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Fra ambiguità e disinganno: La Circe di Giambattista Gell

Non vi è alcun dubbio sul fatto che le attualizzazioni rinascimentali del mito della dea di Eea, almeno fino all’Asino di Machiavelli, condividessero lo stesso pensiero sul suo potere metamorfico. La metamorfosi degli uomini in animali operata da Circe era stata infatti valutata fin dall’Antichità come un’azione maligna, e il passaggio della natura umana a stato ferino era stata interpretato come una degradazione, e quindi una disgrazia insopportabile. Ma con la ricomparsa in Occidente dei Moralia di Plutarco, in cui si trovava il trattato Bruta animalia ratione uti, il potere di Circe acquistò una nuova dimensione, in cui al presupposto antropocentrico, sostenuto con fermezza in una delle più importanti discussioni sul tema della collocazione dell’uomo in natura, il De dignitate hominis di Pico167, si sostituiva la netta superiorità del mondo animale. Per cui, in questa singolare versione del mito, il passaggio alla forma ferina diventava un’accidentalità vantaggiosa e Circe appariva più come una benefattrice che dona una condizione migliore alle sue “vittime”, piuttosto che una ignobile fattucchiera.

Giambattista Gelli (1498-1563), membro dell’Accademia fiorentina e amico di Cosimo de’ Medici, contribuì a trasmettere questa voce alternativa. La sua Circe,

167 Per il Pico del De dignitate hominis l’uomo, con la sapienza, può divenire davvero qualcosa

di strutturalmente diverso dalle bestie brute, le quali a loro volta stanno davanti a lui come la biforcazione di un bivio e non come imbarazzanti consanguinei. M. Arnaudo, Il bestiario di Machiavelli, tra emblematica e naturalismo, in «Italica», 80, 3, 2003, pp. 313-333.

pubblicata con successo nel 1549168, è chiaramente ispirata al Gryllos plutarcheo, come l’autore stesso dichiara nella lettera dedicatoria a Cosimo de' Medici: «Questo è quello che io cerco, Illustrissimo ed Eccellentissimo Principe, per giovare il più che io posso a gli altri, come è proprio e vero officio de l’uomo, seguendo l’orme del dottissimo Plutarco, dimostrare il meglio che io ho saputo in questi miei presenti Dialoghi»169. Se Machiavelli, come abbiamo visto nel precedente capitolo, riprese l’opuscolo plutarcheo soltanto nel dialogo finale del suo Asino, fornendo una nuova prospettiva sotto la quale valutare Circe e il suo incantesimo, Giambattista Gelli ne fece maggiore uso e condusse l’immagine di Circe verso più espliciti e ambigui giudizi. Gelli seguì il modello antico, e forse tenne conto della sua versione moderna170, ma non imitò banalmente Plutarco e Machiavelli. Egli estese l’argomento a una dimensione filosofica più vasta, inserendo elementi che erano completamente assenti negli altri due dialoghi, e raggiungendo esiti assolutamente originali. Infatti nella Circe il colloquio avviene con undici animali, scelti appositamente per illustrare una relazione fra la loro condizione presente e l’indole e professione che avevano da uomini: l’Ostrica e la Talpa, un tempo pescatore e contadino; una Serpe, una Lepre e un Capro, che erano stati medico, gentiluomo e giurista; una Cerva, moglie di un filosofo; il Leone, il Cane, il Cavallo e il Vitello, emblemi delle quattro virtù cardinali; e un Elefante, in precedenza filosofo. Particolarmente interessante sarà l’argomento

168 La fortuna del dialogo è confermata anche dalla rapidità con cui venne tradotta. La Circe

ebbe traduzioni in francese, spagnolo e inglese in meno di dieci anni, mentre le versioni di altri dialoghi famosi del Rinascimento furono molto più tardive. Sul successo della Circe si veda l’articolo di E. S. Hatzantonis, I geniali rimaneggiamenti dell'episodio omerico di Circe in Apollonio Rodio e Plutarco, in «Revue belge de philologie et d'histoire», 54, 1976, pp. 5-24.

169 G. B. Gelli, La Circe, in Id., La Circe e I capricci del bottaio, a cura di S. Ferrari, nuova

presentazione di G. G. Ferrero, Sansoni, Firenze 1968, cit., p. 5.

170 Sulla possibilità che il Gelli avesse letto l’Asino di Machiavelli si veda M. Martelli,

Introduzione, in N. Machiavelli, Novella di Belfagor. L’Asino, a cura di M. Tarantino, introduzione di M. Martelli, Salerno Editrice, Roma 1990, pp. 7-42.

della cerva che, essendo stata non un uomo ma una donna, offrirà un punto di vista diverso sulla condizione delle donne nel Rinascimento. L’ultimo dialogo, però, quello tra Ulisse e l’elefante, fornirà il contributo più notevole per capire il significato dell’intera opera del Gelli e quindi della sua idea di Circe. Solamente l’elefante, infatti, che da uomo fu il filosofo ateniese Aglafemo, accetterà di lasciare lo stato bestiale e, riprendendo il suo aspetto umano, di ritornare con Ulisse in patria.

3.1 La complicità tra Circe e Ulisse

Ritornandosene Ulisse dopo la guerra di Troia in Grecia sua patria, ed essendo da i venti contrari a la sua navigazione sospinto in molti vari e diversi paesi, arrivò finalmente a l’isola di Circe, e da lei fu benignissimamente ricevuto; dove essendo, per le molte cortesie fattegli da lei, alcun tempo dimorato, desiderando di rivedere la sua patria, le domanda licenzia di partirsi; e insieme, che ella faccia tornare in uomini tutti i Greci che erano stati da lei trasmutati in vari animali e si ritrovano quivi, acciocché egli potessi rimenargli seco a le case loro. Concedegli Circe questa grazia, ma con questi patti: che quegli solamente che vogliono, ottenghino da lui questo, e gli altri rimanghino a finire quivi così in corpi di fiere la vita loro; e perché egli possa saper questo da loro, concede il poter favellare a ciascheduno come quando egli era uomo.171

L’argomento della Circe di Giambattista Gelli è chiarito già dal suo autore prima che inizi il vero e proprio dialogo. Come abbiamo già dichiarato, l’intreccio è ripreso da Plutarco, e anche il rapporto tra Circe e Ulisse ricalca quindi quello

171 G. B. Gelli, La Circe, in Id., La Circe e I capricci del bottaio, a cura di S. Ferrari, nuova

esibito dal Grillo. L’episodio omerico della metamorfosi che Circe aveva compiuto sugli uomini di Ulisse, e su altri Greci che si erano avvicinati alla sua isola, è lasciato solo sullo sfondo e dato per scontato. Gelli, infatti, inizia la sua trattazione quando Ulisse ha già trascorso l’anno di piacevole permanenza presso la terra di Circe, e pone in primo piano l’ultima discussione tra l’eroe e la dea, la cui cortesia e intelligenza sono evidenti fin da subito. Il personaggio di Circe è presentato già dall’Argomento in termini molto positivi, evidenziandone la benevolenza con cui aveva accolto e accudito Ulisse sulla sua isola. Nel dialogo poi questi elementi si fanno ancora più marcati, mostrando anche il lato accondiscendente della dea verso il suo «carissimo»172 uomo. Quando Ulisse la mette al corrente di voler partire dall’isola, portandosi dietro tutti gli animali che una volta erano stati Greci, Circe si dichiara ben disposta, e l’unica condizione che impone all’eroe è che prima si assicuri se gli animali stessi vogliano abbandonare il loro stato ferino.

Nell’opera del Gelli dunque il regno di Circe non è più oscuro come nell’Asino di Machiavelli e in tutti i componimenti presi finora in esame, ma torna a essere un luogo circondato da un’atmosfera serena e idilliaca, quale non si trovava più dall’Odissea. Ulisse chiede a Circe: «Posiamoci a sedere in su questo scoglio, dove e la vista delle varie onde del mare, e la piacevolezza de i dolci venti che, trapassando fra le tante piante odorifere, soavemente spirano, ci renderanno il ragionare insieme molto più dilettevole, ed io te lo dirò»173. Se nel Grillo non

abbiamo nemmeno una vaga idea dell’ambiente circostante, il Gelli fin dal principio dell’opera ci offre diversi elementi per immaginare il panorama

172 Ivi, cit., p. 9. 173 Ibid.

paesaggistico della «bella e amena isoletta»174. Inoltre Ulisse non vuole scappare e non è affatto turbato dall’impossibilità di trovare una via d’uscita come il protagonista dell’Asino. Ha solo nostalgia della sua patria e lo comunica alla sua regina, non prima di averla lodata per il suo comportamento gentile.

Ulisse. Ancora che l’amore che tu mi porti, famosissima Circe, e le infinite cortesie

che io a tutte le ore ricevo da te, siano cagione che io mi stia volentieri teco in questa tua bella ed amena isoletta; lo amore de la patria, e il desiderio di rivedere dopo sì lunga peregrinazione i miei carissimi amici, mi sollecitano continuamente al partirmi da te, e ritornare a le mie case.175

Circe, nonostante il suo amato le chieda di lasciarla, non fa di tutto per trattenerlo o convincerlo a restare con patetiche suppliche come pensava Ovidio, ma lo asseconda, continuando a mostrarsi premurosa: «Facciamo quel che tu vuoi; chè io non desidero altro che compiacerti»176. Circe, però, non è nemmeno completamente soggiogata dall’amore che nutre nei confronti dell’eroe: non annuisce a ogni cosa Ulisse le proponga o le domandi, ma partecipa vivacemente nella discussione, mettendo in campo le sue capacità dialettiche177. Alla richiesta

di Ulisse se «infra questi che sono stati da te tramutati in fiere, ci è nessuno Greco, si è, perché io desiderrei di impetrare con i prieghi miei da te, che e’ sieno restituiti nel loro essere umano, e potergli rimenare meco a le case loro»178, Circe

stupita non capisce per quale motivo l’eroe voglia commettere un danno tanto grave nei confronti dei suoi concittadini e controbatte: «e che sia il vero,

174 E. S. Hatzantonis, I geniali rimaneggiamenti dell'episodio omerico di Circe in Apollonio

Rodio e Plutarco, in «Revue belge de philologie et d'histoire», 54, 1976, pp. 5-24.

175 Gelli, La Circe, cit., p. 9. 176 Ibid.

177 Cfr. Bettini e Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p. 285. 178 Gelli, La Circe, cit., p. 9.

domandane loro, perché io non voglio anche concederti questa grazia se eglino non se ne contentano»179. Ulisse, alla prima opposizione di Circe, si altera come un uomo con la propria moglie e inizia a dubitare della buona fede della dea. Circe, di tutta risposta, lo tranquillizza e gli dimostra come non lo voglia ingannare, ma solo aiutare.

Ulisse. O come io posso saperlo da loro, che essendo fiere, non intendono, e non

sanno o possono parlare? Io dubito che tu non voglia il giuoco di me.

Circe. Non ti alterare, ché io lo concederò loro. (…) Parlerai con loro; e perché tu

possa più liberamente farlo, io mi discosterò di qui, andandomene a spasso su per questo lito; e dipoi che tu arai intesa la voglia loro, vieni a me, ed io farò quel che tu vorrai.180

Ulisse si mette allora a discorrere con le bestie dell’isola. Il primo animale interrogato, l’ostrica, non solamente rifiuta la sua proposta, ma intavola una discussione volta a dimostrare come lo stato animale sia di gran lunga superiore a quello umano. Non tocca all’Itacese miglior fortuna con nessuno degli altri nove animali interpellati: la talpa, la serpe, la lepre, il capro, il cavallo, la cerva, il leone, il cane e il vitello. Tutti questi interlocutori, chi per una ragione chi per un’altra, stimano l’uomo come il più infelice animale che si trovi nell’universo, e quindi rifiutano di ritornare alla condizione umana. Ogni volta che Ulisse si accinge a parlare con uno di questi animali – tranne negli ultimi dialoghi con il leone, il cane e il vitello – ritorna da Circe, e le spiega la sua perplessità nell’ottenere così tanti esiti negativi. L’eroe ha il perenne sospetto che sia proprio la dea a volerlo raggirare, ostacolando la sua ricerca della verità.

179 Ivi, cit., p. 10. 180 Ibid.

Ulisse. Se io non sapessi quanto sia l’amor che tu mi porti, nobilissima Circe, io

dubiterei certamente che tu non volessi concedermi quella grazia che io ti ho domandata; e non volendo negarmela, mi avessi fatto parlare solamente a que’ che tu sai che hanno l’animo tanto deliberato di non tornar uomini, che nessuno lo potrà persuader loro mai, e così io mi tolga da l’impresa.

Circe. Non ti caschi ne l’animo un simil pensiero di me, Ulisse; che questo non si

conviene né a l’amor che io ti porto, né a la grandezza e nobiltà de l’animo mio, intento sempre a gloriosissime imprese: ché tu sai bene che chi non sa disdire i piaceri, non sa ancora fargli.181

Circe, che si era allontanata proprio per non interferire nei dialoghi tra Ulisse e gli animali della sua isola, è costretta a tranquillizzare ancora una volta il suo amato. La dea non vuole assolutamente intralciarlo e anzi è ben contenta di dargli l’opportunità di parlare con il numero di bestie che lui desidera, ma coglie anche l’occasione per fargli notare che è proprio lui l’artefice dell’inganno a se stesso: «Vedi tu, dunque, quanto tu t’inganni dolendoti meco che io gli abbia così mutati in fiere?»182. La perdita delle sembianze umane non ha rappresentato affatto una degradazione, come pensa Ulisse, ma la nuova forma ha consentito agli interlocutori dell’eroe il passaggio a condizioni migliori, dotandoli di più forti potenzialità. Questi sono consapevoli delle proprietà concesse dalla natura alla loro specie e ritengono una gravissima perdita tornare uomini. Ognuno esalta i «contenti e le felicità»183 della propria condizione e lo contrappone agli «affanni e le miserie»184 della vita umana, sottoposta a continue inquietudini e turbamenti. Il

181 Ivi, cit., p. 39. 182 Ivi, cit., p. 52. 183 Ibid

comportamento degli animali infatti, al contrario di quello degli uomini, è propriamente naturale, perché guidato dalla natura: «non avendo eglino il conoscimento ed il discorso de la ragione, perché eglino errerebbono spesso; dove, essendo guidati da lei, che non può errare, non errano mai, o rare volte»185. Ulisse chiede a Circe come faccia ad avere la certezza di una simile affermazione, e lei risponde:

La sperienza che io veggio tutto il giorno conversando in certo modo con tutte le loro specie, perché di tutte n’è qualcuno in questa mia isoletta; dove io veggio che nessun mangia più di quel che egli ha bisogno né di cosa che non gli sia conveniente, né fa altro disordine alcuno; per la qual cosa tutti, quel tempo che ha ordinato la natura che vivino, se bene è minore che quello che ella ha dato a l’uomo, vivon sani e gagliardi; la qual cosa non avviene a noi.186

La metamorfosi in un’altra forma ha reso gli uomini più coscienti del proprio stato: «si debbe molto più credere a costoro [dichiara Circe] che, avendo provato l’una e l’altra vita, lo conoscono per la esperienza e per la cognizione sensitiva, la quale non solamente eccede e supera di certezza tutte le altre, ma è origine e fondamento di tutte»187. Ulisse, invece, crede che ci siano pochissimi uomini «che si conoscano perfettamente o che cerchino di conoscere qual sia in loro la parte più nobile e migliore: la qual cosa è pur tanto necessaria a chi desidera conseguire il vero fine (che lo desidera naturalmente ognuno), che senza essa è impossibile farlo»188. E alla natura «corporea e terrestre»189 dell’uomo, che egli condivide con

185 Ivi, cit., p. 55. 186 Ibid. 187 Ivi, cit., p. 40. 188 Ivi, cit., p. 88-89. 189 Ivi, cit., p. 9.

le bestie, contrappone l’altra, quella «celeste e divina»190, simile invece «a quelle

sustanze immateriali che volgono i cieli»191.

Questa ultima doverebbe essere apprezzata da lui [dall’uomo] molto più che l’altra, essendo la miglior parte: niente di meno, tutti quasi dimenticandola, attendono a l’altra, che è il corpo; e quello vezzeggiano solamente, e quello cercano di adornare e far più felice e più eterno che possono.

Circe a questo punto non riesce a trattenersi, e come un’amante ferita, mostra tutto il suo rammarico a Ulisse. Non cerca esplicitamente di farlo desistere dal partire, ma vorrebbe almeno che aprisse gli occhi sulla grande fortuna che ha ricevuto nell’essere il destinatario del suo amore e sull’immenso privilegio che ha ottenuto vivendo nel suo bellissimo regno.

Circe. O Ulisse, io mi pensava che questo poco di tempo che tu vuoi star meco tu

volessi consumarlo in quei piaceri de’ quali abbonda questa mia così bella ed amena Isoletta, invitato, se non da altro, da la continua primavera la quale è sempre in questo luogo, e da quella sicurtà e da quei diletti che tu vedi prendere l’uno con l’altro tanti varii animali che vanno tutto ‘l giorno senza sospetto alcuno a spasso per questi miei vaghi e verdi boschetti, a guisa di quei primi felici tempi chiamati gli anni de l’oro, tanto celebrati da’ vostri poeti, ne’ quali non era ancor venuta la discordia e la inimicizia nel mondo. E tu ti stai tutto ‘l giorno pensoso, ora a l’ombra di qualche albero sopra un sasso, or presso a l’onde del mare sopra qualche scoglio, con l’animo tanto immerso ne’ pensieri che tu mi rappresenti quasi un corpo senza anima. E dove io crederei che tu fussi sempre lieto e

190 Ibid. 191 Ibid.

per la qualità del luogo che lo richiede e per lo amore che io ti porto, tu mi fai spesso dubitare che tu non abbia qualche dolor dentro che ti affligga continuamente.192

Subito arriva la replica di Ulisse, che assume le forme di una sentenza e di un rimprovero indirizzati alla sua dea, costantemente impegnata a pensare soltanto alla parte meno divina e quindi più meschina degli uomini.

Ulisse. Ecco che ancora tu, Circe, non pensi se non al corpo ed a’ piaceri ed ai diletti

di quello, né hai cognizione alcuna del piacer che si cava di contemplare i segreti de la sapientissima natura, tenendo sempre aggravata in terra co’ legami del corpo quella parte che si eleverebbe insino al cielo, dove contemplando quelle sustanze divine sentirebbe altro piacere che non sono questi terrestri che tu stimi tanto, perché e’ sono molto maggior piaceri quei de l’animo che quei del corpo: Ecco, ora se io potessi pur conseguire di far ritornare uomini quattro di questi Greci che sono stati da te trasmutati in fiere, e rimenargli meco, io crederei riportarne tanta gloria e tanto onore appresso i miei savi di Grecia (la qual cosa, se bene è caduca e mortale, si pone pure fra i beni de l’animo), ch’io ne caverei maggior diletto e maggior contento, che di tutti i piaceri del corpo che io potessi provare giammai o qui o in qualsivoglia altro luogo.193

L’isola di Circe, dunque, non appare più come una terra funesta e tetra. È anzi presentata come una specie di paradiso terrestre: gli animali che vi risiedono si godono i piaceri di quel luogo come fossero dei beati e tutto quello che hanno lo devono alla loro bellissima regina. Ulisse, però, con il suo ammonimento, riporta Circe e il suo regno nella dimensione per la quale era più conosciuta nel Rinascimento: la tentazione dei sensi, che seduce l’uomo a vivere soltanto secondo “natura”, e cioè ascoltando esclusivamente i bisogni del proprio corpo. I

192 Ivi, cit., pp. 89-90. 193 Ivi, cit., p. 90.

ragionamenti dell’eroe comunque restano esclusivamente individuali, poiché nessuna delle bestie con cui ha parlato è stata persuasa dall’abbondare quella condizione reputata tanto preziosa. I tentativi che ha fatto nel cercare di convincere gli abitanti di quell’isola a riprendere la forma umana si sono rivelati, almeno per ora, completamente vani. Nessuno si è reso conto del grave errore che sta commettendo e, sempre più incredulo, esce sconfitto da ogni dialogo. Soprattutto un animale lo mette in difficoltà più degli altri, perché prova insistentemente a far traballare un’altra delle sue solide convinzioni: non soltanto gli uomini sono superiori agli animali, ma lo sono anche rispetto alle donne.

3.2 Il discorso di Ulisse e la Cerva

Il dialogo si apre con un esplicito riferimento al desiderio di Ulisse di raggiungere la verità, e al timore, sempre presente, che Circe lo abbia potuto ingannare, mostrandogli soltanto l’apparenza delle cose.

Ulisse. Sebbene la verità, come si dice per proverbio, carissima Circe, pare che spesso

partorisca odio ne la mente di coloro a’ quali ella è detta, io so che dispiace tanto a gli animi nobili l’avere una cosa ne la bocca e un’altra nel petto, che io prenderò ardire di dirti liberamente l’animo mio, ancora che io potessi forse dubitare in qualche parte d’offenderti.

Circe. Parla pur sicuramente tutto quello che tu vuoi, ingegnosissimo Ulisse, chè

nessun’altra cosa è più amica de gli animi generosi, che la verità.

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