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L'imperialismo giapponese. Colonie e territori occupati, 1895-1945

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Riassunto analitico

Con questa tesi intendo esplorare il fenomeno dell'imperialismo giapponese, l'unica forma di grande colonialismo messa in atto da un paese non occidentale. Pertanto ho esposto i momenti salienti della storia nipponica, dall'ingresso nell'età contemporanea (rinnovamento Meiji, 1868) alla disfatta nella seconda guerra mondiale, allo scopo di indagare l'affermarsi di un pensiero nazionalista, tinteggiato di militarismo e con una stridente nota panasiatica; ciò spiega la lunghezza del capitolo terzo, ove mi soffermo sulla sostanziale litigiosità dei vari attori (istituzionali, militari, economici) sui modi e i tempi dell'espansione in Asia orientale. Il corpo centrale della tesi è rivolto all'analisi della gestione sia dei possedimenti coloniali, sia dei territori occupati militarmente dopo il 1930 ‒ segnatamente la Manciuria, la Cina settentrionale e centrale, l'Indocina e il resto del Sud-est asiatico, le isole nell'Oceano Pacifico occidentale. Qui ho cercato di far risaltare il profilo economico-finanziario dell'imperialismo giapponese e alcune sue peculiarità, quali ad esempio l'industrializzazione accelerata delle proprie colonie. Non ho, infine, potuto esimermi dall'affrontare il tema dei crimini di guerra, compiuti sull'onda della mitologia imperiale giapponese.

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Prefazione

Nell'ottobre 2015 ho ottenuto la laurea triennale in storia con una tesi intitolata La

guerra del Pacifico: in quell'elaborato mi ero concentrato principalmente sulla

preparazione militare ed economica del Giappone imperiale per occupare quella che fu battezzata Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale e, di conseguenza, sull'esposizione e descrizione dell'andamento del conflitto tra l'Impero nipponico e lo schieramento alleato, in specie gli Stati Uniti e l'Impero britannico. Particolare attenzione avevo pagato alle cruciali battaglie che segnarono svolte importanti (talvolta epocali) nello svolgimento della guerra, quali ad esempio Pearl Harbor, il Mar dei Coralli e Midway, Guadalcanal e le Salomone, il Mare delle Filippine e il Golfo di Leyte; alle decisioni strategiche prese dai due belligeranti e alle loro ripercussioni; alle evoluzioni tecnologiche e tattiche; alle atrocità e ai crimini commessi. Si tratta, dunque, di uno scritto di taglio squisitamente militare e geopolitico che, in effetti, lasciava un po' in secondo piano il Giappone come potenza coloniale, nonché la tormentata e a volte grottesca evoluzione delle sue istituzioni, travisata o superficialmente liquidata in Occidente. Basti pensare che è diffusa, qui da noi, l'idea che il generale Tōjō fosse né più né meno un Hitler nipponico, il grande malvagio dell'Estremo Oriente, quando al contrario quasi nulla si dice dell'imperatore Hirohito e della sua famiglia, della marina imperiale, del sostanziale accordo di una parte importante dei partiti politici e dei "poveri civili" all'espansione territoriale.

Ecco, questa tesi vuole essere complementare all'elaborato della triennale. Come accennato nel riassunto analitico, mi sono occupato di spiegare come e perché l'Impero giapponese riuscì a ergersi quale potenza regionale nell'Asia nord-orientale e a conquistarsi una serie di colonie tra il 1895 e il 1914 ‒ che analizzo nel dettaglio nella loro storia ‒ prima di imboccare un corso nazionalista, panasiatico, aggressivo e con poche remore per le leggi internazionali il quale doveva portarlo, dopo una folgorante ascesa, a una disfatta di proporzioni immani. Ho, di conseguenza, del pari trattato l'organizzazione e lo sfruttamento delle vaste regioni occupate da Tokyo nel 1941-42 e, anche, le violenze inflitte a civili, militari, occidentali e asiatici indistintamente. Mi auguro di essere riuscito a dare un quadro almeno generale di quello che fu il fenomeno peculiare, spettacolare, nuovo eppure allo stesso tempo antiquato rappresentato dall'imperialismo giapponese tra la fine dell'Ottocento e il 1945.

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Sommario

Riassunto analitico ... 1  Prefazione ... 2  Introduzione ... 4  Parte prima ... 6 

Il Giappone Tokugawa e il rinnovamento Meiji ... 7 

La guerra contro gli imperi cinese e russo ... 21 

Il Giappone grande potenza: ascesa e disfatta ... 34 

Parte seconda ... 71 

Taiwan: prototipo di colonia ... 72 

La Corea ... 102 

La remota Karafuto ... 157 

Il Kwantung e la Manciuria ... 169 

Nan'yō: le isole mandatarie nel Pacifico ... 216 

La Cina occupata. Sfruttamento e violenze ... 236 

Le modalità d'occupazione nel Pacifico e Sud-est asiatico ... 249 

Parte terza ... 272 

Conclusioni ... 273 

Una riflessione sull'imperialismo ... 279 

Bibliografia ... 285 

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Introduzione

Questa tesi parla dunque dell'imperialismo giapponese in Asia orientale e in parte dell'Oceania. Il reperimento di fonti sull'argomento non è stato, tuttavia, facile o immediato. Ho cercato di raccogliere volumi e opere di varia provenienza nazionale: preponderanti si sono rivelati gli autori anglosassoni e statunitensi, a volte con lavori a mio avviso pregiati, quale Japanese imperialism 1895-1945 di William G. Beasley. Con una certa sorpresa (e poi sollievo, ammetto) ho potuto constatare che anche storici e professori giapponesi, o taiwanesi, hanno redatto libri in inglese con il patrocinio di università statunitensi californiane ‒ e non a caso, visti i rapporti socio-economici e culturali che legano lo Stato della California al Giappone e più in generale all'Estremo Oriente. Ciò mi è risultato utile per una molto opportuna prospettiva dal lato nipponico e/o di quei popoli che i giapponesi sottomisero nell'arco di ottant'anni. Al contrario, la mia totale ignoranza delle lingue asiatiche mi ha sicuramente impedito di accedere a molto altro materiale interessante. Porrò rimedio.

Oltre alla biblioteca di Storia e Filosofia dell'Università di Pisa e all'onnipresente sito Amazon.com, una sorgente preziosa di assai specifici saggi sull'argomento è stato il

Journal Storage o JSTOR in breve; un archivio elettronico credo quasi sconfinato, ove

basta cercare con un po' di pazienza per imbattersi in davvero una marea di informazioni. Infine, ho integrato nella bibliografia diversi volumi della mia biblioteca personale. Nel corso della stesura, tuttavia, mi sono anche servito di due siti solidi e affidabili che consulto abitualmente da qualche anno per mia curiosità o diletto: The

Pacific War online Encyclopedia, articolata su una bibliografia cartacea consultabile e

assai vasta (comprende opere che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono inedite in Italia); e la HyperWar Foundation, archivio di monografie, documenti, libri appartenenti al governo degli Stati Uniti d'America, opportunamente digitalizzati e messi in rete a pubblica disposizione. In particolare questo secondo sito è una spaventosa miniera, una vera chicca per storici, appassionati e simili, nella quale si rischia di perdersi (piacevolmente, parlando per me).

I capitoli utilizzano tutte queste fonti senza particolari limitazioni o raggruppamenti tematici: ad esempio, al capitolo VIII ho impiegato tre o quattro saggi da JSTOR, un volume in mio possesso, due presi in prestito. In genere ho cercato di adoperare più fonti per referenziare un paragrafo o un gruppo di paragrafi, allo scopo di

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5 garantire un minimo di riscontro. Purtroppo non sempre mi è stato possibile, come con il capitolo V, ove le multiformi trovate giapponesi per influenzare e nipponizzare il popolo coreano sono state tratte dall'unico volume che si spende su questo recondito aspetto dell'imperialismo del Sol Levante. Altre volte, invece, la mole di notizie, dati, spiegazioni, approfondimenti era tale che mi sono trovato costretto a operare tagli anche pesanti ‒ e questo è, soprattutto, il caso del capitolo VII sul Manchukuo, suppongo abbastanza celebre anche solo per il nome e per il quale ho fatto affidamento su due "opere magne" dal livello di dettaglio a volte frustrante.

La tesi, organizzata in tre parti e dodici capitoli, espone sinteticamente la storia nazionale e internazionale del Giappone dalla rivoluzione Meiji del 1868-69 sino alla sconfitta ultima nel settembre 1945, con annessi e connessi del dopoguerra, pur aventi a che fare con il solo fenomeno imperialista (non parlo, ad esempio, degli esecutivi Yoshida degli anni cinquanta o della ripresa economica quasi miracolosa del paese, se non di sfuggita). Al capitolo I ho esposto i tratti salienti del grande mutamento nipponico, i suoi protagonisti e le sue conseguenze; i capitoli II e III, concentrati sul periodo compreso tra il 1885 e il 1945, vogliono fungere da mappa per orientarsi nella storia contemporanea dell'Impero nipponico tramite opportuni rimandi collocati nel testo dei successivi capitoli, raccolti in una parte seconda. Essa affronta, una per una, le colonie classiche del Giappone: Taiwan/Formosa, Corea, Karafuto, Kwantung e Manciuria/Manchukuo, capitolo nel qual'ultimo ho pensato bene di innestare l'oscura e inquietante vicenda dell'Unità 731 e del programma biologico sovvenzionato dall'esercito imperiale. Sempre nella seconda parte ho voluto dilungarmi sull'amministrazione rapace della Cina occupata, del Sud-est asiatico e del Pacifico occidentale strappati alle potenze europee e agli Stati Uniti, un aspetto magari un po' più conosciuto al grande pubblico italiano. Qui ho infine riportato i casi più eclatanti o tristemente famosi di crimini di guerra, le modalità più abituali con i quali furono commessi e l'atteggiamento (o la connivenza) delle autorità nipponiche circa questi fatti.

La parte terza contiene le conclusioni, le considerazioni e le riflessioni finali su ciò che è stato detto nelle parti precedenti. In più ho ritenuto opportuno aggiungere un capitolo un po' più teorico sull'imperialismo in sé, allo scopo di fornire qualche spunto circa la sua generale definizione storiografica, i suoi limiti cronologici, il rapporto con il campo semantico ricompreso in "colonialismo". Avrebbe dovuto trovarsi in apertura, ma in seguito ho accettato il consiglio del mio professore relatore di spostarlo in chiusura.

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Il Giappone Tokugawa e il rinnovamento Meiji

I

L PAESE CHIUSO

Il Giappone, a causa della sua posizione geografica e della sua insularità, ha potuto svilupparsi in maniera originale, controllando le novità esterne, sin dagli albori della sua storia. Il paese poteva vantare antichi rapporti con l'Impero cinese, dal quale aveva importato la scrittura, la dieta a base di riso, il buddismo e i principi confuciani circa l'ordinamento statale e sociale. La popolazione si sostentava principalmente con l'agricoltura e, in un secondo momento, con la manifattura tessile. Nel tempo si sviluppò anche una discreta industria navale che forniva vascelli per il commercio così come per le scorrerie sulle coste del continente, dove i pirati giapponesi colpirono con regolarità durante i primi secoli del II millennio.

L'arcipelago era fittamente suddiviso in feudi (han), ciascuno guidato da una famiglia o clan capitanata dal rispettivo daimyō che, alle sue dipendenze, aveva un proprio manipolo armato formato dai samurai. I daimyō dovevano fedeltà all'imperatore che tra di loro sceglieva lo shōgun o massima autorità militare, letteralmente "grande generale che sottomette i barbari", a cominciare dallo scorcio del XII secolo. La carica era stata creata da Minamoto Yoritomo e, da allora, si ebbe un governo bicefalo nel quale subito acquisì preminenza il potere temporale del comandante militare: gli shōgun avevano saputo relegare la casata imperiale a un mero ruolo sacerdotale-cerimoniale, privo di qualsivoglia potere effettivo se non quello di investirli della propria autorità.1 La carica divenne ambita e disputata e, così, cominciò una serie di guerre tra mutevoli alleanze di clan e daimyō, che imperversarono nel paese sino alle soglie del XVII: nel 1600, a Sekigahara, Tokugawa Ieyasu riuscì a prevalere sulla coalizione avversaria, a ricevere l'investitura di shōgun e a imporre la sua famiglia come padrona del Giappone

1 Kenneth G. Henshall, Storia del Giappone, Oscar Mondadori, Trento, 2014 (ed. originale 1999), pp.

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di allora (che non sempre comprendeva Hokkaidō, l'isola più settentrionale).2

I Tokugawa costruirono un complesso sistema per mantenersi al potere e scongiurare una ricaduta nelle guerre intestine. I daimyō loro alleati (fudai daimyō, ovvero "signori interni") ebbero la possibilità di partecipare al governo del paese e si imparentarono con i Tokugawa; gli ex nemici (tozama daimyō ovvero "signori esterni"), in particolare i domini di Satsuma, Chōshū, Hizen e Tosa nel Giappone meridionale, furono esclusi dalle alte sfere, colpiti da leggi che vietavano matrimoni tra i rampolli, ma in cambio fu loro riconosciuta maggiore libertà negli affari interni. Tutti i daimyō dovevano risiedere per sei mesi nella nuova capitale Edo/Yedo (oggi Tokyo) e per gli altri sei mesi dell'anno, quando tornavano nei rispettivi feudi, vi lasciavano mogli e figli come garanzia di fedeltà. La famiglia imperiale e il sovrano rimasero invece a Kyoto in una sorta di dorata prigionia. Ieyasu si accertò che ogni feudo disponesse di appena uno o due castelli, facendo radere al suolo quelli in sovrabbondanza, e rese obbligatoria l'elencazione dei beni e delle ricchezze di ogni han, in modo tale da ordinare grandi lavori pubblici onde mantenere vuote le casse dei daimyō. Infine si premurò di perpetuare la differenza sociale tra uomini comuni, civili, dai samurai, gli unici con autorizzazione a brandire armi bianche o da fuoco (peraltro marginalizzate).3

La società fu organizzata secondo una rigida gerarchia. Sopra alla piramide, avvolto da un alone di ieratica incorporeità, stava l'imperatore; subito dopo veniva lo shōgun, massimo capo politico e militare che agiva in nome di sua maestà e vero uomo forte del paese. Quindi si trovavano i daimyō, i samurai, i contadini e i mercanti: in Giappone, così come era stato in Europa, le attività manuali e in particolare quelle che riguardavano il maneggio di denaro erano considerate avvilenti e umilianti dall'aristocrazia, che conduceva pertanto uno stile di vita ozioso e parassitario. Il sistema, difatti, si reggeva su pesanti imposizioni e corvées esatte dai contadini, dapprima solo in natura e poi anche monetarie. Vi era infine una buona fetta di popolazione che non compariva in questo organigramma sociale, vale a dire i

burakumin o villani, persone considerate impure per i lavori che svolgevano (conciatori

ad esempio) e quindi indegne persino di essere nominate. Tuttavia erano loro garantite le occupazioni, pur necessarie, e furono completamente esentati stante la loro dilagante

2 Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 38-41; Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada. Modelli di

cultura giapponese, Laterza e Arti Grafiche Editoriali, Urbino, 2017 (ed. originale 1946), pp. 68-70.

3 Egerton H. Norman, La nascita del Giappone moderno. Il ruolo dello stato nella transizione dal

feudalesimo al capitalismo, Einaudi Paperbacks, Torino, 1975 (ed. originale 1940), pp. 16-20; Benedict, Il crisantemo e la spada, cit., pp. 71, 78-79; Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 85-86.

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indigenza.

Tale impalcatura serviva a dare a ciascuno "il giusto posto", secondo un concetto ben radicato nella cultura giapponese, e a fornire un apparato di leggi e reciproche obbligazioni che, se rispettate da tutti (pena punizioni severissime e il frequente ricorso alla condanna a morte), consentivano una vita tutto sommato sicura, ancorché non facile. Esistevano modi e metodi per aggirare in sordina le barriere di casta, una cosa accettata in virtù di un principio assai giapponese di rispetto formale, di facciata, dell'autorità in cambio della tolleranza di questa a piccoli adattamenti, a concessioni localizzate. Per esempio, i mercanti più ricchi potevano sposare i propri figli e figlie a giovani samurai come misura di estinzione dei debiti che, spesso, venivano contratti dalle famiglie di ormai ex guerrieri. Costoro infatti, essendo cessate le guerre, tiravano avanti con modeste rendite e si dedicavano all'arte, alla letteratura e altre pacifiche attività, tra le quali arrivò a spiccare quella di amministratore delle terre dello han per conto del signore.

I contadini detenevano la proprietà delle terre che coltivavano e potevano inviare petizioni o lagnanze sia ai rispettivi daimyō, sia addirittura allo shōgun; potevano altresì eleggere un loro portavoce che esprimesse l'eccessiva onerosità delle tasse (che in alcuni domini arrivavano all'80% del raccolto). Questi era poi giustiziato perché si era macchiato di insubordinazione, ma in genere le richieste erano accolte, nella metà dei casi la ragione veniva riconosciuta ai braccianti e il condannato diventava post mortem un leader ispiratore per la comunità di villaggio.4

La ricetta dei Tokugawa era completata dall'opzione dell'isolamento dal mondo esterno (sakoku) allo scopo di chiudere fuori, o selezionare attentamente, persone e idee esterne che potessero in qualche modo destabilizzare il meticoloso palazzo sociale, amministrativo e politico posto in essere. Traffici per mare di una certa rilevanza furono tollerati solo con la Cina tramite il Satsuma, che deteneva il controllo delle isole Ryukyu. Emissari, ambasciatori ed esploratori furono cacciati, i cristiani furono perseguitati e uccisi nel tentativo (quasi riuscito) di eradicare la loro religione, ritenuta sovversiva. Addirittura il varo di grandi navi divenne un reato, passibile di pena di morte, sì che la pirateria nipponica svanì nell'arco di pochi anni. Solo a uno sparuto gruppo di olandesi fu permesso di vivere sull'isolotto di Deshima a Nagasaki. Rari

4 Benedict, Il crisantemo e la spada, cit., pp. 72-77, 80, 82-83; Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 84,

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inviati occidentali, se riuscivano a sbarcare, erano duramente estromessi o giustiziati.5 Nel corso del XVII, XVIII e parte del XIX secolo, perciò, l'Impero giapponese visse relegato in volontaria solitudine e coltivò, con pochissimi influssi esterni, il proprio mondo culturale. Lo shogunato mantenne un ferreo controllo sulla struttura sociale pianificata e continuò a marginalizzare i successivi imperatori sul trono, contribuendo a rendere la dinastia una stirpe eterea e semidivina, verso la quale tutti i giapponesi dovevano un grande debito in virtù del suo esistere e "governare". Fu un periodo che vide il fiorire o l'impreziosirsi di importanti forme teatrali ‒ kabuki, nō,

bunraku ‒, pittoriche ‒ ukiyo-e ‒ e letterarie, di stili architettonici peculiari (pagode,

templi shintoisti) nonché di accorti lavori d'irrigazione e dell'affermarsi di una ramificata, solida industria tessile. Per il resto fu fatto ogni sforzo atto a perpetuare l'ordine stabilito, le tradizioni di onore, lealtà, onestà, sacrificio, dedizione e alla famiglia e allo Stato. L'incremento graduale di ricchezza tra le classi agiate (mercanti, daimyō) o al contrario la necessità di limitare le bocche da sfamare (samurai, contadini) sfociarono in una quasi stagnazione demografica e in un certo invecchiamento della popolazione. Al contempo fu eretta ogni sorta di barriera doganale al fine di rallentare i traffici interni, scongiurare l'incremento esponenziale di ricchezza nella casta mercantile e ribadire le divisioni tra i dominî.6

Al principio dell'Ottocento, comunque, cominciavano ad avvertirsi segni di cedimento. Il vasto contado, povero e sfruttato, dette luogo a rivolte violente ed era sempre meno in grado di far fronte alle esose fiscalità. I samurai di estrazione medio-bassa avevano perso i privilegi bellici e moltiplicavano i debiti con i mercanti che, al contrario, riuscivano a infiltrarsi nelle caste superiori grazie alle disponibilità economiche. I daimyō rivelavano una crescente indolenza, per quanto ormai non rappresentassero più un apparente pericolo per lo shogunato. Crepe si erano aperte nel guscio isolazionista e alcuni signori, imitati da membri dei Tokugawa stessi, capirono che il sakoku non sarebbe potuto durare a lungo dinanzi alla crescente frequenza di spedizioni straniere. Fu allora seriamente ipotizzata la possibilità di un generale riarmo e di una parziale apertura pur di prolungare lo status del Giappone, ma era già troppo tardi.7

5 Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 89-92; Benedict, Il crisantemo e la spada, cit., p. 72.

6 Cfr. Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 96-98; Norman, La nascita del Giappone moderno, cit., pp.

29-31.

7 Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 96-101; Benedict, Il crisantemo e la spada, cit., p. 85; Norman,

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OPPIA RIVOLUZIONE

In aperta competizione con il Regno Unito, Washington si era gettata nella conquista delle distese dell'Oceano Pacifico, ideale prolungamento della "mitica frontiera", subito dopo la fine della guerra con il Messico nel 1848 e l'integrazione della California. La preoccupazione era grande giacché, con la guerra dell'oppio conclusa nel 1842, Londra aveva acquisito privilegi commerciali nei porti del Celeste e in declino Impero, minacciando di tagliar fuori qualsiasi altro concorrente e di raggiungere un totale monopolio nella regione. Lo scopo di tali spedizioni navali era il riconoscimento di franchigie esclusive per gli Stati Uniti e, anche, la ricerca in Giappone di porti e moli per le baleniere e le navi da pesca che da decenni operavano al largo dell'arcipelago.

Nel luglio 1853 quattro pirofregate statunitensi, al comando del commodoro Matthew Perry (1794-1858) e verniciate di nero, si presentarono alla baia di Edo e attraccarono dopo la minaccia del comandante di fare uso dei cannoni di bordo, contro i quali i giapponesi non avevano nulla da contrapporre. Perry parlamentò con inviati dello shōgun e si spostò come da istruzioni a Nagasaki, dove fece sapere di voler sottoporre al

bakufu ‒ "governo della tenda [militare]", per estensione l'amministrazione Tokugawa ‒

un trattato commerciale e una lettera del presidente, cose entrambe avvenute sempre all'insegna di una prova di forza. Le "navi nere" divennero così un vero e proprio spauracchio e un trauma per i giapponesi, il simbolo della superiorità tecnologico-militare aliena e dell'improvvisa presa di coscienza della fine del sakoku.

Il commodoro, infatti, rientrò in acque nipponiche nel febbraio 1854 e sottoscrisse il trattato nel frattempo redatto dai collaboratori dello shōgun Tokugawa Iesada (1824-1858): divenne noto come convenzione di Kanagawa e apriva tre porti agli Stati Uniti i quali, tuttavia, non seppero approfittare a lungo della contingenza in quanto risucchiati dal disastro della guerra di secessione. Al contrario, in Giappone l'evento fu di vastissima portata. La classe dirigente giapponese comprese di aver fallito nell'escludere il paese dal resto del mondo. I primi provvedimenti presi per porre rimedio all'evidente arretratezza furono la richiesta di consiglieri militari a nazioni europee (segnatamente la Francia, poi la Germania dopo gli eventi del 1870-71), il ristabilimento di forze armate nei vari dominî e l'ordine di unità navali capaci. Le spese necessarie e l'implicita dichiarazione che lo shogun avrebbe comandato questo nuovo tipo di esercito, composto anche da semplici civili, generò grandi proteste tra i daimyō più conservatori

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o signori dei feudi tradizionalmente avversi ai Tokugawa, vale a dire Satsuma, Chōshū, Tosa e Hizen.8

Tra la fine del 1854 e la fine del 1858 anche l'Impero russo, la Francia, il Regno Unito, i Paesi Bassi avevano ottenuto i propri trattati ineguali. Bastimenti europei e americani transitavano nelle acque giapponesi, si ormeggiavano in sempre più porti e al loro seguito arrivavano missionari, militari, avventurieri, commercianti; le città marittime divennero sede di consoli e residenti stranieri che, umiliazione suprema, erano perseguibili solo dalle leggi del proprio paese e quindi si comportavano in accordo a questo diritto, detto extraterritorialità: presto avvennero alcuni incidenti che costarono la vita a cittadini occidentali. Nel 1862 la Royal Navy bombardò Kagoshima e, l'anno successivo, una squadra composita fece lo stesso a Shimonoseki, impressionando i samurai di quei feudi con la potenza di fuoco delle moderne navi da guerra. Nelle zone rurali la tensione generata dalle nuove spese e dall'apparente incapacità di cacciare gli stranieri non accennava a diminuire. L'urgenza di agire cozzava con i contrasti sulle modalità più adatte, al punto che nel 1867 il paese fu spaccato in due da un conflitto intestino noto come guerra Boshin: da una parte il bakufu da poco ereditato da Tokugawa Yoshinobu (1837-1913) con gli alleati fudai, dall'altra i tozama con in testa Satsuma e Chōshū, fazione che aderiva al motto sonnō

jōi, stante per "riverire l'imperatore, cacciare i barbari". Lo schieramento imperiale

ribelle annoverò anche lo stesso sovrano Kōmei (1831-1867) che, con un'azione senza precedenti da secoli, fece diffondere su istigazione degli insorti un proprio proclama contro l'occidentalizzazione del Giappone, voluta invece dallo shōgun.

La guerra durò due anni e vide la vittoria finale dello schieramento imperiale, al cui vertice era salito Mutsuhito (1852-1912) il 7 febbraio 1868, dopo la repentina morte di Kōmei. Nel 1869 Yoshinobu rinunciò alla sua carica e il bakufu fu smantellato, lasciando al vertice del Giappone il solo imperatore. In realtà, egli era appena un ragazzo e fu circondato da una schiera di varie personalità dei clan usciti vincitori dalla guerra: da Satsuma provenivano Saigō Takamori (1828-1877), Kuroda Kiyotaka (1840-1900), Matsutaka Masayoshi (1835-1924), Ōyama Iwao (1842-1916); da Chōshū Yamagata Aritomo (1838-1922), Itō Hirobumi (1841-1909), Inoue Kaoru (1835-1915), Katsura Tarō (1848-1913); infine da Kyoto emerse il nobile di corte Saionji Kinmochi

8 William G. Beasley, Japanese imperialism 1894-1945, Claredon Paperbacks of Oxford University,

Oxford, 1987, pp. 21-23; Sarah C. M. Paine, The Japanese Empire. Grand Strategy from the Meiji Restoration to the Pacific War, Cambridge University Press, Cambridge, 2017, pp. 3-4; Norman, La nascita del Giappone moderno, cit., pp. 45-47, 49-54.

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(1849-1940). Eccettuato questi, si trattava in genere di uomini nati in famiglie samurai di bassa estrazione che avevano studiato opere occidentali e talvolta imparato le lingue straniere; una parte di loro partecipò anche, tra 1871 e 1872, alla missione capitanata da Iwakura Tomomi (1825-1883), un altro dei riformatori: un lungo viaggio in Europa e Stati Uniti per studiarne i sistemi politico-economici e le tecnologie. Ancorché avessero combattuto per l'imperatore e contro lo shogunato, costoro ritennero opportuno per il Giappone arrivare a un compromesso tra tradizione e novità. In caso contrario, infatti, non era sciocco pensare che l'impero sarebbe finito come la Cina.9

Questi sono i nomi più noti tra gli artefici del rinnovamento Meiji, definizione che ricalca il nome dell'epoca di regno di Mutsuhito. Il processo fu guidato da una particolare alleanza tra questi samurai di basso rango, provenienti in grandissima parte dagli han del Giappone meridionale, e tra i grandi mercanti (chonin) che nel periodo Tokugawa avevano acquisito ricchezza e influenza lavorando per i daimyō, maturando crediti verso di loro, acquistando terreni. A tale schieramento si affiancò la corte imperiale con il suo seguito di nobili e, poi, i grandi proprietari terrieri e la vecchia aristocrazia feudale. Queste personalità illuminate divennero note in seguito come

genrō, ossia "statisti anziani". Non si trattò mai di un ruolo costituzionale né ufficiale,

bensì di una sorta di oligarchia che dettò legge a lungo nella forma di un consesso privato vicino all'imperatore. Numerosi tra costoro divennero poi marescialli dell'esercito, capi di governo, ministri. Il rinnovamento fu un processo contraddittorio: gli oligarchi si premurarono di salvaguardare il sistema e la cultura nazionali (kokutai), così come di assorbire quelle forme e conoscenze occidentali che potevano risultare utili a potenziare il paese. Ritennero anche opportuno assumere una facciata congeniale alle aspettative delle potenze straniere, di modo che il Giappone fosse più facilmente accettato come una di loro.

La grande trasformazione prese avvio nel 1869 con la soppressione dei feudi, del sistema delle caste e l'istituzione di prefetture e zone metropolitane, sanzionate da leggi apposite varate nel corso del 1871. I daimyō e i samurai furono indennizzati con una rendita proporzionale a quella goduta sotto i Tokugawa: i primi furono spesse volte riciclati come governatori, mentre la gran parte dei samurai cadde a un livello di poco superiore alla sussistenza e dovette esercitare lavori quali funzionari, poliziotti o

9 Beasley, Japanese imperialism, cit., pp. 24-25; Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 105-106,

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14 militari. Infatti nel 1873 le milizie feudali furono ufficialmente sciolte per fare spazio a un esercito nazionale di leva e a una marina militare unificata, affidati a consiglieri europei. La riforma dell'esercito fu curata da Yamagata in persona, che ne divenne il padre spirituale e doveva trarre grandissimo prestigio dalle sue vittorie; la marina si rivolse al modello della Royal Navy. Nel 1882 un Rescritto imperiale ai soldati e marinai chiarì la cristallina obbedienza e i compiti delle forze armate. Assieme a esse, l'istruzione fu individuata quale cruciale ambito di amalgama per la coscienza nazionale e fu sottoposta a un discreto, efficiente e pervicace scrutinio delle autorità, che divenne totale verso la fine dell'età Meiji; l'Università imperiale di Tokyo divenne la fucina di un ceto burocratico e tecnocratico al servizio dello Stato. Nel 1890 apparve il Rescritto imperiale sull'educazione, imperniato sui valori confuciani e opera del maestro confuciano Motoda Eifu (designato tutore imperiale): rivolto alla società intera, vi si richiamavano l'amore filiale, l'obbedienza, il duro lavoro, la moderazione, la generosità e altre virtù derivate dall'«insegnamento che ci è stato tramandato da Nostri Antenati Imperiali».

Il sovrano fu riconosciuto capo dello Stato, simbolo dell'unità nazionale e sorgente di ogni autorità, delegata ai suoi fedeli esecutori. Per quanto anima del paese, Mutsuhito non aveva che poca parte nelle discussioni a livello governativo, appariva assai di rado in pubblico, si esprimeva solo attraverso rescritti oppure i genrō assicuravano di agire su suo ordine e volontà; bastava che il monarca ratificasse o approvasse l'operato dei solerti subordinati. Allo scopo di rafforzare la devozione al monarca e all'autorità lo shintoismo divenne religione di Stato: tra i suoi principi risaltava quello di considerare la linea imperiale una compagine super partes, generata in tempi antichissimi dalla dea del Sole Amaterasu il cui figlio, Jimmu, fu primo imperatore del Giappone (660 d.C.) e capostipite di una dinastia ininterrotta. In tal modo l'imperatore si fuse al concetto di nazione per dare vita al kokutai ("sistema nazionale imperiale") e si amplificò il riconoscimento delle gerarchie, il profondo senso di dovere nei confronti della patria e del suo benevolo padre-sovrano, servito con zelo dai suoi figli-statisti. Ciò implicò pure che qualunque figura ufficiale rappresentava il monarca e, pertanto, doveva essere rispettata e seguita. Shintoismo e confucianesimo si legarono inestricabilmente.

Il settore economico e finanziario ricevette grande attenzione dagli oligarchi. Dopo la confisca delle fonderie, dei forni e delle manifatture che erano appartenute ai clan o al bakufu, nel 1873 fu stabilita una tassa fondiaria unica sulla proprietà terriera: furono così assicurate entrate per gli indennizzi a samurai e daimyō. Al contempo

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15 cominciò la costruzione con sussidi e titoli di stato di stabilimenti moderni per la siderurgia, la cantieristica, la produzione di macchine pesanti, affiancata da importazioni di equipaggiamenti e dall'arrivo di tecnici da Europa e Stati Uniti. Una volta ben avviati, gli impianti erano rivenduti a prezzi di convenienza a chi poteva permetterseli, vale a dire i più facoltosi tra i vecchi signori feudali, i mercanti più agiati e pochi ex samurai. Su impulso del governo furono costituite una serie di compagnie commerciali e bancarie, tra le quali emersero i gruppi Mitsubishi, Mitsui e Yasuda: queste si assicurarono presto una larga fetta di aziende e stabilimenti dando vita ai cosiddetti

zaibatsu, monopoli a gestione strettamente familiare che agivano in stretta correlazione

con il capitale bancario, ritenuto un alveo economico sicuro per uno sviluppo protetto dell'ancora debole industria nazionale. Nel 1882 fu creata una Banca del Giappone e lo yen basato sull'argento divenne moneta nazionale.

Nell'industria leggera il settore tessile fu quello che più beneficiò della rivoluzione industriale, sebbene dopo l'iniziale terremoto dovuto alla concorrenza straniera e all'ancora poco ricettivo mercato interno; non a caso si trasformò, nell'arco di pochi anni, nella principale voce di esportazione. Al contrario l'ambito agricolo, che ancora nel XX secolo avrebbe occupato buona parte della manodopera giapponese, fu solo sfiorato dal rinnovamento Meiji: eccettuati i concimi chimici, il mondo rurale nipponico continuò a essere parcellizzato in piccolissime proprietà, gestite da proprietari-capitalisti che facevano lavorare la terra ad altissimi fitti, pagati dai contadini in riso e in denaro (la tariffa statale) che, per arrotondare, mantennero ed espansero la sericoltura. L'intensiva costruzione di strade ferrate permise invece di collegare le principali città: qui erano accolti intellettuali, politici e artisti dall'Occidente, davano impulso alla diffusione di opere straniere su filosofia, tecnologia, storia, botanica, geografia, fisica, matematica. Le nuove idee viaggiavano più rapidamente e con più sicurezza che in passato, stante l'eliminazione del banditismo e delle dogane tra i vecchi confini degli han. Si fecero largo le teorie del darwinismo sociale e dell'auto-aiuto, mentre l'esplosione della stampa in una società alfabetizzata significò la nascita improvvisa di un'opinione pubblica agguerrita e ostile alla ristretta oligarchia Meiji che controllava di fatto il paese, nonché insoddisfatta dalla permanenza dei trattati ineguali e della pesante tassazione. La politica di massa ebbe dunque uno sviluppo precoce.

Nel 1874 si costituì la Aikokukōtō ("Pubblica società dei patrioti") che chiedeva con insistenza istituzioni rappresentative, nel 1880 i piccoli proprietari-agricoltori formarono un Consiglio dei fabbricanti di sakè avverso alle tassazioni sui lieviti

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16 fermentatori; nel 1877 la Risshisha ("Società dei liberi pensatori") fece pervenire a Mutsuhito la richiesta di concedere un'assemblea nazionale. In genere questi primi partiti erano in parte composti da membri di rilievo dei domini di Tosa e Hizen, oramai scaduti dalle posizioni di potere monopolizzate dai samurai di Chōshū e Satsuma, che mantennero vivo uno spirito conservatore, critico verso i grandi capitali industriali: quindi si può dire che molti entrarono nel liberalismo solo perché si era qualificato come antigovernativo nella sua richiesta di abbassamento fiscale, di rappresentanza politica e di una decisa politica estera. Solamente nel 1881 nacque un Jiyutō ("Partito liberale") su iniziativa dell'agitatore Itagaki Taisuke 1837-1919), che assorbì il Consiglio dei fabbricanti in dicembre dopo il suo scioglimento forzato. Esso era sì la voce dei poveri delle città e dei villaggi sfruttati, ma vi confluì anche la bassa aristocrazia terriera Tosa e Hizen, che ne determinò la natura di cauto progressismo e acceso espansionismo sull'esempio occidentale. Ai liberali si affiancò il Rikken

Kaishintō, un "Partito riformista" solo nel nome perché il suo programma originario fu

presto rimaneggiato in accordo all'origine dei finanziamenti ‒ vecchi burocrati Tokugawa, intellighenzia cittadina, grandi imprenditori e la Mitsubishi, che in sostanza premevano per un compromesso costituzionale allo scopo di evitare frizioni interne. Gli oligarchi, in specie Yamagata, Itō e Inoue, emanarono nel 1875 una legge sul controllo della stampa (censura soffocante), poi nel 1878 concessero le assemblee di prefettura,

Fu-Ken Kai, come contentino alle lamentele popolari. La nascita del Jiyutō e

l'incremento dei malumori nel paese, però, consigliarono di annunciare nel 1881 che il Giappone avrebbe avuto un parlamento entro nove anni: pertanto, nel 1882, patrocinarono un partito di governo detto Rikken Tenseitō, reazionario, che però godette di scarso riscontro, e vararono norme severe sul diritto di riunione/associazione. Infine, tra il 1882 e il 1883, i genrō e gli zaibatsu orchestrarono un sottile scandalo che portò a una lotta tra il Jiyutō, il Kaishintō e allo scredito del partito politico, accusato di ricevere soldi dagli zaibatsu e di essere un lacchè del governo autocratico. La tempesta fu tale che nel settembre 1883 il Kaishintō di sciolse e l'anno dopo anche il Jiyutō si disfece: i problemi, però, si moltiplicarono, perché i capi delle sezioni locali, mossi da idee radicali, si misero in testa a sanguinose sommosse rurali e parlavano di ridurre o annullare gli affitti, confusamente ispirati dagli ideali rivoluzionari francesi ‒ il che allarmò il ceto dei proprietari-agricoltori e dette il colpo di grazia all'ibrido liberalismo nipponico, spirato nel 1885. Risorse nel 1890 sempre come Jiyutō ma con tinte decisamente più tradizionaliste, uno spiccato senso nazionalistico e l'inclinazione ad

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appoggiare l'espansionismo.

La Costituzione entrò in vigore nel febbraio 1889 dopo il meticoloso lavoro a porte chiuse durato cinque anni, guidato da una commissione alle dipendenze della casata imperiale e, perciò, intoccabile. Itō ne era il responsabile e fece in modo che il documento traesse ispirazione dell'Impero tedesco prussiano, poiché garantiva la prevalenza del Gabinetto imperiale (affidato a un Primo ministro) sulla nuova Dieta. Essa fu strutturata in una Camera bassa elettiva e in una Camera dei Pari vitalizia, riunente la vecchia aristocrazia secondo un nuovo sistema nobiliare (kazoku). Anche la giustizia fu riformata con moderni codici, ma tutti i ministri e il capo di governo erano responsabili verso l'imperatore soltanto, che non solo ebbe il comando supremo delle forze armate, ma si qualificò pure come la fonte della legge ‒ quindi ne era immune. Questa impalcatura rispondeva al preciso intendimento dei genrō veri controllori dello Stato: poiché esisteva ancora scarsa fiducia nell'autonomo funzionamento delle nuove strutture, si ritagliarono un comodo spazio di manovra dietro le quinte per guidare saldamente la trasformazione. Non solo: fu mantenuto il Consiglio privato, organismo che doveva monitorare il processo di sviluppo della carta ed essere quindi eliminato, e il diritto di voto fu limitato a chi pagava imposte dirette di 15 yen, e cioè appena 400.000 persone su 35-40 milioni di abitanti. La questione del suffragio si trascinò a lungo e fu motivo di gravi tensioni tra governo e popolazione.10

Tra gli oligarchi vigeva una generale comunione d'intenti, un misto tra ambizione personale, patriottismo e volontà di trarre il necessario dagli stranieri per non soccombere loro; tant'è che si suddivisero cariche, onori e uffici. Tuttavia tra i riformatori si alzarono alcune voci contro la modernizzazione galoppante, l'esplodere delle ripercussioni sociali dopo la fine del sistema delle caste (peraltro da tempo arrancante), l'emergere di zaibatsu e altri attori economici senza scrupoli. Al principio del 1877 il Satsuma dette luogo a una ribellione generale, apice di una serie di sommosse che avevano già scosso alcuni altri tozama. Alla sua guida vi era Saigō, che non era riuscito a preservare l'iniziale ascendente politico guadagnato all'inizio della restaurazione anche a causa del fallito progetto di aggredire la Corea, considerato la soluzione ideale allo scadimento sociale dei samurai. La cosa era stata lungamente

10 Per questa rapida visione d'insieme della restaurazione Meiji cfr. Norman, La nascita del Giappone

moderno, cit., cap. 4 (industrializzazione), cap. 5 (il mondo agricolo), cap. 6 (il mondo politico, in specie le pp. 192-214) e pp. 220-223; Benedict, Il crisantemo e la spada, cit., pp. 87, 89-102; Henshall, Storia del Giappone, cit. pp. 127-128, 130-136, 143-147, 168-169; cfr. anche Beasley, Japanese imperialism, cit., pp. 32, 34-40.

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discussa nel 1871-73 e infine rifiutata dalla gran parte degli oligarchi e dei funzionari in quanto troppo prematura, per quanto condividessero sogni di egemonia sulla penisola. Saigō si dimise da ogni incarico, si ritirò nel Satsuma e capeggiò i ribelli: la rivolta impegnò duramente l'esercito imperiale dei genrō prima di essere soffocata a settembre, quando Saigō si uccise, e generò la prima crisi economica contemporanea in Giappone, comunque risolta in capo a pochi anni con l'inserimento del paese nel circuito del commercio internazionale.11

I giapponesi erano entrati nella modernità in ritardo e, pur di recuperare il tempo perduto e difendere la propria autonomia politico-economica, bruciarono le tappe del processo industriale: balzarono da un'economia in natura a una monetaria senza passare attraverso un qualcosa di simile al periodo mercantilista occidentale. Pertanto i capitali necessari a un'industrializzazione dall'alto furono spremuti dalle campagne, poiché i gruppi ricchi erano poco propensi a gettarsi in nuove e incerte iniziative: quindi l'industria fu patrocinata e allevata dallo Stato, soltanto dopo privatizzata e limitatamente a certi ambiti. Le fabbriche strategiche rimasero a lungo sotto controllo statale, tranne alcune eccezioni come diversi cantieri navali venduti alla Mitsubishi. Il rinnovamento Meiji, insomma, rispondeva sostanzialmente a un solo imperativo: scongiurare la riduzione del Giappone a colonia occidentale e farlo in poco tempo, in una finestra compressa tra le crescenti ingerenze euro-statunitensi e le agitazioni popolari, seguite al crollo del bakufu ed eccitate da un rinnovato sentimento di libertà dagli antichi vincoli. In questa frenetica atmosfera gli oligarchi misero da parte quelle altre riforme che avrebbero richiesto discussioni accurate e sondaggi a livello nazionale, oppure che avrebbero potuto rivelarsi eccessivamente progressiste. Un organo come la Dieta, già con il relativamente ristretto magistero concessole e nonostante la litigiosità dei partiti all'opposizione riuscì, più di una volta, a suscitare i malumori dei genrō e sin da subito si registrarono interventi, anche illegali, di queste eminenze grigie per mantenere il potere reale nelle loro mani. Nel 1891 essa fu sciolta d'ufficio e, alle nuove elezioni, la polizia intervenne con brutalità per facilitare la sconfitta dei candidati

11 Circa la questione di un'invasione della Corea prima ancora di essersi premuniti contro l'imperialismo

occidentale e la guerra civile Satsuma, cfr. Beasley, Japanese imperialism, cit., pp. 42-43; Benedict, Il crisantemo e la spada, cit., pp. 88-89; Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 117-118; Norman, La nascita del Giappone moderno, cit., pp. 97-102. Gli eventi della guerra Satsuma sono stati riproposti, in forma romanzata, nel film L'ultimo samurai (2003) diretto da Edward Zwick.

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antigovernativi.12

Gli statisti giapponesi si volsero in ultimo a una precoce politica d'espansione per motivi solidamente intrecciati: dare respiro al mercato interno, ancora in formazione; dimostrare di essere forti sullo scenario internazionale; interdire a Russia e Cina la sovranità sulla Corea, considerata il naturale ponte per l'Asia continentale e, anche, una «daga puntata al cuore del Giappone»; acquisire terre per alleviare problemi quali la sovrappopolazione e la limitatezza di zone coltivabili. Successi in politica estera, poi, avrebbero potuto aiutare nella rinegoziazione dei trattati ineguali, il vero discrimine tra nazioni sovrane e Stati colonizzati sul quale la classe dirigente e l'opinione pubblica erano particolarmente sensibili.13 In questo contesto va visto l'assorbimento del regno semi-indipendente delle isole Ryukyu (1879), delle isole Ogasawara (1862) e il trattato di San Pietroburgo che riconosceva le Curili come territorio giapponese in cambio della completa sovranità russa su Sachalin (1875).

La conquista come difesa, la strategia di espansione, l'incompleta evoluzione istituzionale, la preminenza dell'esercito non giocarono però, alla lunga, in favore del Giappone. Come avrò modo di esporre nei capitoli successivi, l'avventura imperialistica giapponese si legò strettamente alla normale politica estera e ne intossicò gli scopi e la funzionalità. Nell'opinione pubblica, tra gli accademici, fra i partiti politici la vocazione a una dimensione continentale del Giappone nell'Asia nord-orientale (e poi nell'intero Estremo Oriente) divenne tale da offuscare i pericoli di una simile postura e, al contrario, i vantaggi insiti in una politica sempre di potenza ma poggiante sull'influenza politica indiretta e il controllo economico: essendo una nazione insulare, l'Impero nipponico dipendeva primariamente dai traffici marittimi e dalla dimensione navale dell'economia; allo stesso modo una struttura politica vasta, il cui centro pulsante avrebbe risieduto logicamente nell'arcipelago nipponico, avrebbe decuplicato questo delicato fattore, vantaggioso e rischioso al contempo. I sostenitori di questo corso trovarono un'opposizione divisa, più che limitata, ed ebbero buon gioco di fronte al collasso del liberismo nel proclamare la necessità vitale di una sfera esclusiva

12 Cfr. Norman, La nascita del Giappone moderno, cit., pp. 216-217; Henshall, Storia del Giappone, cit.,

pp. 130-136.

13 Henshall, Storia del Giappone, cit., pp. 152-153; Norman, La nascita del Giappone moderno, cit., pp.

55-56, 116-117, 224-226; Paine, The Japanese Empire, cit., pp. 9-11; Richard Storry, Japan and the Decline of the West in Asia, 1894-1943, MacMillan Press Ltd., Londra, 1979, pp. 15-17; Franco Gatti, Il fascismo giapponese, Franco Angeli Editore, Milano, 1983, pp. 28-29; Yoshihisa Tak Matsusaka, The Making of Japanese Manchuria, 1904-1932, Harvard University Press, Cambridge (MA), 2001, pp. 21-24. La citazione, tratta da p. 23, appartenne a un ufficiale tedesco distaccato come consigliere militare a Tokyo.

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giapponese, se avessero voluto sopravvivere. L'esito di questo imperialismo sciovinista, antioccidentale, autocratico e continentale fu il logorio del patrimonio umano ed economico del Giappone, culminato nella catastrofe nazionale del 1941-1945 e nel repentino crollo dell'intero dominio d'oltremare.14

14 Il discorso sull'opportunità di abbracciare una politica di predominio navale (con paragone con il Regno

Unito) piuttosto che una di impero continentale contiguo (sull'esempio russo o tedesco) è affrontato soprattutto in Paine, The Japanese Empire, cit., pp. 22-23, 103-106, 178-184 e Matsusaka, The Making of Manchuria, cit., pp. 93-102.

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II

La guerra contro gli imperi cinese e russo

T

OKYO CONTRO

P

ECHINO

Ancor prima di recidere i vincoli dei trattati ineguali, in Giappone era sorta una corrente interventista che invocava la conquista del declinante regno di Corea (vedi cap. 1). I riformatori Meiji non erano contrari a una simile espansione, ma erano convinti che fosse cruciale scegliere il giusto momento per procedere alla conquista: gettarsi in una guerra contemporaneamente alla modernizzazione del paese, con sintomi di malcontento e rivolte sul fronte interno, sarebbe stato troppo azzardato. Nel febbraio 1876, comunque, fu siglato il trattato ineguale di Kanghwa dopo un incidente creato ad arte e dopo aver rassicurato i rappresentanti occidentali nella penisola; nel documento il regno di Corea era indicato come «stato indipendente che gode degli stessi diritti di sovranità del Giappone», il che indispose l'Impero cinese. Si formò dunque un sodalizio contingente tra la dirigenza coreana e Li Hung-Chang (1823-1901), potente funzionario cinese addetto alle relazioni con la penisola che favorì la penetrazione occidentale per contrastare i giapponesi.

Costoro erano preoccupati della rivalità che si andava delineando. Pechino manteneva il vassallaggio dei coreani e aveva a sua volta lanciato programmi di industrializzazione e rinnovamento del settore militare. Anche la sua economia, avvantaggiata dalle prime ferrovie e da un nucleo di fabbriche, stava rapidamente incrementando e ciò era ben visibile nel volume di esportazioni nella penisola coreana, superiore negli anni 1880 a quello nipponico. La posizione giapponese non era tanto forte da consentire una vera diplomazia imperialista. L'occasione di ricomporre le crepe si ebbe a fine 1884, quando fallì un colpo di Stato supportato da immigrati nipponici influenti seguito da alcuni tafferugli contro truppe cinesi che garantivano la tenuta del regno: nell'aprile 1885 Itō e il viceré Li conclusero un compromesso nel quale Pechino e Tokyo rinunciavano a interventi unilaterali nel paese ed erano tenute ad avvertire l'altro firmatario in caso il governo coreano avesse fatto domanda di aiuto. La situazione si

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22 stabilizzò solo parzialmente. L'economia giapponese cominciò a risentire positivamente del rinnovamento Meiji e incanalò un flusso crescente di prodotti tessili in Corea, importandone riso e oro, e in pochi anni rimpiazzò sia gli occidentali che i venditori cinesi in questo settore; aziende, banche e zaibatsu mostrarono un timido interesse per la penisola. Sebbene questi cambiamenti facessero ben sperare per il futuro, erano le preoccupazioni di ordine strategico e militare a rendere preziosa (o pericolosa) la Corea. L'Impero zarista aveva da poco fondato lo strategico porto di Vladivostok e aveva intrapreso la costruzione della Transiberiana: la minaccia al kokutai sembrò mortale ai genrō e questa idea filtrò tra l'opinione pubblica nipponica, caratterizzata da una cospicua dose di emotività patriottica. Yamagata, nel 1890, denunciò dalla poltrona di Primo ministro il pericolo che correva la cosiddetta "linea d'interesse giapponese", cioè quella zona cuscinetto esterna alla "linea di sovranità", vale a dire i confini nazionali: nell'ottica geopolitica il regno di Corea rientrava nella prima categoria e doveva essere difeso a ogni costo, se si voleva evitare l'ingerenza straniera nell'intima zona nazionale giapponese. I fondi per il varo di navi da guerra, arruolamento di truppe, equipaggiamenti di ogni genere crebbero esponenzialmente e così il supporto popolare. Sintomatico che la Dieta fosse stata ricondotta sotto l'influenza delle autorità dal Primo ministro Itō il quale, abilmente, aveva fatto leggere un messaggio imperiale che deplorava le lotte intestine e spingeva verso un'armoniosa collaborazione della società; l'opposizione colse il messaggio e nel 1894 passò all'unanimità un bilancio di 150 milioni, quasi tutti dedicati al potenziamento militare. Nel frattempo la paura che la penisola potesse divenire una piattaforma occidentale, o russa, per penetrare in Giappone divenne un'ossessione e la motivazione principale al concepimento di un impero informale giapponese sul continente, articolato su uno "Stato Manchu" autonomo (corrispondente alla provincia esterna cinese della Manciuria) e su teste di ponte nipponiche alla periferia della Cina.

La situazione di stallo fu smossa nel marzo 1894 dalla notizia che il dissidente filogiapponese coreano Kim Ok-kiun, al soldo di Tokyo, era stato catturato a Shanghai e trucidato dai coreani con la connivenza di Pechino. Il caso generò un'ondata di indignazione in Giappone e rafforzò la convinzione che, sul continente, le antiche civiltà erano si erano ormai imbarbarite. Appena due mesi più tardi nella Corea meridionale scoppiò una ribellione xenofoba detta "dei Tonghak", capeggiata da nazionalisti xenofobi che intendevano tornare alla purezza confuciana, sradicare qualsiasi novità straniera ed espellere tutti gli stranieri. Visto che le truppe regie, inizialmente, furono

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respinte, Seul richiese l'aiuto cinese che arrivò lesto; l'Impero avvisò Itō secondo gli accordi del 1885 e soppresse con facilità i ribelli. Metodico e cauto, Itō ritenne opportuno distaccare alcuni reparti in Corea di eguale consistenza a quelli cinesi, ma fu letteralmente raggirato dal ministro degli Esteri, Mutsu Munemitsu (1844-1897) e dal suo alleato Kawakami Soroku (1848-1899), astuto e militarista vicecapo di stato maggiore nell'esercito: nelle conversazioni con il genrō raddoppiarono il numero reale delle forze cinesi e interpretarono a modo loro la definizione di "brigata", che il Gabinetto accondiscese a inviare nella penisola. Lo stesso imperatore rimase all'oscuro di tutto per più giorni e l'azione, se fosse stata scoperta, avrebbe forse provocato la vivace reazione dei grandi tra gli oligarchi (Itō, ma anche Katsura, Matsukata e lo stesso Yamagata), accomunati sull'arena internazionale da una buona dose di circospezione. La tensione tra Cina, Corea e Giappone fu stressata, inoltre, dall'annuncio che il governo nipponico aveva accettato un piano di riforma da applicare alla "sottosviluppata Corea" in collaborazione con Pechino, opera in gran parte del ministro Mutsu che lo redasse in modo tale da indurre i cinesi a rifiutarlo.15

Il 25 luglio luglio 1894, non lontano dall'isoletta di Pungdo, tre incrociatori nipponici intercettarono due navi da guerra cinesi di ritorno dal porto coreano di Asan e ne affondarono una; subito dopo incapparono in una nave trasporto, carica di soldati cinesi ma di proprietà britannica: il capitano Tōgō Heihachirō (1848-1934), esperto di diritto internazionale, concluse che rappresentava un obiettivo legittimo e lo colò a picco, traendo in salvo dalle acque solo il personale occidentale. Lo stesso giorno le truppe giapponesi provocarono un distaccamento cinese a sud di Seul e il 28 si sviluppò una battaglia vinta dai nipponici. Solo il 1º agosto 1894 Tokyo dichiarò formalmente guerra e iniziò a far affluire divisioni in Corea, suddivise in due armate comandate da Yamagata e Ōyama Iwao: in settembre sconfissero i reparti cinesi a Pyongyang, quindi arrivarono al fiume Yalu (confine naturale della Corea), in ottobre lo superarono con una brillante azione presso Juliancheng e penetrarono nell'area meridionale della Manciuria, marciando verso ovest e sud, cioè alla volta di Pechino e della strategica penisola di Liaotung. Alla sua estremità sorgeva l'importante base di Lüshun/Port Arthur, che fu occupata con facilità a dicembre; quindi le truppe giapponesi risalirono la

15 Storry, Japan and the Decline of the West, cit., pp. 15-16, 20-21, 24-26; Beasley, Japanese imperialism,

cit., pp. 43-48; Norman, La nascita del Giappone moderno, cit., pp. 217-218; Gatti, Il fascismo giapponese, cit., pp. 31-32.

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penisola, arrivarono a Haicheng nell'entroterra (centrale nodo di comunicazioni) e respinsero ben cinque contrattacchi cinesi tra la metà del gennaio e la fine del febbraio 1895. Nel frattempo la Marina imperiale, dopo aver garantito i collegamenti via mare con il Giappone, si era portata nel golfo di Corea e aveva battuto a settembre la rivale Flotta del Nord nella battaglia del fiume Yalu, senza subire che perdite irrisorie. Le navi cinesi ancora efficienti si rifugiarono dunque a Weihaiwei nella penisola di Shantung (dirimpetto a quella di Liaotung), che fu cinta d'assedio a metà gennaio dal generale Ōyama, disceso da Haicheng; il 12 febbraio 1895, dopo scontri vittoriosi e bombardamenti, la quasi totalità della Flotta del Nord fu distrutta e la base catturata. La campagna nello Shantung era opera di Itō, che voleva evitare le incalcolabili conseguenze politiche derivanti dall'occupazione della capitale nemica; al contrario Yamagata aveva cercato di dirigere con la sua armata su Pechino e, quindi, era stato sollevato dal comando per «problemi di salute». La perdita quasi totale della flotta da guerra, orgoglio della dinastia Manciù e costata molti sacrifici, rappresentò una pesante disfatta per Pechino che si rassegnò a cercare la pace, affidando il compito all'esperto Li Hung-Chang.16 Le difficili discussioni tra costui e Itō iniziarono poco prima dell'azione anfibia giapponese nelle isole Penghu/Pescadores, subito a ovest di Taiwan/Formosa, occupate tra il 23 e il 30 marzo, ma furono interrotte dal tentato omicidio di Li a opera di un giovane che gli sparò in pieno volto. Li sopravvisse, fu stabilito un cessate il fuoco e i negoziati, ripresi a inizio aprile, sfociarono il 17 nella pace di Shimonoseki: la Cina pagò un'indennità di 230 milioni di kuping t'ael (circa 33 milioni di sterline), cedette il possesso della strategica penisola di Liaotung subito a nord-ovest della Corea, dell'isola di Taiwan assieme alle Penghu, rinunciò a ogni rivendicazione sul regno Chŏson e accettò la provvisoria occupazione di Weihaiwei. Infine furono acclusi accordi commerciali che rispondevano a una vecchia aspirazione giapponese di avere una salda posizione nel mercato cinese. Dopo varie discussioni e bozze riviste e la valutazione del rischio di inimicarsi una o più potenze, Mutsu e Itō poterono presentare la stesura definitiva del nuovo trattato commerciale con la Cina, che fu accettato dal resto del governo e aggiunto al trattato di pace: con esso il Giappone aprì quattro altre città costiere al traffico, poté impiantarvi fabbriche, lo Yangtze fu aperto alla navigazione a

16 Sintesi del conflitto tratta da Paine, The Japanese Empire, cit., pp. 21, 26-40; cfr. anche Storry, Japan

and the Decline of the West, cit., p. 26. A Port Arthur avvenne un massacro gratuito di migliaia di civili cinesi, quando al contrario i prigionieri di guerra (meno di 1.800) furono trattati secondo le norme vigenti all'epoca. Cfr. Jean-Louis Margolin, L'esercito dell'imperatore. Storia dei crimini di guerra giapponesi (1937-1945), Lindau, Torino, 2009 (ed. originale 2007), pp. 44, 46-47.

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vapore sino a Chungking e gli fu riconosciuta la "clausola della nazione più favorita". Questi termini furono, poi, motivo di serrate e ulteriori trattative con i cinesi sino al luglio 1896, ma rimasero nella sostanza uguali e rappresentarono la fine di rapporti biunivoci e paritari tra i due paesi.17

La prima cosa dimostrata dalla guerra fu la superiorità acquisita a seguito della restaurazione Meiji e la vittoria giustificò tutti gli oneri fino ad allora sopportati dalla popolazione, nonché i costi delle spese belliche e il prezzo pagato in vite umane. L'opinione pubblica, la Dieta e gli stessi partiti dell'opposizione furono infiammati da una vampata di nazionalismo entusiasta, nonché di venerazione per i vertici dell'oligarchia e, ovviamente, per Mutsuhito. La seconda conseguenza fu di tipo culturale: dall'età antica l'Impero cinese era stato la prima potenza militare nell'Asia orientale e dalla sua cultura i giapponesi avevano tratto la propria; economicamente era stato a lungo il partner commerciale di riferimento e aveva esercitato per secoli una specie di paternalismo sul Sol Levante. Sempre dalle coste asiatiche, poi, erano arrivate gravissime minacce alla sua sopravvivenza durante il XIII secolo. La grande vittoria del 1895 ebbe il potere di incrinare il timore e la riverenza secolari per il celeste impero ed evidenziò, agli occhi del Giappone e dell'Occidente, l'avanzato stato di decadenza dello Stato cinese, amplificando in tal modo il senso di trionfo: non un successo qualsiasi, ma un successo contro una delle più vaste e antiche nazioni.

Tuttavia i termini di pace furono giudicati eccessivi da alcune delle grandi potenze e il 23 aprile 1895 la Russia, la Francia e l'Impero tedesco imposero al Giappone di rinunciare al Liaotung: erano state colte di sorpresa dalla serie di vittorie per mare e per terra delle forze armate imperiali, aspettandosi invece che, nel conflitto, i due rivali si massacrassero a vicenda finendo in un vicolo cieco. Gli oligarchi ancora vivi si rassegnarono ad accettare l'arbitrato il 4 maggio, il Liaotung tornò cinese dietro un ulteriore pagamento e l'affare fu mascherato come magnanima concessione dell'imperatore verso il nemico sconfitto. Il Triplice intervento era la tangibile dimostrazione delle ingerenze occidentali in Estremo oriente, della loro potenza, e non mancò di colpire profondamente la classe dirigente nipponica. Fu anche causa di ampie proteste tra la popolazione e gettò i semi per un perdurante senso di diffidenza, se non di malcelata sopportazione verso i bianchi ‒ perché, difatti, il razzismo era considerato dal

17 Paine, The Japanese Empire, cit., pp. 37-40; Storry, Japan and the Decline of the West, cit., p. 27;

Beasley, Japanese imperialism, cit., pp. 60-67; Edward I-te Chen, Japan's Decision to Annex Taiwan: A Study of the Ito-Mutsu Diplomacy, 1894-1895 in The Journal of Asian Studies, Vol. 37 n. 1, Association for Asian Studies, 1977, pp. 65-66.

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ceto politico giapponese un fattore non da poco nei rapporti diplomatici con il resto del "club" imperialista, nel quale l'unico membro non bianco (e l'ultimo arrivato) era proprio il Giappone.

Comunque le riparazioni di guerra furono un toccasana per l'economia giapponese, che si lasciò alle spalle le fluttuazioni di valuta e poté reinvestire in altre industrie, e rafforzarono l'idea che un conflitto armato era potenzialmente una grande risorsa economica. Non fu un caso, quindi, che proprio nel 1895 Yamagata facesse diffondere ordinanze che rendevano obbligatorio, per i ministeri della Guerra e della Marina, essere guidati solo da ufficiali in servizio attivo. Significava che le forze armate, se in disaccordo con il Gabinetto o la Dieta, erano capaci di scioglierli semplicemente richiamando l'ufficiale in capo a uno dei due ministeri. Yamagata si premurò, inoltre, di mantenere il monopolio dell'autocrazia con un'altra ordinanza, la quale impedì l'ingresso di uomini dei partiti (per quanto istruiti) nella burocrazia statale. Infine, nel gennaio 1898, fu promotore del Supremo Consiglio di guerra, super-organismo militare con diretto accesso al trono. Tra le ultime ripercussioni della vittoria bisogna infine citare l'adeguamento al sistema aureo (1899) e la tanto sospirata demolizione dei vincoli dei trattati ineguali. Quello stesso anno entrò in vigore l'accordo anglo-giapponese circa l'abolizione della giurisdizione dei consoli britannici, concluso proprio nel luglio 1894. Nel 1897 anche le altre nazioni europee che detenevano consolati, affitti ed extraterritorialità in Giappone conclusero eguali trattati, che si applicarono dal 1902; nel 1911, riacquisita l'autonomia tariffaria, fu in ultimo possibile negoziare trattati commerciali su un piede di parità con le potenze.18

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OREA PRECIPITA UNA SECONDA GUERRA

Con la vittoria del 1895 la situazione interna del Giappone non si stabilizzò; tutt'altro. I partiti nascevano, morivano e risorgevano rapidamente, ogni qualche mese si formava un nuovo esecutivo. Itō, che aveva ricoperto la prima magistratura già tre volte, costituì nel 1900 un proprio partito (Rikken Seyūkai o "Associazione degli amici del governo costituzionale") dai resti dei primi due partiti liberali; ne fu presidente per tre anni, senza però riuscire a consolidare un quarto mandato, che dovette interrompere nel

18 Storry, Japan and the Decline of the West, cit. pp. 27-30; Norman, La nascita del Giappone moderno,

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maggio 1901. Il suo successore fu Katsura Tarō, protetto di Yamagata, che doveva rimanere in carica per poco meno di cinque anni.19 Il 1895 segnò anche l'inizio del ruvido contatto delle sfere d'influenza nipponica e russa lungo la frontiera tra la Corea e la Manciuria, la vasta regione nord-orientale della Cina. Proprio qui lo zar e i suoi collaboratori ottennero nel 1896, dopo minacce e ultimatum, concessioni ferroviarie (in cambio di denaro che Pechino usò per saldare l'indennità) per completare opportunamente i collegamenti con Vladivostok: la Transiberiana fu prolungata attraverso la Manciuria come Ferrovia cinese orientale e a metà del percorso fu fondata la città di Harbin a maggioranza russa. Nel 1898 pagarono quindi una concessione di 25 anni sull'intera Liaotung unitamente a diritti di scavo, estrazione e costruzioni di strade ferrate, riuscendo a stendere un altro tronco da Port Arthur, trasformata in base militare, sino a Harbin. Queste manovre scatenarono il rancore di vasti strati dell'opinione pubblica e dell'esercito in Giappone.

Nel frattempo, svelata l'incipiente debolezza cinese, anche la Francia ottenne una propria sfera d'influenza nelle province meridionali cinesi (Yunnan, Guangxi e altre), la Germania affittò una parte dello Shantung con le cittadine di Kiao-Ciao e Tsingtao; Weihaiwei divenne nel 1897 una base britannica, parziale consolazione per il Giappone dacché il Regno Unito, dopo il 1894, si era dimostrato amichevole. La rinnovata frenesia imperialistica e l'emergere del Giappone allarmarono gli Stati Uniti, che si erano appena affacciati nella macroregione dell'Estremo Oriente dopo la guerra contro la Spagna. Nel 1899 il Segretario di Stato John Hay (1838-1905) propose alle potenze, compreso l'Impero nipponico, la politica della Porta aperta ‒ ovvero il rispetto dell'integrità della Cina, la riconferma dei trattati sino ad allora siglati con Pechino e la libertà di commercio nel paese per tutte le potenze, senza monopoli o sfere d'influenza. La Porta fu accettata da tutti gli interessati in linea di principio nel 1902.20

Per il governo imperiale l'evoluzione della situazione nella Cina settentrionale e in Manciuria era preoccupante; a parte l'arrivo di francesi e tedeschi, le mosse russe erano le più gravi e dovevano essere ribattute in qualche modo, in specie dopo gli eventi della rivolta dei cosiddetti Boxer (rivoluzionari cinesi xenofobi, decisi a rovesciare la corrotta imperatrice Cixi e a rimpiazzare l'indolente ceto burocratico confuciano) che avevano visto l'ingresso di 100.000 soldati russi in Manciuria; anche il Giappone aveva inviato

19 Henshall, Storia del Giappone, cit. pp. 138-139.

20 Geoffrey Jukes, La guerra russo-giapponese 1904-1905, LEG, Gorizia, 2014 (ed. originale Osprey,

2002), pp. 11-15, 17; Beasley, Japanese imperialism, cit., pp. 70-71; Storry, Japan and the Decline of the West, cit. pp. 31, 33-34; Paine, The Japanese Empire, cit., pp. 43-44.

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un importante contingente nell'intervento internazionale, ricevendo di ritorno un'indennità e una concessione nella città-porto di Pechino, Tientsin, ma lo aveva poi ritirato. Esisteva pertanto il rischio concreto di veder sfumare buona parte dei risultati ottenuti con Shimonoseki e ripiombare in basso nella piramide gerarchica internazionale. Dal 1901 gli ambasciatori nipponici e russi discussero del problema mancese, ma la proposta nipponica di riconoscere gli interessi zaristi in Manciuria in cambio di un analogo gesto russo per la Corea non approdò a nulla. Un precario compromesso fu trovato nel 1903, al quale però San Pietroburgo non si attenne sino in fondo: mantenne una certa presenza militare in Manciuria. Il ministro alla Guerra Kuropatkin (1848-1925) si era detto contrario, infatti, alla totale smobilitazione delle truppe là dislocate, mentre il governatore del Liaotung Evgenij Alekseev (1843-1917) aveva di sua sponte annullato a metà il ritiro. Egli fu poco dopo creato viceré dell'Estremo Oriente russo da Nicola II (1868-1918), che era convinto di poter evitare o dichiarare una guerra contro il "piccolo Giappone" a sua discrezione. Questi avvenimenti, insieme alla notizia che era stata creata una compagnia commerciale zarista per sfruttare le foreste del fiume Yalu, spinse i vertici dell'Impero nipponico a optare per la guerra; lo stesso Mutsuhito affermò che fosse un passo necessario per la sopravvivenza del paese, sebbene azzardato. Al principio del Novecento l'Impero russo aveva una popolazione tre volte superiore a quella giapponese e un PIL otto volte più grande, il che voleva dire essere in grado di sostenere più perdite e mettere in campo una forza militare decisamente più consistente di quella nipponica.21 Il Giappone, comunque, ritenne inevitabile la soluzione militare: impressa un'accelerazione ai programmi di espansione delle divisioni (da sei a tredici) e delle navi da guerra (più della metà costruite in cantieri europei), finanziò una rete di spie in Estremo Oriente e una seconda, guidata dall'abile ed elusivo colonnello Akashi Motojirō (1864-1919), che si appoggiava alla ambasciate nell'Impero russo. Inoltre intavolò trattative con l'Impero britannico rimasto abbastanza isolato dopo le guerre boere, perché era chiaro che, con la Russia quale principale pericolo, era necessario l'appoggio di una seconda potenza prima di aprire le ostilità. Il ministro degli Esteri Komura Jutarō (1855-1911) escluse una possibile alleanza con la Cina per non dare apparente conferma dei timori razziali occidentali circa il "pericolo giallo" e, nel gennaio 1902, concluse un patto ventennale

21 Storry, Japan and the Decline of the West, cit. pp. 36-38; cfr. Paine, The Japanese Empire, cit., pp.

71-74 per una disamina sui punti di forza russi, secondo l'autrice male sfruttati nel corso delle ostilità, che avrebbero potuto avere un ben diverso sviluppo. Cfr. anche Beasley, Japanese imperialism, cit., pp. 72-73, 79-80 per le deludenti trattative del 1901-1903.

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con l'Impero britannico limitato alla regione dell'Estremo Oriente: tra gli articoli figurava il riconoscimento di Londra degli speciali interessi giapponesi in Corea, il rispetto dell'integrità cinese e l'impegno a sostenere economicamente l'alleato in caso di guerra contro nazioni terze. Al contempo Katsura ritenne opportuno agire dietro le quinte anche a Washington e, nel marzo 1904, inviò negli Stati Uniti il barone Kaneko Kentarō (1853-1942) che a Harvard aveva stretto amicizia con Theodore Roosevelt (1858-1919), in quell'anno presidente statunitense: le conversazioni informali tra i due garantirono un mediatore d'eccezione da interpellare al momento opportuno. Gli Esteri si premurarono infine di sondare le intenzioni delle altre potenze e, ancora una volta, gli oligarchi agirono in un clima favorevole. Nessuna con interessi in Cina o Estremo Oriente aveva, al principio del Novecento, motivo di correre in soccorso dell'Impero zarista; anzi, Germania e Regno Unito ritenevano di poter approfittare di un ipotetico impegno bellico russo in zone così remote per procedere a sistemazioni in aree di attrito distanti ‒ l'Europa orientale e l'Asia centrale rispettivamente. Il 5 febbraio 1904 Mutsuhito autorizzò le forze armate ad aprire le ostilità.22

Nelle primissime ore dell'8 febbraio, dunque, torpediniere giapponesi eseguirono un improvviso attacco alla Flotta del Pacifico ormeggiata in gran parte a Port Arthur, danneggiando varie unità. Al contempo il grosso della Marina imperiale, guidato dall'ammiraglio Tōgō Heihachirō, si dispose al largo della città per impedire sortite nemiche contro le linee di collegamento tra Giappone e Corea o l'arrivo di rinforzi: ebbe inizio un blocco navale che costò perdite pesanti a entrambe le parti. A seguito della formale dichiarazione di guerra l'esercito imperiale sbarcò tre armate al comando supremo del maresciallo Ōyama, due in Corea per marciare dritto nella Manciuria meridionale e una terza alla base della penisola di Liaotung in maggio, per chiudere anche sul lato terrestre Port Arthur e occuparla; pure in questo caso l'assedio divenne un affare lungo e sanguinoso, soprattutto a causa dei reiterati assalti frontali condotti dal generale Nogi Maresuke con scarsissima immaginazione tattica e assoluta indifferenza per la vita dei suoi uomini. La strategia di Tokyo e dei vertici militari puntava a eliminare lo squadrone russo a Port Arthur, difendere l'afflusso di truppe in Corea, occupare le basi di Port Arthur e Dalian (Dairen in giapponese) nel Liaotung e battere le forze russe in una o due battaglie campali d'annientamento, modellate sugli scontri della

22 Matsusaka, The Making of Manchuria, cit., pp. 30-35; Storry, Japan and the Decline of the West, cit.,

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