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La valorizzazione delle eccellenze agroalimentari in chiave storica e culturale. Il caso di Suvereto

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Specialistica in

MARKETING E RICERCHE DI MERCATO

Tesi di Laurea

La valorizzazione delle eccellenze agro-alimentari

in chiave storica e culturale.

Il caso Suvereto

Relatore: Candidato:

Prof. Daniele Dalli Maria Giulia Paperini

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Sommario

1.INTRODUZIONE

...

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2.SUVERETO

...

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2.1 Storia ... 17 2.2 Storia economica ... 23

2.3 Territorio e produzioni agro-alimentari ... 30

2.3.1 Qualità e territorio ... 31

2.3.2 Biologico ... 36

2.3.3 Biodinamica ... 39

3.METODO DI L AVORO ... 41

4.LE ECCELLENZE AGRO-ALIMENTARI DEL TERRITORIO ... 45

4.1 Vino ... 45

4.1.1 La DOCG Suvereto ... 45

4.1.2 Aziende ... 51

PETRICCI e DEL PIANTA ... 51

IL FALCONE ... 52 TERRADONNÀ ... 53 TUA RITA ... 54 BULICHELLA ... 55 I MANDORLI ... 56 4.1.3 Mercato... 57 4.2. Olio ... 60

4.2.1 Consorzio Olio Extravergine di Oliva Toscano ... 60

4.2.2 Aziende ... 62 4.2.3 Mercato... 65 4.3 Grani Antichi ... 67 4.3.1 Progetto Sterpaia ... 71 4.3.2 Aziende ... 73 4.4 GERMANDINE ... 77

4.5 TUSCANY_ I SAPORI DEL BORGO ... 78

5. LA VALORIZZAZIONE STORICA E CULTURALE: IL “BRAND”

ELISA BONAPARTE ... 79

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5.2 Il governo di Elisa nel Principato ... 81

5.2.1 Elisa ed il vino ... 84

5.3 Elisa: un “brand” per il territorio ... 86

6.CONCLUSIONI ... 89

APPENDICE ... 91

PETRICCI e DEL PIANTA ... 91

IL FALCONE ... 94 TERRADONNA’ ... 97 TUA RITA ... 100 BULICHELLA ... 102 I MANDORLI ... 105 GIOVANI ... 107 PAZZAGLI ORLANDO ... 110 PIETRASCA ... 111

LE PIANE DEL MILIA ... 114

STEFANO PAZZAGLI ... 116 FELCIAIONE ... 118 LE GERMANDINE ... 120

7. RINGRAZIAMENTI ... 121

Biblografia ... 123

Sitografia ... 127

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1.INTRODUZIONE

Oggi nel descrivere ed analizzare la realtà aziendale non possiamo trascurare il ruolo cruciale svolto dalla globalizzazione.

La globalizzazione consiste in un sempre crescente numero di attività svolte a livello globale in ambito economico, politico, sociale e culturale, oltre che nell’intensificazione dei livelli di interazione tra società.

In termini economici è un fenomeno di integrazione dei mercati su scala mondiale, che porta ad una crescente dipendenza dei mercati domestici da quelli internazionali.

Al suo sviluppo ed alla sua diffusione hanno concorso l’intensificazione del commercio internazionale, una maggiore ed una più rapida mobilità dei capitali, flussi migratori più imponenti ad ampio raggio.

I flussi globali di persone, denaro, tecnologie, informazioni, immagini multimediali e ideologie sono guidati dalle aziende internazionali, ma, data la loro non unidirezionalità, vi è interazione e reciprocità.

In questo contesto, che ha portato ad un aumento della competizione sul mercato ed ad una intensificazione delle attività internazionali di marketing, a livello globale è diventato inevitabile il confronto tra aziende e quindi tra brands dei vari paesi, inoltre, sempre più spesso, brand internazionali, diffusi su scala globale, si trovano a competere con quelli locali del paese “ospitante”.

I consumatori hanno a disposizione sempre più prodotti e marchi stranieri, questo porta le aziende locali a commercializzare i loro prodotti in modo sempre più competitivo; viene così data la possibilità ai consumatori di acquistare e sperimentare prodotti e brand sia locali che internazionali.

I colossi internazionali maggiormente influenti nel decidere cosa produrre e consumare sono quelli dei mercati capitalistici europei, americani e giapponesi.

La globalizzazione ha modificato perfino il concetto di spazio, infatti, con la diffusione di fenomeni transnazionali (finanze globalizzate, migrazioni, diffusione di organizzazioni non

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governative sovranazionali…) e l’aumento delle interconnessioni, anche l’utilizzo della nazione come quadro di riferimento per le attività di marketing internazionale sembra essere diventato inappropriato e problematico.

Come suggerisce il sociologo urbano Manuel Castell1, nasce una nuova forma spaziale caratterizzata da pratiche sociali che dominano e configurano la società di rete: lo spazio dei flussi.

Con l’approccio transnazionale si enfatizzano le fluttuazioni naturali della vita sociale ed il continuo flusso di persone, oggetti e capitale attraverso i confini nazionali, lo stato riesce ad influenzare, ma non a contenere questi flussi.

Si assiste ad una “deterritorializzazione forzata” delle pratiche sociali, cioè ad una definizione delle unità su basi culturali e non più strettamente territoriali.

Diventa attuale la metafora dell’arcipelago (Murray et al. 2006), che considera lo spazio come un insieme, un raggruppamento, una catena di isole; dai confini “malleabili”, capace di cogliere anche le interconnessioni tra queste. I modelli dei fenomeni culturali, analogamente alle acque dell’arcipelago, formano i confini fluidi di una regione. Le isole possono essere incluse o escluse a seconda del fenomeno oggetto di ricerca.

Le regioni vengono così ad emergere da relazioni fluide tra culture, luoghi e storie e si configurano come scala culturale di “mesolivello”, composta da più luoghi che condividono uno specifico set di pratiche, valori e/o norme. Possono esistere all’interno dei confini di uno stato-nazione o tagliare molti confini.

Nel delineare questi confini, flessibili e temporanei, è comunque essenziale l’identificazione dei processi storici che hanno aiutato la configurazione del fenomeno in ogni luogo. Il transnazionalismo emerge negli anni ’80 e cresce negli anni ’90, con la sua nuova architettura geografica, per permettere al marketing la definizione di nuovi segmenti in nuovi mercati ed è, inoltre, molto utile per la conoscenza delle relazioni tra globalizzazione e brand.

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In un contesto, come quello attuale, dagli spazi sempre meno chiari e definiti ed in cui molte sono le imprese che tentano l’espansione su scala globale, diventa importante riuscire a caratterizzare il proprio brand ed i prodotti.

Il brand (la marca) consiste in un nome, simbolo, disegno o una loro combinazione, in grado di distinguere i prodotti/servizi di uno o più venditori dalla concorrenza.

Originariamente riusciva a garantire l’origine della merce, rassicurando il consumatore sul luogo di produzione e sui metodi; oggi deve far percepire l’unicità, la diversità, dare valore aggiunto e trasmettere fiducia e lealtà.

Brand globali (o internazionali) sono quelli che il consumatore può trovare sotto lo stesso nome in più paesi e che utilizzano strategie di marketing standardizzate.

I brand locali, invece, sono distribuiti e promossi in un solo paese, regione, od al massimo, anche nel paese, nella regione confinante con il medesimo nome.

Fino a poco tempo fa essere un brand globale era la chiave del “successo”, infatti per i consumatori significava qualità, prestigio e glamour; oggi però sembrano essere molto apprezzate anche le connessioni che i brand locali riescono ad avere con l’identità nazionale e la cultura locale, la loro vicinanza ai consumatori locali, che si traduce in una maggiore sensibilità verso i loro desideri, i loro bisogni e le condizioni di mercato, nonché in un maggiore adattamento alle preferenze ed ai bisogni locali.

Difficile da capire risulta ancora la preferenza dei consumatori quando devono scegliere tra brand locali e globali.

Le percezioni e preferenze nei confronti dei brand, capaci di influenzare fortemente la scelta, sembrano dipendere dal tipo di mercato, dalle categorie di prodotto e dal segmento di consumatori.

La presenza a livello internazionale del brand sembra essere motivo di orgoglio e rispetto nei mercati emergenti, a dimostrazione che il brand sta facendo bene all’estero. Nei mercati avanzati spesso è vista, invece, come sintomo di minor autenticità e purezza tanto da arrivare a risvegliare nei consumatori sentimenti di rabbia e tradimento.

Per i beni di cui viene fatto un “uso pubblico” la preferenza va verso i brand globali, mentre per i “prodotti da consumo domestico” sembrano essere preferiti brand locali, soprattutto in

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fatto di cibo e bevande, essendo nettamente avvantaggiati nella piena comprensione del gusto locale.

I brand globali possono essere visti ed usati come mezzo per comunicare status, modernità, raffinatezza, charme cosmopolita ed avanguardia tecnologica; i brand locali si ricollegano, invece, alla cultura ed alla tradizione.

Nell’orientarsi verso brand globali un ruolo non trascurabile è giocato dal fattore età, loro “fans” risultano essere soprattutto teenagers e giovani, animati dal desiderio di essere “cittadini del mondo”.

Nella valutazione del brand, sia esso locale o globale, fondamentale importanza ha il patrimonio di marca (brand equity), definito da Aaker2, nella prospettiva del consumatore, come l’insieme delle risorse (o dei costi) collegati al nome, marchio, logo, che accrescono (o diminuiscono) il valore di un prodotto o servizio per un’impresa e/o per i clienti di questa. Tale patrimonio può essere interpretato come superiorità di un brand su tutte le alternative, rappresenta la condizione o il prerequisito di preferenza di un brand ed arriva così ad influenzare la decisione d’acquisto.

L’intenzione d’acquisto indica la tendenza del consumatore ad acquistare brand specifici, in modo abituale.

E’ un costrutto multidimensionale, valutabile, secondo il modello di Aaker, attraverso la scomposizione in

1) Notorietà di marca (brand awareness), capacità da parte del consumatore potenziale di riconoscere o ricordare, che la marca è presente in una specifica categoria merceologica [assenza di riconoscimento (unaware of brand) -riconoscimento aiutato (brand recognition) -richiamo spontaneo (brand recall) -top of mind].

Maggiore è la notorietà di marca, più probabilmente i suoi prodotti saranno presi in considerazione al momento della decisione di acquisto, infatti i consumatori tendono ad acquistare i prodotti dei brand più “familiari”.

2 David Allen Aaker economista statunitense ed esperto di marketing, dal 1969 illustre professore di

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2) Qualità percepita (perceived quality) percezione da parte del cliente dell’eccellenza generale o della superiorità del prodotto o del servizio rispetto all’uso a cui è destinato, tenendo conto delle possibili alternative.

I consumatori sono più propensi ad acquistare un brand considerato di alta qualità ed a pagare per esso un prezzo superiore (premium price).

3) Associazioni di marca, tutto ciò che, nella mente di una persona, viene collegato alla marca stessa, è l’espressione di ciò che la marca significa per le persone.

Tramite le associazioni di marca si può posizionare e differenziare i propri prodotti sul mercato, creare sentimenti ed atteggiamenti favorevoli nei confronti del brand, che si tradurranno in una maggiore disponibilità all’acquisto.

4) Fedeltà di marca (brand loyalty), misura dell’attaccamento del cliente alla marca. Aumenta quando i consumatori acquistano una serie di percezioni positive nei confronti del brand, che saranno, in seguito, trasformate in un vero e proprio impegno per il brand (acquirente infedele-acquirente abituale-acquirente soddisfatto-amico della marca-acquirente coinvolto).

Una ricerca sulle percezioni e le preferenze dei consumatori nei confronti di alcuni brand di birra spagnoli, utilizzando il modello di Aaker, rivela l’esistenza di differenze significative in termini di brand value, intenzione d’acquisto e disponibilità a pagare un premium price tra brand globali e locali. Sotto questi aspetti la propensione è senza dubbio verso i brand locali. Inoltre, i brand locali hanno una migliore immagine, una certa familiarità, notorietà e godono di maggiore fedeltà da parte dei consumatori. Sicuramente su ciò influisce l’impossibilità e l’incapacità dei brand globali di capire a pieno i gusti, le preferenze e le abitudini locali.

La dimensione, che ha avuto un impatto maggiore nella costruzione del valore del brand, è risultata essere la stessa sia per brand globali che locali ed è la fedeltà alla marca.

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Wik (1999) descrive questo trade-off tra globale e locale come un dramma senza soluzione, una lotta eterna, in cui ogni polo definisce il suo opposto, dove ogni valore si trascina dietro la propria negazione.

La predisposizione verso il locale è volta alla conservazione delle divergenze locali, utile a preservare l’identità culturale ed a supportare l’economia locale; le convergenze globali permettono di ottenere benefici economici legati al prezzo ed esperienze culturali nuove e più ampie.

I consumatori possono opporsi al globale per preservare il locale in un contesto ed, invece, supportarlo per promuovere le convergenze locali in un altro, riuscendo così a prendere sempre il meglio.

Alla luce del panorama attuale, una possibile alternativa per il successo sembra essere quella di diventare un’icona locale.

È proprio il carattere locale a dare la possibilità ad ogni azienda di sfruttare il suo valore unico, il suo capitale culturale e le permette una scelta di target e posizionamento alternativi. Le aziende locali possono e devono proporre beni, servizi, attività diverse dallo “standard”, che permettono di trasmettere il loro valore unico. I loro prodotti, oltre che utili e funzionali, devono portarsi dietro molteplici significati, proporre esperienze d’acquisto e di consumo uniche, innovative e “locali”.

Possono quindi sopperire alla loro relativa scarsità di risorse economiche con il capitale culturale, di cui sono ricchissime. Questo si può presentare “incarnato” sotto forma di competenze culturali; “oggettivato” nei beni culturali ed addirittura “istituzionalizzato” con un certificato di competenza culturale, diventando così una competenza ufficialmente riconosciuta e garantita e ciò facilita e permette la conversione del capitale culturale in denaro.

Attraverso lo sviluppo, la “reinvenzione”, il recupero e la promozione del proprio capitale culturale, le aziende locali

devono rendere nota a livello globale la loro autenticità, aiutano così la costruzione di un’immagine positiva per i prodotti locali, sia sul mercato domestico che in quello estero,

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cresce l’appeal dei prodotti locali (anche di imprese concorrenti), che diventano fashion e giovanili.

Per utilizzare al meglio il “capitale locale”, sono indispensabili un approccio innovativo ed un pensiero creativo; partendo dalle radici locali, dalle memorie e dalla conoscenza tacita si deve riuscire a ricostruire e “ristrutturare” gli elementi culturali e simbolici affinché siano trasformabili in capitale economico. Sono fortemente sconsigliati atteggiamenti imitativi.

Le nicchie di mercato locali devono essere conservate e, dove possibile, create per riuscire a creare business redditizi anche a livello internazionale.

E’ importante riuscire ad avere una presenza “globale”, essere in molti mercati, per agire correttamente nei diversi mercati si deve tener conto dello specifico ambiente politico. La bravura e la difficoltà sta proprio nel riuscire a pensare ed agire, contemporaneamente, sui due mercati locali e globali.

Le imprese devono essere capaci di rapportarsi, di creare relazioni integrate e collegamenti profondi con le altre aziende locali e globali ed al momento opportuno essere in grado di “legarsi” in partnership ed alleanze.

Il loro target “alternativo” è composto da segmenti di consumatori con preferenze e desideri specifici, legati alle risorse culturali possedute dalle aziende locali e/o non convenzionali per il mercato o insoddisfatti dall’offerta di imprese internazionali. Possono essere consumatori globali, in cerca di beni ed esperienze alternative o “sotto serviti” dall’offerta standard oppure locali nostalgici, promotori di un ritorno alle radici.

Visconti3 definisce questi segmenti di consumatori: i metropolitani, i più numerosi, non necessariamente vivono in città, si affidano a segnali semplici ed euristici per valutare l’autenticità dei prodotti e dei brand. Il radicamento storico, geografico e culturale dei prodotti conferisce un carattere di “esotismo”, spia della loro autenticità. L’autenticità per

3 Luca Massimiliano Visconti professore ordinario di Marketing all’Istituto di Marketing e Comunicazione

Aziendale, Università della Svizzera Italiana, professore affiliato alla business school ESCP Europe a Parigi e visting professor all’Università Bocconi.

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loro ha più a che fare con una provenienza lontana, che non con la reale provenienza dei prodotti.

I nostalgici, amanti del passato, per valutare l’autenticità si affidano al tempo ed alla storia; apprezzano la produzione artigianale locale, l’aderenza alla tradizione ed i prodotti ormai “perduti”. Sono piuttosto ricchi di capitale culturale.

I relazionali, sono particolarmente attenti ai legami, per loro è essenziale istaurare un buon rapporto con le aziende.

Ad apprezzare un sostegno ed un aiuto alla società in generale sono gli etici.

Per gli elitari il brand ed i prodotti devono riuscire a comunicare ricchezza e raffinatezza.

Per decidere un posizionamento adeguato le singole imprese devono rintracciare ed analizzare i “giudizi” già esistenti dei loro prodotti, in modo da poterli trasformarle in significati (immagini) positivi sfruttabili nel contesto socio culturale e nella propria comunicazione di marca.

In questa caccia all’autenticità diventa essenziale per le aziende riuscire a raccontarsi in modo autentico: le persone vogliono comprare qualcosa di reale da persone genuine (Pine e Gilmore4, 1999).

Un’ azienda, un brand sono autentici se i suoi prodotti mostrano un reale attaccamento al luogo, alla storia, all’artigianato locale e sono “unici”.

Pine e Gilmore individuano 5 dimensioni da poter sfruttare per trasmettere autenticità: la naturalezza, cercare di evitare e minimizzare l’intervento umano; l’originalità, soprattutto nel design; l’eccezionalità, caratteristica delle produzioni artigianali; la referenzialità, tipica delle tradizioni e l’influenzabilità, che riesce ad orientare i comportamenti umani. Ogni azienda, ogni brand deve riuscire a costruire la sua narrazione personalizzandola con la storia personale, con un occhio alle sue risorse ed ai suoi obiettivi di mercato.

4 Co-fondatori di Horizons LLP, società dedita a sviluppare la concezione e la progettazione di nuove attività

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I brand oramai sono “co-costruiti”, sono una narrativa in corso, ogni “attore”, non solo consumatori e manager, aggiunge una propria interpretazione fatta di elementi diversi. Il prodotto in sé sta diventando quasi marginale, importantissimi sono ormai i valori, i significati e le storie ad esso collegati.

La teoria generale di Holt5 sull’ iconicità del marchio vede nei brand alcune caratteristiche comuni ai miti classici.

Anch’essi sono percepiti come riferiti al passato, danno senso ed ordine alle esperienze della vita quotidiana; per rimanere vivi devono essere continuamente ripresi dai gruppi sociali; sono capaci di integrare i vari gruppi sociali proponendo significati e suggerendo “modi giusti” di conduzione della vita, aiutano le persone a capire il loro posto nella società; sono avvincenti, si prestano all’emulazione oltre ad essere molto credibili.

I “marchi mito” risolvono le contraddizioni tra il loro modo di vivere delle singole persone e le ideologie dominanti nella società.

I brand diventano così forme culturali contestualizzate, storiche, dai plurimi significati e simboliche.

Secondo l’approccio culturale i brand sono parte del tessuto della cultura popolare e popolano la nostra “mitologia moderna”; devono essere analizzati come forme culturali, portatori di significati e strumenti strutturanti il pensiero e l’esperienza.

È fondamentale che, pur muovendosi nel mercato globale, le varie aziende riescano a conservare la propria identità organizzativa, il proprio “dna”: ciò che un’azienda è, i suoi tratti distintivi.

I brand manager sottolineano l’importanza che l’azienda agisca coerentemente nel “proprio personaggio”, in accordo alla sua identità organizzativa.

5 Uno dei maggiori esperti a livello mondiale di brand e loro innovazione. Ex docente alla Havard Business

School ed all’Oréal Chair in Marketing alla University of Oxford. Attualmente alla guida del Cultural Strategy Group, aiuta a costruire nuovi brands ed a ripristinare quelli in difficoltà per clienti di tutto il mondo. Ha sviluppato strategie per numerosi marchi leader a livello mondiale come Coca Cola e Microsoft.

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2.SUVERETO

La globalizzazione, con il suo conflitto tra brand globali e locali, ha finito per travolgere anche i prodotti tipici.

Una politica di marketing globale, infatti, crea nuove opportunità ed una crescita delle vendite in volume, ma, al tempo stesso, mette in pericolo l’unicità e l’identità specifica di questo tipo di prodotti. Una strategia locale, invece, permette di salvaguardarne la specificità, tuttavia troppo spesso mantiene i prodotti troppo “locali”.

I prodotti tipici possono uscire dalla disputa ricorrendo alle loro esperienze d’acquisto e di consumo, che si presentano come uniche, innovative e locali e che quindi contribuiscono a rafforzare la loro identità ed immagine.

L’unicità e la particolarità dei prodotti tipici è dovuta al loro forte legame con il territorio, inteso come area geografica ed antropologica. A distinguere questi cibi, oltre all’area di provenienza, contribuiscono numerosi altri fattori, come le abilità tradizionali tramandate di generazione in generazione, che richiamando il passato e la memoria, garantiscono genuinità ed autenticità.

Il territorio dà una connotazione geografica al prodotto: i cibi tipici sono legati ad un determinato territorio, sono prodotti locali che riescono ad esprimerlo in modo autentico. I prodotti tipici contengono il loro territorio di origine con i suoi elementi materiali e non (storia, know how, tradizione, peculiarità e metodo).

I consumatori percepiscono la specificità dei cibi tipici dal loro gusto e dalle loro caratteristiche, particolari ed uniche.

Nel mercato globalizzato degli ultimi anni la richiesta di ciò che è locale è in costante aumento, soprattutto in fatto di cibo e bevande; vi è una riscoperta del locale, di ciò che è diverso dallo standard industriale. I prodotti tradizionali sono molto apprezzati da quel “target alternativo”, che ricerca qualcosa di diverso, di particolare, ricco di significati, nuovo e tradizionale al tempo stesso, con radici storiche ben consolidate.

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Suvereto ha tutte le carte in regola per poter accettare questo tipo di sfida; infatti si trova in un territorio rurale ed è ricco di produzioni locali di ottima qualità. I suoi prodotti tipici affondano le loro radici nel passato remoto: nel medioevo si hanno tracce della coltivazione di viti ed olivi e la produzione cerealicola caratterizzava il territorio già nel ‘500. Queste produzioni, che appartengono al presente di Suvereto, seguono metodi piuttosto tradizionali e, come tali, rispettosi della natura, garantendo qualità e genuinità.

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2.1 Storia

Suvereto è un piccolo comune, con un suggestivo centro storico medievale, agli estremi confini meridionali della provincia di Livorno.

Gode di un clima mite, di una particolare “bontà” delle acque, oltre che di un amabile paesaggio tra il mare e le colline metallifere.

Ha una superficie di 92,47 Km^2 ed una popolazione di poco superiore ai 3.000 abitanti, metà dei quali residenti nel capoluogo comunale ed i restanti sparsi nelle case di campagna o nei piccoli nuclei urbani di San Lorenzo, Montioni, Forni, Prata e Belvedere.

Tuttora si presenta come una tranquilla comunità rurale, dall’economia prevalentemente agricola.

Il centro storico si arrocca su due piccoli colli, ad est sulla sommità più alta vi è la Rocca medievale o Castello, ad ovest il Convento e la Chiesa di S. Francesco, sottostanti la piana del fiume Cornia, che si estende fino al mare.

Nel borgo è conservata quasi tutta l’architettura del ‘400, ‘500 e ‘600, le case hanno mantenuto intatte la loro linea geometrica e, in seguito a decenni di restauro, hanno assunto il color della pietra; le mura medievali costellate di torrioni e con due porte d’ingresso circondano e “proteggono” il centro storico.

La mitezza del clima, la fertilità della terra, la posizione geografica strategica e le risorse del sottosuolo hanno permesso insediamenti umani sin dai tempi antichi, come ben descrive il Falchi6 in “Trattamenti umani sulla storia della Maremma e specialmente di Campiglia Marittima”7.

“…fra le ricche e ubertose pendici del suolo maremmano, la vallata del Cornia è indubbiamente quella che fornì il primo alimento alla civiltà etrusca. Invero qual altra parte della Maremma riunisce tanta copia di ricchezza quante ne contiene in un cerchio molto

6 Isidoro Falchi medico e grande appassionato di archeologia 7 Stampato a Prato nel 1880

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18 ristretto quella storica valle? Senza parlare del suo temperato clima, della vicinanza del mare, della fertilità del terreno, prerogative comuni a tutta la Maremma Toscana; l’amenità dei colli, i ricchi filoni di ogni sorta di metalli e di marmi, la abbondanza di acque potabili, termali e sulfuree, sono doni che natura riunì nella sola vallata della Cornia. Niuma meraviglia dunque se questo luogo richiamò di preferenza l’attenzione dei primi abitatori della terra italica”

La prima menzione del castrum8 di Suvereto si ha in un documento del 973, ma il fatto che la Chiesa di S. Giusto fosse già rammentata nel 923 ci fa pensare comunque ad origini più remote, molto probabilmente nasce sui resti di un antico nucleo abitativo etrusco, ipotesi avvalorata dal ritrovamento di un disco di piombo iscritto con caratteri etruschi arcaici sulle pendici di Monte Pitti9.

In seguito al crollo dell’Impero romano, le invasioni barbariche e gli attacchi dei pirati saraceni costrinsero le popolazioni costiere a spostarsi verso l’interno, sono sorti in quel periodo i centri collinari come Suvereto, anche se impossibile risulta fissare una data precisa per la sua origine.

Il nome Suvereto deriva da “quercus suber” o sughero, qui chiamato comunemente anche suvero, che ricopriva i numerosi colli con folti boschi, prima di essere sostituito da rigogliosi uliveti. Da Suberetum o Subertum in epoca romana a Sughereto ed infine Suvereto. Nello stemma comunale troviamo un tronco di sughero ed un leone, che un tempo pare fosse rampante, quasi a testimoniare l’antica importanza di Suvereto.

È stato uno dei centri più importanti del primo Medioevo favorito, oltre che dalla sua posizione di prominenza, anche dalla sua ubicazione geografica tra il basso ed il medio corso del fiume Cornia.

I primi feudatari del castello di Suvereto pare siano stati gli Altaberti da cui derivano gli Aldobrandeschi, sappiamo che nel XI sec il castello era già signoreggiato da un certo Conte Rodolfo della famiglia Altaberti, come si può dedurre da un documento risalente al 12 maggio 1081.

8 Antico accampamento romano 9 Località tra Suvereto e Venturina

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Nel 1201 nasce ufficialmente il comune di Suvereto, primo comune libero della Maremma, con una certa autonomia economica ed amministrativa. La “Charta Libertatis” 10fu concessa

alla comunità da Ildebrando VIII, degli Aldobrandeschi e venne ricevuta da Baroncello “sindicus populi de Suvereto11”.

Nel 1237 aderisce alla Lega Ghibellina12, l’estensione del potere pisano è lento, ma costante e si concretizza verso la fine del XIII sec. È proprio nel periodo pisano che Suvereto ospitò il cadavere dell’Imperatore Arrigo VII, che da Buonconvento doveva essere trasportato a Pisa per la sepoltura.

Nonostante fosse parte della Repubblica di Pisa, Suvereto riuscì, comunque, a mantenere una certa autonomia e libertà d’azione.

Quando Gherardo Appiani, signore di Pisa, dopo aver ceduto la città ai Visconti13, si ritirò a Piombino Suvereto entrò a far parte della Signoria di Piombino, costituitasi nel 1399. In questo periodo, in quanto territorio di confine, fu terreno di assedi, saccheggi, oltre che passaggi militari, durante i contrasti tra la ghibellina Siena e la guelfa Firenze; emblematico è l’assedio di Baldacci d’Anghiari 14del 1440, che con “furto e rapina” prese la terra di

Suvereto, “preda” piuttosto facile e conveniente.

Nel Medioevo il paese era diviso in tre “quartieri” o terzierie, che prendevano il nome da altrettante chiese: San Niccolò, San Salvatore e San Martino.

Nel periodo rinascimentale Suvereto conobbe un ulteriore sviluppo: furono impiantate nuove ferriere sul Cornia, dando vita ad una zona industriale ai Forni.

Dalla prima metà del ‘500 anche Suvereto, come tutta la Maremma, fu colpito da un processo di spopolamento e di degrado ambientale.

10 Documento che concedeva autonomia civile ed economica agli abitanti del Comune 11 Sindaco del popolo di Suvereto

12 Associazione di città e comuni sostenitori dell’Imperatore, in opposizione ai Guelfi sostenitori, invece, del

Papa.

13 A Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano 14 Condottiero italiano

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Per cercare di contenere il problema dello spopolamento nel 1573 iniziarono i lavori di costruzione del villaggio di Belvedere, promossi da Jacopo VI15.

La popolazione, che aveva raggiunto quota 1000 abitanti a metà ‘400, era ora scesa a poche centinaia.

Ad inizio ‘800 Suvereto, in quanto parte dello Stato di Piombino, fu assegnato ad Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie del principe Baciocchi. Elisa costruì un villaggio termale e produttivo in mezzo ai boschi di Montioni.

Ancora ai primi dell’’800 il Granduca Leopoldo definì Suvereto, con le sue poche centinaia di abitanti, “il più povero dei paesi della Maremma”.

Nel 1815 divenne un paese della Toscana diventando parte del Granducato di Toscana guidato dai Lorena. In questo periodo si assistette a numerose iniziative di bonifica ed al rilanciò di attività agricole, che in un clima generale di ripresa economica, determinarono una nuova fase di sviluppo.

Si assiste così ad una ripresa demografica, nel 1850 si riuscì a superare quota 1000 abitanti. Si diffonde la mezzadria, nel territorio circostante aumentano i poderi16, all’interno delle

mura o immediatamente fuori, si tendeva a riempire ogni spazio vuoto con nuove abitazioni e le strade venivano lastricate e selciate, si intravedono i primi barlumi dell’industrializzazione.

Fino all’Unità di Italia Suvereto condivise le sorti con il Granducato di Toscana.

La crescita dell’economia locale, prevalentemente agricola e forestale, ha fatto sì che Suvereto diventasse un vivace comune in provincia di Pisa e dal 1925 di Livorno.

Nel 1901 si contano 3.300 abitanti e più di 4000 nel 1951.

15 Figlio di Jacopo V, succedete al padre nel 1545, fu nono di Signore di

Piombino, Scarlino, Populonia, Suvereto, Buriano (Castiglione della Pescaia), Badia al Fango e delle isole d'Elba, Montecristo e Pianosa.

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La II guerra mondiale e la successiva liberazione furono periodi tristi e ben presto si avviò l’opera di ricostruzione.

Negli anni del miracolo economico si assistette ad un nuovo declino demografico sulla scia dell’esodo rurale, col miraggio per molti di una vita più urbana e più comoda.

A fine anni ’60 e ’70 è iniziato il recupero delle tradizioni locali collegandosi al turismo ed a nuove forme di economia, centrate sulla ruralità e sugli aspetti ambientali; inoltre, attraverso feste e sagre paesane, si è cercato di ridar voce ad un’identità spezzata, al mondo rurale, che da sempre ha caratterizzato Suvereto.

Oggi la crisi del modello industriale e l’idea di un nuovo sviluppo rurale hanno rimesso al centro il territorio ed il patrimonio ambientale e culturale attraverso una riconquista del centro storico, dei prodotti del bosco e dell’agricoltura, della gastronomia tipica locale e delle tradizioni.

È iniziato un processo di riqualificazione territoriale volto a promuovere ed a sostenere l’intreccio tra la persistente agricoltura contadina e le architetture tecnologiche delle nuove cantine. Si è mantenuto comunque vivo il tessuto sociale, come testimoniano le tante associazioni di volontariato, ancora esistenti ed attive e le molte iniziative culturali, ricreative e sportive organizzate.

La popolazione è tornata lentamente a crescere.

Rossano Pazzagli, docente di Storia moderna e Storia del territorio e dell’Ambiente all’Università del Molise, nonché ex-sindaco di Suvereto (1995-2004), nel suo articolo “I volti di un territorio: declino e rinascita di una comunità maremmana”, suggerisce un “sentiero” di crescita e di sviluppo per il presente ed il futuro di Suvereto.

“Ora è il tempo delle specificità, delle differenze, di ridare spazio alla complessità del locale per sconfiggere la banalità del globale. Così anche l’eredità storica, il patrimonio culturale e ambientale, il paesaggio, le filiere corte dello scambio e del cibo, i prodotti della terra e del bosco sono tracce, direzioni verso le quali andare, sentieri sui quali una comunità antica può incontrare il futuro. Non è l’invito a coltivare un’antitesi tra locale, ma l’esortazione a stare da protagonisti nell’orizzonte più vasto, a tornare al paese, alla campagna, anche al campanile se vogliamo; ma non per starci sotto in rassegnata attesa, ma per salirci sopra e guardare lontano. È locale e non localismo.”

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Dalle parole dell’ex sindaco capiamo che per far “primeggiare” Suvereto ed il suo territorio è necessario riscoprire e riportare in auge il suo passato e le sue vocazioni, utili alla costruzione di un futuro migliore in cui natura e cultura, uomo ed ambiente convivono e collaborano, rendendo possibile un’agricoltura pulita, un turismo “saggio”, una buona gastronomia, il tutto in un paesaggio molto accogliente.

BELVEDERE

La costruzione di un villaggio sulla cima pianeggiante di Belvedere fu promossa e consentita da Jacopo VII17; divenne un rifugio dai pericoli della malaria nel periodo estivo, richiamò nuovi residenti dal parmense e dal modenese, ospitò agricoltori, boscaioli e carbonai.

MONTIONI

La piccola borgata di Montioni è ricordata per la prima volta nel 771 e nel 772 in un atto di donazione; l’etimologia ci riporta all’epoca romana: “Mons Juno” (Monte di Giuno). Nel 1805 fu assegnato alla sorella di Napoleone, Elisa Baciocchi Bonaparte, che lo rese un villaggio termale (Bagno Reale) e produttivo, vi risiedevano addetti alla miniera di alluminio, appena riaperta, agricoltori e carbonai.

SAN LORENZO

San Lorenzo nasce su di un colle tra il fiume Cornia ed il fosso di Ripopolo, oggi vi rimangono i resti di un antico castello medievale.

17 Nobile italiano; era principe di Piombino e del Sacro Romano Impero e Signore di Scarlino, Populonia,

Suvereto, Buriano, Vignale e Abbadia al Fango, Vignale e delle isole d'Elba, Montecristo, Pianosa, Cerboli e Palmaiola.

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2.2 Storia economica

Al momento della nascita del comune di Suvereto, ad un’aristocrazia prevalentemente di carattere militare, si affiancavano piccoli proprietari, contadini, artigiani e mercanti. La comunità era incentrata su attività silvo-pastorali, allevamento ovino e transumanza, attività prevalenti nell’alto Medioevo e nella prima parte dell’età moderna; la presenza artigianale era scarsa e quasi esclusivamente dedita alla concia delle pelli.

Nel duecento la società suveretana era particolarmente attiva ed economicamente prospera, questi sono gli “anni d’oro” della storia di Suvereto.

Poche sono le notizie su Suvereto prima del XVI sec.

“In questa nostra terra non è altra industria salvo che raccogliere il grano”, queste sono le parole usate da un consigliere comunale nell’ottobre del 1524 che ben descrivono la vocazioni agricola colturale del paese.

Come ci fa notare Giuliano Pinto18, le colture cerealicole, che si trovavano sul territorio pianeggiante, erano di tipo estensivo, come in tutto il resto della Maremma. La cerealicoltura si basava sull’alternanza grano-maggese e sull’uso del debbio19. Le terre da

seminare venivano scelte di anno in anno tenendo ben presente il carico demografico e l’andamento del raccolto degli anni precedenti. I campi seminati venivano protetti da siepi e recinti per impedirvi il transito di bestiame.

Vi erano quattro mulini da grano, uno al confine con Sassetta e due sulla Cornia, di proprietà di suveretani ed uno della comunità stessa; quattro sono anche i nominativi di mugnai che compaiono nella lista dei multati del 1284.

In prossimità del corso d’acqua, ancora oggi conosciuto come Fosso di Redigaffi, tra Sassetta e Gualdicciolo, era nata una vera e propria “Valle delle Mulina”, toponimo ricorrente nella documentazione del XVI sec.

18 Professore emerito di Storia Medievale all’Università di Firenze

19 Pratica di miglioramento dei terreni agrari, che consiste nel bruciare la biomassa presente sul terreno

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Tutto ciò non si può spiegare con la sola soddisfazione locale della richiesta di cereali panificabili macinati ed infatti Suvereto diventerà molto probabilmente il “granaio” dello Stato di Piombino.

Un’altra caratteristica produzione agricola dell’area suveretana era l’olivicoltura diffusa sulle colline, la “preparazione” dell’olio inizialmente avveniva dentro il paese, come testimoniano il Frantoio di S.Bartolomeo nella terziera di San Martino ed un verrocchio20 da olio in prossimità delle mura.

Data l’importanza di tale coltura, i suveretani, in una data non precisa, antecedente la metà del XVI sec, autorizzarono l’utilizzazione di alcuni terreni ricavati all’interno dei boschi comunitativi, che risultavano così chiusi e piantati ad olivi.

Per quanto riguarda la sua diffusione in età antica mancano fonti attendibili; per il Medioevo possiamo attingere dai fondi archivistici, per l’area suveretana sono particolarmente importanti i cartulari o archivi del monastero di San Quirico a Populonia e del Convento di San Francesco a Piombino.

Negli Statuti del 1729 vi erano norme sulla coltivazione dell’olio come la rubrica XVIII, che regolamenta la quota spettante al verrocchio21 per la molenda22, le modalità di conferimento del frantoio e lo smaltimento delle sanse23.

Per la diffusione e la localizzazione delle olivete ci sono utili i campioni dei beni dei numerosi enti religiosi presenti a Suvereto (chiese, altari, confraternite e compagnie laicali). Nell’inventario del 1660 della Cappella dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista troviamo indicate sei costie24 olivate sulle colline retrostanti il paese, nei pressi della Chiesa di San Martino. La Cappella possedeva anche un verrocchio in paese, nei pressi della Porticciola ed aveva diritti su un altro di proprietà della Cappella di San Bartolomeo. L’altare della Santissima Annunziata aveva una costia a Belvedere, che concedeva in livello, mentre provvedeva in proprio alla vendita dell’olio.

20 Tipo di frantoio per olive 21 Tipo di frantoio

22 Prezzo da pagare, in denaro o in natura, per la frangitura delle olive 23 Residuo dell’estrazione dell’olio dalle olive

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La confraternita dedicata al SS.Sacramento, la più grande ed importante in Suvereto, nel 1779, dichiarava di possedere un consistente numero di costie olivate sulle colline a nord-est del paese. La compagnia aveva una particolare attenzione alle migliorie degli affittuari ad esempio si poteva avere l’assegnazione di una costia per dieci anni al Pisciarello, a condizione di riempirla di olivi pena la decadenza dell’affitto.

Dal campione dei beni del 1592 del convento di San Francesco, risultava l’esistenza di undici costie di olivi ed olivastri a Poggio Cerro, alle pendici di Belvedere e sulle colline che da Belvedere degradano verso il Falcone.

La compagnia della SS. Annunziata, nel 1663, dichiarava tre costie olivate nelle Insegne e verso Belvedere.

Nel Medioevo comunque la diffusione della coltura dell’olio è ancora piuttosto modesta, la sua diffusione massiccia è iniziata nel XVI sec.

Da una serie di documenti prodotta dal Monastero di san Quirico possiamo ipotizzare una certa presenza della vite in zona suveretana in età medievale, infatti ben ventisei del totale degli atti trascritti riguardano donazioni, acquisti e concessioni di terreni vitati, la maggior parte situati nel distretto del Cornino, una zona compresa tra Suvereto, Campiglia Marittima e Vignale Riotorto.

La concentrazione della vite in aree più vocate alla produzione, come i centri curtensi, con una certa organizzazione, garantivano, oltre al fabbisogno dei proprietari, una discreta quota per la commercializzazione su medio-lunghe distanze, sulla quale però non abbiamo “notizie ufficiali” per quanto riguarda il Medioevo.

L’unico riferimento è relativo a Suvereto: nel 1392 un mercante suveretano, Morovello, a largo di Monte Cristo fu assalito da un battello pirata e gli furono rubate quaranta botti (non sappiamo se piene).

Nelle descrizioni della piana di Suvereto di fine XVIII sec la vite pare aver lasciato il posto a pascoli ed olivete.

La produzione di qualità inizia nel XIX sec con Elisa Baciocchi Buonaparte, sorella di Napoleone, dal 1805 alla guida del Principato di Piombino, che a Montioni impiantò un nuovo vigneto all’uso di Bordeaux per un’estensione di circa cinque ettari.

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Dal Medioevo una notevole fonte di entrata per il bilancio del paese è stata la pastorizia transumante, che creò un certo “legame” tra Suvereto ed alcuni centri villaggi del Parmense e della Garfagnana.

Accanto alla pastorizia e all’allevamento, era nata, per opera dei suveretani, l’attività di conciatura delle pelli, la sua importanza è rilevabile anche dalla toponomastica, la Boldrona, luogo vicinissimo alla porta del centro ed ad una fonte di acqua, deve il suo nome al Boldrone, termine usato per indicare il vello o pelle di pecora e montone, con tutta la lana.

La presenza del bosco e la disponibilità di legna da ardere hanno portato allo sviluppo dell’attività di trasformazione del ferro; anche in questo caso troviamo richiami nella toponomastica, in prossimità del fiume, vi è tutt’oggi un podere denominato Piaggia Lombarda, sovrastato dal vicino rilievo di Poggio al Forno.

Farine, metalli, pelli conciate e lana molto probabilmente erano destinati ad un commercio di scala maggiore rispetto al limitato volume della domanda della popolazione, che visti gli artigiani e le botteghe del centro, si pensa ancora fortemente rurale.

Si ha notizia dell’esistenza all’epoca di almeno un panificio e di botteghe non ben specificate lungo la strada principale del paese.

Suvereto era un centro deputato essenzialmente allo scambio commerciale con l’estero, come testimonia l’elevato numero di notai.

Era un centro già molto aperto verso l’esterno e l’”estraneo”, si faceva di tutto per attrarvi uomini.

L’ “occasione più mondana” era la Fiera di San Francesco, un mercato generale che, come ci ricordano gli Statuti del 1729, aveva inizio il primo di ottobre, durava una decina di giorni ed a cui poteva prender parte liberamente qualunque persona e mercante con le proprie merci senza pagare alcuna gabella25.

25 Termine usato per indicare varie forme di contribuzione, imposte dirette o indirette, tasse, o anche

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La crisi che colpì nel tardo medioevo la Toscana Meridionale rese la Maremma una terra a bassa densità di popolazione, con una maglia insediativa rada e costituita quasi esclusivamente da castelli e villaggi con pochi centri urbani, nel paesaggio agrario erano ormai poche le zone coltivate in rapporto alle aree boschive e paludose.

L’arretramento agricolo della zona portò allo sviluppo della “vocazione” silvo-pastorale, numerosi ed abbondanti furono i flussi migratori legati alla transumanza.

La mancanza di manodopera agricola e artigianale richiamò emigranti, attirati dai provvedimenti favorevoli in materia fiscale, che avrebbero dovuto impedire l’esodo contadino, l’abbandono dei villaggi, stimolare la messa a coltura di nuove terre ed il loro ripopolamento.

Emblematico è il caso di Suvereto, colpito da un calo demografico rispetto all’inizio del secolo, ma non totalmente spopolato ed abbandonato; nel 1570 una lettera del Luogotenente generale a Iacopo VI parla di 507 bocche da sfamare.

Con il decreto dei “sessanta scudi” Iacopo VI concedette ai forestieri le stesse immunità fiscali decennali dello Stato di Piombino, ma innalzando a sessanta scudi il valore dei beni immobili che dovevano essere acquistati per stabilirsi a Suvereto, attuò fino da subito una certa selezione economica.

A novembre del 1565 Jacopo VII decise di fondare un villaggio ex novo sulla collina di Belvedere, a chi decideva di trasferircisi veniva concessa una totale immunità fiscale per cinque anni, la possibilità di svincolare la metà dei raccolti dalla legislazione annonaria, che ne vietava l’esportazione fuori dai confini dello stato per dieci anni e gli veniva, inoltre, donato un appezzamento di terra da bonificare e coltivare, piantandovi vigneti e presumibilmente ulivi ed alberi da frutto. Si contava sull’arrivo di piccoli proprietari contadini, ma si cercava di attirare anche commercianti, commercianti di bestiame, artigiani ed allevatori in modo da ottenere una popolazione occupata in attività economiche varie, si consentiva così agli individui, non contadini di mestiere, di poter usufruire dei privilegi del decreto dei “sessanta scudi”.

Tra i primi quindici assegnatari, tra maggio del 1575 e marzo 1576, come si rileva dall’elenco, i due terzi erano suveretani con intenti speculativi, tutti gli “stranieri” provenivano, invece, da Bosco, un piccolo villaggio dell’Appenino nel contado di Parma; pochi mesi dopo si aggiunsero garfagnini della Valle di Soraggio.

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Oltre a favorire lo sviluppo demografico si cercava una certa rivitalizzazione economica dell’intero territorio.

La scelta di attuare queste particolari “politiche” proprio a Suvereto è da attribuire alla sua posizione geografica (sul confine con lo stato mediceo, punto di convergenza delle comunicazioni tra Piombino, Volterra e le colline metallifere), alle sue condizioni ambientali ed alle potenzialità del territorio e della comunità.

Nel libro di Targioni Tozzetti 26“Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana” un viaggiatore toscano del secondo ‘700 descrive le difficili condizioni del momento: Suvereto, era una volta assai popolata ed aveva d’intorno una campagna benissimo coltivata, particolarmente a uliveti da quali i paesani ricavano gran copia d’olio […]. Presentemente la campagna è deserta, piena d’ulivi incolti ed inselvatichiti e l’aria è assai cattiva.

Dopo anni di occupazione straniera, la principessa Eleonora Buoncompagni Ludovisi, rientrò in possesso dello Stato di Piombino, al momento in gravi condizioni, come conferma l’inchiesta del 1739 promossa dal governatore generale e dalla quale emerse un certo degrado ambientale, un forte spopolamento ed un abbandono delle culture.

Nel territorio di Suvereto il grano rendeva ancora piuttosto bene, permetteva di destinare un quarto della produzione alla commercializzazione, le colture specializzate sulle colline erano state parzialmente abbandonate, infatti scarsa era la produzione di olio e vino, insufficiente perfino a soddisfare il fabbisogno annuale locale.

La principessa cercò provvedimenti piuttosto rapidi per rimettere a coltura i terreni abbandonati dello Stato ed il 3 ottobre 1739, promulgò un decreto che permetteva immunità fiscali per otto anni, compresa la libera esportazione di prodotti agricoli, prestiti di grano per semente a chiunque volesse coltivare le terre ormai incolte ed” improduttive”.

L’effetto non fu immediato, i primi segnali di ripresa si registrarono soltanto nella seconda metà del secolo.

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Nel “Giornale Agrario Toscano”, IX, del 1835, a proposito di una gita agraria in Maremma si descrive la piana di Suvereto, coltivata a viti e cereali, come “annunciatrice” di fertilità. Nel vino, giudicato dai “viaggiatori” di buona qualità, si riscontra una certa “gagliardia”, tipica dei vini vicino al mare. Gli olivi, “superstiti” al gelo che nel 1709 colpì gran parte della Toscana, sono descritti in possesso di una vegetazione portentosa. Il bestiame è apparso di buona qualità e ben tenuto.

Il primo censimento sistematico di popolazione del Granducato di Toscana, commissionato ai parroci, nell’aprile del 1841 vede la popolazione di Suvereto in fase di incremento, iniziato nella seconda metà del XVIII sec, momentaneamente arrestato se non invertita la tendenza nel periodo napoleonico, in ripresa nei primi decenni del XIX sec. Per quanto riguarda l’articolazione socio-professionale della popolazione del paese composta da 471 uomini e 264 donne, non tenendo conto del lavoro sommerso di molte “donne di casa”, coloro che non svolgevano attività agricole, artigiani e piccoli commercianti, ammontavano al 10,8% del totale.

Le botteghe erano poche, una decina di donne erano occupate, come sarte e tessitrici, nel settore tessile non destinato esclusivamente ad uso domestico.

Nel 1841 si registrava una sola fornace attiva, ma la Statistica industriale del Granducato, compilata nel 1850, riporta la presenza di tre fornaci da materiali, quattro officine per la lavorazione dei metalli, due di legnami, una tintoria e due telai per il lino e la canapa. L’88% della popolazione era occupato in agricoltura; la proprietà delle terre era ancora molto concentrata, la mezzadria non era ancora molto diffusa, si trattava di un’agricoltura ancora piuttosto arretrata, vi era un 13% di terraticanti27, quasi la metà della popolazione (47%) impegnata in questo settore lavorava a giornata.

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2.3 Territorio e produzioni agro-alimentari

Il “terroir” di Suvereto, inteso come insieme dei suoi caratteri identificativi, che vanno dalla morfologia al clima, alla geologia ed ai fattori biologici ed antropologici, sembra essere piuttosto vocato a produzioni di qualità.

Del resto Vittorio Moretti, imprenditore di successo, patron di Bellavista e produttore particolarmente attento al territorio, che considera la chiave del successo del vino e del suo riconoscimento nel mondo, ha scelto Suvereto, dove, nei primi anni duemila, ha fatto un grosso investimento costruendo la cantina Petra.

Il vino, tuttavia, è solo una delle tante produzioni di qualità che riguardano Suvereto. L’agricoltura segue, perlopiù, ancora gli antichi metodi tradizionali ed è spesso biologica, anche se non sempre certificata. Ci sono, addirittura, aziende agricole biodinamiche; le colture sono piuttosto varie, all’olivo ed alla vite si affiancano grani, alberi da frutto ed ortaggi.

Nelle specie coltivate si ricerca un’origine locale ed una certa “adattabilità” al territorio; sempre più spesso, si vanno a ricercare le “antiche coltivazioni tipiche” del territorio. Si cerca, inoltre, di rispettare il più possibile i tempi della natura stessa, senza stressare il terreno.

Un’agricoltura così condotta, in un’ottica di qualità e sostenibilità, permette di limitare il suo impatto ambientale e tutela una certa diversità paesaggistica.

I prodotti ottenuti sono di qualità indiscussa: l’olio extravergine d’oliva, spesso può fregiarsi della certificazione IGP Toscano; i vini sono per la maggior parte DOP ed IGP; i grani sono di specie antiche e numerose sono le produzioni biologiche.

Queste certificazioni testimoniano la qualità, oltre a garantire i consumatori sull’origine ed i processi di lavorazione.

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2.3.1 Qualità e territorio

La ricchezza del patrimonio enogastronomico italiano è nota ai consumatori di tutto il mondo, il paese del “buongusto” detiene il primato di mondiale per prodotti certificati (818 tra IGP e DOP).

Le certificazioni, oltre a garantire una certa qualità dei prodotto, con i loro disciplinari, permettono di valorizzare e conservare i legami che le “tipicità” hanno con i loro territori di produzione e con l’identità, la cultura e le tradizioni dei loro abitanti.

Le denominazioni sono certificazioni di qualità riconosciute agli alimenti e preparazioni a livello di Unione Europea, vengono rilasciate da enti indipendenti e appositamente incaricati dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali; sono disciplinate a livello comunitario dal 1992, con il Regolamento (CEE) n.2081/92 sulle denominazioni d’origine e sulle indicazioni geografiche ed il Regolamento(CEE) n.2082/92 sulle specialità tradizionali. Oggi entrambi sostituiti dal Regolamento (CE) n.510/2006 e dal Regolamento (CE) n.509/2006, riformati nel 2012 con il Reg. 1151.

La disciplina europea era nata per introdurre un regime comunitario di “protezione” verso i prodotti agricoli di qualità; doveva garantire uguali condizioni di concorrenza tra i produttori dei paesi membri e tutelare il consumatore, riportando in etichetta informazioni chiare e sintetiche sull’origine del prodotto.

La sigla S.T.G (Specialità Tradizionale Garantita) indica alimenti legati per tradizione ad una zona, ma non necessariamente prodotti in tale zona, è sufficiente che tradizionali siano le materie prime o la composizione e/o i metodi di produzione o trasformazione; è nata per aiutare i produttori di prodotti tradizionali a comunicare ai consumatori le proprietà che conferiscono valore aggiunto.

Per poter utilizzare la dizione I.G.P (Indicazione Geografica Protetta) almeno una fase del processo produttivo deve avvenire nell’area descritta dal disciplinare. Nei prodotti IGP una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica devono essere strettamente riconducibili alla loro origine geografica. Questi prodotti sono designati con il nome della regione o del luogo di cui sono originari.

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La D.O.P (Denominazione Origine Protetta) richiede, invece, che tutto il processo produttivo avvenga in un’area geografica ben delimitata, garantendo così un maggior livello di tipicità ai prodotti. Le qualità particolari del prodotto devono essere legate principalmente o esclusivamente al suo ambiente geografico.

Per quanto riguarda il vino la denominazione D.O.P comprende sia i vini D.O.C (Denominazione di Origine Controllata) che D.O.C.G (Denominazione di Origine Controllata e Garantita), mentre la denominazione europea I.G.P è “tradotta” in I.G.T (Indicazione Geografica Territoriale).

Sull’etichette dei prodotti IGP e DOP accanto al nome registrato vi deve essere la dicitura Indicazione Geografica Protetta/Denominazione di Origine Protetta o il rispettivo acronimo; inoltre, per un’identificazione immediata, è obbligatoria la presenza del relativo logo28.

I prodotti IGP e DOP sono sottoposti a controlli descritti e cadenzati in un apposito Piano di Controllo definito da un Organismo di Controllo, obbligatorio, appositamente incaricato alla verifica di conformità del prodotto certificato rispetto al disciplinare. A sua volta l'attività dell'Organismo di Controllo è controllata dall'Ispettorato Centrale della tutela della qualità e repressione delle frodi in accordo con il Servizio Fitosanitario Regionale e di Vigilanza e Controllo Agroforestale.

Ad indicare la massima qualità dell’olio contribuisce la dizione “Olio Extravergine d’Oliva” (o olio EVO), utilizzabile ogni qualvolta il livello di acidità sia inferiore o uguale allo 0,8%, l’estrazione sia stata fatta a freddo (ad una temperatura controllata inferiore a 28°C) e con metodi meccanici o processi fisici, in condizioni che non ne causano alterazioni; inoltre il numero di perossidi, espressione della tendenza ad irrancidire, non deve essere più di 20 per chilogrammo di olio. Oltre a superare il test chimico, l’olio extravergine di oliva, per essere definito tale, deve rispondere positivamente all’esame organolettico. Dai giudizi espressi nel panel test, composto da un gruppo di assaggiatori addestrati e qualificati, la mediana dei

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difetti deve risultare pari a zero, mentre quella del fruttato maggiore di zero; gli assaggiatori infatti verificano la presenza e l’intensità di particolari note aromatiche, gustative e di eventuali difetti.

Nel 2016 il giro d’affari delle DOP e delle IGP è stato di 14,8 miliardi € (+ 6,2% sul 2015), andando così ad assumere un peso pari all’11% dell’intera industria agroalimentare. L’export ha “smosso” 8,4 miliardi di € (+5,8% sul 2015), 2% dell’intero export agroalimentare.

La “qualità certificata” a fine 2016 riguardava 295 prodotti del comparto cibo e 523 per il vino.

La Toscana è in prima posizione (insieme al Veneto) per l’enogastronomia di qualità, in fatto di cibo ha 2 STG, 15 IGP e 16 DOP; nei vini gli IGP sono 6 ed i DOP 52. Considerando sia il comparto food che wine, 89 sono in totale i prodotti DOP ed IGP toscani.

Il valore alla produzione di cibo IGP e DOP nel 2016 ha fatto registrare una crescita del 3,3% rispetto all’anno precedente, con un valore di 6,6 miliardi €; l’export, in notevole crescita negli ultimi dieci anni (+ 262% dal 2006), ha riguardato 3,4 miliardi di € (+ 4,4% sul 2015). I maggiori mercati sono la Germania, gli USA, la Francia ed il Regno Unito. L’olio d’oliva, in controtendenza con l’andamento della maggior parte delle altre categorie alimentari, ha riportato un calo quantitativo dell’1,7% nella produzione certificata rispetto al 2015; nel 2016 è rimasta sotto le 10 mila tonnellate. Gli oli extravergine DOP ed IGP, nel 2016, vantavano un valore al consumo di 118 milioni di €. La produzione di olio certificato in Italia non supera il 2-3% della totale in quantità ed arriva al massimo ad un 6% in valore. Sulle Indicazioni Geografiche nazionali il peso economico coperto dagli Olio di Oliva IGP e DOP si attesta sui 69 milioni di € (-2,2% sul 2015), andando così a ricoprire solo 1% del valore complessivo.

Diverso è il trend dell’Olio d’oliva se consideriamo il valore al consumo nel 2016 dove si registra un aumento del 14,8% sull’anno precedente. In crescita sono pure i valori del consumo (+15% sul 2015) e dell’export (+ 4% sul 2015).

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Gli oli con riconoscimenti di qualità sono 46: 4 IGP e 42 DOP, questi ricoprono poco più del 2% del totale prodotto dal settore per volumi; nel 2016 le qualità certificate hanno riguardato un po’ meno di 10 mila tonnellate (-1,7% rispetto al 2015).

Toscana IGP, Terra di Bari DOP e Val di Mazara DOP arrivano a coprire il 66% del totale della quantità certificata, il 58% del valore alla produzione, al consumo ed, addirittura, l’80% dell’export per gli oli d’oliva IGP e DOP.

I migliori clienti per l’olio “certificato”, al momento, sono gli Stati Uniti, la Svizzera ed il Giappone; tra i paesi comunitari la Germania, il Regno Unito e la Francia.

Per quanto concerne i vini, nel 2016, 523 hanno potuto fregiarsi della DOP e 526 dell’IGP; la superficie da loro occupata è stata di circa 50 mila ettari e la loro produzione, pari a quasi 25 milioni di ettolitri (10,4 milioni di ettolitri IGP e 14,5 milioni di ettolitri DOP), ha rappresentato all’incirca il 50% di quella nazionale.

Più della metà (57%) della produzione di vino DOP italiano è concentrato in tre regioni nell’ordine Veneto, Piemonte e Toscana. Le prime 10 singole DOP rappresentano il 53% della produzione totale a volume ed il 57% a valore; le prime 10 IGP arrivano a coprire oltre l’80% della produzione totale sia a volume che a valore.

La produzione di vini IGP e DOP è stata stimata, nel 2016, pari a circa 3 miliardi di € per lo sfuso e di poco superiore agli 8 miliardi di € per l’imbottigliato; il valore dell’export si pensa aggirarsi sui 5 miliardi (+ 6,2% sul 2015) su un totale di 5,6 miliardi dell’intero settore; il vino di “qualità” raggiunge il 71% del valore dell’export di vino in volume ed l’88% in valore. I vini DOP sembrano essere particolarmente “adatti” all’export dato che le loro esportazioni hanno una crescita superiore a quella del settore nel suo complesso (dal 2010 +60% export DOP, + 40% export vino italiano). Per la DOP ad essere preferiti sembrano essere i rossi (63% volume e 71% valore del valore complessivo dell’export italiano per i vini DOP), viceversa, negli IGP oltre la metà dei volumi dell’export ha riguardato i bianchi.

La vendita di prodotti di qualità nella GDO, che copre il 52% del mercato, per il 2016 ha avuto una crescita del 5,6% in valore sull’anno precedente.

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Per l’Olio d’oliva oltre il 50% delle vendite avviene nella GDO, ma interessante è il dato relativo alla vendita diretta dove si registra un 13% delle vendite. Nel 2016 le vendite di olio IGP e DOP hanno avuto una crescita sia in volume (+ 8,2% sul 2015) che in valore (+9,7%). Gli oli a denominazione rappresentano una “nicchia”, con la loro quota di mercato ancora al 2% in volume ed al 4% in valore.

Situazione assai diversa è quella del vino, gli IGP ed i DOP hanno raggiunto un’incidenza sulle vendite del 56,6% in volume e del 75,7% in valore. I quantitativi complessivi di vendita sono rimasti piuttosto stabili, al calo di vendite di IGP si è contrapposto un incremento per le DOP. I recentissimi dati Nielsen29 sul primo semestre dell’anno sui volumi di vendita documentano una crescita del 5% della quantità venduta di vini con etichetta certificata rispetto allo stesso periodo di un anno fa, a fronte di un calo del 3% per i vini comuni. I consumatori pare abbiamo ormai sviluppato una certa sensibilità verso la qualità: 85,5% degli intervistati per il Rapporto Coop del 2017 ha dichiarato di considerare le certificazioni al momento della decisione d’acquisto.

29 Azienda globale di misurazione ed analisi dati, che fornisce una panoramica completa ed affidabile sul

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2.3.2 Biologico

La nascita dell’agricoltura biologica è avvenuta nei primi del ‘900, quando Albert Howard, botanico britannico, elaborò le tecniche di compostazione per la concimazione organica in agricoltura. Poco dopo, lo svizzero Hans Muller creò un protocollo da utilizzare per un’agricoltura organica biologica.

IFOAM (International Federation of Organic Agricolture Moviments), organizzazione no profit nata nel 1972, si occupa degli standard internazionali: norme, aspetti tecnici e principi che guidano l’applicazione delle tecniche. A livello europeo il compito di definire e disciplinare l’agricoltura biologica è lasciato al Regolamento CEE n 2092 del ’91 (“Metodo di produzione biologico di prodotti agricoli ed indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari”) ed alle sue successive modifiche. Questo si occupa anche di normalizzare in modo rigoroso tutti i processi di trasformazione, imballaggio, trasporto e commercializzazione degli alimenti biologici al fine di mantenerne l’integrità biologica e le qualità essenziali.

La produzione, per essere definita biologica, deve avvenire necessariamente senza l’uso di prodotti chimici e di sintesi come fitofarmaci, fertilizzanti, diserbanti ed antibiotici, l’utilizzo di organismi geneticamente modificati (OGM) e/o loro derivati. Vietato è anche l’utilizzo di additivi e di ausiliari di fabbricazione, a meno che non siano tra quelli espressamente autorizzati da un’apposita lista dell’Unione Europea (per esempio ossigeno, azoto, pectina, farina di semi di carrube, acqua, sale, alcool). Inoltre i prodotti ed i loro ingredienti non possono essere sottoposti a trattamenti con radiazioni per aumentarne la conservabilità.

Biologico vuol dire anche cercare di aumentare, o quantomeno mantenere, la fertilità del terreno nel tempo.

I prodotti biologici devono sottostare a norme specifiche per l’etichettatura.

Sia l’ispezione iniziale che i successivi controlli periodici vengono fatti da un ente terzo, indipendente, spesso indicato con la sigla OdC (Organismo di Controllo), riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Gli enti autorizzati verificano che tutte le fasi di produzione avvengano nel rispetto delle regole stabilite e sottoscritte.

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I dati dell’IFOAM vedevano nel 2006 in Europa 5,8 milioni di superficie agricola utilizzata (SAU) destinata a biologico (il 3,4% della totale) e 140.000 aziende impegnate in questo tipo di agricoltura, di cui oltre un terzo in Italia.

Della SAU totale l’olivicoltura biologica rappresenta il 9% e la viticoltura il 3%.

In Toscana il numero di iscritti all’Albo del Biologico è in costante crescita, dai 430 del 1994 a fine 2005 erano diventati 2960. La produzione biologica nel 2006 occupava già 101.239 ettari, quasi il 13% della SUA totale; la coltivazione biologica era per un 10,2% olivicola e per un 5,7% viticola.

Il biologico è diventato ormai parte integrante del mercato europeo, in Italia i consumatori sembrano essere i più sensibili al biologico, il 40% dichiara di preferirlo al momento dell’acquisto; in Francia questi sono il 39% ed il 38% in Germania.

Il giro d’affari del biologico nei primi mesi del 2017 ha coinvolto un milione e mezzo di €.

VINO

L’Italia, con i suoi 83 mila ettari di viti coltivati con metodo biologico, detiene il primato mondiale per incidenza di superficie vitata biologica.

I dati presentati al Sana 2017(Salone Internazionale del biologico e del naturale) dall’osservatorio del vino e da ISMEA30 mostrano una crescita esponenziale delle vendite

di vino biologico nel 2016, in Italia sono aumentate del 34% nel corso dei dodici mesi, facendo registrate un reddito pari a 275 milioni di €.

Le esportazioni sono cresciuta addirittura del 40% ed hanno così raggiunto 192 milioni di €; l’Unione Europea rappresenta la principale destinazione (66% a valore), la Germania è il principale mercato per i vini italiani bio (33% del fatturato estero realizzato nel 2016), seguita dagli Stati Uniti (12%).

Le vendite di vino biologico nel 2016 della sola GDO, canale di acquisto preferito dal 33% degli user, hanno coinvolto 11 milioni mezzo di €, facendo registrare una crescita del 51% sull’anno precedente.

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Il vino bio preferito al momento è rosso (57% delle vendite di vino bio, + 43% sul 2015), anche se i bianchi crescono in maniera più significativa (+ 93% rispetto al 2015).

Nell’ultimo anno il 25% delle vendite di vino attraverso il canale della GDO ha riguardato proprio il biologico.

OLIO

La superficie biologica ad olivo è circa il 12% della totale italiana, il 21% dell’intera superficie olivicola italiana. La Toscana è al quarto posto in Italia, con il suo 7%, per superficie biologica ad olivo.

Riferimenti

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