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UN-CMCoord e CIMIC NATO nelle operazioni di pace complesse.

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Academic year: 2021

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11. Considerazioni Conclusive.

11.1 Militari impegnati nelle emergenze umanitarie.

Osservando le modalità di dispiegamento delle prime missioni di pace delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjöld, secondo Segretario Generale dell'ONU, affermò nel 1956 che “il mantenimento della pace non è una lavoro da soldato, ma solo un soldato lo può fare”.

La presenza di personale militare in contesti di crisi umanitaria è un fenomeno sempre più frequente, a partire dalle prime operazioni promosse dall'Organizzazione delle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra, cui si sono affiancate – nel corso degli anni – missioni promosse da organizzazioni internazionali a carattere regionale come l'Unione Africana e l'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico.

Tale crescente intervento può essere motivato da due fattori principali, legati al contesto operativo ed alle finalità stesse delle organizzazioni considerate.

La correlazione tra crisi umanitarie e situazioni di conflitto, in primo luogo, è duplice: da una parte è spesso ovvio che aree o paesi in conflitto (a prescindere dal grado di estensione o intensità del conflitto stesso) svilupperanno parallelamente gravi problematiche umanitarie, relative sia alla sicurezza stessa della popolazione – direttamente minacciata dai combattimenti – sia al frequente collasso dei sistemi infrastrutturali (approvigionamenti alimentari, idrici ed energetici, servizi sanitari...) che ne consentono la sopravvivenza. D'altra parte, anche in situazioni di emergenza umanitaria non direttamente legati a conflitti guerreggiati, a volte il deterioramento del tessuto sociale e civile esistente lascia aperta la via al sorgere di tensioni la cui escalation può condurre a gravi rischi per gli operatori umanitari, se non sfociare addirittura in aperto conflitto1.

Se nella prima situazione la presenza di forze militari di sicurezza è inevitabile, dunque, nel secondo caso si rende spesso auspicabile al fine di garantire l'incolumità degli stessi operatori umanitari.

Bisogna inoltre considerare l'importante fattore delle finalità delle organizzazioni internazionali che attuano il dispiegamento di personale umanitario.

Sia l'Organizzazione delle Nazioni Unite, sia – sebbene in misura differente e con un'evoluzione più recente – l'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico manifestano una crescente inclinazione all'intervento in contesti di crisi, anche quando questi non sono legati esclusivamente ad un conflitto in corso.

Da questo punto di vista, l'impegno delle Nazioni Unite nell'ambito delle crisi umanitarie costituisce ormai una pratica consolidata e largamente accettata, mentre l'interesse della NATO per questo settore – fatti salvi sporadici episodi nell'immediato secondo dopoguerra – rappresenta una novità degli ultimi 15-20 anni.

In seguito al crollo del sistema bipolare che ne aveva inizialmente motivato la creazione, l'Alleanza nord atlantica ha intrapreso un processo di profonda riorganizzazione, che l'ha portata a ridefinire i propri obiettivi fino a prevedere un intervento anche in aree al di fuori del contesto geografico previsto2 al momento

della sua nascita e per motivazioni che vanno ben oltre il principio di mutua protezione da attacchi esterni.

1 Resta inoltre da considerare – a questo proposito – il fattore di rischio costituito dai gruppi collegati alla criminalità organizzata, dotati di strutture più o meno complesse, stratificate e ramificate.

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Sotto questo aspetto, non si può non considerare che la NATO, per quanto il suo intervento possa presentare delle criticità sotto il profilo politico, costituisce una struttura militare particolarmente attrezzata e standardizzata, con un alto livello di efficienza che la può rendere uno strumento estremamente utile per l'Organizzazione delle Nazioni Unite, la quale – nonostante le disposizioni che risalgono alla sua stessa nascita – non è ancora stata in grado di dotarsi di un'effettiva struttura militare permanente, ed è costretta a negoziare di volta in volta con gli Stati membri per ottenere contributi in truppe, mezzi e finanziamenti.

La compresenza di operatori militari e civili nelle situazioni di emergenza umanitaria, in ogni caso, costituisce certamente un aspetto critico, e le modalità con cui si configura vanno analizzate sia dal punto di vista dei militari, sia da quello delle agenzie civili.

11.2 Differenti Approcci o Approcci Opposti?

Innanzitutto, è necessario notare come Nazioni Unite, NATO e comunità umanitaria – pur nelle sue innumerevoli sfaccettature – siano caratterizzati da approcci differenti alle relazioni tra civili e militari, ed in particolare al CIMIC.

Sotto questo aspetto, l'ONU sembra privilegiare la componente umanitaria/civile: la forza militare può essere in effetti considerata subordinata alle necessità umanitarie, cui deve garantire sicurezza, ma soprattutto il massimo supporto possibile.

Bisogna considerare, d'altra parte, la complessità della struttura stessa delle missioni delle Nazioni Unite: l'aspetto militare dell'operazione è infatti inserito all'interno di un più ampio contesto umanitario, in cui le numerose entità del Sistema Nazioni Unite giocano un ruolo preponderante.

La scelta di affidare il controllo ed il coordinamento delle missioni complesse ed integrate ad un Deputy Representative of the Secretary Generali (DRSG) civile, che viene dunque posto al di sopra del comando militare, può dunque essere considerata emblematica dell'approccio ONU.

Completamente differente è l'approccio delle missioni NATO.

La creazione di relazioni tra civili e militari e le attività di CIMIC, in questo caso, sono - per definizione – sempre e comunque subordinate e strumentali al completamento della missione militare, e vengono intraprese con lo specifico e dichiarato fine di massimizzare la libertà di movimento e di azione del comando.

Sebbene non pregiudichi necessariamente la bontà dei singoli interventi e progetti, dunque, tale atteggiamento rischia spesso di costituire un motivo di conflitto con agenzie, organizzazioni ed enti del mondo civile (in particolare internazionali), pur considerando che ottenere il supporto della popolazione locale sia una condizione necessaria per raggiungere gli obiettivi della missione, che sono spesso condivisibili anche da parte degli operatori umanitari.

Gli stessi operatori umanitari, infine, pur adottando a seconda dei singoli casi una vasta gamma di atteggiamenti (che vanno dalla completa cooperazione al deciso rifiuto di qualunque rapporto, o addirittura ad evitare di operare in aree in cui siano presenti militari), basano solitamente la loro decisioni su come relazionarsi con forze militari su un ampio spettro di considerazioni.

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A prescindere dalle singole agende, che costituiscono comunque un fattore di estrema importanza, Organizzazioni Internazionali ed NGO definiscono le proprie modalità di coesistenza sulla base della libertà di azione di cui possono disporre, sul rispetto dei propri principi basilari (umanitarismo, imparzialità ed indipendenza) e sul supporto che possono ottenere dalla componente militare.

Si può dunque affermare che i sistemi di cooperazione e coordinamento tra civili e militari costituiscono per entrambi fonti di rischio e, allo stesso tempo, possibili vantaggi.

11.2.1 Il punto di vista militare

L'implementazione di attività di CIMIC presenta, dal punto di vista delle forze militari impegnate, un duplice ordine di aspetti positivi.

In primo luogo, un coordinamento ed un collegamento efficaci con le controparti impegnate nell'area operativa della missione consentono di ottenere sensibili vantaggi in supporto diretto alla missione.

Un'approfondita conoscenza della dimensione civile del contesto, infatti, consente alle forze militari di pianificare in modo molto più efficace le azioni prettamente belliche, traendo vantaggio dalle infrastrutture locali, e potendo meglio prevedere il comportamento delle forze opposte.

Inoltre, una volta ottenuta una visione d'insieme del quadro civile complessivo, le funzioni di pianificazione e comando avranno la possibilità di valutare con più attenzione i possibili ostacoli alla “freedom of action” e “freedom of movement”, che costituiscono priorità assolute. Esemplificando, il comando può essere messo in grado di monitorare e prevedere eventi legati al mondo civile che influiscano sulla missione e pianificare di conseguenza le proprie attività: incontrollati movimenti di massa della popolazione, come gruppi di rifugiati o sfollati, possono gravemente limitare la libertà di movimento delle forze militari occupando le infrastrutture di trasporto (strade e ponti) ed impedendo il transito dei mezzi, per cui spesso i militari collaborano con attori civili (IOM ed UNHCR, tra gli altri) nell'allestimento di strutture di ricovero, ottenendo allo stesso tempo un rilevante vantaggio strategico.

Nello stesso ambito, la possibilità di allestire i cosiddetti “campi profughi” consente ai militari di facilitare le operazioni di identificazione e disarmo, fondamentali per i processi di DDR, contribuendo contemporaneamente ad alleviare le sofferenze di parte della popolazione.

Altro beneficio estremamente rilevante è quello relativo al consenso alla missione. Se da svariati decenni molti eserciti portano avanti azioni di propaganda – concetto non necessariamente negativo in sé – per conquistare “i cuori e le menti”3, si

potrebbe infatti affermare che il concetto di CIMIC rappresenti un'evoluzione dell'idea originaria, per quanto molto più raffinata, efficiente e probabilmente di maggior aiuto alla popolazione civile.

3 Il concetto di “hearts and minds” venne sviluppato soprattutto a partire dalla guerra nel Vietnam, ma le prime applicazioni sono precedenti: un esempio è l'intervento britannico durante la cosiddetta “Emergenza della Malaysia”.

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Operazioni congiunte, supporto alle autorità ed alle associazioni ed organizzazioni locali e perfino progetti di ricostruzione ed intervento diretto a favore della popolazione costituiscono infatti un metodo eccezionalmente valido per generare consenso verso l'operato della missione, migliorando la percezione che i civili sviluppano nei confronti della struttura militare e facilitando un clima positivo verso il processo di pacificazione.

Allo stesso tempo, però, tali attività presentano una quantità di rischi che devono essere accuratamente conosciuti e gestiti.

Le modalità stesse di svolgimento di tali attività, ad esempio, si prestano a creare situazioni potenzialmente dannose: l'utilizzo degli operatori e delle strutture di CIMIC al fine di raccogliere informazioni di intelligence, ad esempio, è esplicitamente scoraggiato sia dall'approccio ONU, sia dalla dottrina NATO, perchè rischia di compromettere irreparabilmente ogni relazione di fiducia.

Più in generale, una gestione non perfettamente trasparente delle attività (ma anche atteggiamenti che minino la semplice percezione di trasparenza, nei contesti più delicati) rischia di danneggiare gravemente l'immagine della missione, risultando in una perdita di consenso che ostacolerà il processo di pacificazione o ricostruzione. Altro rischio particolarmente grave è quello relativo alla gestione delle aspettative. In ogni contesto (ed ancor più nel caso di un intervento in Paesi in via di sviluppo), lo spiegamento di uomini, risorse e mezzi operato dalle forze militari della missione può generare nei partner civili locali grandi aspettative.

Fermo restando il fatto che tali risorse debbano essere - quando possibile – messe più o meno direttamente al servizio della popolazione civile (a maggior ragione nel caso di missioni delle Nazioni Unite, dato che questa viene considerata una delle finalità principali), è evidente come la disponibilità complessiva di tali risorse sia limitata: nell'interazione con i civili, dunque, è fondamentale la massima attenzione a non generare aspettative sproporzionate, alimentando richieste che non possono essere soddisfatte e soprattutto prendendo impegni che non è realisticamente possibile portare a termine e che – una volta disattesi – generino malcontento e sfiducia.

11.2.2 Il punto di vista civile.

Anche per quanto riguarda il sistema degli attori civili impegnati in campo umanitario, la decisione di aderire o meno alle attività di CIMIC presenta opportunità e potenziali svantaggi.

I possibili vantaggi di tali iniziative di coordinamento o cooperazione con le strutture militari sono legati a tre ambiti fondamentali: informazioni, risorse e sicurezza.

Per quanto riguarda le informazioni, è indubbio che i militari siano in possesso di informazioni potenzialmente utilissime per le organizzazioni civili, potendo contare su apparati tecnologici e risorse estremamente ingenti, oltre che su conoscenze e capacità specifiche.

Immagini aeree e satellitari4, previsioni meteo, cartografie delle aree minate o

rischiose, insieme ad un'ampia gamma di informazioni sulle attività militari previste o

4 I sistemi informatizzati di GIS (Geographic Information Systems), basati sull'integrazione tra cartografia e basi di dati, che si stanno negli ultimi anni diffondendo nelle principali agenzie civili, costituiscono ad esempio uno strumento dall'immenso potenziale nella pianificazione operativa.

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attese da parte delle forze “amiche” ed avversarie, costituiscono un bagaglio informativo di immensa importanza per gli operatori civili, e che può essere fornito quasi esclusivamente dai militari.

Una relazione costante di collegamento e coordinamento, di conseguenza, può avere risvolti fortemente positivi sull'impegno umanitario.

Dal punto di vista delle risorse e degli assets, è evidente che le strutture militari siano spesso dotate di capacità molto maggiori rispetto a quelle delle organizzazioni civili di medie e grandi dimensioni.

In particolare, la missione militare ha a disposizione un sistema di infrastrutture e mezzi che, oltre a consentire la completa autonomia in fatto di trasporti, approvigionamenti e mezzi tecnici, è solitamente sovradimensionato rispetto alle effettive necessità belliche. Tale surplus di risorse – finalizzato a coprire eventuali picchi di necessità o improvvise esigenze emergenziali – se allocato in modo da renderlo disponibile ai partner civili costituisce un apporto di primaria importanza. La possibilità di usufruire dei mezzi di trasporto, degli stock di risorse (di cibo, acqua, medicinali o equipaggiamenti non bellici in genere) e dei mezzi tecnici militari, è una delle richieste più frequenti da parte di organizzazioni internazionali ed NGO, e la possibilità di accedervi è probabilmente uno degli incentivi più forti alla partecipazione alle attività di CIMIC.

Per quanto riguarda la sicurezza, infine, bisogna tenere conto di due aspetti distinti. In primo luogo, nelle missioni integrate o complesse delle Nazioni Unite, così come negli ultimi dispiegamenti di forze NATO (è il caso, ad esempio, di ISAF in Afghanistan), la funzione di assicurare un contesto sicuro agli operatori umanitari è una priorità fondamentale: di conseguenza è frequente che gli atti normativi che autorizzano la nascita dell'operazione contengano già all'origine espliciti richiami a tale compito dei militari. In particolare, nel caso delle missioni ONU la forza militare è – come già richiamato – subordinata all'impegno umanitario, mentre in ambito NATO atti come l'Accordo di Dayton attribuiscono a missioni come IFOR il compito di garantire anche le operazioni di evacuazione del personale civile in caso di situazioni di sicurezza eccessivamente rischiosi.

Differenti considerazioni, invece, vanno fatte per quanto riguarda singoli interventi di sicurezza che i militari possono svolgere in favore delle agenzie umanitarie.

La possibilità di ottenere una scorta armata ad un convoglio, purchè tale azione sia eseguita con modalità precedentemente concordate che non mettano a rischio l'incolumità, la neutralità e l'immagine dell'organizzazione stessa, costituisce a volte una garanzia necessaria perchè i programmi e le azioni umanitarie possano essere svolti senza rischiare danni ai materiali trasportati ed agli stessi operatori civili.

D'altra parte, è evidente che il coinvolgimento nei programmi di CIMIC presenta per le organizzazioni ed agenzie civili, numerosi aspetti potenzialmente critici.

In mancanza di pratiche che garantiscano la massima chiarezza nella distinzione, sussiste spesso un forte rischio di generare nella popolazione una pericolosa confusione tra operatori civili e militari.

Tale eventualità si rivela doppiamente negativa dal punto di vista dell'immagine dell'organizzazione, che essendo accomunata ai militari avrà forti difficoltà nel far riconoscere il proprio ruolo, ma soprattutto potrà subire dei seri danni in termini di credibilità, nel caso in cui la collaborazione sia percepita come un rapporto di organicità. La popolazione civile, infatti, potrebbe interpretare la compresenza di operatori militari e civili come un segnale del fatto che questi ultimi siano parte del

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sistema militare, il che potrebbe – a seconda dei casi – alienare il consenso di parte della cittadinanza, specie in contesti in cui l'operazione militare non riscuota le simpatie della società locale.

Tali situazioni di confusione, infine, costituiscono una minaccia alla sicurezza stessa degli operatori: in situazioni di conflitto, una organizzazione o agenzia considerata “associata” alle forze militari rischia di divenire automaticamente un potenziale obiettivo, ancor più esposto perchè non condivide, in realtà, le strutture ed i mezzi di proporzione di cui dispongono i militari.

Un altro fattore critico che merita di essere considerato è la possibilità che si verifichino sovrapposizioni tra interventi di sviluppo e ricostruzione operati da militari e civili.

In contesti in cui i meccanismi di coordinamento e sincronizzazione si rivelano inefficienti, il rischio che militari e civili si occupino contemporaneamente delle stesse problematiche è reale, anche perchè spesso lo stesso settore (geografico o tematico) è condiviso da numerose entità5.

In questo caso tempo, mezzi e risorse dell'organizzazione, solitamente limitati, vengono sostanzialmente sprecati per interventi che oltre a non costituire una fonte di effettivo miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, minano la credibilità stessa dell'ente, sia nei confronti della società e delle autorità locali, sia rispetto ad eventuali finanziatori.

Particolarmente rilevanti, infine, sono gli effetti che il coordinamento e la cooperazione tra militari e civili possono avere sull'indipendenza di questi ultimi: il timore di subire influenze e pressioni che possano in qualche modo limitare lo spazio decisionale di cui dispongono, infatti, costituisce forse la più grave preoccupazione per le agenzie civili.

Sebbene l'eventualità di sviluppare una dipendenza dai mezzi e dalle risorse fornite dai militari non sia completamente da escludere, è più probabile che tale fenomeno si verifichi nel caso di piccole NGO ed associazioni locali, mentre le agenzie di maggiori dimensioni temono maggiormente l'eventualità di subire influenze a livello operativo o strategico.

A livello operativo, effettivamente, è abbastanza probabile che – in assenza di procedure standardizzate e predefinite – le modalità di collaborazione, riguardo a singole azioni o all'utilizzo di determinati equipaggiamenti, siano definite sulla base di una negoziazione e di un compromesso tra bisogni e priorità differenti, in cui l'approccio gerarchizzato e le necessità di proteggere uomini e mezzi che caratterizzano la struttura militare devono essere armonizzati con la logica solitamente più flessibile delle entità civili.

A livello strategico, d'altra parte, organizzazioni ed agenzie civili, nel coordinare le proprie attività con altre entità e con i militari, saranno quasi certamente costrette ad operare degli aggiustamenti ai propri piani operativi: preoccupazione dei civili è che tali limitazioni alla loro capacità decisionale non si rivelino adeguatamente compensate da un incremento significativo nell'efficacia e nell'efficienza complessiva degli interventi della comunità umanitaria.

5 Per avere un esempio del numero e delle dimensioni delle entità civili (Organizzazioni Internazionali, Organizzazioni Governative, NGO, iNGO ed autorità locali presenti in un'area relativamente limitata, si può consultare l'allegato 8, relativo alla zona del PRT di Herat.

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11.3 Fattori per una convivenza proficua.

Le criticità fino ad ora evidenziate, per quanto reali e potenzialmente gravi, non possono far tralasciare il fatto che la compresenza di personale militare ed operatori civili in contesti di crisi costituisce un dato di fatto che non può essere evitato né ignorato: resta dunque da definire quale sia il modo migliore per gestire tale convivenza forzata.

Lo spettro delle possibili modalità è estremamente ampio, e va da un situazione di totale assenza di collaborazione, in cui organizzazioni ed agenzie civili rifiutano a priori di operare in contesti in cui siano presenti operazioni militari, fino ad un modello di piena cooperazione, in cui non solo i singoli interventi, ma le stesse programmazioni strategiche sono concordati congiuntamente.

Nessuno di questi estremi, naturalmente, può essere considerato desiderabile: nel primo caso, rifiutando di offrire assistenza nello specifico contesto, le organizzazioni rischiano di venir meno al principio di imperativo umanitario, mentre nel secondo caso ad essere in pericolo è il principio di indipendenza.

Entrambi i principi, formulati nell'ambito del “Code of Conduct for International Red Cross and Red Crescent Movement and NGOs in Disaster Relief”6, costituiscono –

insieme al principio di imparzialità – il nucleo fondamentale dell'etica umanitaria, cui i singoli enti tendono ad informare le proprie attività: in quest'ottica si può ritenere che, a patto di conservare imparzialità ed indipendenza, gli operatori umanitari non dovrebbero in nessun caso rifiutare – per quanto loro possibilità – la propria assistenza a gruppi o popolazioni che ne abbiano necessità.

Il concetto di CIMIC, se implementato con la dovuta cautela, costituisce per il mondo umanitario una grande opportunità per facilitare programmazione ed esecuzione dei progetti, ed insieme massimizzare – o, in alcuni casi, moltiplicare – efficacia ed efficienza degli interventi.

Le condizioni per ottenere il contesto necessario per poter intraprendere una collaborazione proficua sono molteplici, ma nei prossimi paragrafi si cercherà di analizzare le principali.

11.3.1 Conoscenza Reciproca

In una situazione di crisi, è probabile che si incontrino uomini e donne (prima ancora che organizzazioni e strutture gerarchiche) con capacità, formazione e background estremamente variegati.

Sebbene questo costituisca senza alcun dubbio una ricchezza ed un valore aggiunto, è necessario considerare come tale condizione rappresenti allo stesso tempo un rischio, se non si riesce a stabilire un sistema di valori e conoscenze condivise.

Da questo punto di vista, pur superando le reciproche visioni stereotipate, è evidente che molto spesso la maggior parte degli operatori civili non ha un'effettiva cononscenza della controparte militare, e viceversa, fatta salva un'esigua minoranza (in termini quantitativi) composta dai militari addetti al CIMIC e dal personale umanitario con compiti di liaison.

6 Il “Code of Conduct for International Red Cross and Red Crescent Movement and NGOs in

Disaster Relief” è statp definito nel 1992 dallo Steering Committee for Humanitarian Response, che raccoglie i rappresentanti delle maggiori organizzazioni umanitarie: Care International, Caritas Internationalis, International Committee of the Red Cross, International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies, International Save the Children Alliance, Lutheran World Federation, Oxfam, World Council of Churches, e World Vision International.

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Da una parte, la mancanza di conoscenza reciproca, ad ogni livello, rende difficoltosa ogni forma di collaborazione nel breve termine: senza una cognizione almeno generale della struttura con cui si confrontano, né i militari, né gli operatori umanitari possono svolgere al meglio il loro compito.

In un'ottica di più lungo periodo, inoltre, il passaggio da una scarsa conoscenza reciproca alla creazione di pregiudizi e – di conseguenza – al deterioramento delle relazioni, è un fenomeno che rischia di far fallire ogni forma di collaborazione.

Anche prescindendo dalle relazioni interpersonali tra singoli operatori – che pure rappresentano una componente importante della vita della missione – è indubbio che non sia possibile pianificare alcuna attività congiunta in maniera efficace, se manca una visione organica delle parti con cui si interagisce.

Tale reciproca conoscenza deve dunque rappresentare una priorità fondamentale per entrambe le parti: anche se non è realistico attendersi che i volontari della piccola iNGO conoscano perfettamente la dottrina del NATO CIMIC, o che le truppe militari padroneggino i principi della gestione del ciclo del progetto, è auspicabile che militari e civili siano dotati, al momento del dispiegamento, di un basilare bagaglio di conoscenze sui partner con cui si incontreranno.

Da questo punto di vista, sembra che gli sforzi maggiori siano quelli attuati dal mondo militare: una parte significativa del lavoro degli addetti al CIMIC, infatti, è volta ad attività di formazione ad ogni livello gerarchico finalizzate alla sensibilizzazione sui princìpi su cui si basa il lavoro degli operatori umanitari, che invece sembrano talvolta restii – a causa di pregiudizi e stereotipi ormai radicati, ma a volta anche per motivazioni di principio – ad approcciare la controparte.

L'effettiva finalità di tale reciproca conoscenza, naturalmente, non va ricercata nelle relazioni interpersonali tra operatori dei due ambiti: essa è funzionale alla comprensione dei tutte le dimensioni attraverso le quali si esplica l'impegno della controparte.

La piena consapevolezza di ruoli, finalità, princìpi e modus operandi, a questo punto, diviene precondizione indispensabile per il reciproco rispetto, primo vero passo per una reale collaborazione a lungo termine.

11.3.2 Procedure chiare e predefinite

La migliore garanzia, a livello operativo, per i princìpi di imperativo umanitario, imparzialità ed indipendenza nell'impegno dei civili è probabilmente l'implementazione di procedure predefinite e concordate.

In questo quadro si collocano, dunque, le guidelines elaborate dall'Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite ed Inter-Agency Standing Committee7, che mirano a creare un framework di riferimento che definisca le

procedure più adatte per uno svolgimento di azioni congiunte che non pregiudichi le caratteristiche intrinseche delle entità civili.

7 L'IASC è un forum inter-agenzie per il coordinamento, lo sviluppo di policies ed il decision-making nell'ambito delle politiche umanitarie, che raccoglie (oltre a numerose realtà del sistema Nazioni Unite, come FAO, OCHA, UNDP, UNFPA, UNHABITAT, UNHCR, UNICEF, WFP, WHO, OHCHR, World Bank e l'Ufficio del Rappresentante Speciale per i Diritti Umani degli IDP), le principali agenzie impegnate nel campo, tra le quali International Committee of the Red Cross (ICRC), International Council of Voluntary Agencies (ICVA), International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies (IFRC), American Council for Voluntary International Action (InterAction) ed International Organization for Migration (IOM).

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Le “Guidelines On The Use of Foreign Military and Civil Defence Assets In Disaster Relief”, note anche come “Oslo Guidelines”8, definiscono ad esempio sei riferimenti

fondamentali per l'utilizzo di assets militari9:

1. La richiesta di MCDA in supporto ad agenzie ONU deve essere fatta dal DRSG che ricopre la funzione di Humanitarian Coordinator/Resident Coordinator, con il consenso dello Stato locale, ed essere basata esclusivamente su motivazioni e criteri umanitari.

2. Gli MCDA devono essere impiegati solo come ultima risorsa, nell'assenza di una alternativa civile disponibile e per rispondere a necessità umanitarie urgenti.

3. Le operazioni umanitarie che impiegano MCDA devono mantenere la propria natura civile, rimanendo sempre sotto il controllo e l'autorità dell'organizzazione umanitaria responsabile, anche se il controllo dei singoli assets resta prerogativa della struttura militare.

4. Le operazioni umanitarie devono essere eseguite da personale civile: l'organizzazione umanitaria non deve – per quanto possibile – eseguire interventi di assistenza diretta, per non pregiudicare una chiara distinzione di ruoli ed interessi.

5. Ogni impiego di MCDA deve essere, fin dall'origine, chiaramente limitato nelle proporzioni e nel tempo, oltre a presentare una chiara strategia che definisca come la sua funzione possa essere, nel tempo, svolta con personale ed equipaggiamento civile.

6. I Paesi che forniscono MCDA in supporto delle operazioni umanitarie delle Nazioni Unite devono assicurare il rispetto dei codici di condotta e dei principi umanitari.

Oltre a queste fondamentali indicazioni di principio, le Oslo Guidelines forniscono anche indicazioni prettamente operative, indicando ad esempio che il personale militare impiegato in supporto delle attività umanitarie debba essere sempre chiaramente distinto dalle forze impegnate in altre missioni militari, (inclusa la missione di peacekeeping), e che fornisca la sua assistenza disarmato, facendo riferimento per la propria protezione esclusivamente alle misure di sicurezza adottate dall'agenzia umanitaria.

Altro importante riferimento operativo sono le “Guidelines On The Use of Military and Civil Defence Assets To Support United Nations Humanitarian Activities in Complex Emergencies”10.

8 Per alcuni estratti dalle “Oslo Guidelines”, cfr Allegato 5. 9 Detti Military and Civil Defence Assets – MCDA.

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In questo documento - oltre ad essere sancito un quarto principio umanitario fondamentale, quello del rispetto della sovranità dello Stato ospite11 - indica una serie

di interrogativi sui quali il DSRSG Humanitarian Coordinator/Resident Coordinator deve basare la propria decisione di richiedere tale supporto ai militari:

 Si tratta di un'opzione di ultima istanza, indispensabile ed appropriata?  Il Paese che fornirà le MCDA è anche una parte coinvolta nel conflitto?

 In base alle necessità, l'unità militare è effettivamente in grado di svolgere i

compiti richiesti?

 Per quanto tempo tale supporto sarà necessario?

 È possibilie dispiegare le unità militari senza armi o forze di sicurezza

aggiuntive?

 In che misura tale associazione influirà sulla sicurezza del personale ONU e

degli altri operatori umanitari?

 Tale impatto influirà sulla percezione di neutralità e/o imparzialità dell'ONU?  Quali accordi di controllo e coordinamento sono necessari?

 Come e quando sarà possibile restituire ai civili tali responsabilità?

 Quali possono essere le conseguenze per i beneficiari (esclusi gli operatori

umanitari) e l'operazione umanitaria, nel medio e lungo periodo?

Le “MCDA Guidelines”, inoltre, sottolineano altri due punti di riferimeno per l'impiego di assets militari: “Civilian Control” e “At No Cost”.

Per quanto la responsabilità della sicurezza degli MCDA resti del comandante militare designato, il controllo complessivo dell'operazione deve rimanere nelle mani della componente umanitaria civile, anche se con diversi gradi di contrattazione, a seconda del soggetto militare che fornisce gli assets: in particolare, se si tratta di MCDA fornite nell'ambito della missione militare ONU, queste saranno dispiegate in “direct support” dell'agenzia ONU.

Gli assets militari, infine, al pari di ogni altra assistenza umanitaria, devono essere forniti senza alcun costo per lo Stato beneficiario o l'agenzia che li riceve: di conseguenza, non devono neppure comportare alcun taglio o riduzione – al fine di recuperare i costi - nell'assistenza pianificata e programmata.

11 Così come formulato dalla Risoluzione 46/182 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “The sovereignty, territorial integrity and national unity of States must be fully respected in accordance with the Charter of the United Nations. In this context, humanitarian assistance should be provided with the consent of the affected country and in principle on the basis of an appeal by the affected country.”

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11.4 Obiettivi condivisi?

Una volta stabilito un quadro di mutuo rispetto e di procedure chiaramente definite che garantiscano il massimo grado possibile di tutela delle necessità di entrambe le parti, le attività di Coordinamento o Cooperazione Civile-Militare possono svolgersi con ottime probabilità di successo.

Resta però da definire in che misura la componente civile e la componente militare possano realmente considerare desiderabile tale soluzione.

Dal punto di vista operativo, pare evidente che – almeno nel breve periodo – il coordinamento tra gli attori coinvolti nell'intervento umanitario, di sviluppo o di ricostruzione abbia conseguenze positive sull'efficacia e sull'efficienza degli sforzi. Evitare sprechi di risorse preziose e limitate (in termini di tempo, forza lavoro e mezzi economici), trarre vantaggio dalle risorse che i partner non impiegano o pianificarne un impiego utile a più entità contemporaneamente, e condividere informazioni potenzialmente vitali che sarebbero altrimenti irreperibili o estremamente costose, costituiscono senza dubbio un'attrattiva per tutte le controparti, ed un incentivo ad intraprendere processi di coordinamento e cooperazione.

D'altra parte, i rischi insiti in tale scelta non sono certamente trascurabili.

Ogni errore commesso nella pianificazione e nell'implementazione di questi interventi, infatti, è potenziale causa di danni a volte irreparabili ai fondamenti stessi dell'intervento umanitario.

Il timore di essere considerati dalla popolazione come un elemento integrato nella struttura militare, di vedere limitata la propria libertà di azione o danneggiata la propria immagine di istituto indipendente ed imparziale, costituisce un ostacolo non trascurabile, dal punto di vista delle organizzazioni ed agenzie civili.

A questo punto, la decisione deve basarsi su considerazioni più ampie, che riguardano la natura stessa della missione e gli obiettivi generali e specifici degli attori in campo.

Pur senza voler esprimere, in questa sede, un giudizio di valore, è innegabile che gli approcci al CIMIC attuati dall'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico e dall'Organizzazione delle Nazioni Unite pongono problematiche del tutto differenti. Estremizzando, si può schematicamente affermare che, nel caso della NATO, la finalità esplicitamente dichiarata del CIMIC è di essere funzionale alla missione militare, e le ricadute positive sulla società civile del Paese ospite sono sostanzialmente un mezzo per ottenere consenso ed appoggio.

Al contrario, nell'ottica dell'UN-CMCoord, sono le strutture militari ad essere subordinate agli obiettivi umanitari, sforzo cui devono contribuire fornendo allo stesso tempo protezione agli attori civili e supporto alle loro attività.

Si configura dunque una netta distinzione tra finalità opposte ed apparentemente inconciliabili.

Tale profonda spaccatura può essere colmata solo nel momento in cui si riesca ad operare una sintesi tra tali obiettivi: la definizione di una finalità condivisa per l'impegno militare e civile in uno specifico teatro operativo rappresenta probabilmente l'unica via per godere dei vantaggi del coordinamento e della cooperazione, senza per questo rinunciare ai differenti sistemi di valori che caratterizzano le singole componenti impegnate.

Concludendo, i due differenti approcci della struttura militare e del sistema delle agenzie umanitarie possono conciliarsi se ricondotti ad una strategia comune, con

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obiettivi di sviluppo congiuntamente definiti.

Se nelle operazioni complesse ed integrate delle Nazioni Unite tale prospettiva sembra più facilmente raggiungibile, ed in alcuni casi rappresenta già una realtà, non c'è motivo di credere che non si possa ottenere lo stesso risultato per la NATO.

Tale percorso, naturalmente, sarà complesso e faticoso, e richiederà un fondamentale ripensamento della natura stessa dell'Organizzazione: tale transizione ha però avuto inizio – seppur con alterne fortune e non senza errori – nel momento in cui, scomparso il sistema bipolare che ne giustificava l'esistenza, la NATO ha optato per continuare il proprio impegno per garantire la stabilità e la pace.

Il dibattito sulle modalità con cui tale impegno debba essere perseguito nella pratica è ovviamente aperto, ma se – come sembra ragionevolmente possibile – la struttura dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico saprà ridefinire le proprie priorità informandole ai valori ed ai princìpi dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, entità che al momento sembra universalmente riconosciuta come garante dei diritti umani (primo fra tutti quello ad un'esistenza pacifica e sicura), la comprovata efficienza operativa del sistema NATO potrà sempre più costituire uno strumento fondamentale per la gestione dei conflitti e delle crisi umanitarie.

In una tale situazione, nel pieno rispetto dei rispettivi, distinti ruoli e caratteristiche, forze militari, organizzazioni internazionali ed NGO locali ed internazionali potrebbero realmente collaborare nell'interesse delle popolazioni colpite da conflitti e catastrofi umanitarie, traendo il massimo vantaggio dall'implementazione delle procedure di coordinamento e cooperazione tra civili e militari.

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