità, non poterono quindi prescindere dalle molte rappresentazioni di Circe che si avvicendarono dopo Omero nella letteratura antica, tardo antica e medievale. Inoltre, durante il Medioevo, Omero non era stato accessibile agli intellettuali dell’Europa occidentale, pur continuando a essere letto e commentato nell’Oriente bizantino. I suoi poemi erano andati perduti e ne sopravvivevano solo frammenti e citazioni all’interno di opere retoriche e

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filosofiche, nelle opere di mitografia, nei compendi e nelle interpretazioni allegoriche degli esegeti cristiani. Perciò il racconto omerico della bellissima figlia del Sole, l’ingannatrice che trasformava gli uomini in bestie, fu conosciuto solo di riflesso, attraverso quei poeti latini – in particolare Virgilio e Ovidio – che avevano avuto dimestichezza con il testo greco e che continuavano a essere letti nel Medioevo, e anche in Occidente. Non meraviglia, dunque, che l’unica Circe nota fino alla fine del XV secolo fosse molto influenzata dai loro poemi da una parte, e dall’interpretazione allegorica di origine tardoantica e molto popolare nel Medioevo dall’altra61. Era molto difficile, se non impossibile, trovare una

caratterizzazione positiva della dea omerica, soprattutto nelle opere del primo Rinascimento.

Nel viaggio allegorico di Federico Frezzi (metà del XIV secolo – 1416) raccontato nel suo Quadriregio, per esempio, la figura di Circe è rappresentata in termini decisamente negativi e occupa – a dimostrazione del grande successo che il suo mito riscosse in quel periodo – la seconda metà di un intero capitolo62.

Nell'altra valle selvaggia e deserta / Circe trovai, la maladetta maga, / che fa che l'uomo in bestia si converta. // Con gli occhi putti e con la faccia vaga / losinga altrui e con ridente grifo, / acciò che l'alme a sue malíe attraga. // Nella sinistra man tenea un cifo, / il qual empiè di sí brutto veneno, / che ancor, pensando, me ne viene schifo63.

61 Un esempio di commistione di elementi moraleggianti e razionalizzanti sono il De

Genealogiis deorum gentilium (1350-1368) e il De mulieribus claris (1361-1362) di Boccaccio. Su un’interpretazione dei capitoli riguardanti Circe si veda E. Framba, Alcune osservazione sull’interpretazione di Circe nella tradizione mitologica rinascimentale, in P. Castelli (a cura di), L’ideale classico a Ferrara e in Italia nel Rinascimento, Leo S. Olschki, Firenze 1998, pp. 203-226.

62 F. Frezzi, Del Regno di Satanasso, Come l'autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo,

e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini, in Id., Il Quadriregio, a cura di E. Filippini, Laterza, Bari 1914, Libro II, Cap. XV.

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Circe abita nel Regno di Satanasso, dove offre la sua pozione alle anime dannate, trasformandole non solo in lupi, buoi, cani, volpi, orsi, leoni, porci e draghi, ma anche in ibridi mostruosi simili a diavoli.

Io vidi un uomo, a cui lo porse pieno, / diavolo farsi, quand’ella gliel diede, / a membro a membro e l’uman venir meno. // In piè di cigno in prima mutò il piede / e poi le gambe, e poi d’un babbuino / mise la coda e ‘l membro ove si siede. // Il ventre fe’ squamoso e serpentino, / e negro il petto più che gelso mézzo, / le man pelose e l’ugne quasi uncino. // Mentre si tramutava a pezzo a pezzo, / mise due ali assai più ner che corvo; / cornuto il capo e ‘l viso fe’ d’un ghezzo. // La bocca fe’ d’un porco, il naso còrvo: / così dimon si fece a poco a poco / cogli occhi rosci e collo sguardo torvo. // Per tutti i nove fòr gittava foco; / ma nella bocca egli era acceso piue / che una fiamma, in che soffiasse coco64.

Il poeta, sconvolto da tale visione, ascolta allora la sua guida Minerva sulle ragioni di quelle crudeli metamorfosi: il veleno di Circe è uno strumento di giustizia, che la dea assegna a quegli uomini che nel corso della loro esistenza terrena si erano già ridotti a vivere assecondando la loro natura ferina.

Perché visson giá questi come bruti, / a lor Iustizia questa pena rende, / che li sembianti umani abbian perduti; / ché non è uom, se 'l vizio tanto apprende, / che non conosce il male e non ha pena / e non vergogna e téma, quando offende; / ché Dio ha posta in voi luce serena, / che fa che il mal da prima si conosca, / e vergogna e timor dá, che 'l raffrena.65

64 Ibid., cit., vv. 94-117. 65 Ibid., cit., vv. 124-129.

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