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Infinitesimi e Infiniti 4 (Breve Storia)

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Academic year: 2021

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La scuola pitagorica e la sco-perta delle grandezze incom-mensurabili

Sin dall’antichità classica,

l’analisi matematica

dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande è stret-tamente intrecciata con l’indagine filosofica.

La prima dottrina filosofico-scientifica a cadere sotto i colpi dei paradossi dell’infinitamente picco-lo fu l’aritmo-geometria della scuola pitagorica (VI sec. a.C.). Questa dottrina era fondata sulla convinzione che da un lato, fosse possibile ricavare le principali ca-ratteristiche delle figure a partire dal numero dei punti (supposto, in ogni caso, finito) che le compon-gono, e dall’altro che fosse possi-bile, viceversa, ricorrere alla forma delle figure per illustrare le più re-condite proprietà dei numeri.

L’aritmo-geometria di Pitagora non ebbe vita lunga nella scienza greca. La sua fine fu provocata, per l’appunto, dalla crisi di quell’idea di discontinuità che costituiva, come s’è detto, uno dei suoi cardi-ni fondamentali. La grande crisi fu causata dalla scoperta che le figure geometriche sono costituite non da un numero finito, ma da un’infinità di punti.

Il primo “fatto geometrico” che costrinse i pitagorici a riconoscere che le figure sono costituite da in-finiti punti, è proprio connesso a quel medesimo teorema che porta il nome di Pitagora. Ed infatti, ap-plicando detto teorema ad uno dei due triangoli isosceli in cui è divi-so un quadrato, si dimostra facil-mente che il lato e la diagonale di tale quadrato non possono avere alcun sottomultiplo comune, cioè sono incommensurabili. Per capire ciò, proviamo a supporre che un

segmento sia generato

dall’accostamento di una serie

fini-ta di punti (piccoli ma non nulli, e tutti uguali fra loro, come allora si immaginava): ne seguirebbe che uno qualunque di questi punti risultereb-be contenuto un numero intero, e fi-nito, di volte (per esempio m volte) nel lato e un altro numero intero, e finito, di volte (per esempio n volte) nella diagonale. Lato e diagonale avrebbero dunque un sottomultiplo comune, e non sarebbero – come si era dimostrato – incommensurabili. La loro incommensurabilità esige pertanto che essi siano costituiti da un’infinità di punti.

La leggenda racconta che il fatto scandaloso, ora riferito, fu gelosa-mente custodito per vari anni tra i se-greti più pericolosi della setta. Esso fu rivelato da Ippaso di Metaponto, il quale, sarebbe stato cacciato ignomi-niosamente dalla scuola, ed a lui anzi i pitagorici avrebbero eretto una tomba come ad un morto.

La crisi delle fondamenta dell’intera concezione pitagorica fu resa ancora più acuta dalla scoperta delle antinomie di Zenone sul movi-mento e sulla divisibilità. Per uscire da essa, i maggiori scienziati greci non troveranno altra via se non quel-la di scindere completamente quel-la geometria dall’aritmetica, interpre-tando la prima come studio del con-tinuo e la seconda come studio del discontinuo.

Il rapporto tra continuo e discon-tinuo resterà, per tutta la storia del pensiero umano, un problema molto difficile e molto dibattuto; verrà, an-zi, considerato come uno dei più astrusi “labirinti” della ragione.

I paradossi di Zenone

I celebri argomenti di Zenone (V sec. a.C.) a difesa della filosofia di Parmenide mirano a provarci che, se la negazione del movimento e della molteplicità può a prima vista appari-re assurda, l’ammissione del movi-mento e della molteplicità conduce tuttavia ad assurdità ancor più gravi.

Il perno di tali argomenti consiste nella dimostrazione che, sia nella nozione di movimento, sia in quella di pluralità, si annida il delicato concetto di infinito.

Immaginiamo che un punto mobile debba spostarsi da un estremo all’altro di un dato segmento: prima di aver percorso tutto il segmento, dovrà averne percorso la metà; prima di questa, la metà della metà, e così via all’infinito. In modo analogo, se il “piè veloce” Achille vuole raggiungere la lentissima tartaruga, che lo precede di un tratto s, egli dovrà percorrere: innanzi tutto quella distanza s, poi il tratto s’ corso dalla tartaruga mentre Achille per-correva s, poi il tratto s’’ percorso dalla tartaruga mentre Achille percorreva s’, e così via all’infinito. Nell’un esempio come nell’altro, il fatto – in apparenza sempli-cissimo – del movimento, si frantuma dunque in infiniti moti, sia pure sempre più piccoli ma non mai nulli. Proprio que-sta loro infinità è causa di profonde diffi-coltà concettuali, che non possono non rendere perplesso qualsiasi uomo disposto al ragionamento.

Quanto all’argomentazione di Zenone contro la molteplicità, essa si svolgeva co-sì: supponiamo che esistano due entità A e B distinte; per il fatto di essere distinte, queste due entità devono risultare separate da uno spazio intermedio C. Ma C è di-stinto tanto da A quanto da B, e quindi esisteranno altri due elementi D ed E che separano rispettivamente C da A e da B, ecc. Poiché ciò può venir ripetuto all’infinito, se ne conclude che l’ammissione di due entità distinte condu-ce di necondu-cessità all’ammissione di infinite entità.

Al fine di porre luce sulle difficoltà lo-giche di quest’ammissione, Zenone passa-va poi a dimostrare come, partendo da es-sa, si debba giungere a negare l’esistenza di qualsiasi lunghezza finita. Ed infatti – così ragionava – se gli elementi che costi-tuiscono un segmento AB sono infiniti, o essi sono nulli, o non sono nulli; nel primo caso la lunghezza del segmento non può che essere nulla (perché la somma di infi-niti zeri è zero); nel secondo non può che essere infinita (perché a suo parere la

Breve storia del pensiero

matematico sull’infinito e

gli infinitesimi

Di Enrico Sailis

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somma di infinite quantità diverse da zero sarebbe infinita).

Questi argomenti – suscitarono presso i greci una tale diffidenza nei confronti dell’infinito, da per-suaderli a compiere qualunque sforzo pur di escludere tale concet-to – per lo meno nella forma di “infinito attuale” 1– da ogni seria

costruzione scientifica.

Il concetto democriteo di atomo

Democrito nacque ad Abdera verso il 460 a. C. , e, visse circa un secolo o forse più. Amò compiere lunghi viaggi; fu in Egitto, in Asia Minore e, secondo notizie non con-trollate, si sarebbe spinto fin nell’Etiopia e nell’India. Scrisse molte opere di argomenti diversi.

L’atomismo di Democrito, ri-preso poi – se pure parzialmente modificato – da Epicuro, costitui-sce il patrimonio più prezioso che i greci trasmisero, nel campo delle interpretazioni generali della natu-ra, alle epoche successive, ed ebbe una funzione determinante, nel XVI e XVII secolo, per la forma-zione della scienza moderna.

L’atomismo può venir conside-rato come uno dei più consistenti tentativi di risolvere le gravissime difficoltà rilevate da Anassagora e Zenone nel concetto di infinita di-visibilità delle grandezze geome-triche.

Per sfuggire alle anzidette dif-ficoltà, Democrito introduce

l’ipotesi fondamentale

dell’atomismo: la distinzione cioè fra il suddividere matematico ed il

1 Si dice che una grandezza variabile

costituisce un “infinito potenziale” quando, pur assumendo sempre valori finiti, essa può crescere al di là di ogni limite; se per esempio immaginiamo di suddividere un dato segmento con suc-cessivi dimezzamenti, il risultato otte-nuto sarà un infinito potenziale perché il numero delle parti a cui perveniamo, pur essendo in ogni caso finito, può crescere ad arbitrio. Si parla invece di “infinito attuale” quando ci si riferisce ad un ben determinato insieme, effetti-vamente costituito di un numero illimi-tato di elementi; se per esempio imma-giniamo di avere scomposto un seg-mento in tutti i suoi punti, ci troveremo di fronte a un infinito attuale perché non esiste alcun numero finito che rie-sca a misurare la totalità di questi pun-ti.

suddividere fisico. Il primo, che non trova rispondenza nella realtà, è – se-condo lui – proseguibile all’infinito, e può venir usato per determinare aree e volumi delle figure geometri-che; il secondo, invece, è condiziona-to dalla natura di ciò che si vuol di-videre e non è proseguibile oltre un certo limite.

In altri termini: la suddivisione fi-sica può venire sempre effettuata fin-ché si tratta di dividere dei corpi composti; non può più venire effet-tuata quando si tratti di applicarla agli esseri semplici (atomi). Affiora qui l’ipotesi che esistano in realtà degli esseri semplici, gli atomi, che sarebbero: eterni, intrasformabili, in-divisibili, impenetrabili.

Gli atomi sono qualcosa di nuovo rispetto ai punti-unità di Pitagora; questi punti-unità erano infatti dei puri concetti geometrici, mentre gli atomi sono delle nozioni fisiche. E fisico è pure il concetto di spazio in cui Democrito li considera immersi: esso è il vuoto, la mancanza cioè di materia. Una porzione, sia pur picco-la, di spazio vuoto separa sempre due atomi distinti, anche allorché sem-brano inscindibilmente legati in un corpo solido.

L’osservazione ci fornisce sem-pre oggetti che possono essere suddi-visi. Su questa base empirica, la ra-gione può concepire due postulazio-ni: o affermare che la divisibilità è proseguibile all’infinito, o affermare che incontra un limite. In se stessa, l’una postulazione non è meno ragio-nevole dell’altra; tanto è vero che Democrito stesso non teme di far ri-corso alla prima nelle sue indagini puramente matematiche. La prima però ci conduce a concepire l’essere come somma di infiniti zeri, e quindi fa assurdamente scomparire l’insuperabile barriera che nella real-tà divide l’essere dal non-essere. Per evitare questa gravissima conclusio-ne, la ragione non ha che una via: re-spingere la prima e accogliere la se-conda delle due postulazioni accen-nate. L’atomo è il frutto di questa po-stulazione, e come tale è garantito secondo Democrito da un complesso di argomenti rigorosamente razionali.

Eudosso ed il metodo di esau-stione

Il più grande scienziato della prima metà del del IV secolo a. C. fu Eudosso, nato a Cnido verso il 408 a.

C. e morto nel 355. Ingegno enciclopedi-co, scrisse molte opere, di diversi argo-menti; di esse però, e neanche di tutte, ci sono giunte appena i titoli. Sappiamo con certezza che il contenuto del libro V degli Elementi di Euclide (uno dei più pregevoli dell’opera, rivolto allo studio generale del-le proporzioni) è ricavato da un’analoga trattazione di Eudosso, così come molti teoremi di geometria dello spazio, riferiti nei libri XI e XII, risalgono quasi certa-mente a lui.

Il metodo di esaustione, da lui inventa-to, è sostanzialmente, il metodo delle clas-si contigue ancora oggi usato da molti testi per il calcolo di lunghezze, aree e volumi (come per esempio la lunghezza della cir-conferenza, l’area del cerchio, il volume della piramide, ecc.).

Il punto centrale di esso consiste nel dimostrare che due lunghezze o aree o vo-lumi debbono” essere uguali perché è as-surdo che la loro differenza sia diversa da zero. La prova di questa assurdità si ottie-ne, non da un confronto diretto delle due figure che non è possibile, salvo a imma-ginarle suddivise in una infinità attuale di parti (con tutti i rischi dell’infinito attua-le), ma dal confronto tra classi di altre fi-gure (di lunghezza, di area o di volume calcolabili) che racchiudono le due date con differenze via via minori: concezione questa che implica soltanto l’infinito po-tenziale, cioè l’illimitata proseguibilità delle classi di figure testè considerate. Qui l’intento di Eudosso era manifesta-mente quello di evitare le antinomie con-nesse alla suddivisione di una figura in una infinità (attuale) di grandezze infini-tamente piccole, antinomie che avevano provocato tante preoccupazioni a tutta la matematica pitagorica; il metodo di cui si serve è contorto, artificioso, di scarsissima intuibilità, ma logicamente impeccabile. Sarà il metodo seguito, in questo genere di ricerche, da tutti i più grandi geometri fino all’invenzione del calcolo infinitesimale moderno.

Archimede

Archimede nacque a Siracusa nel 287 a. C. Studiò a lungo ad Alessandria sotto i continuatori di Euclide. La fama di Ar-chimede è soprattutto legata alle sue mira-bili scoperte geometriche, rigorosamente dimostrate con l’ausilio del metodo di esaustione, ed alle non meno celebri sco-perte di idrostatica che sogliono venir con-siderate come la data di nascita di questa importante sezione della meccanica.

In una preziosa lettera ad Eratostene ri-trovata solo all’inizio del nostro secolo, il grande siracusano spiega con

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inequivoca-3 bile chiarezza come egli si valga,

sì, del metodo di esaustione per procurare alle proprie scoperte una base logicamente sicura, ma prefe-risca invece ricorrere a metodi in-tuitivi (di carattere misto: matema-tico e meccanico) nella fase inven-tiva.

Egli fu insieme rigorista e in-tuizionista, riassumendo in sé l’indirizzo eudossiano basato sul metodo di esaustione e quello de-mocriteo basato invece sulla infini-ta suddivisibilità delle figure geo-metriche.

Il graduale accostarsi della matematica ai problemi infinite-simali

Nelle opere di Galileo affiora-no più volte argomentazioni di evidente carattere infinitesimale. Ciò accade soprattutto quando egli affronta le nozioni di velocità all’istante e di accelerazione. Né poteva essere altrimenti; come possiamo infatti “immaginare” la velocità all’istante se non pensan-dola quale rapporto fra spazio (percorso dal corpo che si muove) e tempo (impiegato a percorrere quello spazio), allorché questo tempo assuma dimensioni infini-tamente piccole? E’ vero che la nozione di rapporto diventa estre-mamente oscura allorché il tempo risulti infinitesimo, ma, oscura o chiara che sia, non possiamo farne a meno quando vogliamo definire un moto vario, cioè un moto che cambi la propria velocità da un istante all’altro, e quando – una volta fissata l’accelerazione - ci proponiamo di ricavare le leggi del moto stesso (per esempio di rica-vare la proporzione che dovrà sus-sistere tra gli spazi percorsi e i tempi impiegati a percorrerli, al-lorché si tratti di spazi e tempi fini-ti, non più infinitesimi).

Non occorre aggiungere altre parole per comprendere che lo svi-luppo stesso della dinamica era ormai destinato a portare i mate-matici del Seicento a prendere in serio esame le grandezze infinite-simali e il modo come esse deter-minano le grandezze finite, ricava-bili dalla composizione di un’infinità di grandezze infinitesi-mali. La rinuncia ad affrontare questi problemi avrebbe avuto, prima o poi, come effetto la

rinun-cia a proseguire nello studio dei vari tipi di moto.

Ma non basta. Era ormai la stessa geometria a sollevare ovunque que-stioni di carattere infinitesimale. Co-sì, ad esempio, il concetto di retta tangente a una curva data, in un suo generico punto P, sembra agevol-mente definibile considerando tale retta come caso particolare della retta secante che passa per P e per il punto Q allorché questo, movendosi lungo la curva, si avvicini indefinitamente a P. Considerazioni dello stesso gene-re, saranno necessarie per definire in termini matematici le nozioni “intui-tive” di punti di massimo e di mini-mo, di “curvatura” di una curva, di “asintoto”, di “piano tangente” a una superficie, ecc.

Sorge di nuovo, a proposito di tutti questi concetti, la domanda già emersa a proposito dei problemi poco sopra accennati di meccanica: dob-biamo o non dobdob-biamo considerarci in diritto di definirli facendo ricorso a considerazioni infinitesimali? Il fat-to grave di cui ben si accorsero i ma-tematici del Seicento, era che, rinun-ciando a tale ricorso, si sarebbe do-vuto rinunciare a tradurre in termini analitici le nozioni suddette, e sareb-be risultato impossibile affrontare l’amplissima categoria di problemi che la geometria veniva ormai impo-nendo all’attenzione degli studiosi.

Né erano soltanto la meccanica e la geometria a esigere, in forma sem-pre più sem-pressante, il ricorso alle no-zioni di infinito e di infinitesimo; la stessa aritmetica spingeva in questa medesima direzione, mostrando nelle più varie occasioni l’utilità di esten-dere le due operazioni fondamentali dell’addizione e della moltiplicazione al caso in cui i termini (da sommare e da moltiplicare) non siano più un numero finito ma infinito. E’ vero che non si sa con chiarezza che cosa si debba intendere per somma di in-finiti addendi o prodotto di inin-finiti fattori, ma è un fatto che – somman-do (o moltiplicansomman-do) i loro primi n termini, ove questo n venga preso opportunamente grande – si ottiene in parecchi casi una soddisfacente so-luzione dei più ardui problemi; e quando questi sono suggeriti dalla fi-sica, tale soluzione risulta proprio

confermata dai dati

dell’osservazione. Perché dunque escludere dalla matematica uno stru-mento così potente?

Keplero aveva proposto di calcolare aree e volumi suddividendoli in infinite parti infinitesime. Anche Galileo e la sua scuola si pongono per questa via e, pur senza nascondersi le difficoltà da essa sol-levate, ne dimostrano con parecchi esempi la straordinaria fecondità.

Obiezioni all’ampliamento della ma-tematica verso l’infinito e l’infinitesimo Se sono ben comprensibili i motivi – in un certo senso di ordine pratico – che da più parti sollecitavano i matematici del Seicento a spingersi, con ardita spregiudi-catezza, dall’algebra delle “grandezze fini-te” a quella delle “grandezze infinitesi-me”, altrettanto comprensibili, però, sono anche i motivi che trattenevano alcuni di essi dal pericoloso passo.

Va subito sottolineato comunque che i “conservatori” si trovavano, qui, in una posizione ben più solida di quella difesa – nell’ambito delle scienze della natura – dai sopravvissuti seguaci dell’aristotelismo. Ciò che essi predicavano non era infatti la fedeltà a concezioni ormai palesemente in-sostenibili come la fisica e la cosmologia di Aristotele, ma la fedeltà a metodi ma-tematici senza dubbio serissimi, come quelli che tutti potevano apprendere dalle opere di Euclide e di Archimede. Se i con-servatori amavano chiamarsi “archime-dei”, accusando gli avversari di essere “antiarchimedei”, è un fatto che né gli uni né gli altri ponevano in dubbio i risultati di Archimede o la sua rigorosa coerenza; il problema era un altro: se fosse lecito o no andare “al di là” dei greci, e cioè far uso di considerazioni che questi avevano scru-polosamente evitate.

Il nuovo calcolo introdurrà effettiva-mente nella matematica non poche propo-sizioni contraddittorie, che ne oscureranno la “rispettabilità” lungo tutto il XVIII seco-lo. Eppure la storia ha dimostrato che gli antiarchimedei avevano ragione: il loro coraggio sarà infatti largamente “premia-to” dalla straordinaria fecondità che il nuovo capitolo della matematica rivelerà assai presto in tutti i più importanti rami della scienza; e qualche tempo più tardi, lo stesso acuirsi delle antinomie da esso ge-nerate provocherà una svolta radicale nei suoi fondamenti, che non solo aprirà nuo-ve vie a tutta la matematica ma inciderà in modo essenziale sullo stesso sviluppo del pensiero filosofico.

Il primo tema che affiora ripetutamente nelle obiezioni degli archimedei riguarda la struttura delle grandezze geometriche continue (linee, superfici, solidi), a propo-sito delle quali essi sostenevano l’impossibilità che vengano costituite col

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riunire grandezze aventi una di-mensione in meno (le linee riunen-do punti, le superfici riunenriunen-do li-nee, ecc.). Ecco per esempio ciò che scrive Guldino nella sua critica a Cavalieri: “Rispondo che il con-tinuo è divisibile all’infinito, ma non consta di infinite parti in atto, bensì soltanto in potenza, le quali (parti) non possono essere mai esaurite”.

Alri interrogativi sorgono sui concetti e metodi non archimedei, per esempio, sul concetto di “vici-nanza infinita” potremmo chieder-ci: che significato ha l’affermazione che la tangente a una curva in un suo punto P è la secante che passa per P e per il punto Q infinitamente vicino a P? Con quale diritto si pretende di parlare di due punti infinitamente vicini? Non sappiamo forse, in ba-se ai risultati ottenuti dai matema-tici greci nelle loro ricerche intor-no al continuo lineare, che fra due punti distinti, per quanto prossimi, esiste sempre – su quel continuo – un’infinità potenziale di altri pun-ti?

Il costituirsi del calcolo infini-tesimale

Il nuovo calcolo venne inizial-mente impiantato su due direttrici: 1) ricerca delle tecniche atte a de-terminare le aree di superfici rac-chiuse da curve di equazione nota, i volumi di solidi di rotazione, i ba-ricentri di figure piane e solide; 2) ricerca delle tecniche atte a deter-minare le tangenti a curve di equa-zione nota, in un loro punto gene-rico, gli eventuali massimi e mini-mi di tali curve, i loro punti di fles-so, la loro curvatura, ecc.

Il primo ordine di problemi era già stato sistematicamente affron-tato dai matematici greci, che ave-vano ideato per risolverlo il cosid-detto metodo di esaustione. Si trat-tava ora di scoprire nuove tecniche di più agevole applicazione, capaci non soltanto di ritrovare i risultanti raggiunti da Euclide e da Archi-mede, ma anche di risolvere pro-blemi analoghi, che essi non ave-vano studiato o non aveave-vano risol-to.

Il metodo degli indivisibili di Cavalieri, accolto e generalizzato da Torricelli, fu appunto una delle tecniche moderne che rivelò

parti-colare efficacia allo scopo anzidetto. Le tecniche seguite per il calcolo del-le aree, dai matematici francesi (Fermat, Pascal, Roberval) e da quel-li inglesi (in particolare da Walquel-lis) furono a volte ispirate dal metodo degli indivisibili, altre volte basate su geniali artifici geometrici e algebrici diversi da un caso e l’altro. Merita una speciale menzione la metodolo-gia di Wallis; sembra talvolta che egli consideri questo tipo di calcolo più come una scienza empirica che non come una scienza rigorosamente razionale.

Il problema della tangenti era as-sai più nuovo di quello delle aree; i greci infatti non lo avevano trattato nella sua generalità; ma solo per tipi speciali di curve (in particolare per le coniche). Anche a proposito di tale determinazione furono ideati vari metodi, spesso diversi da un autore all’altro, perlopiù viziati da gravi inesattezze anche se capaci di con-durre allo scopo voluto. Alcuni (Tor-ricelli, Pascal, Roberval) fecero ri-corso con successo a considerazioni cinematiche.

In questo tipo di ricerche un meri-to particolare spetta a Pascal che per primo mostrò l’enorme importanza, nello studio di una curva di equazio-ne y=f(x), del suo “triangolo caratte-ristico”, cioè del triangolo rettangolo avente per ipotenusa la corda che col-lega il punto generico P della curva ad un punto Q (sempre della curva) molto prossimo a P, ed avente per ca-teti l’incremento x subito dall’ascissa e quello y subito dall’ordinata nel passaggio da P a Q.

Comunque sia, i risultati conse-guiti – con dimostrazioni più o meno soddisfacenti – dai matematici dell’epoca furono davvero sorpren-denti: estendevano in misura notevo-le il campo di nozioni raggiunto dai greci. Il confronto con i classici è sempre presente alle loro menti, e vi-vissimo il desiderio di superarli; basti citare gli sforzi eseguiti per misurare il rapporto fra la circonferenza e il diametro (cioè il numero ) con valo-ri assai più approssimati di quello da-to da Archimede.

Le notizie molto sommarie, fin qui ri-ferite, possono essere sufficienti per darci un’idea del fervore delle ricerche, che si andavano sempre più diffondendo con l’avanzare degli anni intorno ai problemi dell’infinito e dell’infinitesimo. Oggi esse sogliono venir considerate, dagli storici della matematica, come costituenti la pri-ma fase dell’elaborazione del calcolo infi-nitesimale, fase che verrà gloriosamente conclusa da Newton e da Leibniz: ai quali non si può dunque attribuire il merito di avere “inventato” in nuovo calcolo, ma so-lo quelso-lo – peraltro notevolissimo – di avergli fornito una prima solida sistema-zione.

Possiamo senz’altro affermare che nel momento in cui Newton e Leibniz comin-ciarono ad occuparsi di matematica, si può dire che un metodo infinitesimale era già stato costituito, nel senso che i principali geometri si erano abituati a maneggiare gli infinitamente piccoli, sia come elementi di somma, sia come elementi di rapporti. Ciò che mancava era l’uniformità dei sim-boli: ogni geometra aveva le sue notazioni particolari e le sue abbreviazioni, che il più delle volte riservava per sé. Proprio questa è la lacuna che verrà colmata in modo pressoché definitivo dai due cosid-detti “inventori” dell’analisi infinitesima-le.

Leibniz

Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel 1646 da una famiglia di elevata cultura; il padre e il nonno materno erano stati professori di materie giuridiche in quella Università. Morì il 14 novembre 1716. L’universalità di interessi rimase una delle principali caratteristiche di tutta la sua attività di studioso.

Nel 1673, i contatti avuti con l’ambiente scientifico inglese che gravita-va intorno alla Royal Society lo sollecita-rono ad approfondire le indagini poco prima iniziate di analisi infinitesimale, af-frontando in forma sistematica i due fon-damentali problemi dell’epoca: quello del-le tangenti e quello deldel-le aree. Ne ricavò due tipi di calcolo, che verranno indicati col nome, diventato classico, di “calcolo differenziale” e “calcolo integrale”.

La svolta decisiva, che Leibniz riuscì a imprimere alla disciplina in esame, consi-stette soprattutto nella precisazione e uni-formazione delle sue regole, resa possibile fra l’altro dall’uso di simboli adeguati.

Alla ricerca di questi simboli il nostro autore fu senza dubbio sollecitato dalle idee che veniva elaborando, in sede di lo-gica; sappiamo comunque che Leibniz non li ideò tutto d’un tratto, ma solo attraverso

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5 vari tentativi. Che i simboli

leibni-ziani si siano rivelati molto più idonei alla nuova disciplina che non quelli newtoniani, è cosa nota, confermata da tutto il successivo sviluppo dell’analisi; ciò che meri-ta invece di venire sottolineato, è che Leibniz fu subito ben consape-vole dei grandi vantaggi di una no-tazione sistematica, mentre New-ton sembra averle attribuito poca importanza. La prima fondamenta-le fondamenta-lettura di Leibniz su argomenti infinitesimali fu costituita dagli scritti di Pascal; ebbene fu proprio questa lettura a suggerirgli i sim-boli poi precisati e perfezionati. Una volta avuta l’idea di essi, egli cercò subito di tradurre nella nuo-va notazione i risultati raggiunti dal matematico francese: le sem-plificazioni così ottenute lo persua-sero che la via intrapresa era giusta e che valeva la pena insistervi.

Il simbolo di differenziale dx si presentò a Leibniz come estensio-ne naturale dei simboli usati per le differenze finite x. Sappiamo che Pascal aveva attribuito molta im-portanza al “triangolo caratteristi-co” di una funzione; ebbene, im-maginiamo che il punto Q si avvi-cini infinitamente a P: finché essi non vengono a costituire un unico punto, le loro ascisse e le loro or-dinate dovranno risultare distinte l’una dall’altra, e la differenza fra le loro ascisse (o rispettivamente fra le ordinate) non sarà nulla. E’ precisamente a tali differenze, quando i punti tendono a coincide-re, che il nostro autore dà il nome di “differenziali”; ed è operando in modo opportuno su di esse, che egli propone di giungere alla riso-luzione dei problemi concernenti le tangenti, i massimi e minimi, ecc. La condizione essenziale da lui imposta è che i “differenziali” vengano confrontati fra loro, non con le grandezze finite; il “triango-lo caratteristico” gli suggerisce la principale operazione del nuovo calcolo, cioè lo studio del rapporto fra i due differenziali corrispon-denti ai due cateti del triangolo in questione. Così giunge al famoso

dx dy

, che indica – come oggi ben sappiamo – la derivata della y ri-spetto alla x. Per giungere poi alle operazioni di fondamentali della differenziazione della somma, del prodotto, del quoziente di due o

più variabili, il passo non era molto difficile; Leibniz seppe compierlo esattamente e tradurlo con perfetta maestria nel proprio simbolismo. Ne emerse – sia pur con le debite diffe-renze – una sorprendente analogia con l’ordinario calcolo algebrico del-le grandezze finite, e risultarono su-bito evidenti le notevolissime sempli-ficazioni che la nuova “algebra” era in grado di arrecare a tutti i problemi affrontati.

Il simbolo di integrale

fu ideato la Leibniz per indicare la somma di tutti gli indivisibili che riempiono un’area (esso ricorda ap-punto l’iniziale della parola “Som-ma”). La scoperta delle proprietà dell’integrale fu abbastanza semplice. Più difficile fu comprendere che, per indicare convenientemente l’integrale di una variabile y (la quale sia fun-zione della variabile indipendente x), è opportuno scrivere

ydx anziché

y . Una volta accortosi dei vantag-gi che presenta l’introduzione del dx sotto il simbolo di integrale, Leibniz ne raccomanda l’uso e lo pratica egli stesso sistematicamente: “Racco-mando di non omettere dx … errore frequentemente commesso e che im-pedisce di andare più oltre”.

Newton

Isaac Newton nacque nel villag-gio di Wollsthorpe della contea di Lincoln il giorno di natale del 1642. Morì nel 1727 e fu sepolto nell’abbazia di Westminster. Sulla sua tomba vennero incise le celebri parole: “Si rallegrino i mortali perché è esistito un tale e così grande onore del genere umano”.

Il pensiero di Newton rappresenta senza dubbio una delle tappe fonda-mentali nella storia delle scienze e della filosofia moderne. L’influenza che egli esercitò sui matematici, sui fisici, sui filosofi e sugli stessi lette-rati del Settecento fu enorme.

Nel settore della matematica la fama di Newton è soprattutto legata all’invenzione del calcolo infinitesi-male, per la cui priorità fu in lunga polemica con Leibniz. A giudizio degli studiosi odierni la questione ha invece perso gran parte del suo inte-resse, essendo ormai incontestabil-mente dimostrato che né Leibniz né Newton furono, a rigor di termini, i

veri e propri “inventori” del nuovo calco-lo, ma soltanto i sistematori delle sue re-gole e dei suoi simboli.

Le sistemazioni che Newton ideò per il calcolo infinitesimale furono due: il cosid-detto calcolo delle flussioni e quello delle prime e ultime ragioni.

Vale la pena, riportare quasi per intero, le due pagine dedicate alle prime e ultime ragioni, nella sezione prima del primo li-bro dei Principia:

Si obietta che non esiste l’ultimo rap-porto di quantità evanescenti, in quanto esso, prima che le quantità siano svanite, non è l’ultimo, e allorché sono svanite non c’è affatto. Ma con lo stesso ragionamento si può giustamente sostenere che non esi-ste la velocità ultima di un corpo che giunga in un certo luogo, dove il moto fi-nisce. La velocità, infatti, prima che il corpo giunga nel luogo non è l’ultima, e quando vi giunge non c’è. La risposta è facile: per velocità ultima si intende quella con la quale il corpo si muove, non prima di giungere al luogo ultimo nel quale il moto cessa, né dopo, ma proprio nel mo-mento in cui vi giunge: ossia quella stessa velocità con la quale il corpo giunge nel luogo ultimo e con la quale il moto cessa. Similmente, per ultime ragioni delle quan-tità evanescenti si deve intendere il rap-porto delle quantità non prima di diventare nulle e non dopo, ma quello col quale si annullano. Del pari, anche la prima ragio-ne delle quantità nascenti è il rapporto col quale nascono […]

Quanto al calcolo delle flussioni, oc-corre anzitutto ricordare che esso prende le mosse dalla seguente constatazione: che “le linee vengono descritte, non mediante addizioni di parti, ma per moto continuo di punti; le superfici per moto di linee; i soli-di per moto soli-di superfici, ecc.”. Partendo da questa constatazione, Newton osserva che le quantità così generate variano, in tempi uguali, di più o di meno a seconda della maggiore o minore “velocità di accresci-mento”: per l’appunto a queste velocità egli attribuisce il nome di flussioni, mentre chiama fluenti le anzidette quantità (linee o superfici o solidi) descritte per moto continuo. Se indichiamo con x, y, z… di-verse fluenti, tutte funzioni del medesimo parametro t (tempo convenzionale), ad ogni valore di questo t corrisponderà un valore per ciascuna fluente e corrisponderà pure un valore per la sua rispettiva flus-sione, che Newton denota con i simboli

... , , • • • z y x

Notevolissimi furono i risultati che il nostro autore raggiunse in questa tratta-zione.

(6)

L’analisi infinitesimale nel XVIII e XIX secolo

Nel 1734 il filosofo e vescovo irlandese George Berkeley pubbli-ca un opuscolo intitolato The Ana-list, scritto sotto forma di “discorso rivolto a un matematico infedele” (probabilmente l'astronomo Hal-ley) in cui la fondatezza del calco-lo viene fatta oggetto di dura e puntuale critica. Berkeley centra con molta precisione il principale punto debole della costruzione newtoniana, così come di quella dei “matematici stranieri”, cioè dei collaboratori di Leibniz. Si tratta rispettivamente della definizione stessa di flussione e di incrementi infinitesimi.

Per calcolare la flussione di una funzione f(x)si deve infatti cal-colare il rapporto incrementale

e x f x e x f( + )− ( ) • e poi porre

0

=

e

. Ma dividendo per

e

si fa tacitamente l'ipotesi che

e

non sia nullo e una volta effettuata la divi-sione non è lecito dunque, osserva Berkeley, porre

e

=

0

. La man-canza di una precisa teoria dei li-miti rende difficile il superamento

del paradosso.

L'altra definizione newtoniana, ba-sata sulle prime e ultime ragioni, prevede invece la considerazione del rapporto non quando e è uguale a zero, né quando e è diverso da zero, ma nel momento stesso in cui si annulla e il triangolo caratteristi-co si caratteristi-contrae in punto. Di questa formulazione ancora più oscura Berkeley si fa facilmente gioco:

Questo è assolutamente incon-cepibile, afferma. Eppure vi sono alcuni i quali mentre esprimono di-sappunto all'enunciazione di qual-siasi mistero (religioso), per quan-to li concerne non fanno alcuna difficoltà, capaci di scolare un mo-scerino e di inghiottire un cammel-lo [...]

E più avanti:

E che cosa sono queste flussio-ni? Le velocità di incrementi eva-nescenti. E che cosa sono questi incrementi evanescenti? Essi non sono quantità finite, non sono infi-nitesimi, non sono niente. E allora non dobbiamo forse chiamarli gli spettri di quantità morte?

La critica di Berkeley non si limi-ta all'atlimi-tacco puro e semplice ai fon-damenti del calcolo; essa deve infatti discutere le ragioni del successo della nuova analisi nell'affrontare e risol-vere problemi con un'ampiezza prima neanche immaginabile. Egli tenta al-lora di spiegare come da principi così precari possano discendere risultati tanto sorprendenti. Per Berkeley que-sti successi sono dovuti a una com-pensazione degli errori. Supponiamo ad esempio di voler trovare la tan-gente a una curvay(x), ossia la sua sottotangente, cioè il segmento AP. Dalla proporzionalità dei triangoli

ABP e BRT si ha: TR ydx TR BR BP AP=  / = / . Ora,

dice Berkeley, si commette un primo

errore scrivendo ) ( ) (x dx y x y dy SR= = + − al posto

di TR, un errore che non può essere trascurato se dxè diverso da zero. D'altra parte, dopo aver fatto le dovu-te semplificazioni, nel quoziendovu-te

dy

dx / si pone dx=0: un secondo errore che compensa il primo e che conduce al risultato esatto

' / y y

AP = . La mutua cancellazione dei due errori porta dunque a risultati esatti e si arriva “se non alla scienza,

almeno alla verità”; una tesi che ver-rà ripresa anche da Lazare Carnot nei Refléxions sur la métaphysique du calcul infinitesimal del 1797, dove alla elisione fortuita sostituirà una teoria della necessità della compen-sazione degli errori per dare al calco-lo una base sicura.

Le tesi di Berkeley condizionano non poco il corso dell'analisi inglese; se matematici poco dotati prendono le difese della teoria con argomenta-zioni in genere ripetitive e superficia-li, altri si impegnano a fondo in vani tentativi di eliminare le controverse flussioni dall'analisi. Fra questi, Co-lin MacLaurin che nel 1742 in difesa del metodo di Newton pubblica il Treatise of fluxions, dove tenta un'e-sposizione sistematica in termini

ri-gorosamente geometrici della teoria delle flussioni evitando infiniti e infinitesimi, primi e ultimi rapporti e basandosi sulla velocità istantanea.

Ben diversa è la situazione sul continente dove premature discussioni sui principi at-tecchiscono solo marginalmente mentre con la nuova analisi vengono aggrediti tut-ti i campi della scienza e in primo luogo della fisica e si registra uno sviluppo con-temporaneo e senza pari di metodi e tecni-che del calcolo, tecni-che per un certo periodo si identifica con la matematica nella sua tota-lità.

Nella mole dei risultati ottenuti in circa mezzo secolo si cominciano però via via ad avvertire debolezze nella teoria in par-ticolare per quel che riguarda i rapporti tra serie di funzioni e continuità, che diven-gono inaccettabili dopo il trattato di Fou-rier sulla propagazione del calore, tanto che l'Accademia di Berlino offre un pre-mio per il miglior lavoro sui fondamenti

del calcolo.

Nella discussione intervengono matemati-ci come D'Alembert che esprime la sua posizione in vari articoli dell'Ency-clopédie. Alla voce “limite” egli sostiene che “la teoria dei limiti è la base della vera metafisica del calcolo differenziale”.

Una posizione diversa è presentata da Lagrange nella Note sur la métaphysique du calcul infinitésimal e poi sviluppata nella Théorie des fonctions analytiques (1797) che costituisce il più compiuto ten-tativo di sistemazione rigorosa dell'analisi prima dell'intervento definitivo di Cauchy. Qui egli premette una dettagliata critica al-le concezioni dei fondatori del calcolo ba-sate sugli infinitesimi e tenta invece di evi-tare le difficoltà usando gli sviluppi in se-rie. La “derivata” (il termine compare qui per la prima volta) viene introdotta svilup-pando la funzione f nel puntox , 0

... ) ( ) ( ) (x =a0+a1 xx0 +a2 xx0 2+ f , i coefficienti a , 0 a , 1 a , ... dipenderanno 2

da x ; di questi 0 a è il valore della fun-0 zione nel punto x , mentre, per definizio-0

ne, si dice derivata della f in x il coeffi-0 ciente a , e si indica con il simbolo 1

) ( ' x f .

L'impostazione di Lagrange viene contestata e rovesciata nella sistemazione dovuta indipendentemente a Augustin Louis Cauchy e a Bernhard Bolzano.

Nel 1817 Bolzano pubblica l'opusco-lo, Rein analytischer Beweis des Lehr-satzes in cui, per dare una dimostrazione del teorema degli zeri, introduce in manie-ra rigorosa alcuni concetti come quello di continuità delle funzioni, di convergenza

(7)

7 delle successioni e delle serie, di

estremo superiore. I contributi di Bolzano rimasero però poco cono-sciuti e furono riscoperti solo più tardi.

Ben diversa è invece l'influenza dei lavori di Cauchy, che segnano un punto di svolta nel calcolo infi-nitesimale, determinando in gran parte il successivo corso della teo-ria. Nel 1821 viene pubblicato il primo dei tre trattati scritti da Cau-chy per gli studenti dei suoi corsi, il Cours d'analyse de l'École Poly-technique. Secondo quella che era stata anche la visione di d'Alem-bert, il concetto di limite viene po-sto a base di tutte le costruzioni dell'analisi: per mezzo di esso Cauchy definisce la controversa nozione di infinitesimo e quella di infinito, definisce la continuità di funzione e studia la convergenza di serie e successioni. Nel successivo Résumé des leçons sur le calcul in-finitesimal (1823) la teoria dei li-miti è applicata al calcolo infinite-simale: la “derivata”, pur conser-vando la terminologia lagrangiana, viene ora rigorosamente definita come limite del rapporto incremen-tale, provando poi i vari teoremi del calcolo.

La revisione critica dei fonda-menti dell’analisi infinitesimale, iniziatasi con l’opera di Augustin Cauchy, con la definizione moder-na dell’ infinitesimo e dell’infinito come limite, ha permesso di elimi-nare completamente il ricorso alla nozione di infinitesimo e di infini-to attuale, largamente accettainfini-to nei primi secoli di sviluppo del calcolo infinitesimale, ma rigorosamente bandito dalle antiche matematiche greche.

IL LIMITE IN CAUCHY

Nell'introduzione del Cours d'analyse Cauchy critica il ricorso a “ragionamenti tratti dalla genera-lità dell'algebra”, in implicita po-lemica con Lagrange. Dice infatti: Ragionamenti di questo tipo, benché ammessi abbastanza co-munemente, soprattutto nel pas-saggio dalle serie convergenti alle serie divergenti e dalle quantità reali alle espressioni immaginarie, non possono essere considerati, mi sembra, che come delle induzioni adatte a far talvolta presentire la verità, ma che poco si accordano con l'esattezza tanto vantata dalle

scienze matematiche. Bisogna inoltre osservare che essi tendono a far attri-buire alle formule algebriche un'e-stensione indefinita, mentre in realtà la maggior parte di queste formule sussiste unicamente sotto certe con-dizioni e per certi valori delle quanti-tà in esse contenute [...] Così, prima di effettuare la somma di una qua-lunque serie, ho dovuto esaminare in quali casi le serie possono essere sommate o, in altri termini, quali so-no le condizioni della loro conver-genza; e, su questo argomento, ho stabilito delle regole generali, che mi sembrano meritare qualche attenzio-ne.

Come già detto, il punto fonda-mentale della costruzione di Cauchy diviene la definizione di limite.

AUGUSTIN LUIS CAUCHY

(COURS D'ANALYSE)

Allorché i valori successivamente assunti da una stessa variabile si av-vicinano indefinitamente a un valore fissato, in modo da finire per diffe-rirne di tanto poco quanto si vorrà, quest'ultimo è chiamato il limite di tutti gli altri. Così ad esempio un numero irrazionale è il limite delle diverse frazioni che ne forniscono valori sempre più approssimati. In geometria la superficie di un cerchio è il limite verso il quale convergono le superfici dei poligoni inscritti, mentre il numero dei loro lati cresce sempre di più, ecc. Allorché i succes-sivi valori numerici di una stessa va-riabile decrescono indefinitamente in modo da diventare minori di un nu-mero dato, questa variabile diviene ciò che si chiama un infinitesimo o una quantità infinitesima. Una varia-bile di questo tipo ha zero come limi-te.

L’aritmetizzazione dell’analisi e i suoi sviluppi

L’elemento distintivo della ricer-ca matematiricer-ca del primo Ottocento era il rigore nella sistemazione dell’analisi, esigenza che si era espressa con le precisazioni che auto-ri quali Gauss, Abel, Cauchy, Bolza-no, ecc. avevano dato di taluni con-cetti fondamentali, primo fra tutti il concetto di limite. Tuttavia, risultò ben presto chiaro agli analisti della seconda metà dell’Ottocento che il fondamentale concetto di numero reale non aveva ancora ricevuto una

definizione rigorosamente “aritmetica”; esso veniva in generale assunto come fon-dato su intuizioni di tipo geometrico (in particolare come rapporto di grandezze geometriche) strettamente connesse, con l’altrettanto vaga nozione di continuità.

In senso stretto, per aritmetizzazione dell’Analisi si può allora intendere l’affrancamento da questa “servitù” geo-metrica nella stessa definizione di numero reale e quindi, in una più ampia accezione, la conseguente edificazione dell’Analisi su basi chiarite non più sulla scorta di intui-zioni geometriche inanalizzate, ma in ter-mini di oggetti e processi aritmetici ele-mentari. Era questo il problema dei fon-damenti della matematica.

Dopo che si era liberato da questo “vassallaggio” geometrico il concetto ge-neralissimo di numero reale (e con esso l’Analisi), grazie soprattutto ai lavori di Weierstrass, Dedekind e Cantor, il pro-blema di una definizione rigorosa del con-cetto di numero si specializza, per così di-re, nella questione di dare una chiarifica-zione puramente “aritmetica” del concetto di numero naturale. In questo ambito, po-sizioni di rilievo spettano certamente a Dedekind e a Peano.

Dedekind, in un suo saggio dell’88, ri-tiene che nel concetto di “sistema” di “co-se” qualsiasi ci sia il supporto sufficiente per la successiva introduzione di sistema semplicemente infinito tramite il quale ca-ratterizzare la successione dei numeri na-turali. Lo stesso Peano, nella sua teoria assiomatica sui numeri naturali, esprime un assioma in termini di classe.

Sembra dunque non eliminabile, da questo tipo di ricerche, un riferimento più o meno essenziale, più o meno esplicito, agli insiemi e alle loro proprietà; anzi sembra in definitiva che la vera costante fondamentale non sia tanto quella di nu-mero naturale quanto piuttosto quella di insieme o di classe.

Fra i “fondamentalisti”, possiamo quindi includere Georg Cantor che prese specificamente in esame il concetto stesso di insieme, fino a costituirne una teoria che va annoverata fra le conquiste mag-giori della matematica (e della filosofia) di ogni tempo.

Cantor nella sua teoria “ingenua” de-gli insiemi considera dede-gli insiemi infiniti, reintroducendo il concetto di infinito at-tuale, conducendo a risultati sorprendenti ma non contraddittori come ad esempio: 1) i punti di una retta sono tanti quanti i punti di un piano, o addirittura dello spa-zio; 2) esistono diversi “tipi” di infinito, e questi possono essere ordinati, ovvero si possono costruire degli insiemi infiniti che non possono essere messi in

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corrisponden-za biunivoca tra loro, ma in una re-lazione di inclusione; così ad esempio, l’insieme R dei numeri reali è “più grande” dell’insieme N dei numeri naturali. Non riuscendo a trovare un insieme che fosse “più grande” di N e “più piccolo” di R, Cantor suppose che questo insieme non esistesse e che l’infinito suc-cessivo a N fosse proprio R - ipotesi del continuo -.

Bisogna aggiungere però che la teoria cantoriana degli insiemi pre-senta limiti obiettivi dal punto di vista del rigore logico, e in essa fu-rono scoperte antinomie; ciò nono-stante è stata feconda, ha stimolato lo sviluppo di un intero e impor-tantissimo campo della logica pro-prio nel tentativo di eliminare que-ste insorgenze contraddittorie. E una cosa che si riscontra spesso è che i vari indirizzi insiemistici hanno sempre agito nel senso di ri-durre al minimo le limitazioni alla teoria cantoriana, che appunto si erano rese necessarie dopo la sco-perta delle antinomie.

Le antinomie, come scoperse

Zermelo, dipendono

dall’introduzione intuitiva del con-cetto di insieme secondo Cantor. Zermelo sistemò la questione delle

antinomie mediante

l’assiomatizzazione della teoria. Sorse a questo punto un’altra que-stione fondamentale: Il sistema dei postulati di Zermelo è compatibi-le? Cioè la teoria fondata su di essi è non contraddittoria?

La questione fu affrontata dall’austriaco Kurt Gdell, al qua-le si debbono due risultati fonda-mentali su questo argomento e cioè: 1) il teorema della indimo-strabilità della non contraddittorie-tà dell’aritmetica con metodi ari-metizzabili (enunciato nel 1930); 2) il teorema di non contradditto-rietà relativa all’assioma della scel-ta e all’ipotesi del continuo (enun-ciato nel 1940).

L’analisi non-standard Il concetto di infinitesimo at-tuale, è stato reintrodotto nella ma-tematica moderna attraverso la considerazione di classi di gran-dezze non archimedee, cioè classi di grandezze che contengono ele-menti (infinitesimi attuali) tali che un loro multiplo comunque grande

non supera mai una opportuna gran-dezza della stessa classe.

L’analisi non-standard, un nuovo ramo della matematica aperto negli anni sessanta da Abraham Robinson, segna un nuovo stadio di sviluppo per la soluzione di un gran numero degli antichi e celebri paradossi di cui abbiamo già parlato. Questa teo-ria, basata sugli ultimi sviluppi della logica moderna, considera “reali” gli infinitesimi, in un senso diverso da quello in cui sarebbe stato inteso da Euclide o da Berkeley. Fino a un se-colo fa era tacitamente assunto da tutti i filosofi e matematici che l’oggetto della matematica fosse do-tato di realtà obiettiva in un senso molto vicino a quello in cui l’oggetto della fisica è reale. Se esistessero o no gli infinitesimi era questione di fatto, non troppo differente dal pro-blema se gli atomi materiali esistono o no. Oggi molti matematici, forse la maggior parte, non condividono più tale convinzione dell’esistenza obiet-tiva degli oggetti che essi studiano. Quel che i matematici vogliono dagli infinitesimi, non è una forma di esi-stenza materiale, ma piuttosto il dirit-to di servirsi di essi nelle dimostra-zioni. Ciò che è stato ottenuto è che il metodo infinitesimale è stato reso preciso per la prima volta. Nel passa-to i matematici dovevano fare una scelta. Se usavano gli infinitesimi, dovevano basarsi sull’esperienza e sull’intuizione per ragionare corret-tamente. Per una rigorosa certezza era stato necessario ricorrere all'in-gombrante metodo archimedeo di esaustione o alla sua versione mo-derna, il metodo epsilon-delta di Weierstrass. Ora il metodo degli in-finitesimi, si eleva dal livello euristi-co a quello rigoroso e grazie alle semplificazioni introdotte si stanno risolvendo problemi precedentemen-te insoluti. Per godere della libertà e delle ampie possibilità dell’analisi non-standard è auspicabile il suo in-serimento nella pratica didattica.

Bibliografia

- Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Voll. I e VI, 1988;

- Armando Chiellini, Manuale per la preparazione orale di matematica, 1996;

- M. Devis e R. Hersh, L’analisi non-standard, Le Scienze Quaderni n.60, 1991;

- Abraham Robinson, Non-standard Ana-lysis, Princeton Landmarks in Mathema-tics;

- H. Jerome Keisler, Elementi di Analisi Matematica, Piccin Editore;

- Internet, Il giardino di Archimede, http://www.math.unifi.it/archimede/arch

Riferimenti

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