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Il volontariato di protezione civile come indice per misurare la resilienza di una comunità. Un caso studio: la Regione Emilia-Romagna

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Giurisprudenza

Corso di laurea magistrale in Scienze per la Pace:

cooperazione internazionale, mediazione e trasformazione dei conflitti

Tesi di Laurea

Il volontariato di protezione civile come indice per

misurare la resilienza di una comunità.

Un caso studio: La regione Emilia-Romagna

Relatori:

Chiar.mo Prof Andrea PAOLINELLI

Chiar.mo Prof Andrea SALVINI

Correlatore: Chiar.mo Prof Elvezio GALANTI

Controrelatore: Chiar.mo Prof Emilio ARDOVINO

Candidato: Giada Stefani

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“(…) Si abita un suolo chiamato per errore terraferma. È terra scossa da singhiozzi abissali. (…) Si abita una terra precaria, ogni generazione cresce ascoltando storie di terremoti. Così, con le narrazioni, i vivi smaltiscono le perdite. Le macerie si spostano, si abita di nuovo lentamente, ma al loro posto restano le voci, le parole degli scaraventati all’aperto, a tetti scoperchiati. (…) Arriva cieco di notte il terremoto e sconvolge i piccoli paesi. Ma i mezzi di soccorso sono di stanza nei grandi centri. Fosse un’invasione, quale generale accentrerebbe le sue forze lontano dai confini? Per il protettor civile questo ragionamento non vale. Ogni volta deve spostare le sue truppe con lento riflesso di reazione. Ai naufraghi nelle prime ore serve il conforto al cuore di un qualunque segnale di pubblica prontezza. Invece arriva prima un parente, un volontario, un giornalista. (…)” Erri de Luca

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INTRODUZIONE ... 1

CAPITOLO 1 - LE COMUNITÀ RESILIENTI ... 3

1.1 DALLA DEFINIZIONE DI RESILIENZA ALLA NASCITA DELLE COMUNITÀ RESILIENTI ATTRAVERSO STUDI E PROGETTI. ... 3

1.2 COME NASCONO LE COMUNITÀ E LA LORO REAZIONE POST DISASTRO ... 16

1.3 DUE APPROCCI A CONFRONTO: CAPACITY BUILDING E COMUNITÀ RESILIENTI ... 21

1.4 DUE CAPACITÀ A CONFRONTO: EMPOWERMENT E COMUNITÀ RESILIENTI ... 22

1.5 VALUTARE LE STRATEGIE DI RESILIENZA E COME CALCOLARLA ... 24

CAPITOLO 2 - STORIA, TERRITORIO ITALIANO, EVENTI ... 33

2.1 RISCHIO: DEFINIZIONE E CONCETTI BASE ... 33

2.2 I RISCHI SUL TERRITORIO ITALIANO ... 34

2.2.1 Rischio Sismico ... 35

2.2.2 Rischio Vulcanico ... 39

2.2.3 Rischio Meteo-Idrogeologico e idraulico ... 41

2.2.4 Rischio Maremoto ... 43 2.2.5 Rischio Incendi ... 44 2.2.6 Rischio Sanitario ... 44 2.2.7 Rischio Nucleare ... 45 2.2.8 Rischio Ambientale ... 46 2.2.9 Rischio Industriale ... 47

2.3 STORIA DEGLI EVENTI CALAMITOSI IN ITALIA ... 47

2.4 DUE ESPERIENZE A CONFRONTO: ALLUVIONE DEL POLESINE DEL 1951- ALLUVIONE DI FIRENZE DEL 1966 ... 50

2.4.1 Polesine: 14 Novembre 1951 ... 50

2.4.2 Firenze: 3 Novembre 1966 ... 51

2.5 IL SISTEMA NAZIONALE DI PROTEZIONE CIVILE ... 53

2.5.1 Dal Medioevo all’Unità d’Italia ... 53

2.5.2 Dall’inizio del ‘900 all’alluvione di Firenze ... 55

2.5.3 Dal 1970 al 1992 ... 56

2.5.4 Dal 1992 ad oggi ... 59

2.6 ANALISI CONCLUSIVA ... 63

CAPITOLO 3 - IL VOLONTARIATO DI PROTEZIONE CIVILE COME INDICE PER MISURARE LA RESILIENZA DI COMUNITÀ ... 69

3.1 ORGANIZZAZIONE DEL VOLONTARIATO IN EMILIA-ROMAGNA ... 69

3.1.1 Elenco Regionale Volontariato protezione civile ... 70

3.2 QUESTIONARIO ... 72

3.2.1 Diffusione del questionario ... 72

3.2.2 Organizzazione del questionario ... 75

CAPITOLO 4 - ANALISI DATI QUESTIONARIO ... 93

4.1 ANALISI DELLE DIFFERENTI TIPOLOGIE DI VOLONTARIATO DI PROTEZIONE CIVILE ... 95

4.1.1 Il volontariato di protezione civile nelle diverse fasce di età. ... 96

4.1.2 Il volontario di protezione civile analisi di genere ... 96

4.1.3 Il volontariato di protezione civile nelle diverse tipologie di organizzazioni ... 97

4.1.4 Il volontariato di protezione civile e le ore mensili di attività svolte all’interno della propria Organizzazione di protezione civile ... 100

4.1.5 Il volontariato di protezione civile e gli anni di iscrizione ad un’Organizzazione di volontariato di protezione civile ... 101

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4.1.6 Il volontariato nelle diverse province della regione Emilia-Romagna ... 102

4.1.7 Analisi Conclusiva ... 103

4.2 ANALISI DELLE DIFFERENTI MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE AD ATTIVITÀ DI EMERGENZA DA PARTE DEI VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE ... 104

4.2.1 Partecipazione dei volontari di protezione civile ad attività di emergenza ... 104

4.2.2 Partecipazione ad emergenze delle diverse tipologie di volontari di protezione civile ... 105

4.2.3 Partecipazione ad attività di emergenza e conoscenza da parte dei volontari di protezione civile delle persone fragili all’interno del proprio comune ... 105

4.2.4 Partecipazione ad attività di emergenza nei diversi territori provinciali della regione Emilia-Romagna 106 4.2.5 Analisi conclusiva ... 107

4.3 ANALISI DEI VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE CHE SVOLGONO ATTIVITÀ DI MONITORAGGIO E PREVENZIONE ... 107

4.3.1 Rapporto nei volontari di protezione civile delle attività di monitoraggio con quelle di prevenzione. 108 4.3.2 Attività di monitoraggio e prevenzione nei diversi tipi di Organizzazione alla quale sono iscritti i volontari di protezione civile ... 108

4.3.3 Confronto tra luoghi dove hanno partecipato ad attività di emergenza i volontari di protezione civile e la loro partecipazione ad attività di monitoraggio e prevenzione ... 109

4.3.4 I volontari di protezione civile che partecipano ad attività di monitoraggio e prevenzione e la conoscenza delle buone pratiche da tenere in caso di evento ... 109

4.3.5 Partecipazione ad attività di monitoraggio e prevenzione analizzate nelle province della regione Emilia-Romagna ... 110

4.3.6 Quali sono i volontari di protezione civile che partecipano alle campagne di prevenzione e alle attività nelle scuole ... 111

4.3.7 I volontari che svolgono attività di monitoraggio e prevenzione hanno migliorato il rapporto con le istituzioni ... 111

4.3.8 Analisi conclusiva ... 112

4.4 ANALISI DELLA CONOSCENZA E PARTECIPAZIONE DA PARTE DEI VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE ALLA REALIZZAZIONE DEI PIANI DI EMERGENZA COMUNALI ... 113

4.4.1 Conoscenza del piano d’emergenza comunale da parte dei volontari di protezione civile ... 113

4.4.2 Conoscenza del piano d’emergenza comunale tra i volontari di protezione civile suddivisi nelle province della regione Emilia Romagna ... 114

4.4.3 Conoscenza del piano d’emergenza comunale tra i volontari di protezione civile suddivisi per tipologia di Organizzazione ... 116

4.4.4 Conoscenza che hanno i volontari di protezione civile delle persone fragili nel territorio e influenza con la partecipazione alla realizzazione del piano d’emergenza comunale ... 116

4.4.5 Rapporto col Sindaco e partecipazione alla realizzazione del piano d’emergenza comunale ... 117

4.4.6 Analisi conclusiva ... 117

4.5 ANALISI DEL RAPPORTO TRA VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE E ISTITUZIONI ... 118

4.5.1 Analisi del tipo di relazione con i sindaci e le diverse tipologie di attività svolte, tipi di organizzazione, anni di iscrizione e ore di attività ... 119

4.5.2 Rapporto con le istituzioni nelle province della regione Emilia Romagna ... 120

4.5.3 Miglioramento dei rapporti con le istituzioni in rapporto alle attività nelle scuole, alle attività di monitoraggio e di prevenzione ... 120

4.5.4 Analisi conclusiva ... 121

4.6 ANALISI DEI VOLONTARI CHE PARTECIPANO ALLA CAMPAGNA “IO NON RISCHIO” ... 121

4.6.1 Tipologie di volontari di protezione civile che partecipano e conoscono la campagna “Io non rischio” 122 4.6.2 Attività della campagna IO NON RISCHIO nelle province ... 122

(7)

4.6.3 Partecipazione alla campagna “Io non rischio” e conoscenza degli eventi ... 123

4.6.4 Analisi conclusiva ... 124

4.7 ANALISI DELLA DIFFUSIONE DELLA CULTURA DI PROTEZIONE CIVILE DA PARTE DEI VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE ... 124

4.7.1 Diffusione della cultura di protezione civile nelle scuole ... 125

4.7.2 Analisi conclusiva ... 126

4.8 ANALISI DELLA CONOSCENZA DI RISCHI ED EVENTI DA PARTE DEI VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE ... 127 4.8.1 Rischio sismico ... 128 4.8.2 Eruzione vulcanica ... 129 4.8.3 Evento meteo ... 131 4.8.4 Evento idraulico ... 133 4.8.5 Evento idrogeologico ... 135 4.8.6 Maremoto ... 137 4.8.7 Incendio ... 139 4.8.8 Emergenza sanitaria ... 141 4.8.9 Incidente nucleare ... 142 4.8.10 Incidente ambientale ... 144 4.8.11 Incidente industriale ... 145 4.8.12 Analisi conclusiva ... 147

4.9 ANALISI E COMPARAZIONE DEL VOLONTARIATO DI PROTEZIONE CIVILE ALL’INTERNO DELLE PROVINCE DELLA REGIONE EMILIA ROMAGNA ... 151

4.9.1 Piacenza ... 151 4.9.2 Parma ... 152 4.9.3 Reggio - Emilia ... 153 4.9.4 Modena ... 153 4.9.5 Bologna ... 154 4.9.6 Ferrara ... 154 4.9.7 Ravenna ... 155 4.9.8 Forlì-Cesena ... 155 4.9.9 Rimini ... 156 4.9.10 Analisi conclusiva ... 156

4.10 ANALISI DEI VALORI CHE RAPPRESENTANO I VOLONTARI DI PROTEZIONE CIVILE ... 157

4.10.1 Punteggi assegnati ai valori ... 157

4.10.2 Analisi conclusiva ... 158

CONCLUSIONE ... 159

APPENDICE 1 ... 161

QUESTIONARIO VOLONTARI/E DI PROTEZIONE CIVILE ... 161

APPENDICE 2 ... 173

GRAFICI ... 173

APPENDICE 3 ... 323

INDICI DI PERICOLOSITÀ COMUNALI ... 323

SITOGRAFIA ... 335

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Introduzione

L’obiettivo del presente lavoro è quello di verificare se la presenza di volontari di protezione civile su un territorio influenzi i suoi indici di resilienza, per questo motivo è stata condotta un’analisi e una mappatura del volontariato di protezione civile della regione Emilia-Romagna e parallelamente una proposta di calcolo degli indici di pericolosità provinciale, per capire se esiste una correlazione positiva tra la presenza di un determinato rischio nel territorio e la consapevolezza di tale rischio da parte dei volontari di protezione civile, valutando quali sono le variabili che condizionano la resilienza di una realtà. L’idea di questo studio è nata e si è evoluta attraverso alcuni degli eventi calamitosi che si sono verificati sul nostro paese negli ultimi anni, in particolare il sisma in Emilia-Romagna a maggio 2012, l’alluvione in provincia di Modena a gennaio 2014 e il sisma che ha colpito l’Italia centrale ad agosto 2016. Durante questi eventi la partecipazione, in prima persona, ad attività di assistenza alla popolazione e di supporto alle Istituzioni nella gestione dei Centro Operativi Comunali e della “Funzione volontariato” presso il Centro Operativo della regione Emilia-Romagna ha permesso di lavorare a contatto diretto con le diverse organizzazioni di volontariato sviluppando l’ipotesi citata all’inizio. Lo studio è stato poi approfondito con la partecipazione a corsi di formazione ed addestramento per volontari di protezione civile e con un tirocinio svolto da marzo 2014 a marzo 2015 presso: ”Agenzia regionale

per la sicurezza territoriale e la protezione civile della regione Emilia-Romagna”, nel

corso del quale è stato svolto un anno di ricerca sulla formazione del volontariato con un focus sul ruolo che ha il volontario, all’interno della sua comunità, per la diffusione della cultura di protezione civile. Il lavoro è stato suddiviso in due fasi, durante la prima è stato studiato il tema della resilienza di comunità, attraverso l’analisi di progetti e programmi nazionali e comunitari; la comunicazione del rischio, attraverso l’analisi di progetti nazionali e regionali; il ruolo e la formazione dei volontari di protezione civile attraverso lo studio del Sistema nazionale di protezione civile e il Sistema della regione Emilia-Romagna. La seconda fase del lavoro è stata suddivisa in tre parti, la prima è stata una raccolta dati tramite un questionario compilato da 913 volontari di protezione civile, la seconda parte l’analisi dei dati raccolti e infine l’ultima parte l’elaborazione di una proposta per realizzare un indice di pericolosità provinciale. La quasi totalità dei dati utilizzati sono stati forniti dalle strutture tecniche della Regione Emilia-Romagna quali: Agenzia regionale per la sicurezza territoriale e la protezione civile, Servizio

geologico sismico e dei suoli, Agenzia regionale per la prevenzione l’ambiente e l’energia (Arpae), Servizio aree protette foreste e sviluppo della montagna; Istituto per

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la prevenzione e la sicurezza ambientale (ISPRA); Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV); Dipartimento nazionale della Protezione Civile.

Nei primi due capitoli vengono illustrati gli assunti terorici che stanno alla base dell’ipotesi, nel terzo e quarto capitolo viene illustrato il lavoro sul campo attraverso i risultati dei dati raccolti. In particolare nel primo capitolo viene analizzato il concetto di resilienza attraverso le sue definizioni con attenzione al suo utilizzo in materia di protezione civile. Assieme al concetto di resilienza viene analizzato quello di comunità e vengono illustrati alcuni progetti realizzati sul territorio italiano ed europeo per la riduzione del rischio da castrofi. Nel secondo capitolo viene descritta la storia del Sistema nazionale di protezione civile in Italia, passando attraverso la studio degli eventi storici, politici e delle calamità che si sono verificate nel paese. Vengono confrontate le gestioni dei soccorsi durante due grandi eventi che hanno caratterizzato la creazione dell’attuale sistema nazionale quali l’alluvione del Polesine del 1951 e quella di Firenze del 1966. Il lavoro è proseguito con la realizzazione di un questionario sottoposto a 913 volontari di protezione civile e nel terzo capitolo vengono descritte le modalità di diffusione dello stesso grazie alla collaborazione del “Comitato regionale

per il volontariato di protezione civile della regione Emilia-Romagna” e dei Presidenti

dei “Coordinamenti provinciali” e delle “Associazioni regionali o nazionali”. Infine all’interno del quarto capitolo vengono riportati i risultati ottenuti, dai quali si potrà dimostrare che il volontariato può incidere sulla resilienza di una comunità solo quando presenta determinate caratteristiche. Deve essere infatti un volontariato con esperienza, formato ed addestrato, che segue programmi e formazione in materia di comunicazione e conoscenza del rischio, che lavora in stretta sinergia con enti regionali e locali e che partecipa attivamente alla realizzazione o revisione dei piani d’emergenza comunali. Si dimostra quindi che la presenza del volontariato di protezione civile aumenta gli indici di resilienza di una comunità, ma solo dove collabora con le Istituzioni che considerano la materia di protezione civile tra le prioritarie.

(11)

Capitolo 1 - Le comunità resilienti

1.1 Dalla definizione di resilienza alla nascita delle comunità

resilienti attraverso studi e progetti.

Etimologicamente la parola “resilienza” deriva dal verbo latino “resilīre”, formata dal prefisso “re-” aggiunto al verbo “salire”, ovvero “saltare indietro”1. “Resalio” indica anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare. Il concetto di resilienza viene utilizzato in diverse discipline quali, ad esempio, le scienze naturali, l’ingegneria, l’ecologia, la psicologia e la sociologia, ma anche all’interno di alcune specifiche politiche internazionali e comunitarie. Ad esempio, nella tecnologia metallurgica: “La resilienza è l’attitudine di un metallo a resistere alle forze che vi

vengono applicate”2. A partire dal 2000, “resilienza” compare nel campo della riduzione

del rischio da catastrofi: l’Agenzia della Nazioni Unite per la riduzione del rischio da catastrofi (UNISDR) l’ha descritta come: “L’abilità di un sistema, comunità o della

società esposta a rischi, di resistere, assorbire, adattarsi e recuperare di fronte agli effetti di un pericolo in modo tempestivo ed efficiente, anche attraverso la salvaguardia delle funzioni e strutture di base essenziali”3. In Italia, l’Istituto Italiano di Resilienza,

nato a Spoleto nel 2011 con l’obiettivo di ridurre il valore di rischio e la magnitudo delle emergenze sul territorio italiano, la definisce come: “La capacità di un sistema di

impedire o ritardare, il passaggio da uno stato di crisi ad uno emergenziale, assorbendo un fattore perturbante ed invasivo, esterno o interno, previsto o imprevisto, reagendo e modellando la risposta della propria struttura, allo scopo di superare l’evento avverso, ristabilendo un nuovo equilibrio nel sistema”4. In protezione civile: “La resilienza è la capacità di ogni comunità, consapevole di convivere con i rischi accettabili, di reagire in modo attivo ed integrato con le Autorità locali”5. La nozione di

resilienza è impiegata sempre più nei modelli di cura, gestione e manutenzione dell’ambiente sociale e naturale per garantire prospettive di continuità a fronte dei possibili cambiamenti ambientali, economici e sociali che possono avvenire in un territorio. A livello internazionale ci sono differenti approcci al concetto di resilienza e alla sua applicabilità ai contesti territoriali antropizzati. Ad esempio, nei documenti ufficiali di alcuni Enti Internazionali come la FEMA, “Federal Emergency Management

Agency”, o delle Agenzie delle Nazioni Unite sono riportati principi e strategie volti alla

1 “Dizionario Etimologico della Lingua Italiana” di Cortellazzo e Zolli, Zanichelli, 2009 2Idem

3 UNISDR, 2000

4 “Disastri e Catastrofi” di Marotta e Zirilli, Maggioli editore, 2015

5 Definizione di Galanti in “Protezione Civile - Periodico bimestrale a cura della Presidenza del

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protezione della popolazione rispetto ai rischi. La FEMA ha individuato una checklist per la gestione delle alluvioni al fine di creare progetti che aumentino la resilienza all’interno di una città che potrebbe essere colpita. Come accennato, la resilienza, nei suo diversi aspetti, viene considerata in diversi ambiti delle strategie politiche internazionali: infatti, dopo la pubblicazione del documento di Folke, Carpenter e Elmqvist “Resilience and Sustainable Development: Building Adaptive Capacity in a

World of Transformations”6, si parla spesso di “resilienza ecosistemica”, mettendola in connessione con lo sviluppo dei sistemi territoriali. Questa, nell’ambito delle campagne promosse da Agenzie Internazionali, implica la diffusione di una cultura ambientale, dei cambiamenti climatici, della prevenzione e della riduzione dei rischio. Tra queste campagne, una delle principali, per impatto, estensione e investimenti è quella denominata: “Making Cities resilient: la mia città si prepara”, promossa dall’UNISDR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per la riduzione dei Disastri. L’assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Strategia internazionale per la riduzione dei disastri nel 1999, al termine del Decennio internazionale per la riduzione dei disastri naturali

(1990-1999), con l’obiettivo di coordinare le iniziative ONU per la prevenzione delle

catastrofi, nell’ottica dell’intervento cautelativo e della limitazione del numero di vittime e dei danni economici. La campagna internazionale “Making Cities resilient: la mia città

si prepara” è stata lanciata nel maggio del 2010 per realizzare uno strumento, utile alle

autorità locali, che contribuisca a sensibilizzare e supportare il processo di implementazione del “Quadro d’Azione Hyogo” sottoscritto in Giappone nel 2005 da 169 Paesi con lo scopo di ridurre i rischi di catastrofi e aumentare gradualmente la resilienza di comunità. Il Quadro è un piano decennale per diminuire i danni provocati dai disastri naturali adottato nel corso della Conferenza Mondiale sulla Riduzione dei Disastri e si inserisce nel contesto di quella Strategia internazionale per la riduzione

dei disastri assunta dalle Nazioni Unite nel 1999 di cui si faceva cenno prima7. La campagna “Making Cities resilient: la mia città si prepara” ha visto l’adesione di oltre 1000 città, di cui 40 Italiane, e 77 Paesi. In Italia, le città che hanno aderito sono state: Venezia, Roma, Milano, Torino e Firenze; Venezia è stata addirittura riconosciuta dall’UNISDR come “Città modello di resilienza” in riferimento al suo sistema di prevenzione e protezione del patrimonio artistico e culturale dai rischi di alluvioni e incendi. In Italia la piattaforma nazionale per la riduzione del rischio dei disastri è stata istituita con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 febbraio 2008. Al

6 Documento tecnico-scientifico commissionato dall’Environmental Advisory Council del

Governo Svedese in occasione del World Summit on Sustainable Development tenutosi a Johannesburg nel 2002

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Dipartimento Nazionale di protezione civile è affidato il compito di coordinare i soggetti pubblici e privati che sul territorio nazionale si occupano di riduzione dei rischi da disastri naturali. La suddetta campagna è finalizzata a sensibilizzare i Sindaci e gli Amministratori locali sulle attività da svolgere per aumentare la resilienza all’interno della propria comunità, come la capacità di affrontare gli eventi calamitosi, di superarli e di uscirne rafforzata. A questo scopo, sottolinea in più punti l’importanza di rendere i cittadini attivi e non passivi durante tutte le fasi dell’emergenza:

“Tutti dovremmo essere protezione civile: se non per aiutare gli altri, almeno per aiutare noi stessi a reagire ad un evento calamitoso e a superarlo nel migliore dei modi”8

Per essere soggetti attivi i cittadini devono conoscere i rischi presenti sul territorio, essere consapevoli delle giuste manovre da fare, dei corretti comportamenti da tenere in caso di emergenza e delle azioni da intraprendere per partecipare al superamento dello stato di crisi successivo all’emergenza stessa. La campagna propone dieci punti in cui vengono presentate le misure essenziali per rendere le città resilienti. Essi evidenziano il ruolo fondamentale della comunicazione tra la Pubblica Amministrazione, il sistema di protezione civile e i cittadini.

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Cerillo, Ragonesi e Glissara (op. cit.) riportano e sintetizzano così i dieci punti:

Tabella 1-1

PUNTO UNO

Fare in modo che nell’ambito dell’amministrazione locale sia istituita una struttura di coordinamento per individuare e ridurre il rischio di disastri, basata sulla partecipazione dei gruppi di cittadini e su alleanze con la società civile. Assicurare che tutti i settori dell’amministrazione siano consapevoli del loro ruolo nella riduzione del rischio di disastri e siano preparati ad agire.

PUNTO DUE

Stanziare risorse specifiche per ridurre il rischio di disastri e stanziare incentivi ai proprietari di abitazioni, famiglie a basso reddito, imprese e alla comunità in generale perché vengano fatti investimenti per la riduzione del rischio.

PUNTO TRE

Mantenere un sistema aggiornato di dati sui rischi e le vulnerabilità locali, realizzare valutazioni di rischio e tenerne conto come base nei piani e nelle decisioni sullo sviluppo urbanistico delle città. Assicurare che queste informazioni e i piani per la resilienza della città siano facilmente accessibili al pubblico e siano stati discussi pubblicamente.

PUNTO QUATTRO

Investire nelle infrastrutture che riducono i rischi, quali opere per la regimentazione idrica, garantendone la manutenzione e i necessari adeguamenti al cambiamento climatico.

PUNTO CINQUE

Verificare la sicurezza di tutte le scuole e delle strutture sanitarie e adeguarle se necessario.

PUNTO SEI Introdurre e applicare criteri adeguati ai rischi nei regolamenti edilizi e nella pianificazione

dell’uso dei suoli. Identificare ove possibile terreni sicuri da destinare ai cittadini a basso reddito e sviluppare programmi di riqualificazione degli insediamenti non regolamentati.

PUNTO SETTE

Garantire che siano messi in atto programmi di formazione e educazione sulla riduzione dei rischi di disastri nelle scuole e nelle comunità locali.

PUNTO OTTO

Proteggere gli ecosistemi e le zone che naturalmente fungono da prevenzione, per mitigare gli effetti delle esondazioni, degli eventi meteo-climatici intensi e altri eventi verso cui la città è vulnerabile. Adattarsi al cambiamento climatico tramite azioni efficaci di riduzione dei rischi.

PUNTO NOVE

Implementare sistemi locali di monitoraggio per il sistema di allerta preventivo e piani di gestione delle emergenze e realizzare regolarmente esercitazioni che coinvolgano la cittadinanza.

PUNTO DIECI

Dopo ogni disastro, garantire che i bisogni delle vittime siano posti al centro della ricostruzione e che essi e le organizzazioni civili siano coinvolti direttamente nella definizione delle soluzioni, tra cui la ricostruzione delle abitazioni e della vita precedente al disastro.

Dal “Quadro d’azione di Hyogo” è nato anche un altro importante progetto definito:

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Rossa e la Commissione Europea hanno proposto un portale web dove mostrare, per 42 giorni - dal 22 settembre al 2 novembre -, ogni giorno, comunità, individui e Paesi differenti che stavano reagendo, aumentando le loro capacità di resilienza, a cambiamenti climatici, sociali ed ambientali. Le storie sono arrivate da tutto il mondo, ciascuna ha raccontato qualcosa di diverso richiamando l’attenzione su vari punti. Il progetto è stato finanziato dal Dipartimento della Commissione Europea per gli aiuti umanitari e la protezione civile (ECHO), in collaborazione con la Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (IFRC) e le Società Nazionali dell'Europa e del mondo.

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Il progetto definisce con questi punti il concetto di comunità resiliente:

Tabella 1-2

Una comunità resiliente è consapevole e sana. È in grado di valutare, gestire e monitorare i rischi. Può acquisire nuove competenze basandosi sulle esperienze del passato.

Una comunità resiliente è organizzata. E’ in grado di individuare i problemi, definire le priorità e agire di conseguenza.

Una comunità resiliente si impegna nello sviluppo delle politiche locali per ridurre i rischi.

Una comunità resiliente è connessa. Si rapporta con attori esterni che offrono un ambiente propizio più ampio e forniscono merci e servizi quando occorrono.

Una comunità resiliente ha infrastrutture e servizi. Ha un sistema solido che contribuisce, ad esempio, a mitigare i cambiamenti climatici. È in grado di mantenere, riparare e rinnovare il sistema.

Una comunità resiliente ha opportunità economiche. Ha una vasta gamma di opportunità di impiego, reddito e servizi finanziari. È flessibile, ricca di risorse ed è in grado di accettare le incertezze e rispondere (in modo proattivo) ai cambiamenti.

Una comunità resiliente può gestire le sue risorse naturali. Riconosce il loro valore ed è in grado di proteggerle, migliorarle e mantenerle.

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Partendo dalla definizione di resilienza ecosistemica di Gunderson - Pritchard del 2002:

“Proprietà dei sistemi complessi di reagire a fenomeni di stress, attivando strategie di risposta e di adattamento al fine di ripristinare i meccanismi di funzionamento. I sistemi resilienti, a fronte di uno stress, reagiscono rinnovandosi ma mantenendo la funzionalità e la riconoscibilità dei sistemi stessi”9 .

Si può affermare che la resilienza non sia la facoltà di riportare il contesto nelle stesse condizioni in cui era prima dello stress bensì, sia la capacità di mantenere la funzionalità degli stessi adattandosi ai nuovi cambiamenti. Come segnalato sopra, negli ultimi anni, la nozione di resilienza è stata spesso trattata in senso “ecologico”, ad esempio quando si parla di disastri e di attività di reazione ai disastri Gunderson e Pritchard analizzano sempre più frequentemente i fenomeni collettivi, le reazioni delle comunità e dei gruppi e sempre di meno quelle singole, individuali e personali. Gli autori che hanno trattato il tema della resilienza di comunità si possono dividere in tre principali gruppi così definiti a seconda della declinazione che danno ad esso:

• resilienza e sostenibilità, • resilienza e adattamento, • resilienza e rischi territoriali.

Ai fini della ricerca sarà il terzo aspetto è quello che verrà preso maggiormente in considerazione. Nell’ambito delle strategie che valorizzano la resilienza nella riduzione dei rischi sono stati attuati diversi progetti che vale la pena di citare. Un esempio sono i progetti di ricerca sulla sostenibilità dello sviluppo dei territori statunitensi che si affacciano sul Golfo del Messico altamente esposti a rischio uragani, presentati sia alla biennale di Venezia, raccolti in “Rebuilding Urban Places After Disaster: Lesson from

Hurricane Katrina”10. Tali studi sono stati voluti per creare piani di preparazione ad eventi come uragani, alluvioni, terremoti o attacchi terroristici, tramite accordi tra i governi e il settore pubblico e tra i governi e il settore privato. Queste ricerche prendono in considerazione quattro aspetti della ricostruzione post-disastro: rendere

le città meno vulnerabili al disastro, ristabilire la redditività economica, rispondere alle esigenze degli sfollati, ricreare il senso del luogo. Altro virtuoso

9Cit. in “Resilienza tra territorio e comunità - Approcci, strategie, temi e casi”, Quaderno

dell’Osservatorio n° 21 anno 2015, a cura di Colucci e Cottino, in Collana “Quaderni dell’Osservatorio” finanziata dalla Fondazione Cariplo

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caso è quello del progetto denominato: “Urban Resilience Program” nato nel 2005 a Gothenburg in Svezia, alla chiusura di un workshop sulle strutture urbane complesse e attivato poi nel 2007. Tale programma aveva il duplice obiettivo di comprendere quali fossero i livelli di stress assorbibili dai sistemi socio-ecologici urbani, senza che se ne mutasse la struttura e funzionalità verso forme meno desiderabili, e di trovare i fattori di resilienza nel complesso dei sistemi.

A quest’ultimo scopo sono stati indagati quattro diversi aspetti così definiti11:

Tabella 1-3

METABOLIC FLOWS

I flussi metabolici che comprendono le funzioni urbane, il benessere umano e la qualità della vita.

GOVERNANCE NETWORKS

Le reti di governance e le abilità della società ad apprendere adattarsi e organizzarsi.

SOCIAL DYNAMICS

Le dinamiche sociali delle persone in quanto cittadini, membri delle comunità, utenti dei servizi, consumatori di prodotti e le reti di relazioni tra le comunità e le popolazioni sociali.

BUILT ENVIRONMENT

L’ambiente urbano costruito, fatto da elementi fisici e spaziali.

Figura 1-1.1

11 cit. in “Le città resilienti - Approcci e strategie” di Colucci, Jean Monet Centre of Pavia, 2012

URBAN

RESILIENCE

METABOLIC

FLOWS

GOVERNANCE

NETWORKS

SOCIAL

DYNAMICS

BUILT

ENVIRONMENT

(19)

Un sistema urbano più resiliente è un sistema di maggior qualità non solo ambientale, ma anche sociale, per questo motivo è implicito richiamare la resilienza ecologica ma anche la resilienza ecosistemica. La resilienza di un territorio dipende molto dalla pianificazione e dalle reti instaurate prima del verificarsi dell’evento poiché la capacità di reagire in modo resiliente è strettamente correlata a tutte le attività di relazione e organizzazione messe in piedi in tempo di pace12, inoltre più il sistema sarà flessibile, più sarà rapido e veloce il processo di ripresa delle normali attività. La resilienza dei territori non deve essere vista quindi solo come una possibilità di costruzione bensì come strumento per la creazione di processi di progettazione e gestione delle soluzioni territoriali e urbane. Gli studi sulle possibili soluzioni organizzative che creano le comunità per far fronte a un’emergenza o a un disastro naturale dimostrano come, davanti a una rottura della routine quotidiana, spesso si creano situazioni di caos e disorganizzazione facendo percepire l’inadeguatezza delle forme organizzative ordinarie. D’altra parte, in questi casi, possono anche nascere, grazie a processi spontanei, innovazioni organizzative definite anche “opportunità di apprendimento”. Secondo Lanzara13 le comunità realizzano infatti “atti creativi di progettazione”. In questi atti emergono le competenze individuali di ciascun individuo messe a disposizione della società e del gruppo, viceversa accade che le competenze dell’intera comunità vengano spontaneamente messe a disposizione di ogni singolo individuo. Il primo caso è quello della denominata resilienza sociale, che segue un processo organizzativo definibile tramite le strategie bottom-up, dal basso verso l’alto, dal singolo verso l’intera collettività, dal micro al macro. Le comunità colpite da un disastro devono partire dall’analisi delle risorse che sono disponibili e da queste creare le strategie di ricostruzione possibili.

12 Per “tempo di pace” si intende quando un territorio non è colpito da eventi bellici o

calamitosi.

13Capacità negativa : competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni” di

(20)

Ci sono diversi punti di innesco della resilienza di comunità, suddivisi di solito in tre tipi di approcci diversi così classificabili:

Tabella 1-4

COMMUNITY REUSE

ll processo di ricostruzione si avvia attraverso iniziative di riattivazione degli spazi e delle strutture dismesse nel territorio. Per far ripartire tali strutture è sovente necessario il coinvolgimento di collaboratori esterni che supportino gli attori locali. In questo tipo di attività particolare attenzione deve essere rivolta a non danneggiare l’ambiente naturale circostante.

COMMUNITY ENGAGEMENT

Il processo fa leva sulle competenze specifiche dei singoli individui presenti nel contesto e sulle eventuali reti sociali esistenti. Esse sono attivabili mediante le relazioni personali di attori interni talvolta sostenuti da attori esterni.

COMMUNITY PREVENTION

Il processo passa attraverso le azioni di prevenzione e monitoraggio realizzate tramite la sensibilizzazione delle persone presenti sul territorio, oltre che ad azioni pratiche in esso. Progetti di prevenzione dei disastri possono contenere parti specifiche dedicate all’informazione e formazione delle realtà sociali del territorio interessato. Viceversa, tramite il coinvolgimento e la partecipazione delle componenti sociali interessate, i progetti sono passibili di revisioni e modifiche a seconda delle vere necessità degli abitanti.

Secondo Kimhi e Shamai, nella letteratura, le definizioni di comunità resilienti vengono suddivise in base a tre prospettive14:

Tabella 1-5

TENDENZA ALLA RESISTENZA

Si riferisce alla capacità della comunità di assorbire l’impatto.

TENDENZA AL RECUPERO

Si riferisce alla velocità ed alle abilità di recuperare dallo stressor.

TENDENZA ALLA CREATIVITA’

Si riferisce alle potenzialità creative dei sistemi sociali di migliorare il proprio funzionamento come conseguenza delle avversità.

Le opere realizzate all’interno di una comunità colpita da un disastro rientrano sempre più frequentemente nella tipologia di interventi diversi dai classici modelli di intervento di tipo clinico. In questo modo, vengono meno le tesi che vedono il ripristino di una comunità colpita attuato solo grazie a un forte azione esterna e, invece, presi in maggior considerazione tutti quegli interventi che provengono dall’interno e dagli attori direttamente coinvolti nel disastro. L’effetto terapeutico dei primi giorni dal disastro deve essere di dimensioni minime per non generare false aspettative e

14 “Community resilience and the impact of stress: adult response to Israel’s withdrawal from

(21)

danneggiamento con la conseguente creazione di uno status di “luna di miele”15 che tenderebbe a limitare la volontà di una comunità a reagire in modo positivo al disastro. Una ricerca importante su questa prospettiva è stata quella di Bravo et al. nel 199016, nella quale sono stati analizzati i residenti della comunità di Puerto Rico colpita da un’alluvione i quali, per pura combinazione, avevano compilato un’indagine sulla salute mentale l’anno prima; in questo modo si è potuto fare un confronto dei dati prima e dopo il disastro. Dai risultati è emerso che i sintomi di natura psicopatologica dei cittadini esposti al disastro non differivano molto dai sintomi dei cittadini non esposti. La resilienza di comunità, a parere di alcuni studiosi, non comprende solo quello che succede dopo l’evento critico, ma anche la preparazione della comunità al fattore di rischio17. Secondo il modello di resilienza di comunità di Ronan e Johnston denominato SS4R, ossia: “Strengthening Systems 4R (Risk Reduction, Readiness, Response,

Recovery) Prevention Model”, un elemento chiave per produrre comunità resilienti è

rafforzare i sistemi di riduzione del rischio, la prontezza dei sistemi di risposta e dei sistemi di recupero. Questo modello considera tutte le attività di preparazione al disastro, di prevenzione e di monitoraggio, definite “Community preparedness”18, allo

stesso livello delle attività di risposta al disastro. Possiamo quindi concludere che scienza e letteratura contemporanea abbiano dedicato molteplici e differenti studi alle comunità resilienti, analizzando le strategie politiche utilizzate, le risposte urbane e sociali e le azioni mirate a dare una risposta efficace in caso vengano colpite da un evento calamitoso. Questi studi possono essere approfonditi e analizzati da tutte le strutture verticali ed orizzontali che coinvolgono una comunità, dal punto di vista delle Istituzioni e dei singoli cittadini. E’ interessante citare il decalogo di un libero cittadino che, a proposito delle azioni di governance del suo territorio scrive quello che vorrebbe venisse realizzato nella sua comunità.

15 ”Elementi di Psicologia di comunità - Approccio teorico aree di intervento, metodologie e

strumenti” di Lavanco e Novara, McGraw-Hill, 2002

16“The psychological sequelae of disaster stress prospectively and retrospectively evaluated” di

Bravo et al., Journal of Community Psychology, 1990, 18(5), 661-80

17 “Elements of resilience after the World Trade Center disaster: reconstituting New York City’s

Emergency Operations Centre” diKendra e Wachtendorf, Disasters, 2003, 27 (1), 37-53

18 “Promoting community resilience in disasters: The role for schools, youth, and families” di

(22)

“Come cittadino responsabile (e informato sui fatti) vorrei:

Che il mio Comune fosse dotato di un vero Piano di Protezione Civile, completo, attuabile e sempre aggiornato.

Che tale documento fosse noto, divulgato ovunque (nelle scuole, nelle piazze, negli uffici, nei

supermercati...), comunicato agli enti e alle strutture e che, almeno in forma sintetica, fosse sempre disponibile sul sito web comunale, ben in evidenza, scritto in maniera comprensibile e usabile (anche per le persone con disabilità o problemi di scolarizzazione), tanto per la parte che riguarda i cittadini, quanto per quella che potrebbe interessare i soccorritori di altri comuni che dovessero venire a darci una mano.

Che esistesse un’apposita Struttura di Protezione Civile nell’organigramma dell’amministrazione

comunale, alle dirette dipendenze del Sindaco, che si occupasse non solo della gestione delle emergenze, ma anche di previsione e prevenzione.

Che tale struttura fosse formata per comunicare le emergenze attraverso i diversi media, che

fossero attivati canali dedicati alla sicurezza in base ad un Piano integrato di comunicazione delle emergenze e che esistesse un servizio pubblico, pubblicizzato e funzionante, in grado di raccogliere le segnalazioni in merito alla sicurezza e di darne seguito.

Che fosse approntato un vero Centro Operativo Comunale, (ben) progettato e attrezzato per

rispondere ai compiti normati dai regolamenti regionali e nazionali e in grado di funzionare nelle emergenze.

Che il territorio comunale venisse monitorato continuamente, sia con una rete di sensori, ma

anche con la semplice ricognizione quotidiana, per prevenire tutte le tipologie di rischio possibili, naturali o antropiche.

Che si facessero “vere” esercitazioni, per posti di comando e sul terreno, coinvolgendo gli uffici

comunali, i vigili urbani, i vigili del fuoco, i carabinieri e la polizia, il volontariato, le associazioni e la cittadinanza.

Che l’argomento sicurezza fosse comunque materia di insegnamento nelle Scuole e che le esercitazioni scolastiche, tenessero conto non solo dell’incendio come tipologia di emergenza, oltre a venire precedute e seguite da briefing sia per il personale docente e non docente, che per gli studenti.

Che fosse presente, sempre aggiornato e reso pubblico, un Piano della Viabilità in base alle emergenze e agli eventi di rilievo, che tenga conto della condizione reale delle strade.

Che fossero chiaramente segnalati il Centro Operativo Comunale, le aree “sicure”, le vie di fuga

in base ai diversi rischi prevedibili e che, per le aree di ammassamento dei soccorsi e che per le aree di raccolta e prima accoglienza ci fossero veri spazi dedicati (mantenuti il più possibile accessibili)”19

(23)

Tante e molteplici sono le definizioni di comunità resiliente, come i suoi caratteri e, per tutte le tesi dimostrate, è importante, nella valutazione che ne fanno, tenere in considerazione i seguenti aspetti:

Tabella 1-6

Il Comune deve essere dotato di un piano di protezione civile

Il piano deve essere visibile e comprensibile a tutti i cittadini e deve essere facilmente identificabile sul sito internet del Comune

Il Comune deve essere dotato di una struttura di protezione civile

Il Comune deve essere dotato di un piano integrato di comunicazione delle emergenze Il Comune deve avere un centro operativo comunale (COC)

Il Comune deve attuare un sistema di monitoraggio Il Comune deve pianificare periodiche esercitazioni Deve essere fatta formazione nelle scuole

Il Comune deve avere un piano di viabilità

Tutti i cittadini devono saper individuare e conoscere le aree di ammassamento e di prima accoglienza

Ricordando il concetto di cittadinanza attiva e del ruolo dell’individuo all’interno della comunità, citato all’inizio del paragrafo, occorre ora prendere in analisi l’esercizio delle attività di volontariato svolte dai cittadini all’interno di una comunità per calcolare se il loro contributo possa essere utile all’aumento della resilienza della comunità stessa. Sarà opportuno prendere in analisi il volontariato organizzato, strutturato all’interno di un sistema sussidiario istituzionale. I territori colpiti da calamità naturali possono subire grandi cambiamenti dal punto di vista ambientale, economico e sociale, per questo motivo, è interessante provare a misurare se un gruppo di cittadini, che già vivono all’interno della comunità colpita, addestrati e informati sui rischi e sulle opportunità di un territorio, possano contribuire a migliorare la sua capacità di ripresa in caso di evento calamitoso. Una risorsa che non può essere trascurata al fine di creare comunità resilienti è quindi quella delle organizzazioni di volontariato di protezione civile; infatti, i volontari giocano un ruolo chiave in quanto sono liberi cittadini che hanno scelto in maniera volontaria di aiutare la propria comunità, ma diventano automaticamente persone informate e formate per gestire situazioni di previsione, prevenzione e soccorso.

(24)

1.2 Come nascono le comunità e la loro reazione post disastro

Il concetto di comunità è stato definito intorno al Settecento, come l’entità sociale che si struttura sulla base di un legame particolare che si instaura fra i suoi membri di appartenenza. La comunità è un legame costituito da un sentimento di condivisione e di un fare comune per il raggiungimento di un fine collettivo.

“Sembrerebbe, dunque, che la dimensione relazionale nella comunità sia proprio una questione morale, che si contrappone a una entità governata da un contratto sociale in cui i membri non condividono uno scopo comune”20.

La comunità nasce dall’interazione dell’individuo all’interno di un gruppo, il quale a sua volta deve avere le regole della convivenza civile.

“La psicologia di comunità ha individuato la dimensione comunitaria, intendendo quello spazio

dove gli individui esercitano le loro azioni di vita”.21

Per comunità si intendono quindi gli aspetti micro e macro delle relazioni personali, la coppia, la famiglia, il gruppo, la rete, il sistema culturale. All’interno delle comunità nascono le azioni di gruppo, non ci si muove più come singoli individui ma come soggetti collettivi, si passa quindi da modelli di intervento definiti “community based” a modelli definiti “community development”, ovvero da una logica del servizio a una logica della competenza, basata su scelte collettive create dall’interno. Le azioni collettive sviluppate dagli attori stessi della comunità, quindi dal suo interno, sono fondamentali per la crescita della resilienza della comunità stessa. Infatti, in caso di evento che porta ad un cambiamento, la resistenza e il mantenimento della comunità devono venire proprio dal suo interno. I processi sociali che concorrono allo sviluppo delle comunità sono il coinvolgimento, la partecipazione e la connessione emotiva. La parola comunità indica un concetto caldo, intimo e confortevole, la comunità è un posto sicuro dove si possono trovare riparo e comprensione. Secondo Bauman però, il concetto di Comunità, nel clima dell’incertezza dell’epoca contemporanea, non ha motivo di esistere. Se per comunità si intendono infatti solidi legami e interazioni frequenti tra le persone, non siamo più una società in grado di garantirli. Il sociologo polacco ritiene che questa nozione porterebbe ad una perdita dell’identità personale, a una diminuzione della sua forza e della sua concretezza e ad un costo morale troppo alto per essere accettato nell’età attuale. In un’epoca in cui l’informatica permette una velocissima comunicazione tra interno ed esterno di una comunità, dove lo scambio di

20 Zani 2005, in “Per una psicologia di comunità” di Gioacchino Lavanco e Monica Mandalà 21 Lewin 1951, in “Per una psicologia di comunità” di Gioacchino Lavanco e Monica Mandalà

(25)

merci si è velocizzato fino a poter essere quasi immediato (si pensi, ad esempio, alla facilità di reperimento di informazioni tramite internet) una comunità perde, a parere di Bauman, la sua innocenza. Proprio come nel mito cristiano di Adamo ed Eva, la conoscenza ci porta a perdere l’innocenza, così la comunità non può dare sicurezza quando offre conoscenza ed identità personali. Il prezzo da pagare per avere la comunità è quello della libertà, soprattutto la libertà individuale, è infatti necessario essere pronti ad aiutare ed assistere il prossimo, in un perenne equilibrio tra sicurezza e libertà dove, se aumenta una, diminuisce parallelamente l’altra22. Dalla comunità emergono le basi della convivenza e del bene pubblico, inteso anche come bene comune. Inoltre, all’interno di questa, devono svilupparsi i presupposti per la sua salvaguardia e la sua messa in sicurezza. Le comunità sono organizzate sugli assi delle ascisse e delle ordinate, si sviluppano sui principi di sussidiarietà orizzontale e verticale.

“La sussidiarietà verticale si esplica nell’ambito di distribuzione di competenze amministrative tra diversi livelli di governo territoriali (livello sovranazionale: Unione Europea-Stati membri; livello nazionale: Stato nazionale-regioni; livello subnazionale: Stato-regioni-autonomie locali) ed esprime la modalità di intervento – sussidiario – degli enti territoriali superiori rispetto a quelli minori, ossia gli organismi superiori intervengono solo se l’esercizio delle funzioni da parte dell’organismo inferiore sia inadeguato per il raggiungimento degli obiettivi.

La sussidiarietà orizzontale si svolge nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà e si basa sul presupposto secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i privati cittadini (sia come singoli, sia come associati) e i pubblici poteri intervengono in funzione ‘sussidiaria’, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione”23.

22“Voglia di comunità” di Bauman, Laterza, 2001

23 da http://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/principio-di-sussidiarietà/ visitato l’ultima volta il

(26)

Figura 1-2

Tutti i cambiamenti, interni ed esterni, alle comunità devono svilupparsi in entrambe le direzioni. Gli eventi che per loro natura portano dei mutamenti a ciascuno dei componenti dei due assi cartesiani creano processi di crescita, che devono inevitabilmente svilupparsi sia in senso orizzontale sia in quello verticale. Le comunità vanno analizzate in ogni sua forma di aggregazione, con particolare focus e attenzione a quelle parti aggregative organizzate e strutturate rispetto a sistemi istituzionali e sussidiari.

Come reagiscono quindi le comunità quando vengono colpite da una catastrofe? Meccanismi di protezione e di appartenenza si elevano facilmente quando gli ambienti sono colpiti da un evento inaspettato, ma lo stesso può portare alla crisi delle istituzioni sociali, dei ruoli e delle leggi che regolano il vivere quotidiano. Il termine catastrofe, spiega Lavanco, è di origine greca “katastrophè” e significa letteralmente “volare giù”

(“kata” = giù, “strephèin” = volare)24 . Denota un rovesciamento, una sovversione, il rimescolamento di un sistema travolto da un evento minaccioso e improvviso che deve far fronte alla perdita di stabilità e organizzazione. Il sentimento di appartenenza alla comunità a seguito di un evento calamitoso può aumentare, ma molto dipende dalla

24 “Psicologia dei disastri. Comunità e globalizzazione delle paura” di Lavanco, Franco Angeli

2009

COMUNITA’

SOVRANAZIONALE

STATO

REGIONE

COMUNE

COMUNITA’

GRUPPO

SOCIALE

FAMIGLIA

INDIVIDUO

PUBBLICHE

ISTITUZIONI

(27)

tipologia di comunità instaurata in tempo di pace: dopo un’emergenza, quelle con una grande coesione interna riescono a superare lo stress collettivo in modo migliore rispetto ad altre disgregate e con reti di relazioni frammentate. Altro punto fondamentale è rendere le calamità culturalmente accettabili, ovvero educare la popolazione alla convivenza con i disastri e alla loro comprensione. Infatti un evento calamitoso colpisce il mondo interiore delle persone coinvolte con effetti su come esse pensano e si comportano a partire da quel momento. Il trauma legato a un disastro può essere un trauma che perdura nel tempo e che può arrivare a colpire più generazioni. Una calamità non solo sconvolge inevitabilmente l’ambiente naturale, ma stravolge anche il mondo interiore di chi vi rimane coinvolto. Questo cambiamento porta con sé conseguenze sul modo di pensare e di comportarsi degli individui, che in ogni evento agiscono in modo diverso, a volte avvicinandosi e a volte dividendosi, a volte con atti di restrizione e a volte con atti di espansione. A tal proposito, Bauman scrive che:

“La vita umana è il risultato di soggetti in continuo mutamento che si adattano ad ambienti in

continuo cambiamento. Gli esseri umani sono comunque consapevoli che nulla è indifferente a qualsiasi altra cosa, intatto e senza contatto”25.

In consonanza Massey e Jess aggiungono che:

“L’essere umano è un soggetto sociale condizionato dall’ambiente in cui vive, ma la risposta a un

cambiamento è il frutto di una elaborata costruzione realizzata razionalmente tra individui”26.

La definizione classica del termine disastro lo descrive come lo sconvolgimento di un ordine stabilito in un contesto umano o naturale, violento o distruttivo, più o meno rapido, che dà luogo a morti, feriti e considerevoli danni materiali27. Le catastrofi generano sempre qualcosa che va oltre il semplice lesionamento di cose o persone, provocano infatti danni molto più profondi sulla società umana nel momento in cui la calamità si verifica e per un lungo periodo successivo, nel quale la stessa cerca di adattarsi al cambiamento. Questo periodo di transizione può variare molto a seconda degli aspetti socio-culturali che caratterizzano una determinata società. Dopo un evento calamitoso si creano nuove relazioni, nascono associazioni, comitati, gruppi di lavoro, nuove forze identitarie, nuove forme di autodeterminazione e nuovi legami di

25 “La società dell’incertezza”, Il Mulino, 1999

26 “Luoghi, culture e globalizzazione” di Massey e Jess, Utet, 2001

27 “Nuovo Dizionario di Sociologia” a cura di Demarchi, Ellena, Cattarinussi,San Paolo edizioni,

(28)

reciproco aiuto. In una società devono essere tenute in considerazione le variabili che caratterizzano le persone e l’ambiente, a livello micro, nelle relazioni personali e nei comportamenti individuali e a livello macro, nei processi istituzionali e politici.

Gli aspetti fondamentali che contraddistinguono una calamità sono28:

1. l’eccezionalità dell’evento, caratterizzata dalla frequenza, dalla prevedibilità e dalla bassa percezione di controllo umano dello stesso,

2. l’interruzione della normale vita sociale,

3. la distruzione o il timore di distruzione della vita umana, 4. il numero di vittime e la quantità di beni distrutti.

Quando si parla di “vittime” non si intendono solo i morti e i feriti, ma ci si riferisce anche a chi ha subito danni e sinistri che hanno provocato la morte di parenti, amici e dei loro beni materiali. Un disastro provoca inoltre uno stress generale che colpisce tutta la comunità generando in essa un forte stravolgimento. Il normale fluire della vita viene paralizzato, ci sono vittime, possono svilupparsi epidemie, si producono danni all’ambiente sia artificiale sia naturale. Per la popolazione investita emotivamente si generano fasi di stress molto alte, all’interruzione della normalità della vita consegue spesso quella del senso di continuità della propria esistenza. Questa stato di stress non termina subito dopo l’evento, ma continua nel corso di tutto il processo di soccorso e ricostruzione. Durante quest'ultima è fondamentale ritrovare i punti di equilibrio di una comunità, ricominciare a ricomporre l’esistenza, riorganizzare la vita quotidiana, riallacciare i legami tra gli individui e con l’ambiente stesso. La misurazione della resilienza di una comunità può trovare un importante sviluppo per lavorare sulle fasi di previsione e prevenzione, non solo per evitare il verificarsi di un’emergenza ma anche per reagire in maniera più forte, cooperativa e di conseguenza resiliente ad un evento. Il volontariato organizzato merita un punto di attenzione nello studio delle calamità e, in particolare in quei processi di ripresa e riorganizzazione dopo un evento, è importante poter considerare se organizzazioni volontarie di cittadini, gestite e organizzate dalle Istituzioni contribuiscono a una maggior diminuzione della crisi identitaria e a uno sviluppo della resilienza della comunità stessa. E’ inoltre importante verificare in quale modalità varia l’impatto di una calamità su un territorio con la presenza di cittadini preparati ad affrontarla, quali sono le variabili che incidono sugli indici di resilienza e in che modo avviene il cambiamento successivo all’evento.

28 “Lineamenti di antropologia dei disastri - Un inquadramento teorico e alcune riflessioni dallo

(29)

1.3 Due approcci a confronto: capacity building e comunità

resilienti

La logica della resilienza di comunità prevede un approccio diverso da quello delle normali strategie politiche di capacity building (costruzione delle capacità). L’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, nel 1991, ha definito il capacity

building come la creazione di un ambiente che favorisce, attraverso opportune

strutture politiche e giuridiche, lo sviluppo istituzionale. Esso comprende la partecipazione alla società, lo sviluppo delle risorse umane e il rafforzamento dei sistemi di gestione. Per l’UNDP il processo di capacity building coinvolge molti e diversi stakeholders29 locali, enti pubblici e privati, ONG, università, centri di ricerca, ecc… prevede un processo attento, lungo e continuo che può essere supportato da attori esterni. Nel 2006 l’UNDP ha ulteriormente specificato che la “capacità” è l’abilità di individui, istituzioni e società di realizzare funzioni, risolvere problemi, porre e raggiungere gli obiettivi in una maniera sostenibile. Il suo sviluppo, “capacity

development”, è pertanto, il processo attraverso il quale tali abilità vengono acquisite,

rafforzate, riadattate e preservate nel tempo principalmente in maniera endogena e sotto una guida interna. Il capitolo 37 di “Agenda 21 - Programma d’azione per lo

sviluppo sostenibile” dal titolo “Creare capacità per uno sviluppo sostenibile” fornisce

come definizione di capacity building: “L’abilità di una Nazione di perseguire percorsi di

sviluppo sostenibile determinata, in larga parte, dalla capacità delle persone e delle istituzioni al pari delle sue condizioni ecologiche e geografiche”. In particolare, il capacity building comprende: “le capacità del capitale umano, scientifico, tecnologico, organizzativo, istituzionale e finanziario di una Nazione”. Inoltre: “Un obiettivo fondamentale del capacity building è quello di potenziare l’abilità, di valutare e di indirizzare le questioni cruciali relative alle scelte di policy e le modalità di implementazione tra più opzioni di sviluppo, basate sulla comprensione delle potenzialità dell’ambiente e sui limiti e sui bisogni percepiti dai cittadini dei paesi interessati”.30 Nelle analisi di alcuni studiosi31 il capacity building è: “un approccio allo sviluppo, non qualcosa di separato da esso, una risposta ai processi multi-dimensionali

29 “Tutti i soggetti, individui od organizzazioni, attivamente coinvolti in un progetto, il cui

interesse è negativamente o positivamente influenzato dal risultato dell’esecuzione, o dall’andamento, dell’iniziativa e la cui azione o reazione a sua volta influenza le fasi o il completamento del progetto stesso”, definizione tratta da

http://www.treccani.it/enciclopedia/stakeholder/, visitato l’ultima volta il 21 febbraio 2017

30 disponibile su https://sustainabledevelopment.un.org/outcomedocuments/agenda21, visitato

l’ultima volta il 21 febbraio 2017, traduzione a cura del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare

31 Eade in “What is Capacity Building?” citato e tradotto in “L’innovazione tecnologica ed il

‘capacity building’ per la protezione dell’ambiente” di Coppola per ISPRA - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale

(30)

del cambiamento e non soltanto una serie di interventi tecnici distinti o predisposti per apportare un risultato pre-definito. Nel supportare il lavoro delle organizzazioni, infatti, è necessario rafforzare diverse capacità: intellettuali, organizzative, sociali, politiche, culturali, materiali, pratiche o finanziarie”. Infine, secondo l’Asian Development Bank

Institute, il capacity building è: “un processo che mette in moto un cambiamento su più

livelli di individui, gruppi, organizzazioni e sistemi. Il capacity building è un’azione che mira a rafforzare le capacità autoadattive delle persone e delle organizzazioni, in modo che esse siano in grado di rispondere ad un ambiente che cambia, ed è, dunque, un processo di apprendimento sviluppato su multi-livello32”. Wenger33 sostiene invece che le comunità resilienti non sono quelle che costruiscono beni per beneficiari diretti o indiretti, ma quelle che cercano integrazioni e coalizioni in modo spontaneo e consapevole con altri componenti della propria e di altre comunità. All’interno di queste realtà, i soggetti che normalmente hanno svolto un tipo di attività si aprono a nuove modalità di lavoro entrando in relazione con altri soggetti e risorse. Dunque ne ricaviamo che per migliorare la resilienza di comunità, il capacity building non deve essere separato da essa. Tutte le azioni e i progetti che vi sono legati devono correre parallelamente sullo stesso binario delle azioni e dei progetti legati all’accrescimento della resilienza. Se un progetto non tiene in considerazione entrambi gli aspetti potrebbe non essere funzionale o completo in caso di risposta ad un cambiamento.

1.4 Due capacità a confronto: empowerment e comunità

resilienti

Empowerment e resilienza possono avere tematiche di sovrapposizione, ma denotano comunque alcune differenze. Entrambe condividono l’enfasi su fattori come la partecipazione, la padronanza e il coinvolgimento, ma il primo pone maggiormente il focus sui soggetti della comunità competente, mentre la seconda si crea in base all’adattamento alla vulnerabilità e ai fattori di rischio. All’interno di una comunità gli attori cambiano le condizioni se sviluppano un senso di responsabilità e di proprietà rispetto al problema, se partecipano in maniera attiva alla gestione dei problemi e se percepiscono di avere il potere. E’ quindi necessario per sviluppare empowerment e resilienza passare da politiche basate sull’offerta a politiche basate sulla domanda. La parola empowerment letteralmente significa: “acquisizione di potere” e rappresenta

32 Morrison in “Actionable Learning” citato e tradotto in “L’innovazione tecnologica ed il ‘capacity

building’ per la protezione dell’ambiente” di Coppola per ISPRA - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale

33Coltivare comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza” di Wenger, McDermott, Snyder, Guerini editori, 2007

(31)

l’insieme delle conoscenze, competenze e modalità di relazione che permettono ad una persona di avere più controllo della propria vita, quindi anche di affrontare le scelte in maniera consapevole e responsabile. In questo contesto, il “potere” deve essere visto in modo positivo, inteso cioè come senso di partecipazione, emancipazione e consapevolezza di poter raggiungere un obiettivo desiderato. Un soggetto dotato di empowerment ha il potere di individuare all’interno della sua comunità le risorse necessarie per rispondere a un determinato bisogno o necessità, analizzando sia gli aspetti positivi che quelli negativi. Nei processi partecipativi talvolta viene utilizzata una tecnica definita come: “individuazione dell’avvocato del diavolo e dell’avvocato dell’angelo”. Questa tecnica mira a rintracciare i punti negativi di un progetto e gli ostacoli che la sua realizzazione eventualmente presenta ma anche, tramite l’avvocato dell’angelo, a far emergere le risorse, gli aspetti positivi e i punti di forza che lo stesso progetto, grazie alla partecipazione, potenzialmente sviluppa.34 Uno degli elementi costitutivi del processo di empowerment, nonché dei suoi esiti è pensabilità operativa positiva, intesa come la capacità di una comunità di focalizzarsi sulle risorse disponibili per raggiungere gli obiettivi sperati. Per essere positivi, i soggetti hanno bisogno di essere coinvolti attivamente nelle scelte che riguardano la propria vita e la propria comunità. Secondo Zimmerman l’empowerment non è un tratto immutabile della personalità, ma una costruzione dinamica ed evolutiva guidata dal contesto: assume perciò forme diverse per persone diverse in contesti diversi. Secondo l’autore, l’empowerment oltre a non essere uguale per tutti, si sviluppa a diversi livelli e con diversi gradi in ogni singolo soggetto. L’empowerment inoltre, si costituisce come un modello in continua evoluzione soggettiva, sottoposto quindi anche alla variabile tempo. Infine, secondo Zimmerman, altri tre fattori da tenere in considerazione per sviluppare l’empowerment sono35:

Figura 1-3

Gli aspetti comuni a tutta la scienza e la letteratura che si occupa di resilienza sono quelli di definirla come: “la chiave per affrontare i rilevanti mutamenti in atto e

soprattutto per costruire strategie di adattamento rispetto ai cambiamenti climatici e

34 “L'avvocato dell'angelo. Razionalità e Creatività: strumenti e tecniche per favorire l'efficacia

tramite il piacere” di Jaoui e Dell’Aquila, Franco Angeli, 2010

35 “Empowerment e partecipazione della comunità. Un’analisi per il prossimo millennio”, di

Zimmerman in “Animazione sociale”, 2, 1999, pp.10-24.

CONSAPEVOLEZZA

CRITICA

CONTROLLO

AZIONE

COLLETTIVA

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