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I1 Cantus Circaeus, scritto in latino da Giordano Bruno (1548-1600) durante il suo primo soggiorno a Parigi e pubblicato nel 1582 presso l’editore Egidio Gillio, è dedicato da Giovanni Regnault, che riferisce di aver curato la stampa dell’opera su indicazione dello stesso Bruno, al principe Enrico d’Angouleme, gran priore di Francia, figlio illegittimo di Enrico II e fratello naturale di Enrico III246. Il lavoro, diviso in due dialoghi, fa parte delle cosiddette opere “mnemoniche” del filosofo nolano. La seconda parte del Cantus riguarda infatti il dialogo tra Alberico e Borista, i quali affermano che sono stati fino a quel momento impegnati nella lettura del canto di Circe: questo testo consentirà loro di comprendere il metodo da applicare all’arte della memoria247. Ai fini della nostra indagine, però,

prenderemo in considerazione la prima parte del Cantus Circaeus, in cui Circe, impegnata nell’attuazione del suo incantesimo su tutti gli uomini, dialoga con la sua ancella Meri sulla crisi che ha colpito il mondo, e che ha incrinato il rapporto tra anima e corpo, tra essere e apparire. Come nell’Asino di Machiavelli e nella Circe del Gelli, anche nel Cantus di Bruno il potere metamorfico di Circe e le

246 Sul significato politico della dedica e del Cantus in generale si vedano M. Ciliberto,

Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 3-28, e P. Sabbatino, La riforma di Circe e la riforma della monarchia francese, in Id., A l’infinito m’ergo. Giordano Bruno e il volo del moderno Ulisse, Leo S. Olschki, 2004, pp. 119-122.

247 Per un’analisi del secondo dialogo sull’ars memorandi si faccia sempre riferimento ai testi

sopracitati, in particolare P. Sabbatino, L’arte della memoria applicata al dialogo tra Circe e Meri, in Id., A l’infinito m’ergo. Giordano Bruno e il volo del moderno Ulisse, pp. 122-124.

mutazioni da essa operate stanno al centro dell’impostazione generale dell’opera248. L’affinità dei tre componimenti è dovuta alla comune intenzione dei

loro autori, che rivolgono lo sguardo alle condizioni morali del loro tempo, per svelare la bestialità della società nella quale essi vivono e denunciare i costumi degenerati dei loro contemporanei. Ognuno si affida al mito di Circe per la propria critica, ma, nonostante l’identità del motivo centrale, ricordiamo che la Circe del Gelli non è assolutamente frutto dell’imitazione dell’Asino di Machiavelli, e il Cantus di Bruno non è affatto il risultato di una copia né dell’una né dell’altra delle precedenti opere citate. Anzi, benché sia possibile, non si può nemmeno affermare con sicurezza che il calzolaio fiorentino abbia letto l’Asino e il filosofo nolano quest’ultimo o i dialoghi della Circe. Il mito della dea di Eea e il motivo etico che pervade le tre opere, infatti, sono declinati dai rispettivi autori ogni volta in modo originale. Questo avviene principalmente per la loro diversa personalità e il loro differente stile, ma anche a seconda della fonte letteraria a cui si ispiravano e che essi sceglievano di interpretare. Nel Cantus, in particolare, non è proposta una rilettura del Bruta animalia ratione uti di Plutarco come era stato fatto da Machiavelli e Gelli; non c’è quindi alcun dialogo con gli animali trasformati da Circe volto a dimostrare la migliore condizione delle bestie rispetto agli uomini. Bruno invece riprende il motivo erasmiano della decadenza del mondo espresso nei Sileni di Alcibiade – muovendosi comunque in modo del tutto autonomo

248 Per un confronto delle tre opere si veda E. S. Hatzantonis, Il potere metamorfico di Circe

quale motivo satirico in Machiavelli, Gelli e Bruno, in «Italica», 37, 4, 1960, pp. 257-267. In particolare, sulle affinità e le differenze delle opere del Gelli e del Bruno si veda F. Meroi, Uomini e animali, in Id., Cabala parva: la filosofia di Giordano Bruno fra tradizione cristiana e pensiero moderno, prefazione di M. Ciliberto, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2006, pp. 159-181.

rispetto a Erasmo da Rotterdam249 – e insistendo dunque sulla necessità di sanare la discrepanza che intercorre tra l’interiorità e l’esteriorità degli uomini. Inoltre, sempre nel Cantus, la presenza maschile è completamente annullata. Nel regno di Circe non arriva nessun eroe per tentare di salvare il genere umano, e l’unico rapporto interpersonale che esiste in quel luogo è tra due donne, entrambe protagoniste: Circe e la sua ancella Meri.

4.1 Il potere benefico di Circe

Prima che inizi il vero e proprio canto di Circe, subito dopo la dedica, l’autore si ritaglia uno spazio esclusivo in cui dialogare direttamente con il proprio libro e con il lettore che vi si sta rivolgendo. Qui Bruno si pone come un aiutante e una guida, avvertendo il visitatore-lettore degli ostacoli a cui andrà incontro entrando nei luoghi di Circe, e quindi nel vivo del testo. «Giordano al libro»250 fornisce infatti una serie di informazioni e di indicazioni per non smarrire il senno una volta dentro il dominio Circeo, e per giungere incolumi al cospetto della figlia del sole.

Per vedere la maga figlia del gran sole, / spingendoti fuori da questi rifugi, / senza ostacolo verrai nel dominio Circeo, / che non è affatto racchiuso entro angusti confini. // Per vedere le belanti pecore e i muggenti buoi, / per vedere i saltellanti padri dei capretti, /

249 I Sileni di Alcibiade è il titolo di un saggio compreso negli Adagia di Erasmo da Rotterdam,

apparsi a Venezia nel 1508. Sul legame con il Cantus Circaeus, come avvicinamento e allontanamento dalle idee di Erasmo, si avrà modo di tornare nel corso di questo capitolo. Cfr. infra, pp. 107-110.

250 G. Bruno, Cantus Circaeus, in Id., De umbris idearum. Cantus Circaeus. Sigillus sigillorum

(1582-1583); Le ombre delle idee. Il canto di Circe. Il sigillo dei sigilli, introduzione di M. Ciliberto, traduzione e note di N. Tirinnanzi, BUR, Milano 1997, cit., p. 237.

tu verrai, e per vedere tutti quanti gli animali del campo, / e tutte le belve della selva. // Con vario ed armonioso canto si leveranno qua e là i volatili del cielo, / aggirandosi per la terra, sull’onda e nell’aere. // Mentre lasceranno che tu passi indisturbato i pesci del mare, / mantenendosi nel loro naturale silenzio. // Bada però, quando ti accosterai alla dimora, / per ritrovare gli animali domestici: / allora infatti propria di fronte alle porte ed all’ingresso dell’atrio / facendosi avanti tutto fangoso, // Ti correrà incontro il porco, e se per caso gli andrai troppo accosto, / col fango, con le zanne e con gli zoccoli, / quello ti morderà, ti sporcherà, ti calpesterà, / e col suo grugnito t’importunerà. // Sulla soglia poi, e nello stesso ingresso dell’atrio, / il genere di bestie latranti che là se ne sta in ozio, / ti sarà molesto per il grande abbaiare, / e terribile per le fauci. // Se per questo non smarrirai il senno, e se neanche i cani si infurieranno, / per timore tu delle loro zanne, quelli del tuo bastone, / quelli non ti morderanno, tu non li picchierai: / sarai libero di passare, né quelli ti saranno di ostacolo. // Superate con solerte industria tutte queste prove, mentre ti addentri nei luoghi più celati, / ti verrà incontro il solare volatile, il gallo, / per condurti in presenza della figlia del sole.251

Anche nell’episodio omerico dell’incontro tra Circe e Odisseo, e nelle sue rivisitazioni successive, era necessario l’intervento di un aiutante, solitamente divino – tranne nel caso dell’Asino di Machiavelli in cui a favore del protagonista interviene una delle ancelle di Circe –, che istruisse l’eroe affinché restasse indenne dopo l’entrata nel regno della dea e l’arrivo al suo palazzo. Il pericolo che lo attendeva, però, era sempre stato rappresentato dal luogo impervio in cui dimorava Circe e dal confronto con la dea stessa. In questi componimenti, poi, gli animali che circondavano l’ingresso del palazzo di Circe erano stati descritti ogni volta come bestie mansuete, che accoglievano il nuovo arrivato in modo docile e

sottomesso o, addirittura, festoso. Bruno, invece, ci sta informando che il dominio della figlia del sole è in verità un luogo tutt’altro che angusto, e che raggiungerlo è un’impresa facilmente perseguibile. Le difficoltà che si incontrano sulla via che conduce al cospetto di Circe si presentano infatti soltanto una volta raggiunto l’ingresso del palazzo incantato, ma non riguardano affatto gli inganni che potrebbe architettare la maga. Sono soltanto le fiere, e in particolare «gli animali domestici», che potrebbero intralciare rovinosamente il cammino del viaggiatore- lettore. Se però quest’ultimo riuscirà a non avvicinarsi troppo al porco e non tenterà di percuotere i cani latranti, come gli sta suggerendo Bruno, sarà libero di procedere «nei luoghi più celati» e di continuare nella lettura del canto di Circe. Quindi, superata «con solerte industria» questa prova, potrà recarsi in presenza della figlia del sole, accompagnato dal «solare volatile, il gallo».

L’elemento luminoso su cui Bruno aveva insistito in chiusura del testo precedente è subito ripreso nell’apertura del primo dialogo del Cantus, quello tra Circe e Meri. La vicenda si apre con l’invocazione circea al padre Sole, affinché accolga «con benevolenza i voti sacri di [sua] figlia Circe»252. Il dialogo si svolge

infatti a mezzogiorno, nel momento di maggior splendore dell’astro solare. Circe invita Meri a guardare la linea della meridiana per verificare il posto del sole nell’alto del cielo, e l’ancella le comunica che non se ne è affatto discostato. Al sole, che illumina «il tutto»253 e ha l’ufficio di attribuire nature mirabili agli elementi, Circe chiede con forza di riappropriarsi del suo compito specifico e di vendicare il grave torto inflitto alla sua dignità. Nel mondo, infatti, la verità sulla natura ferina degli uomini è stata totalmente oscurata, poiché nascosta dentro

252 Ivi, cit., p. 240. 253 Ivi, cit., p. 239.

corpi modellati in forma umana. Troppi uomini eclissano animi bestiali in un involucro umano, e questa, per Circe, è un’offesa troppo grande. Invoca quindi il padre, il sole meridiano, affinché possa ascoltare il canto di sua figlia.

Quale, ti chiedo, è la misura che fu imposta alle cose? Ecco che sotto una scorza umana sono celati animi ferini. Conviene forse che un’anima bestiale abiti in un corpo di uomo come se questo fosse una dimora cieca e ingannevole? Dove sono le leggi che per diritto governano le cose? Dove il lecito, e dove l’illecito per la natura?254

Nel Cantus è Circe stessa a lamentare l’inganno e la falsità che si stanno consumando nel mondo. Colei che dall’Odissea aveva sempre mantenuto il ruolo di ingannatrice, adesso, all’opposto, è designata da Bruno per denunciare la menzogna della natura: è il corpo a essere ingannevole, perché non trova corrispondenza con la vera interiorità degli uomini. L’accusa fatta da Circe, inoltre, non riguarda esclusivamente il modo naturale in cui sono presentate le cose, ma investe anche lo sconvolgimento morale che ne consegue. La Circe di Bruno è infatti consapevole di vivere in un mondo ormai senza ordine, dove, a causa della radicale frattura della simmetria tra l’anima e il corpo, tra la verità e l’apparenza degli uomini, vigono l’illegale e l’illecito. Se dall’Antichità fino al Rinascimento era stata interpretata allegoricamente come tentazione dei sensi che allontanavano l’uomo dalla rettitudine, adesso Circe è chiamata a rappresentare una saggezza che si preoccupa di un mondo eticamente capovolto. Non a caso si domanda dove sia finita Astrea, personificazione della Giustizia tra i mortali, e denuncia il dominio incontrastato di Caos, sin dall’Antichità simbolo del mondo

informe e disordinato255. «Se Astrea è veramente risalita al cielo – e di lei la terra non scorge più neppure un vestigio –, perché tuttavia almeno dal cielo non appare Astrea? Ecco che invece siamo caduti in potere di un Chaos niente affatto occulto»256. Circe continua quindi a insistere su questi aspetti – l’oggettività e l’onestà – additando la ragione della sua invocazione nella perdita delle giuste leggi di natura.

Perché i mari non si mescolano ai fuochi, gli astri lucenti alle terre nere, se nelle terre stesse e in chi le governa non c’è niente che mostri chiaro il proprio aspetto? Non è forse la stessa madre natura che ci inganna? Madre, avrei dovuto definirla, oppure matrigna? Niente deve essere più odioso alla verità della falsità stessa: niente più molesto alla bontà della malignità stessa. Non è cosa da poco, non è certamente cosa da poco, o limpidissimo lume del mondo, che noi siamo tratti in inganno dagli ingegni sia di esseri visibili, sia di esseri raziocinanti che i sensi non possono percepire. Perché allora abbiamo dovuto esperimentare nella natura stessa una simile ipocrisia? Se pochissimi animi di uomini sono stati plasmati, per quale motivo, ti chiedo, tanti corpi sono stati modellati in forma di uomini?257

Nel tempo della crisi del mondo è la natura a diventare una matrigna insidiosa e bugiarda, dal momento che, pur essendoci solo pochissimi animi di uomini, sono invece tanti i corpi modellati in forma umana. Circe invoca allora il padre –

255 Cfr. Sabbatino, Nei luoghi di Circe. L’Asino di Machiavelli e il Cantus Circaeus di Bruno,

in Id., A l’infinito m’ergo. Giordano Bruno e il volo del moderno Ulisse, p. 107.

256 Bruno, Cantus Circaeus, cit., p. 241. Secondo la mitologia greca, Astrea, scesa tra gli

uomini nell’età dell'oro, diffuse i sentimenti di giustizia e di bontà, come fece la madre prima di lei; ma poi, disgustata dalla degenerazione morale del genere umano, dapprima si rifugiò nelle campagne, e poi, al principio dell’età del ferro, risalì definitivamente in cielo, dove splende sotto l’aspetto della costellazione della Vergine. Come scrisse Ovidio: «Giace sconfitta la benevolenza e la Vergine Astrea abbandona, ultima dei celesti, le terre grondanti di sangue», Metamorfosi, cit., I, vv. 149-151. Cfr. Graves, Greek Myths (1963); I Miti Greci, traduzione di E. Morpurgo, presentazione di U. Albini, Longanesi, Milano 2012.

«e gli altri dei sommamente potenti»258 – affinché assecondino il suo sommo incantesimo, volto a ristabilire l’ordine perduto e a riequilibrare il nesso tra verità e apparenza. La maga pronuncia un primo rito, scongiurando gli «spiriti ministeriali che assistono e presiedono alla formazione [dei] corpi»259 di far sì che, laddove si è verificata l’ipocrisia della natura, gli esseri finalmente «si mostrino nelle loro figure esteriori e veritiere»260. Ma il primo voto non è ascoltato, la situazione non ha subito nessun cambiamento, e così Circe prova una seconda volta:

Vi scongiuro di nuovo, perché esitate? Perché indugiate, veicoli delle forme, voi che falsate i sigilli impressi dalla natura? (…) Vi comando anche a nome degli altri dei che hanno il potere sugli altri generi di viventi: quando verrà rimosso l’aspetto sofistico di uomini, non impedite che le figure di ciascun essere si manifestino così da essere contemplate nella luce.261

Circe pretende che sia esibita la verità, che si faccia luce sull’indole animalesca degli uomini, e quindi che sia ripristinato l’equilibrio tra l’interno e l’esterno dell’anima e del corpo umani. In questo senso Bruno sta riprendendo due dei motivi degli Adagia di Erasmo da Rotterdam: la crisi universale e la riforma dell’ordine del mondo, espressi nel saggio intitolato I Sileni di Alcibiade. Il punto di partenza è lo stesso per entrambi – il problema morale della decadenza del mondo – ma la soluzione esibita da Erasmo si discosta da quella prospettata da

258 Ivi, cit., p. 242. 259 Ibid.

260 Ibid.

Bruno, per cui il confronto tra i Sileni di Alcibiade e il Cantus Circaeus mostrerà quest’ultimo nella sua propria autonomia262.

L’espressione [Sileni di Alcibiade] potrà essere applicata a una cosa che dall’aspetto e, come si dice, dalla corteccia, appaia dozzinale e ridicola, mentre risulta ammirabile a osservarla che dalla veste e dalla faccia dia ben poco a vedere della ricchezza che racchiude nell’animo. In effetti, stando a quel che si tramanda i Sileni erano una sorta di figurine a intaglio, eseguite in modo da poter essere aperte e spiegate: quando erano chiuse riproducevano l’immagine, comicamente deforme, di un sonatore di flauto, aprendosi rivelavano d’un tratto l’immagine divina. Era una specie d’inganno, uno scherzo che faceva apprezzare di più l’arte dello scultore.263

Secondo Erasmo la discrepanza che intercorre tra l’interno e l’esterno del Sileno non è da reputarsi in sé una cosa negativa, poiché custodire e nascondere la propria eccellenza sotto una scorza meno preziosa è «una proprietà naturale dei valori autentici»264, un fatto mirabile, in grado di tenere a debita distanza gli sguardi dei profani. Infatti «lo stesso principio vale nel campo della conoscenza. La verità autentica si tiene sempre profondamente nascosta e non si lascia cogliere facilmente né generalmente»265. Il problema, per Erasmo, è rappresentato soltanto

dai valori vuoti, i quali, all’opposto di quelli «autentici», attraggono costantemente chi vi si avvicini con le loro sembianze false e seducenti.

Ben altra è la natura di quei valori inconsistenti, che si perseguono d’ordinario: essi hanno una facciata seducente. Qualcuno gli si accosta? Essi mettono in mostra il lato più

262 Cfr. P. Sabbatino, Il motivo erasmiano della crisi universale, in Id., A l’infinito m’ergo.

Giordano Bruno e il volo del moderno Ulisse, Leo S. Olschki, 2004, pp. 106-111.

263 Erasmo da Rotterdam, I Sileni di Alcibiade, in Id., Adagia. Sei saggi politici in forma di

proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1980, pp. 60-119, cit., p. 61.

264 Ivi, cit., p. 65. 265 Ivi, cit., p. 77.

lusinghiero. Ma guardali più addentro: tutto saranno, fuorché quello che davano a intendere dall’insegna inalberata.266

A questi valori Erasmo fa corrispondere rispettivamente due tipologie di uomini: i Sileni positivi e quelli negativi, o Sileni a rovescio. Secondo Erasmo la crisi del mondo è dovuta proprio alla netta maggioranza di questi ultimi rispetto ai primi: «qua e là, ben nascosti, si trovano anche oggi alcuni Sileni positivi; ma sono, ahimè, pochissimi. La maggior parte degli uomini rappresentano, invece, Sileni a rovescio»267. La decadenza universale, poi, dipende anche dal fatto che

tanti e altrettanti uomini non riescano a guardare «ben addentro nella vera natura delle cose»268.

La gente grossa giudica a rovescio: siccome assume sempre, come criterio di valutazione, l’aspetto più immediato, più materialmente tangibile delle cose, di conseguenza ad ogni piè sospinto incespica e cade in errore, si lascia illudere da false immagini del bene e del male, ammira e pregia i Sileni alla rovescia.269

Chi però non cederà alle apparenze, esibite «nei titoli altisonanti, nei berretti eruditi, nelle cinture luccicanti, negli anelli ingemmati»270, degli individui insigni di ogni ceto, scoprirà finalmente la verità su che cosa sia celato dentro l’animo di sì fatti uomini.

Se però apri il Sileno, troverai dentro a questo un maiale, dentro a quello un leone, dentro a quell’altro un orso o, forse, un asino. E’ un effetto tutto diverso da quello che i

266 Ivi, cit., pp. 65-67. 267 Ivi, cit., p. 71. 268 Ibid. 269 Ivi, cit., p. 77. 270 Ivi, cit., p. 71.

poemi mitologici attribuiscono agli incantesimi di Circe: i prigionieri di Circe avevano corpo di bestia e coscienza d’uomo, i nostri contemporanei invece nascondono sotto l’aspetto umano una bestia.271

Bruno riprende proprio la Circe di questi poemi mitologici a cui si sta riferendo Erasmo – l’Odissea e le Metamorfosi di Ovidio, in cui i compagni di Ulisse vengono trasformati dalla maga in maiali, ma conservano inalterata la loro coscienza di uomini – e rivaluta il suo incantesimo, facendolo diventare il simbolo della riforma dell’ordine naturale del mondo. Se negli Adagia Erasmo prospetta una riforma che ristabilisca l’ordine naturale e soprannaturale con il ritorno al Sileno positivo e all’uomo di Cristo, povero fuori e ricco dentro, nel Cantus, invece, Bruno propone la soluzione più radicale della metamorfosi degli uomini in corpi bestiali, in perfetta simmetria con l’anima ferina che ognuno celava dentro di sé. Bruno sente quindi il problema della crisi universale in modo molto più drammatico rispetto a Erasmo, perché crede al momento che l’unica soluzione possibile per smascherare i Sileni negativi sia quella fisiognomica.

Il tema della maschera è rintracciabile in moltissimi componimenti del periodo rinascimentale, anche precedenti agli Adagia. Sarà forse interessante fare riferimento a un altro testo che denuncia con amara ironia i costumi del proprio tempo: il Momo, o del Principe di Leon Battista Alberti. Nel libro quarto Caronte

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