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Studio ed ottimizzazione di additivi chimici nel processo di produzione della carta tissue.

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale

Corso di Laurea Magistrale in Chimica Industriale

“Studio ed ottimizzazione di additivi chimici nel processo di

produzione della carta tissue”

Candidato:

Alessandro Corsini

Anno Accademico 2019/2020

Relatore:

Prof.ssa Claudia Antonetti

Tutor aziendale:

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Indice

1. La chimica nell’industria cartaria……….. 4

1.1 Introduzione……….. 4

1.2 Processo produttivo della carta………. 5

1.3 La macchina Yankee e la carta tissue……… 9

1.4 Il trattamento delle acque reflue e dei fanghi di macchina……...…….... 18

1.5 Le principali tipologie di carte…………... 28

1.6 La chimica colloidale……… 30

1.7 Le variabili nella chimica ad umido……...………... 34

1.8 Principali trattamenti chimici in cartiera………... 38

1.9 Gli additivi di processo per la carta tissue……….... 41

1.9.1 I ritentivi……… 43

1.9.2 Additivi per le resistenze ad umido………... 48

1.9.3 I prodotti coating………... 51

1.10 Scopo della tesi………... 55

2. Materiali e metodi………... 56

2.1 Materiali...………..….. 56

2.2 Strumentazione e metodi... 56

2.2.1 Spettrofotometro Acquafluor... 56

2.2.2 Rilevatore PCD per la misura della domanda di carica... 58

2.2.3 Torbidimetro... 59

2.2.4 pH/Conduttivimetro... 60

2.2.5 Stereoscopio ottico digitale... 61

3. Risultati e discussione………... 62

3.1 Le poliammine al pulper di macchina………. 62

3.2 I prodotti coating al monolucido………... 72

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4. Conclusioni……….... 88

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1. La chimica nell’industria cartaria.

1.1 Introduzione

Questo lavoro di tesi ha lo scopo di studiare ed ottimizzare i principali trattamenti chimici all’interno di una macchina continua industriale adibita alla produzione di carta tissue, analizzando, in maniera approfondita, le possibili problematiche di natura chimica che possono emergere nel circuito produttivo della macchina. Il lavoro è stato svolto presso l’azienda Axchem Italia che opera nel settore cartario, attraverso la fornitura alle cartiere clienti, di tutti i prodotti chimici necessari all’ottimizzazione del circuito di una macchina continua: dal pulper (inizio del processo) fino al trattamento biologico degli effluenti. La ditta Axchem Italia fa parte del gruppo multinazionale

Axchem che, negli ultimi anni, ha avuto una crescita esponenziale grazie anche alla collaborazione

con la società chimica francese “SNF”, uno dei maggiori produttori mondiali di polimeri solubili per il trattamento delle acque sia industriali che potabili.

In particolare, in questo elaborato, è stata presa sotto esame la macchina continua PM 12 (Paper Machine) dello stabilimento cartario di Lucart a Porcari. Il gruppo Lucart, azienda lucchese leader in Europa nella produzione di carte monolucide e prodotti tissue (articoli in carta destinati al consumo quotidiano quali carta igienica, carta per cucina, tovaglioli, tovaglie, fazzoletti etc.), che ci ha permesso di condurre gli studi sulla PM 12, nasce nel 1953 a Lucca per iniziativa della Famiglia Pasquini. Le attività produttive dell’azienda sono distribuite su due tipologie di Business Unit: 1)

Away from Home e 2) Consumer, impegnate nello sviluppo e nella vendita di prodotti con brand

come Lucart Professional, Tenderly Professional, Fato e Velo (area Away from Home) e Tenderly,

Tutto, Grazie Natural e Smile (area Consumer). La capacità produttiva del gruppo è di 395.000

tonnellate/anno di carta, lavorando con 12 macchine continue e 65 linee di converting. Il fatturato consolidato è superiore a 450 milioni di euro e le persone impiegate sono oltre 1.500 presso 10 stabilimenti produttivi (5 in Italia, 1 in Francia, 1 in Ungheria, 3 in Spagna) e un Centro Logistico in Italia.

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1.2 Processo produttivo della carta

La carta, in tutte le sue possibili tipologie, è un bene fondamentale tra i più consumati al mondo. Si stima che, nella sola Italia, il consumo annuo pro capite di questo materiale sia di circa 50 Kg, con un conseguente consumo giornaliero, all’interno del territorio nazionale, di 8 milioni di Kg. Il processo di produzione cartaria di qualsiasi tipologia prevede tre differenti fasi [1]: 1) la preparazione dell’impasto a base di cellulosa e acqua, 2) la formazione del foglio vero e proprio nella parte umida della macchina continua, ed infine 3) l’asciugatura dello stesso nella parte della seccheria con la conseguente formazione della bobina all’arrotolatore finale. In Figura 1 è rappresentato il flow-sheet completo dell’impianto di produzione: dal trattamento del legno fino alla formazione finale delle bobine di carta.

Figura 1: Flow-sheet di un impianto cartario.

Le cartiere che ottengono la cellulosa direttamente in loco, senza l’acquisto delle balle già pronte, prevedono alcune fasi preliminari, a monte del processo, di lavorazione del legno. I tronchi, scortecciati e sminuzzati, vengono ridotti in “chips” messi poi a bollire in speciali autoclavi per poter separare la lignina e le altre sostanze incrostanti, dalla cellulosa, la quale, una volta raffinata, lavata e sbiancata è pronta per essere utilizzata in macchina. Negli impianti industriali in cui la fase di lavorazione del legno è assente, il primo stadio del processo produttivo, come accennato, è quindi la preparazione dell’impasto che inizia dalla scelta delle balle di materia prima: cellulosa vergine o

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carta di riciclo, acquistate e stoccate nel magazzino materie prime. Queste sono successivamente trasferite, mediante l’utilizzo di carrelli elevatori, ad un nastro trasportatore che le invia al miscelatore (pulper). All’interno del pulper, dotato di girante sul fondo, si realizza la dispersione delle fibre cellulosiche in acqua. La miscela acquosa risultante (al 95% p/p circa di acqua) viene in seguito inviata ad una serie di cicloni che permettono l’eliminazione di eventuali impurità che potrebbero interferire con la formazione della carta (questa fase può essere assente nel caso di impiego di cellulose di elevate qualità) [1].

Figura 2: Pulper della PM 12 di Lucart.

Dall’uscita dei cicloni, la miscela viene pompata alla tina di miscelazione, nota anche come tina di

macchina (anch’essa, a seconda del tipo di cartiera e di produzione può non essere presente), dove si

completa la fase di mescolamento tra fibre ed acqua e vengono aggiunti i primi additivi chimici necessari per ottenere una buona carta come ad esempio sbiancanti ottici, battericidi (a seconda della tipologia di materia prima impiegata) e additivi per la resistenza ad umido ed a secco della carta. L’impasto così ottenuto a base di acqua e cellulosa viene successivamente inviato dalla tina di miscelazione alla “macchina continua” (PM) attraverso una alla pompa di alimentazione detta fan

pump [1]. La regolazione della grammatura finale della carta, espressa come g/m2, viene effettuata

tramite un’apposita “valvola di grammatura”, una valvola lineare che regola l’ingresso dell’impasto all’interno della pompa di alimentazione.

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Figura 3: Fan-pump della PM 12 di Lucart.

La sospensione fibrosa, ancora estremamente diluita (< 10 g/L) [1], dalla fan pump arriva quindi in un contenitore metallico chiamato cassa di afflusso, che ha la funzione di distribuire, con la massima uniformità e regolarità, la sospensione sulla tela di formazione, evitando la formazione di vortici e schiume. La cassa d’afflusso costituisce un elemento chiave della macchina continua perché è il luogo dove nasce il foglio di carta che andrà poi a formare la bobina finale. Essa ha il difficile compito di distribuire in modo uniforme un flusso di pasta ed acqua su un sottile foglio largo parecchi metri. In Figura 4 è riportato lo schema della macchina continua con evidenziate le sezioni principali.

Figura 4: Schema di una macchina continua.

Collocata sotto la cassa d'afflusso, si trova la tela di formazione, costituita sostanzialmente da un nastro senza fine in poliammide che avvolge due o più cilindri che la fanno ruotare in continuo, con la funzione fondamentale di far perdere progressivamente buona parte dell'acqua contenuta nell'impasto favorendo, allo stesso tempo, l'unione tra loro delle fibre di cellulosa. Successivamente

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il foglio viene sottoposto ad una progressiva perdita d’acqua dovuta a drenaggio dapprima naturale e in seguito forzato per azione di casse aspiranti e successivamente di cilindri e presse ad umido. Le casse aspiranti sono collegate a quattro pompe da vuoto, tre delle quali hanno condotti di emissione convogliate nel canale di scarico, mentre l’ultima emette direttamente in atmosfera esterna. In posizione sovrastante i cilindri talvolta è installato poi un ulteriore sistema di disidratazione formato da una cassa all’interno della quale è insufflato vapore, con la funzione di riscaldare il foglio in fase di consolidamento, facendo quindi evaporare l’acqua ancora in esso contenuta. Il foglio dunque è fatto avanzare alla sezione presse tramite il feltro, un tessuto sintetico poroso a forma di nastro continuo, che permette sia di assorbire l’acqua senza compromettere la struttura fibrosa del foglio, sia di indirizzare quest’ultimo verso la sezione presse per l’inizio della fase di asciugatura. La sezione presse è costituita da almeno due Nip (due sezioni che creano una pressione), ovvero punti in cui il foglio è “spremuto” tra due rulli feltrati. Le acque d’impregnazione e quelle provenienti dal lavaggio della tela vengono inviate all’impianto di depurazione del sito industriale. Dopo le presse, il foglio di carta raggiunge un residuo secco del 45% p/p e viene quindi introdotto nella zona secca della macchina continua (seccheria), dove è asciugato mediante calore. La funzione della seccheria è quindi quella di asciugare il foglio di carta fino a disidratazione quasi completa (si arriva a circa il 5% p/p di umidità nel foglio finale) [1]. Il nastro di carta entra infatti in seccheria ad una temperatura di circa 15°C e viene portato gradualmente ad una temperatura poco al di sopra dei 100°C, al fine di consentire l’evaporazione dell'acqua trattenuta dal supporto fibroso. La seccheria è costituita da numerosi cilindri essiccatori, riuniti in gruppi denominati “batterie”, dove il foglio passa tra una batteria e l’altra supportato su tele essiccatrici che evitano il contatto diretto tra il foglio di carta ed il cilindro essiccatore. I cilindri sono alimentati da vapore acqueo e dotati di opportuni sistemi per lo scarico della condensa. La vaporizzazione dell'acqua, realizzata nella seccheria, deve avvenire nel tempo impiegato dal nastro di carta a percorrere lo spazio della seccheria stessa. Generalmente, tutta questa sezione, è ricoperta da una cappa di alluminio al fine di evitare correnti di aria fredda, con

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conseguenti dispersioni di calore, ed in modo da ottenere una buona ed omogenea distribuzione del calore su tutta la sezione trasversale del foglio. L'aria in uscita viene convogliata ed emessa in atmosfera. In funzione del tipo di carta prodotta, dopo la seccheria, il foglio viene sottoposto alla cosiddetta operazione di "calandratura", ovvero ad un trattamento meccanico finalizzato ad aumentare la lisciatura ed il lucido della carta prodotta. Quando il foglio esce dalla calandra viene avvolto nella sezione arrotolatore (pope) su un'anima (tubo in cartone) che funge da supporto per la carta che vi si avvolge intorno, creando quindi una bobina di larghezza pari a quella utile della macchina. Le bobine madri, dopo un attento controllo per verificarne il rispetto dei parametri tecnici e fisici previsti per ogni tipologia di utilizzo, sono inviate all’allestimento, dove vanno incontro ad un processo di ribobinatura che si differenzia in funzione del tipo di carta. Dopo lo stoccaggio in magazzino, le nuove bobine si preparano alla trasformazione nei prodotti finiti che nascono da specifiche linee di trasformazione, dette anche impianti di converting (cartotecnica). In questa sezione la carta è stampata, incollata, goffrata a rilievo, perforata e avvolta su un'anima di cartone per ottenere il rotolo grezzo (log) che sarà poi tagliato nella lunghezza desiderata. L’ultima sezione del processo produttivo riguarda la fase di confezionamento e “pallettizzazione” in cui i prodotti sono preparati in confezioni singole e, successivamente, assemblati negli imballaggi multipli per la vendita all'ingrosso. Negli stabilimenti più avanzati, un robot mette le confezioni su pallet per la spedizione, mentre la fasciatura e l'etichettatura chiudono il processo produttivo. Le polveri di cellulosa che normalmente si accumulano durante la lavorazione della carta nella zona di converting sono raccolte ed eliminate, mediante incenerimento, in strutture al di fuori della cartiera.

1.3 La macchina Yankee e la carta tissue

La macchina Yankee è un caso particolare di macchina continua che si differenzia dalla precedente descrizione per la lunghezza complessiva del circuito e di conseguenza anche per la struttura della seccheria [1]. La PM 12 di Lucart Porcari, studiata in questo lavoro di tesi, appartiene proprio a

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questa categoria. Tali tipologie di macchine sono dedicate unicamente alla produzione di carta tissue dove con il termine “tissue”, generalmente, si intendono tutti quei prodotti cartari destinati ad un uso igienico sanitario sia nelle case private sia nei luoghi pubblici, come ad esempio fazzoletti, rotoli da cucina, carta igienica, tovaglioli ecc. Come anticipato, la principale differenza tra la tipologia di macchina Yankee e quella classica, può essere riassunta nelle diverse lunghezze dei circuiti, molto più breve nel caso della macchina Yankee, a causa della diversa grammatura delle carte, particolarmente leggere nel tissue, più pesanti invece nel board o nelle carte da stampa, prodotte nella macchina classica [1]. La macchina Yankee risulta infatti essere più compatta rispetto alla macchina classica, sia nella zona di formazione del foglio sia nell’ultima sezione di asciugatura. Nelle macchine da tissue il foglio viene generalmente formato in pochi metri, immettendo l’impasto direttamente tra la tela e il feltro, i quali combinati insieme permettono già un adeguato drenaggio dell’acqua senza necessità delle lunghe tavole piane delle macchine continue tradizionali precedentemente descritte. Anche nella zona della seccheria si hanno importanti differenze: nella macchina Yankee questa è concentrata in un unico cilindro essiccatore (monolucido o Yankee vero e proprio) riscaldato all’interno da vapore ad alta pressione (fino a circa 8 bar) sul quale aderisce il foglio di carta bagnato proveniente dalla zona di formazione al fine di essere completamente asciugato. Il monolucido è generalmente in ghisa o acciaio, di diametro variabile dai 4 ai 6 metri e le sue funzioni principali sono [1]:

• il trasporto del foglio;

la formazione del Nip con il cilindro pressa;

il trasferimento termico per l’essiccamento del foglio;

• la formazione di una base per la crespatura o la creazione di una carta lucida.

Il cilindro, a causa delle sue notevoli dimensioni, ha uno spessore di 5-10 centimetri e può arrivare anche a 150 tonnellate di peso. In Figura 5 si riporta l’immagine di un tipico monolucido per

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macchina Yankee: la struttura cava all’interno permette l’insufflazione di vapore caldo, fondamentale per l’asciugatura finale del foglio di carta.

Figura 5: Cilindro Yankee di metallo riscaldato da vapore caldo insufflato internamente (Toscotec).

Il cilindro essiccatore è inoltre racchiuso all’interno di una o più cappe che hanno la funzione di mantenere la temperatura entro certi limiti, mediante un sistema di ventilazione che immette ed espelle l’aria calda. L’aria in uscita, prima di essere emessa in atmosfera, passa attraverso due scambiatori di calore, per un parziale recupero termico, al fine di preriscaldare l’aria in ingresso alle cappe. La Figura 6 mostra la struttura della seccheria nella macchina Yankee (in particolare della PM 12 di Lucart) in cui il monolucido è sormontato da due cappe riscaldanti.

Figura 6: PM 12 di Lucart Porcari.

Nella produzione di carta tissue, come accennato, l’asciugamento finale del foglio all’interno della

macchina, ha luogo su un solo cilindro essiccatore. Il foglio ancora umido viene schiacciato contro lo

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possibile grazie alla presenza di apposite sostanze chimiche che si depositano sulla superficie del cilindro creando uno strato chiamato “coating” o “patina” in grado dapprima di trattenere il foglio di carta in asciugatura e successivamente di favorirne il distacco quando esso entra in contatto con una coltella detta “lama crespatrice” [2]. La Figura 7 mostra la sezione del monolucido in prossimità della lama crespatrice, ovvero del punto in cui il foglio di carta viene meccanicamente staccato dallo

Yankee. Oltre alla lama crespatrice, è in genere una seconda lama, chiamata “lama di pulizia”, che ha

la funzione di livellare ed omogeneizzare lo strato di coating danneggiato inevitabilmente dalla stessa lama crespatrice nello staccare il foglio dal monolucido.

La forza con la quale il foglio aderisce al monolucido è fondamentale poiché determina l’effetto di contrazione della carta al momento del suo distacco dal cilindro. Tale effetto, chiamato “crespatura”, influisce in maniera decisiva sulle caratteristiche della carta stessa (in particolare sulla morbidezza). L’adesione del foglio sul monolucido diventa pertanto un aspetto fondamentale nel tissue ed i fattori che maggiormente influenzano tale parametro possono essere, ad esempio, la superficie del cilindro, le lame, l’umidità del foglio, le caratteristiche dell’acqua ed i prodotti chimici utilizzati. Per controllare l’azione di questi parametri, proteggendo anche la superficie del monolucido e le lame dall’usura, si utilizzano quindi degli adeguati prodotti chimici: i prodotti del coating. In particolare, in tale ambito, l’aumento continuo di prestazioni delle macchine e i requisiti per una qualità della

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carta sempre più elevata, hanno portato alla necessità di usare particolari prodotti chimici per il trattamento del monolucido in grado di aumentare l’effetto e l’azione del cosiddetto “coating naturale” o “organico”, uno strato di alcuni micron di spessore, formato dai frammenti di fibra rimasti sul monolucido dopo il processo di crespatura. I prodotti chimici utilizzati in tal senso si distinguono in quattro categorie principali [2]:

attaccanti (base del coating); distaccanti (release);

• protettivi; • modificatori.

Il processo di applicazione dei suddetti prodotti alla superficie dello Yankee ha diversi scopi. Da una parte infatti permette di creare un’opportuna forza di adesione tra la carta e il coating in funzione del grado di crespatura desiderato, in modo da poter ottenere una carta tissue più morbida e più soffice, dall’altra consente e facilita l’effettivo rilascio della carta dalla superficie del monolucido in prossimità della lama crespatrice creando inoltre, allo stesso tempo, una patina uniforme e stabile al fine di proteggere il monolucido e le lame dall’usura [2].

Come riportato precedentemente, peculiarità propria della carta tissue, oltre al fatto di essere molto leggera, è quella di essere “crespata”. La crespatura è l’effetto provocato sulla carta quando viene staccata dal cilindro monolucido per azione della lama “crespatrice” e consiste nel conferire al foglio una serie di formazioni ondulate, nel senso trasversale, chiamate “folds”. Tali formazioni, garantite anche dalla riduzione della velocità del pope rispetto a quella del monolucido, sono decisive per la caratteristica principale della carta tissue: la morbidezza. Il rapporto di crespatura viene definito come segue [2]:

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Quando la carta viene crespata a un grado di secco di circa il 95% p/p (fra 93 e 97% p/p) [2] si parla di crespatura secca (“dry crepe”). Oltre tale percentuale si ha il “super dry crepe”, mentre quando il processo avviene tra l’80 e il 93% p/p si chiama “semi dry crepe”. Infine, la crespatura realizzata a un grado di secco tra 50 e 80% p/p corrisponde al “wet crepe”, che fornisce diverse caratteristiche alla carta (aumento di grammatura, rigidità, ruvidezza) ma deve essere seguita da un ulteriore stadio di essiccamento. La PM 12 di Lucart Porcari è una macchina convenzionale di tipo “dry crepe” e quando avviene la crespatura, si effettua un taglio del legame adesivo tra la carta e il monolucido. In pratica, data la perfetta adesione della carta sul monolucido, il foglio si stacca dalla superficie metallica prima di venire in contatto con la lama e forma un “loop” chiamato micro-fold. All’accumularsi contro la lama, questi micro-folds, si dispongono in maniera tale da formare un singolo fascio chiamato macro-fold. Alcuni macro-folds possono essere assemblati sulla lama crespatrice prima di allontanarsi dall’area tra la lama e lo Yankee. La finezza della crespatura può essere quindi migliorata aumentando il livello di adesione della carta sul monolucido, al fine di fare la carta più morbida. Se l’adesione al monolucido è bassa rispetto alle forze interne di coesione della carta, il taglio avviene vicino alla superficie metallica del monolucido provocando la rimozione del

coating e di conseguenza l’usura della superficie del cilindro (oltre a quella della lama) e un risultato

di crespatura insufficiente. Se invece l’adesione al monolucido è più alta rispetto alla coesione, l’interfaccia della carta rimane sulla superficie del monolucido e passa sotto la lama, mentre il taglio avviene in maniera occasionale all’interno della carta e può causare facilmente rotture del foglio. Nel caso della PM 12, per garantire la massima efficienza del processo di crespatura, il cilindro Yankee è dotato di ben tre lame come mostrato in Figura 8. La prima (lama staccatrice) viene utilizzate durante il cambio della lama crespatrice per non perdere crespatura e possibile produzione, la seconda (lama crespatrice) è la lama principale che distacca il foglio di carta attaccato al monolucido, mentre la terza (lama di pulizia) serve per livellare lo strato di coating residuo [2].

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Figura 8: Le tre lame presenti sulla superficie del monolucido della PM 12 [2].

Per quanto riguarda la lama crespatrice, come riportato in Figura 9, i parametri più importanti che influenzano l’affidabilità e l’efficacia dell’operazione di crespatura, sono l’angolo “bevel” o angolo di set-up (angolo B),’angolo della lama (angolo C), la pressione con cui la coltella si appoggia al monolucido e lo spessore della lama stessa.

Figura 9: Struttura geometrica della lama crespatrice (Creping Doctor Blade) [2].

L’angolo A viene stabilito al momento di montaggio ed ha valori tipici di 0,5,10,15 e 20° [2]. Sulla PM 12 di Lucart il valore stabilito è di 19,5°, ma in altre cartiere che fanno tipi di carte particolarmente crespate si arriva anche a 24/25°. L’angolo B ha valori tipici di 75 o 90° [2], con il valore più basso corrispondente a una superficie di impatto carta / lama minore e di conseguenza a

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una crespatura più fine. Lo stesso effetto è possibile ottenerlo all’ aumentare dell’angolo D (angolo di impatto o di crespatura) che dipenda dagli altri due e dalla velocità del monolucido.

La PM 12, oggetto del presente studio, utilizzata da Lucart nello stabilimento di Porcari, è una

Toscotec AHEAD-2.0S Crescent Former. Si tratta di una macchina continua ad alte prestazioni con

una produzione di 115 tonnellate al giorno ed una velocità di 2000 metri al minuto. La versione standard di questa paper machine è costituita da cinque rulli crescent former con un ulteriore rullo formatore di 1540 mm di diametro, una sezione di presse idrauliche per l’asciugatura del foglio ed uno Steel Yankee Dryer di quasi 5 metri di diametro che è in grado di lavorare fino a 10 bar di pressione di vapore. Le Figure 10, 11 e 12 riportano alcune immagini 3D del modello Toscotec utilizzato nello stabilimento cartario Lucart Porcari.

Figura 10: Modello 3D della paper machine Toscotec AHEAD-2.0S (Toscotec).

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Figura 12: Sezione pope del modello 3D del PM 12 di Lucart (Toscotec).

I principali dati tecnico-operativi della PM 12 di Lucart, forniti direttamente dal costruttore

Toscotec, sono riportati in Tabella 1.

Modello AHEAD-2.0S

Larghezza formato foglio Max 2850 mm (112 inch)

Grammature possibili 12-40 g/m3

Velocità teorica 2200 mpm

Velocità massima raggiunta 2000 mpm

Produzione giornaliera media 120 T

Dimensione Yankee 4572 mm

Differenziale tra velocità Pope e Yankee 10-25%

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1.4 Il trattamento delle acque reflue e dei fanghi di macchina

Di fondamentale importanza, all’interno di uno stabilimento industriale cartario, è sicuramente il trattamento degli effluenti provenienti dalle macchine continue. Tale trattamento ha in genere un duplice scopo [3]: migliorare la qualità degli scarichi che la cartiera inevitabilmente ha e al tempo stesso massimizzare la quantità di fibra cellulosica recuperabile da riciclare direttamente in macchina. Le acque di scarico dell’industria cartaria sono caratterizzate dalla presenza di inquinanti in varie forme [3]:

sostanze sedimentabili costituite da fibre e cariche minerali che, essendo più pesanti dell’acqua, tendono a precipitare sul fondo del sedimentatore;

sostanze colloidali che comprendono la parte di solidi sospesi che sedimentano solo in tempi molto lunghi; essi sono caratterizzati da cariche elettriche negative, per cui si respingono reciprocamente e pertanto è impossibile la loro separazione dall’acqua se non con l’ausilio di particolari reagenti coagulanti;

sostanze disciolte normalmente sali inorganici come cloruri, solfati, calcio ecc, presenti nelle acque come sali e pertanto non considerati veri e propri inquinanti.

Lo schema tipico di un impianto di depurazione per acque reflue è molto simile alla classica architettura di un impianto per il trattamento sanitario-ambientali delle normali acque reflue fognarie: questi impianti ormai collaudati consentono una notevole riduzione del BOD (Biochemical

Oxygen Demand) ed il miglioramento in genere delle caratteristiche biologiche.

Le fasi di un processo di depurazione sono svariate, partono dall’eliminazione dall’acqua dei materiali più grossolani galleggianti e materiali in sospensione attraverso un processo meccanico, all’eliminazione delle sostanze disciolte attraverso dei processi chimico/fisici, sino all’eliminazione delle sostanze biodegradabili ed alla disinfezione da microrganismi mediante processi biologici. I trattamenti dei reflui acquosi di una cartiera possono essere quindi suddivisi in tre tipologie differenti [3]:

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• meccanici e fisici • biologici

• chimico-fisici

I trattamenti di depurazione meccanici e fisici separano dalle acque tutti i solidi più grossolani presenti nel refluo da trattare. All’interno di questa categoria, le metodologie che si possono annoverare sono la grigliatura, l’equalizzazione ed omogeneizzazione, la sedimentazione, la coagulazione, la flocculazione, la flottazione e la filtrazione [3].

La grigliatura è solitamente il primo trattamento che si applica ad un impianto di depurazione, esso viene utilizzato per l’eliminazione di solidi quali carta, plastiche, pezzi di legno ecc. Tale processo si ottiene facendo passare l’acqua attraverso una parte fissa composta da una serie di sbarre che ostacolano il passaggio a questi materiali, solitamente la pulizia di questa griglia avviene in maniera automatizzata mediante l’utilizzo di un rastrello dentato che va ad eliminare questi materiali. Gli scarti di grigliatura vengono così raccolti per essere sminuzzati o comunque smaltiti.

Il trattamento di equalizzazione ed omogeneizzazione, invece, si rende spesso necessario in quanto, le acque inviate al depuratore, non hanno sempre la stessa portata e la stessa concentrazione delle varie sostanze inquinanti. Per evitare che tali variazioni possano pregiudicare il buon funzionamento dell’impianto, nonché il suo rendimento, tutte le acque di scarico vengono raccolte in apposite vasche di accumulo che fungono da equalizzatori per i passaggi successivi, inoltre hanno anche la funzione di rendere la concentrazione degli agenti inquinanti il più omogenea e costante possibile. Queste vasche devono esser perennemente agitate al fine di garantire che gli inquinanti non sedimentino sul fondo.

Per quanto riguarda poi il processo di sedimentazione, esso può avvenire in diverse fasi del trattamento, con questo procedimento vengono separati dalla corrente liquida gran parte dei solidi sospesi mantenuti in sospensione dalla turbolenza e dalle forze esistenti tra molecola e molecola. Il procedimento viene attivato creando una fase di quiete all’acqua, in questo stadio ha luogo la

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“sedimentazione” dei materiali più densi dell’acqua che precipitano sul fondo. I sedimentatori più comuni sono di forma circolare al centro dei quali viene immessa l’acqua in ingresso, mentre quella in uscita viene raccolta all’esterno mediante l’ausilio di stramazzi. I fanghi si depositano sul fondo della vasca che è inclinato a forma di cono e vengono raschiati da lame raschia fanghi le quali non solo devono creare elevate turbolenze in modo da non sollevare i fanghi già depositati, ma e soprattutto non devono asportare totalmente i fanghi in quanto, il fango precedentemente depositato agisce come aiuto per la sedimentazione di ulteriore fango. I materiali sedimentabili possono essere sabbie oppure ossidi inorganici o fanghi biologici: i primi sedimentano spontaneamente mentre gli altri devono formare dei fiocchi mediante l’aggiunta di appositi reattivi chimici. In questa fase inoltre, si ha anche una prima separazione di alcune particelle colloidali che aderiscono per adsorbimento ai fiocchi dei fanghi. Il funzionamento del sedimentatore dipende anche dalla temperatura dell’acqua: più questa è fredda più la sospensione diventa viscosa diminuendo la velocità del processo.

Il processo di coagulazione [3] permette la precipitazione di tutte le sostanze presenti nelle acque che, a causa delle dimensioni, non riescono a separarsi dalla fase liquida tramite processo di sedimentazione. La non coagulazione delle stesse è data dalla loro carica (negativa) e quindi dal loro respingimento. Per rendere possibile tale sedimentazione si ricorre quindi all’uso di coagulanti inorganici od organici di tipo cationico che, neutralizzando le cariche negative, eliminano le forze repulsive, rendendone così possibile la separazione dopo aggregazione.

La coagulazione però, spesso, non è sufficiente per una sedimentazione rapida, rendendo quindi necessario un ulteriore stadio di flocculazione mediante l’aggiunta di un agente flocculante (polielettrolita organico), in modo da facilitare la creazione di fiocchi di dimensioni e peso molto elevati che sedimentano facilmente. La flocculazione è favorita da un’agitazione molto lenta che aumenta la probabilità di contatto tra i micro fiocchi. In quest’ottica è quindi importante conoscere l’andamento del fluido all’interno del sedimentatore che viene regolato in base all’affluente, alla

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velocità di sedimentazione ed è necessario calcolarlo quindi in modo che non sia né troppo veloce (perdita delle particelle fini) né troppo lenta (perdita di efficienza). Tutte queste sostanze galleggianti vengono poi raccolte da lame superficiali montate sulla raschia fanghi.

Il processo di flottazione [3], invece, consiste nel portare in superficie le particelle in sospensione che hanno una densità uguale o comunque prossima a quella dell’acqua sfruttando il principio inverso della sedimentazione. Questo processo può esser realizzato anche su materiali a densità maggiore del liquido, permesso attraverso l’adesione ad essi di bollicine di aria. L’aria viene immessa attraverso opportuni diffusori che producono bolle finemente suddivise oppure con la creazione di microbolle dovute ad un doppio passaggio delle acque che vengono prima portate in pressione e saturate di aria e successivamente portate ad una pressione minore che permette ad una quantità di aria di liberarsi e trasportare in superficie le particelle colloidali in sospensione. Le schiume così prodotte in superficie ed il materiale flottato può essere rimosso automaticamente tramite una lama che lo raccoglie e lo invia verso uno scarico. I solidi più pesanti invece si sedimentano nella parte inferiore della vasca dove vengono rimossi da un braccio raschia fanghi. L’acqua depurata viene invece raccolta per sfioro al centro della vasca. La flottazione viene in genere facilitata mediante l’uso di surfattanti non ionici (come ad esempio l’etossilato isotridecanolo) che modificano l’adesione tra i solidi e l’aria facilitando il contatto tra loro rendendo più facili le adesioni delle bollicine di aria alle particelle solide. Per il funzionamento ottimale del flottatore è necessario l’utilizzo di una piccola quantità di flocculante che favorisce l’adesione tra le varie particelle che creano così intrecci dove è più facile che si incastrino le bollicine di aria. L’aggiunta di queste sostanze aumenta però il costo di esercizio rispetto a quello del sedimentatore. L’acqua in uscita da questi trattamenti può anche contenere al suo interno una discreta quantità di solidi fini che non sono stati separati a causa delle loro piccole dimensioni. La rimozione di questi può essere ottenuta attraverso il processo di filtrazione, filtrando l’effluente attraverso un letto poroso o un filtro a maglie fini. La filtrazione può avvenire sia per gravità sia che differenza di

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pressione [3]: si distinguono infatti filtri a maglie fini, che sono solitamente cilindrici ed immersi solo parzialmente nell’acqua da trattare (l’acqua filtrata passa all’interno mentre i solidi si depositano all’esterno dei filtri) e filtri a letto poroso (generalmente filtri a letti di sabbia) che sono invece costituiti da vari strati di granulometria a densità differenti: gli strati a densità maggiore e granulometria inferiore sono posti in basso al filtro mentre quelli di granulometria maggiore e densità minore si trovano più in alto nel filtro. In questo modo si ottiene una maggior durata del ciclo di filtrazione in quanto le sostanze che costituiscono la torpidità nell’acqua vengono trattenute su una superficie maggiore ed inoltre durante il contro lavaggio si mantiene la separazione dei vari strati. Le problematiche più frequenti riguardano soprattutto l’eccessivo sporcamento della superficie filtrante ed il contenuto di solidi eccessivamente elevato in entrata. I processi meccanici fin qui descritti non rimuovono le sostanze inquinanti disciolte nell’acqua, per le quali vengono generalmente utilizzati invece dei sistemi biologici. Nel trattamento biologico dei reflui si utilizza una cultura di microrganismi in prevalenza batteri di diversa specie la cui funzione è quella di decomporre le sostanze organiche in prodotti finali non nocivi. Queste trasformazioni possono avvenire sia in ambiente aerobico sia anaerobico: i primi utilizzano l’ossigeno disciolto nell’acqua o fornito artificialmente in modo da creare le condizioni favorevoli a mantenere in vita i microrganismi ed a ottenere anche la migliore attività degli stessi. I processi anaerobici invece hanno la particolarità di avvenire in ambienti privi di ossigeno utilizzando l’energia liberata dall’ossidazione di prodotti inorganici o direttamente da sole. Questi processi producono una quantità di materiale biologico flocculento che rimane attaccato alla superficie di trattamento (filtri percolatori) o rimane disperso nel liquido da trattare (fanghi attivi). Per mantenere questa massa sempre attiva ed utilizzabile è molto importante che il livello di ossigeno non scenda mai sotto un determinato valore perché altrimenti questo comprometterebbe il corretto funzionamento del sistema di depurazione.

Il metodo anaerobico comporta normalmente costi operativi inferiori rispetto a quello aerobico a causa del minor fabbisogno energetico, minor esigenza di sostanza nutritiva e minor produzione di

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fanghi. Uno svantaggio importante del metodo anaerobico è la presenza di un quantitativo di BOD-COD di almeno 2000 mg/L [3]. Nella degradazione aerobica i prodotti finali sono innocui ed inodori mentre alcuni prodotti del metabolismo anaerobico sono nocivi e maleodoranti. Gli impianti ad ossidazione biologica (sia aerobica che anaerobica) si differenziano per la scelta le operata per realizzare il contatto microrganismi-sostanze da degradare/aria (cioè il modo in cui portano a contatto il fango con l’acqua da trattare). Le culture batteriche possono essere fisse su supporti solidi o mobili sospese nella massa liquida. Tra le innumerevoli varianti di trattamenti proposte nel tempo, quelle maggiormente affermate, sono le vasche a fanghi attivi, i filtri percolatori e i bio-dischi [3]. L’ossidazione a fanghi attivi, avviene in vasche nelle quali si verifica un’insufflazione di ossigeno o di aria mediante aeratori meccanici. Le vasche di forma rettangolare sono generalmente costruite in cemento con gli angoli completamente smussati per evitare che si creino zone di ristagno. Il fondo della vasca può avere una leggera pendenza verso uno o più pozzetti di scolo dove vengono collocate le pompe per lo svuotamento periodico, per la pulizia e la manutenzione. A meno che non si usi un’areazione con ossigeno puro o che non sussistano particolari condizioni ambientali le vasche sono a cielo aperto. Nelle vasche si ha la produzione di materiali biologico sia per ossidazione microbica sia per addensamento di materiali che si lega in fiocchi. Risulta necessario che questi fiocchi siano mantenuti dispersi tramite adeguata agitazione che può essere realizzata da mezzi meccanici o da insufflazione di aria all’interno delle vasche. L’aria o l’ossigeno vengono dispersi nel liquido da trattare mediante l’utilizzo di turbine sommerse o di diffusori costituiti da supporti porosi come porcellana o certi tipi di plastica. I diffusori sono disposti sul fondo delle vasche talvolta lungo uno dei lati maggiori così da creare nella miscela areata uno stato di turbolenza assimilabile ad un flusso a spirale ascendente.

Per quanto riguarda invece i filtri percolatori, essi possono essere i due tipi: i primi formati da uno strato poroso grossolano disposto alla rinfusa come sassi o carbon-fossile, i secondi costruiti con materiali di forma prestabilita disposti ad alveare come mattoni o fogli di plastica. Le strutture con

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cui sono formati questi filtri percolatori danno l’opportunità di avere un’elevata superficie di contatto per unità di volume. Questa superficie è molto importante in quanto è su questa che si deposita il film biologico attivo. La distribuzione del liquido da trattare avviene mediante un sistema a braccia rotanti o mediante spruzzatori posti sopra tutta la superficie del letto; il liquido scorrendo sul film depositato sul fondo del filtro percolatore, viene demolito dalle sostanze organiche presenti. L’acqua viene separata mediante un sistema di drenaggio posto sul fondo del filtro e poi mandata ad un sedimentatore secondario che separa l’acqua dal fango biologico staccato dal filtro percolatore. L’ossigeno utilizzato per la demolizione degli inquinanti è quello presente nell’acqua precedentemente assorbito durante la sua distribuzione sul letto o disciolto naturalmente sul liquido nel letto poroso. La concentrazione dell’ossigeno è variabile in funzione della velocità relativa con cui viene dai processi biologici e con cui viene introdotto dall’atmosfera esterna.

Altro meccanismo di trattamento biologico dei reflui è il processo di ossidazione mediante l’impiego di bio-dischi, il quale, sostanzialmente, si basa sugli stessi principi di funzionamento del processo a filtri percolatori. Si tratta di pannelli a base di polietilene ad alta densità raccolti in più spicchi montati circolarmente lungo un albero cilindrico. La struttura è immersa per circa il 40% nell’acqua da depurare e viene mantenuta in rotazione lenta mediante un’apposita motorizzazione. I pannelli risultano esposti alternativamente all’acqua ed all’aria: sulla loro superficie si forma così una flora batterica aerobica che utilizza come substrato nutritivo il contenuto organico inquinante presente nell’acqua. La superficie dei pannelli che esce dall’acqua, grazie alla lenta rotazione, trascina un film liquido: all’interfaccia di tale film avviene uno scambio gassoso che permette il continuo sviluppo della flora aerobica. La massa batterica in eccesso si distacca automaticamente e passa nel liquido, da cui dovrà essere separata in uno stadio di trattamento successivo. Il processo biologico avviene in continuo: in questo modo, le sostanze organiche solubili presenti nell’acqua vengono trasformate in cellule batteriche. La disposizione del fango sui pannelli plastici concentra in volumi ridotti elevate quantità di fango biologico, ragione per cui i bio-dischi sono utilizzati soprattutto in campo

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industriale, dove il risparmio di spazio è una esigenza primaria. Un altro pregio dei bio-dischi è anche quello di autoregolare l’allontanamento del fango biologico in eccesso, prodotto come risultato finale della depurazione. Nei bio-dischi il ciclo vitale del fango passa attraverso fasi di crescita, maturazione e morte, determinando in modo naturale e, senza intervento del gestore, il distacco della pellicola biologica vecchia. Inoltre i dischi possono esser distribuiti su diverse vasche in modo da poter fermare se necessario il processo di ossidazione solo su determinate vasche. Il trattamento biologico con bio-dischi, specialmente nel trattamento dei reflui di cartiera, consente inoltre altri vantaggi, quali, bassi consumi energetici (circa 40% in meno rispetto ad un impianto a fanghi attivi), il minimo impegno da parte del personale di gestione; bassissimi livelli di rumore (data la bassa velocità di rotazione dei bio-dischi), l’assenza del problema di odori e/o aerosol ed il minimo impatto ambientale (ogni bio-disco è dotato di copertura).

In ultima analisi, i trattamenti chimico-fisici dei reflui acquosi sono quei processi che permettono la separazione e la rimozione delle sostanze inquinanti attraverso la modificazione del loro stato chimico e fisico. Tra di essi merita citare sicuramente la neutralizzazione, la precipitazione, la chiariflocculazione e la disinfezione [3].

La neutralizzazione è il processo basato sulla correzione del pH dell’acqua mediante aggiunta di una sostanza acida (es: acido solforico, acido cloridrico o anidride carbonica) o basica (es: carbonato di calcio, calce viva o soda caustica) in base ai processi di depurazione prescelti: il pH dell’acqua deve comunque variare tra 6,5 e 7,5. Tutti questi prodotti chimici data la loro elevata tossicità debbono esser dosati mediante l’utilizzo di pompe automatiche.

La precipitazione, invece, è un’operazione chimica che avviene mediante l’aggiunta all’acqua da depurare di un reagente tale da provocare la formazione di una sostanza insolubile con l’elemento o la sostanza da eliminare. A volte capita che la precipitazione sia preceduta da una ossidazione o una riduzione dell’elemento interessato.

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La chiariflocculazione è poi l’insieme delle operazioni di trattamento delle acque di scarico (miscelazione, flocculazione e sedimentazione) che possono essere sviluppate in un’unica sede detta chiariflocculatore. Questo procedimento avviene in due fasi [3]: la prima consiste nella neutralizzazione delle cariche elettriche superficiali responsabili della repulsione delle particelle e della loro mancata aggregazione, in grandi fiocchi capaci di sedimentare (chiarificazione), la seconda fase invece nell’adsorbimento chimico-fisico che porta all’aggregazione di particelle più pesanti e capaci di sedimentare (sedimentazione). I prodotti più usati durante la prima fase come coagulanti sono l’allume o altri polielettroliti ed il loro dosaggio viene effettuato mediante pompa volumetrica in un punto di forte turbolenza tenendo presente che, quanto maggiore è il contatto, tanto maggiore sarà l’efficacia dei prodotti, mentre, per la seconda fase, viene invece di norma impiegato un flocculante di natura polimerica.

La disinfezione è, infine, il processo chimico-fisico mediante cui si eliminano quasi completamente organismi tipo virus e batteri pericolosi in quanto patogeni (portatori di malattie). La rimozione di questi avviene normalmente nei vari processi di trattamento delle acque di scarico sia in quelli meccanici ma soprattutto in quelli biologici nei quali vengono eliminati circa il 95- 98% dei batteri [3].

Nel corso dei processi visti fin qui, tuttavia, si formano grandi quantitativi di fanghi solitamente putrescibili che debbono esser trattati e trasformati in sostanze non dannose al fine di poterli poi smaltire senza procurare danni all’ambiente circostante. Il trattamento a sua volta di questi fanghi può avvenire principalmente attraverso tre processi: la digestione aerobica, l’ispessimento/disidratazione e l’essiccamento [3].

La digestione anaerobica avviene in serbatoi chiusi ed isolati dall’aria; il liquido viene mantenuto a temperatura costante e rimescolato mediante ricircolo di un gas o per agitazione meccanica. In questa condizione la flora microbica distrugge i composti organici complessi trasformandoli in

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composti semplici che a loro volta sono trasformati in anidride carbonica o metano, quest’ultimo riutilizzato come combustibile o carburante in motori speciali.

Il secondo processo è l’ispessimento e la disidratazione dei fanghi. La prima fase del trattamento dei fanghi si realizza con l’ispessimento per gravità o per flottazione. Nel primo caso, grazie ad appositi ispessitori molto simili ai sedimentatori, ma molto più profondi ed inclinati sul fondo, si ottiene una sedimentazione di massa dovuta all’elevata concentrazione del fango. Nel secondo caso, l’ispessimento, è sottenuto grazie all’utilizzo di nastro-presse: al fango da trattare vengono aggiunti coagulanti e flocculanti (polielettroliti) in modo da indurre la creazione di fiocchi di grandezza elevata (condizionamento chimico) e facendo scorrere la miscela risultante tra due nastri (tele) è possibile ottenere la separazione del liquido dal solido. Il grado massimo di secco ottenibile è di circa il 50% che non risulta idoneo per uno stoccaggio semplice dei fanghi.

Il terzo ed ultimo processo a cui i fanghi possono essere sottoposti, è l’essicamento. Tale trattamento avviene mediante l’uso di gas di combustione che permette la riduzione della quantità di umidità negli stessi senza però raggiungere la temperatura di ignizione. I fanghi così trattati possono esser utilizzati come fertilizzanti ad uso agricolo oppure spediti in inceneritori per lo smaltimento. L’eliminazione finale dei fanghi talvolta rappresenta il problema più oneroso e costituisce uno dei più grossi costi dell’intero ciclo di depurazione delle acque residue.

Gli smaltimenti più utilizzati per i fanghi sono [3]:

• smaltimento in discariche controllate mediante interramento dei fanghi in zone appositamente destinate;

• smaltimento in attività produttive per la creazione di pannelli per l’edilizia o come riempitivo isolante per i mattoni da costruzione;

• smaltimento per copertura di discariche o vecchie cave; • incenerimento in termovalorizzatori per recupero energetico.

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1.5 Le principali tipologie di carte

La chimica in cartiera viene in genere distinta in quattro aree differenti [4]: 1) produzione della cellulosa e repulperaggio, 2) riciclaggio, 3) formazione del foglio o wet-end e 4) rifinitura. Questo lavoro di tesi si concentra maggiormente sulla chimica di wet-end o chimica della parte umida, che rappresenta di gran lunga la parte preponderante della chimica applicata alla carta. In particolare, l’oggetto di studio di questa branca della chimica, è la produzione di carta o di cellulosa, ambedue processi produttivi variabili e soggetti a modifiche e variazioni continue. È importante comunque sottolineare come la chimica della carta “paperchemistry”, i suoi processi di produzione e i conseguenti trattamenti di natura chimica impiegati, variano profondamente in funzione della tipologia di carta prodotta. Risulta pertanto fondamentale elencare e descrivere le maggiori produzioni cartarie industriali quali la newsprint (carta giornale), la carta da stampa, la carta tissue ed il board (cartone) [4].

La produzione di carta newsprint non implica un elevato utilizzo di additivi chimici specifici. Il basso costo e lo scarso pregio di questa carta non prevedono trattamenti costosi. L’utilizzo tuttavia di paste disinchiostrate per la sua produzione porta, in alcuni casi, all’utilizzo di sistemi e trattamenti chimici più particolari. La disinchiostrazione, processo attraverso il quale si trattano e si rendono riutilizzabili le carte riciclate, in questa produzione gioca un ruolo fondamentale ed è ottenuta sia per flottazione sia per lavaggio a seconda che si tratti di produzione europea o statunitense. Normalmente il pH di esercizio di queste cartiere è intorno al neutro-acido, anche se la sempre maggiore presenza di cariche (filler) come il carbonato di calcio nelle carte da disinchiostrare sposta il pH verso valori neutro-alcalini. L’aggiunta di questi composti inorganici negli impasti per la produzione della carta da giornale (oltre a quelli già naturalmente presenti nelle materie prime usate), ha la funzione di rendere la carta stampabile, evitando difatti la dispersione dell’inchiostro [4]. La seconda categoria è la carta Printing-Writing (carta da stampa), all’interno della quale sono poi racchiuse altre varie tipologie che possono essere riassunte in patinate e non patinate. A seconda poi

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del principale utilizzo della carta Printing-Writing è prevista poi un’ulteriore distinzione fra carte da stampa, cartelloni o pubblicistica, computer e stampanti. Normalmente questa produzione avviene a pH leggermente acidi, ma la tendenza attuale è volta verso un innalzamento del pH a causa dell’aggiunta sempre più necessaria, in fase di preparazione dell’impasto, di cariche di basso costo e alta prestazione come il carbonato di calcio (la cui funzione, anche in questo caso, è quella di rendere la carta stampabile). Questo comporta un grosso cambiamento del sistema di collatura per conferire idrofobicità: dagli acidi organici e derivati (resine) con l’ausilio di PAC (PoliAlluminio Cloruro) o allume, alla collatura neutra con additivi sintetici come i dimeri dell’alchil chetene (AKD) e le anidridi alchenil succiniche (ASA) [4].

La terza categoria è quella del Tissue-Sanitary, in cui il distretto toscano (in particolare lucchese) gioca un ruolo chiave nella produzione continentale. In tale produzione la disinchiostrazione delle fibre riciclate riveste sempre maggiore importanza in quanto trattandosi di un prodotto finale di basso pregio si ha necessità di risparmio sulle materie prime, vale a dire le fibre vergini. Un importante aspetto, in questa tipologia di produzione, è rivestito dai trattamenti chimici per la sofficità, in particolare l’utilizzo di agenti di debording composti capaci di inserirsi nella struttura cellulosica per dare con le catene idrofobiche un rigonfiamento ed una diminuzione delle resistenze meccaniche delle fibre. In aggiunta, anche l’utilizzo di agenti chimici per il miglioramento delle proprietà meccaniche sia ad umido che non, rappresentano una tematica di crescente interesse. Inoltre, negli ultimi anni, ci sono stati notevoli incrementi nell’utilizzo di agenti disperdenti per i problemi connessi alle resine naturali contenute nelle fibre di cellulosa (queste resine possono infatti creare accumuli lungo il circuito di macchina in grado di danneggiare la carta), e di trattamenti biocidi non tossici e compatibili con regolamenti ambientali più severi capaci di limitare la formazione di colonie batteriche nelle acque di processo.

La quarta ed ultima categoria è poi quella del Packaging e Board, dove soprattutto in Europa, per questa produzione, si fa uso prevalentemente di fibre riciclate ed i chemicals più utilizzati sono

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sicuramente gli additivi per il miglioramento delle resistenze meccaniche sia a secco sia ad umido. La tendenza attuale è verso una produzione a pH neutro-alcalini abbandonando la produzione a pH acidi del passato. Anche in questo settore di carta, le necessità di additivi compatibili con le normative per l’alimentarità e il nuovo pH di esercizio stanno gradualmente cambiando la chimica della collatura, così come il resto degli additivi di processo utilizzati [4].

1.6 La chimica colloidale

La chimica colloidale è quella parte della chimica che si occupa di spiegare le proprietà di sistemi continui in cui sono disperse particelle in fase diversa di dimensioni variabili tra 1 μm e 1 nm: i colloidi [4]. Si tratta della disciplina che meglio descrive il processo cartario e che ha creato crescente interesse negli ultimi anni. Infatti, data la tendenza delle cartiere ad utilizzare una quantità sempre minore di acqua, l’incremento di velocità delle macchine continue, l’aumento di additivi chimici nel circuito, l’impiego di pH sempre più alcalini e di materie prime sempre meno pregiate, si è verificato un notevole aumento della concentrazione di colloidi e di fini dispersi nelle acque di processo. L’impasto cartario è un sistema colloidale composto di acqua, fibre di cellulosa, fini di natura fibrosa, cariche minerali, elettroliti disciolti, ausiliari di processo come polielettroliti e polimeri di varia natura, coloranti e tensioattivi. L’aggregazione e l’adsorbimento di tutti questi componenti danno luogo al foglio di carta, un fenomeno governato dalle forze attrattive e repulsive che si instaurano fra le superfici dei colloidi. La comprensione di tali fenomeni risulta quindi essenziale per il corretto dosaggio degli additivi di ritenzione e drenaggio e per il controllo dell’adsorbimento sulle fibre di tutti gli ausiliari chimici. I sistemi colloidali sono dispersioni di particelle di dimensioni ridotte in una fase diversa e continua contraddistinti dalla presenza di superfici di separazione di fase. Le caratteristiche di queste dispersioni colloidali sono prevalentemente determinate dalle proprietà che si vengono a generare all’interfacce. Esistono diverse classificazioni dei sistemi colloidali, la più comune è quella di Ostwald che si basa sullo stato

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di aggregazione della fase dispersa e di quella continua [4]. Nel caso del processo cartario abbiamo una fase continua acquosa e una fase dispersa di diversa natura. Il sistema colloidale viene chiamato

liosol, dove con sol si indicano tutti i sistemi dispersi, e con lio il solvente e, in base alle interazioni

che i colloidi instaurano con il solvente o fase continua in cui si trovano, vengono definiti, liofobi o

liofili. I sistemi colloidali classificati come liofobi sono caratterizzati da scarsa affinità tra la fase

dispersa colloidale e quella disperdente, sono sistemi instabili che tendono spontaneamente a separarsi, in un tempo più o meno lungo, nelle due fasi che li costituiscono. Per questo motivo tutti i sistemi colloidali liofobi sono eterogenei stante l’esistenza di una superficie di separazione ben netta tra le particelle disperse e il mezzo disperdente (a questa categoria appartengono la maggioranza dei colloidi presenti nel ciclo cartario) [4]. I sistemi liofili hanno invece la caratteristica di avere elevata affinità per le molecole di solvente per cui, una volta dispersi nel mezzo disperdente, formano delle vere e proprie soluzioni, praticamente dei sistemi omogenei. Un’altra possibile classificazione dei sistemi colloidali si basa sulle dimensioni delle particelle disperse: sistemi dove le particelle hanno dimensioni inferiori a 3 nm, dispersioni colloidali in cui le dimensioni delle particelle vanno da 3 a 1000 nm, ed infine sistemi con particelle > 1000 nm.

Come accennato, l’impasto di cartiera, manifesta proprietà colloidali liofobe, risultando quindi un sistema eterogeneo ed instabile a causa delle superfici di interfase presenti, risentendo sia di forze attrattive che di forze repulsive [4]. Le forze attrattive di van der Waals sono di debole entità e si generano principalmente per induzione di dipoli momentanei sulle superfici dei colloidi. Per quanto riguarda invece le forze di natura repulsiva, queste possono essere di duplice natura: forze di repulsione sterica e forze di repulsione elettrostatica. Le prime, di natura sterica, sono dovute all’adsorbimento superficiale da parte dei colloidi di polimeri ad elevato peso molecolare che, a causa delle lunghe catene molecolari ramificate, impediscono un avvicinamento delle particelle. Le seconde, di natura elettrostatica, sono invece dovute alla carica superficiale dei polimeri ad elevato peso molecolare adsorbiti sui colloidi, alle forze di repulsione dovute alla carica superficiale generata

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sui colloidi stessi, alla dissociazione dei gruppi funzionali presenti sulla superficie dei colloidi e/o all’adsorbimento di ioni presenti nella fase continua [5]. In quest’ultimo caso, i primi ioni adsorbiti sulla superficie della particella colloidale, originano uno strato compatto di carica elettrica detto strato di Stern o strato di Helmotz, attorno al quale si dispongono poi altri ioni di carica opposta. Il potenziale che si genera causa che, i contro-ioni attratti dalle particelle caricate di segno opposto, si distribuiscano attorno alla particella creando vari gusci di carica opposta. Alla fine, la situazione risultante prevede che alcuni ioni si trovano infatti molto vicino e strettamente legati alla superficie della particella, mentre altri si trovano in situazioni più diffuse ancorché associati alla superficie colloidale. Allontanandoci dalla superficie dei colloidi, l’influenza dello strato di Stern decade e gli ioni iniziano a disporsi dunque in modo casuale: tutta questa zona viene denominata strato diffuso o strato di Gouy-Chapman [6]. Lo strato di Stern e lo strato diffuso costituiscono il doppio strato elettrico, come mostrato in Figura 13.

Figura 13: Struttura del doppio strato elettrico.

Le forze attrattive e repulsive esistenti all’interfaccia dei sistemi colloidali sono state raccolte in una teoria (DLVO) che è stata formulata da Derjaguin, Landau, Verwey e Overbeek [6]. Secondo questa teoria che riesce a spiegare i fenomeni macroscopici della chimica colloidale, le forze di tipo attrattivo (forze di van der Waals) e le forze repulsive del doppio strato elettrico sono state combinate considerando due particelle e analizzando il potenziale creato tra esse in funzione della distanza. Un andamento tipico, ed abbastanza generale, che la teoria DLVO ci permette di ottenere

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per due particelle colloidali, è rappresentato nella Figura 14, in cui l’energia potenziale totale del sistema è riportata come somma dell’energia potenziale di repulsione e quella di attrazione tra le due particelle. A mano a mano che due particelle si avvicinano da distanza infinita, l’energia del sistema tende a diminuire, con prevalenza quindi delle forze di natura attrattiva, fino al raggiungimento del valore di potenziale Vmin secondario. Continuando poi con l’avvicinamento, le forze di natura

attrattive sono invece sopraffatte da quelle di natura repulsiva, con il potenziale totale che cresce fino al raggiungimento del valore soglia V max. Affinché il sistema possa essere destabilizzato occorre che l’energia complessiva del sistema sia maggiore della barriera di energia necessaria per la collisione efficace, cioè è necessaria una collisione in cui le due particelle posseggano più energia della barriera di potenziale e l’urto consenta il passaggio ad uno stato ad energia inferiore (Vmin

primario) [6].

Figura 14: Andamento dell'energia potenziale totale (VT) di due particelle colloidali in funzione della distanza (H).

Il valore del potenziale minimo primario (che rappresenta la massima stabilità o minimo di energia) è un utile indicazione della stabilità del sistema colloidale aggregato. Mediante la teoria DLVO si possono infatti prevedere le concentrazioni di elettroliti di tipo diverso da quelli presenti nel sistema colloidale, da aggiungere esternamente, in modo tale da favorire la coagulazione o la flocculazione

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del sistema [6]. La stabilità di un sistema colloidale e quindi la sua capacità di resistere alla coagulazione e flocculazione, dipende infatti dalle entità complessive delle forze e dai valori del potenziale delle forze elettrostatiche repulsive e delle forze di tipo attrattivo che si vengono a generare nell’intero sistema. Quando ad una situazione di stabilità, dall’esterno, si aggiungono elettroliti si crea una perturbazione del sistema in equilibrio. A mano a mano infatti che si aggiungono al sistema elettroliti di segno opposto rispetto alla particella di partenza, si assisterà ad una diminuzione dello spessore del doppio strato elettrico a causa dell’incremento della concentrazione di contro-ioni in soluzione. La loro funzione è difatti quella di “annullare” il campo elettrico generato dalle cariche superficiali della particella, responsabile della repulsione elettrostatica con le altre particelle, favorendo quindi la coagulazione del sistema [7].

1.7 Le variabili nella chimica ad umido

Secondo la letteratura, la chimica ad umido, viene così definita perché tratta delle interazioni all’interno del sistema fibre/H2O/additivi chimici da cui si origina il prodotto finito ovvero la carta

[8]. Alcune variabili del sistema sono di primaria importanza perché hanno grande influenza non solo sulla resa di un trattamento chimico, ma più in generale sul processo produttivo. Il pH, le sostanze disciolte o sospese nelle acque di processo, la carica superficiale, le sostanze interferenti e gli additivi chimici di processo contribuiscono a definire il chimismo su cui si opera. Di primaria importanza sul ciclo produttivo di macchina, come anticipato, è l’effetto del pH [8]: questo parametro deve, se possibile, fluttuare il meno possibile in modo che l’ambiente acquoso in cui la sostanza chimica si viene a trovare, non sia sottoposto a variazioni repentine che potrebbero deteriorarne la struttura o limitarne l’effetto. Il pH infatti risulta essere uno dei principali parametri di esercizio che deve essere controllato e monitorato in qualsiasi momento e se possibile in più punti dell’impianto. Altro parametro importante è rappresentato dalla presenza di sostanze disciolte e sospese che hanno poi un ruolo fondamentale nel chimismo di processo insieme alla conducibilità e

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al precedentemente riportato pH. Nelle acque della macchina possono essere contenute svariate classi di composti chimici, soprattutto in Italia e nel sud dell’Europa in cui molta produzione si ottiene a partire da fibre riciclate (maceri). La chiusura dei cicli di produzione ha reso i composti organici e inorganici disciolti all’interno del circuito di macchina, oggetto di attenzione soprattutto per i residui presenti sia nella carta sia nelle acque destinate alla depurazione. In particolare le sostanze di natura inorganica vengono mantenute sotto controllo tramite analisi routinarie. Sostanze di carattere alcalino infatti possono interferire con l’allume (Al2(SO4)3) od il PAC, mentre cloro e

cloruro-derivati rappresentano una causa di corrosione ed una fonte di degradazione per la carta e per alcune sostanze polimeriche. Inoltre i polifosfati hanno azione di disturbo verso i polimeri utilizzati per la ritenzione e agendo da forti disperdenti possono causare effetti negativi in alcune parti della macchina [9]. Anche i solfati possono creare problemi, riducendo la ritenzione e rendendo più difficoltoso il sizing (processo di collatura della carta). Acidi come HCl e H2SO4 inficiano le

resistenze della carta e aumentano i problemi di corrosione mentre i sali di alluminio provocano depositi. La durezza da ioni Ca2+ e Mg2+ può causare disturbi alla collatura, addensati di pigmenti e

precipitati [9]. Il Fe ed il Mn riducono la brillantezza della carta, provocano depositi nonché denaturano alcuni biocidi organici e inorganici [9]. Una misura dell’indice di concentrazione di molti di questi cationi ed anioni disciolti o in sospensione nelle acque di processo è possibile ottenerla attraverso la misura della conducibilità. Un valore molto elevato di conducibilità, sinonimo di sistema molto chiuso, causa nel lungo periodo interferenze con la ritenzione, la collatura, incrementa la corrosione e contribuisce alla formazione di schiuma.

Altro parametro estremamente rilevante di possibile effetto negativo con l’attività di un additivo chimico, è rappresentato dalle sostanze organiche interferenti. In molti casi le sostanze organiche che ostacolano il ruolo degli additivi chimici sono raccolte sotto un’unica denominazione e determinate come inquinanti anionici o sostanze a domanda cationica (anionic trash). Queste sostanze hanno, a differenza di alcuni sali inorganici, una grande varietà di possibili strutture e la loro determinazione

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viene effettuata mediante tecniche di indagine spettroscopica. Fanno parte comunque di questa categoria emicellulose, lignine, cere, residui di patina, acidi grassi, resine, varie tipologie di amido legate ad AKD o ASA, colle, sostanze disperdenti, adesivi, polimeri plastici.

Infine, gli ultimi parametri che influenzano il ruolo dell’additivo chimico, sono la carica superficiale ed i fenomeni elettrocinetici delle varie componenti dell’impasto, rilevati attraverso la misura di potenziale Z e della domanda cationica (DCD) [9]. Il loro controllo non ottimale può causare la riduzione della ritenzione, lo schiumeggiamento, la scarsa collatura, la torbidità elevata delle acque, lo scarso dewatering ecc. Dunque, da una misura di potenziale Z o di carica superficiale (DCD), è possibile equilibrare meglio il sistema in esame.

Come accennato precedentemente, la chimica colloidale, rappresenta una valida chiave di lettura per interpretare e capire meglio il sistema oggetto di studio della chimica ad umido. È possibile raggruppare in grandi categorie i costituenti più comuni presenti in un processo di produzione cartaria. Innanzitutto possiamo definire il mezzo acquoso che rappresenta il nostro sistema come composto in generale da [9]: 1. H2O 2. elettroliti solubili 3. fibre in sospensione 4. particelle fini 5. cariche

6. sostanze tensioattive (antischiuma, tensioattivi di disinchiostrazione) 7. polielettroliti e polimeri (poliacrilammidi, amidi, resine umido resistenti) 8. additivi di collatura

Una parte di queste sostanze si trova presente sotto forma colloidale. Queste sostanze possono interagire tra loro in vario modo ed alcune interazioni possibili sono quelle elencate [9]:

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2. adsorbimento di polimeri dissolti su fini, fibre e cariche;

3. adsorbimento di resine o additivi di collatura su fini, fibre e cariche;

Come noto, l’energia dei legami chimici nelle sostanze organiche varia tra 420-840 kJ/mole ed essi operano ad una distanza inter-atomica di circa 0,1-0,2 nm. Il legame a idrogeno è caratterizzato invece da una distanza di 0,28 nm ed ha un’energia di legame pari a 12-20 kJ/mole [9]: questa tipologia di interazione intermolecolare, insieme alle forze di Van der Waals, svolge un ruolo fondamentale nella chimica del wet-end e nella chimica cartaria più in generale. Oltre alle tipologie di interazioni presenti nel sistema, un altro aspetto molto importante per la chimica ad umido in cartiera, è rappresentato dalle dimensioni delle componenti del sistema acquoso di processo, poiché, la maggior parte delle interazioni chimiche che avvengono tra esse, coinvolge fenomeni di adsorbimento. Questo fenomeno avviene sulla superficie delle particelle e dunque risulta influenzato dalle dimensioni della particella e dalla sua area superficiale. La Tabella 2 riporta alcune grandezze tipiche di determinate componenti presenti in impasto di cartiera [10].

Componente Dimensione Misura

Fibre Larghezza 10-20 µm

Fibrille Larghezza < 1 µm

Fino (non fibrilla) Diametro < 1-2 µm

Particella di carica Diametro < 0,1-10 µm

Polimero in

soluzione Larghezza < 1 µm

Tabella 2: Dimensioni delle principali componenti presenti nelle acque di fabbricazione di cartiera.

È invalso l’uso di definire come “fino” quella parte dell’impasto che può passare attraverso un filtro da 200 mesh o attraverso un foro dal diametro di 76 µm. In ambito cartario si definisce come “fino” ciò che è impossibile osservare se non con un microscopio ottico e che non sia una fibra. Si escludono da questa definizione le sostanze di carica e tutte le sostanze disciolte o in soluzione che

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