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Laureta novata. L’alieniloquium nei madrigali dei «Rerum vulgarium fragmenta» (parte prima)

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Academic year: 2021

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(1)

DIRETTO DA

L. BATTAgLIA RICCI - F. BRUNI - S. CARRAI - M. CHIESA A. DI BENEDETTO - M. POZZI

2015

LOESCHER EDITORE

(2)

zygmunt g. Baranski (University of Notre Dame), andrea CiCCarelli (Indiana University),

Jean-louis fournel (Paris VIII), alfred noe (Universität Wien),

franCisCo riCo (Universidad autónoma de Barcelona),

maria antonietta terzoli (Universität Basel).

redazione

enriCo mattioda (segretario), lorenzo BoCCa

Il «Giornale storico della letteratura italiana», fondato nel 1883 da Arturo Graf, Francesco Novati e Rodolfo Renier, e da allora pubblicato a Torino dalla Loescher,

è punto di riferimento per gli studi di Italianistica.

È presente nelle più importanti biblioteche internazionali ed è sempre valutato al livello più alto nelle classifiche delle riviste umanistiche. Si avvale della consulenza di lettori anonimi (peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione.

Contributi proposti per la pubblicazione e libri da recensire debbono essere inviati a: «Giornale storico della letteratura italiana»

Loescher Editore, via Vittorio Amedeo II, 18 - 10121 Torino e-mail: gsli@loescher.it

Coloro che desiderano sottoporre un contributo dovranno fare riferimento alle norme per la compilazione che sono scaricabili, in formato PDF, dal sito internet

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sono inoltre consultabili on-line, previo abbonamento, nella banca dati Periodicals Archive Online Modalità di pagamento 2015 (4 fascicoli annuali)

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Registrato al N. 571 del Registro Periodici del Tribunale di Torino

a sensi del Decreto-legge 8-2-48, N. 47. — Direttore responsabile: Arnaldo Di Benedetto. Fotocomposizione: Giorcelli & C. (Torino) - Stampa: Tipografia Gravinese (Torino)

(3)

SOMMARIO

stefano Carrai, Guittone e le origini dell’epistolografia in volgare. . . . .

maria sofia lannutti, Laureta novata. L’alieniloquium nei madrigali dei

Rerum vulgarium fragmenta. . . . andrea Battistini, Ezio Raimondi, il cammino di un maestro. . . . VARIETÀ

maria Clotilde CamBoni, La laus dominae tra la tradizione trobadorica e

la corte di Federico II. . . . toBias leuker, Omaggio all’Alceo cristiano. L’ode di Diogo Pires in morte

di Marcantonio Flaminio. . . .

NOTE E DISCUSSIONI

Claudia Berra, Schede e proposte per l’epistolario di Pietro Bembo. . . . . BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

giuseppe mazzotta, Confine quasi orizzonte. Saggi su Dante (Francesca

Geymonat), p. 277. – luCiano gargan, Libri e maestri tra Medioevo e

Umanesimo, premessa di VinCenzo fera (Antonio Manfredi), p. 285. –

renzo raBBoni, Generi e contaminazioni. Studi sui cantari, l’egloga volgare e

la prima imitazione petrarchesca (Andrea Del Ben), p. 291. – The Cambridge Companion to the Italian Renaissance, a cura di miChael Wyatt (Remo

Ceserani), p. 299. – eleonora duse/gaBriele d’annunzio, Come il mare io

ti parlo. Lettere 1894-1923, a cura di franCa minnuCCi, edizione diretta da

annamaria andreoli (Arnaldo Di Benedetto), p. 304.

ANNUNZI, a cura di franCesCo Bruni, mario Chiesa, maria luisa

doglio, luisella giaChino, enriCo mattioda, mario pozzi. . . . .

Si parla di: m. pastore stoCChi. – g. pontano. – Egidio da Viterbo. –

g. m. anselmi. – g. BillanoViCh. – Tullia d’Aragona. – g. goselini. – g.

tosi. – a. Vallisneri. – g. meli. – Avventure linguistiche di Salgari. – I

maestri e la memoria. – C. dionisotti/g. pozzi. – Il sacro nella poesia di

Zanzotto. ABSTRACTS. . . . Pag. 161 » 172 » 209 » 220 » 262 » 272 » 311 » 319

(4)

FRANCO MONTANARI

VOCABOLARIO

DELLA LINGUA GRECA

teRzA eDIzIONe con Guida all’uso e versione in digitale

Le edizioni internazionali del GI

Il riconoscimento dell’alto valore scientifico del GI e il suo prestigio anche in ambito internazionale hanno avuto conferma in una straordinaria operazione editoriale – la traduzione in greco moderno, inglese e tedesco dell’opera – che si è realizzata grazie alla volontà di importanti editori in ambito acca-demico e al lavoro di qualificati team di studiosi facenti capo all’Università “Aristotele” di Salonicco, alla Harvard University sotto il patronato del Center of Hellenic Studies e alla Freie Universität Berlin.

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L’edizione in lingua tedesca è in preparazione per i tipi dell’Editore Walter De Gruyter con il supporto finanziario della Stavros Niarchos Foundation.

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Σύγχρονο λεξικό της αρχαίας ελληνικής γλώσσας a cura di Antonios Rengakos, Aimilios D. Mauroudes Ed. Papadimas, 2014

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VOCABOLARIO

DELLA LINGUA LATINA

The Brill Dictionary of Ancien Greek

Franco Montanari

(5)

L’ALIENILOQUIUM NEI MADRIGALI DEI RERUM VULGARIUM FRAGMENTA 1. Lauro e laureto

Nel sonetto 5 del Canzoniere petrarchesco, la rivelazione del nome ineffabile dell’amata è affidata a due invocazioni dissemi-nate nel tessuto del testo, la prima, compiuta, nelle quartine (3

LAUdando, 5 REal, 7 TAci), la seconda, interrotta, nella prima

terzina (9 LAUdare et REverire, con eco in 11 REverenza), a ribadire l’inadeguatezza del linguaggio umano e l’arresto per tempo di un atto di hybris. È questa almeno l’interpretazione di Rosanna Bettarini, che esclude il coinvolgimento della sillaba inziale di Apollo al v. 12 come anche del ta interno all’aggettivo

mortal del v. 14, con il condivisibile argomento che nell’ultima

terzina si realizza il divieto imposto dal Taci del v. 7, da cui si ricava la sillaba finale (il fin) del primo LAURETA. In effet-ti, lasciando da parte la voce Taci, le altre sillabe che formano il nome LAURE(TA) sono iniziali di parole che si riferiscono all’amata e al suo status regale (come anche in 248, v. 10 real

costume; 267, v. 7 alma real), destinato a una sublimazione

sa-crale nella canzone alla Vergine, del ciel regina ... già coronata

nel superno regno ... donna del Re (366, vv. 13, 39, 49) (1).

(1) F. Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a cura di R. Bettarini,

2 voll., Torino, Einaudi, 2005 (d’ora in poi Bettarini), vol. I, pp. 22-23, a p. 23: «La prima terzina rilancia infatti il fonetismo significante di LAUdando e di REal (vv. 3 e 5), sciolto nelle due azioni dei verbi LAUdare e REverire (v. 9), ulteriormente raddoppiate dalla parola-chiave reverenza, nonché da quel duplicato semantico di laus che è onor (v. 11) dentro un gioco sottile a chiasmo; dopodiché l’invocazione s’interrompe, perché il poeta, pur duplicando la tensione (v. 6), parlando della sua donna dantescamente non crede “sua laude finire” (Donne ch’avete, 3) né raggiungere a parole l’oggetto desiderato».

(6)

Rvf 5

Quando io movo i sospiri a chiamar voi, e ’l nome che nel cor mi scrisse Amore,

LAUdando s’incomincia udir di fore

il suon de’ primi dolci accenti suoi. 4 Vostro stato REal, che ’ncontro poi,

raddoppia a l’alta impresa il mio valore; ma: TAci, grida il fin, ché farle honore

è d’altri homeri soma che da’ tuoi. 8 Cosí LAUdare et REverire insegna

la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,

o d’ogni REverenza et d’onor degna: 11

se non che forse Apollo si disdegna ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami

lingua mortal presumptüosa vegna. 14

Sul finire del sonetto 5, il nesso sempre verdi rami annuncia la comparsa della parola lauro nel sonetto 6, ripetuta nel sonet-to 7 (2). In 6, sulla natura di amore, il lauro è pianta dall’acerbo

frutto raggiunta alla fine di un inseguimento indotto dal

desi-derio (vv. 12-14 «sol per venir al lauro onde si coglie / acerbo frutto, che le piache altrui / gustando affligge più che non con-forta»). In 7 denota, in endiadi con mirto, un cantus rectitudinis che non trova più posto in un luogo e in un tempo dominati dal vizio in assenza della vertù, e dal disprezzo della Philosophia (vv. 1-2 «La gola e ’l somno et l’otïose piume / ànno del mondo ogni vertù sbandita»; vv. 9-11 «Qual vaghezza di lauro, qual di mirto? / Povera et nuda vai, Philosophia, / dice la turba al vil guadagno intesa») (3). Il sonetto 7 è poi rivolto a un gentile

spirto spronato a non abbandonare la magnanima sua impre-sa (v. 14). Si tratta, come suggerito da Santagata ad locum, di

(2) Bettarini, p. 30: «Il lauro-Dafne che amaramente sfugge ad Apollo (e al poeta che scrive) è già annunciato nei “sempre verdi rami” del sonetto che precede (V 13), pronto all’innesto col lauro del sonetto che segue (VII 9)».

(3) Il lauro e il mirto sono simboli rispettivamente della poesia eroica e della po-esia amorosa, ma il loro accostamento non implica l’intenzione di distinguere le due tipologie poetiche, come rilevato in F. Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a

cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 20042 (d’ora in poi Santagata), p. 39, e

Bet-tarini, p. 34. E infatti la distinzione appare superflua in una poesia lirica, come quella del Canzoniere, che svolge il tema amoroso e il tema morale e politico servendosi di un unico linguaggio.

(7)

un’anticipazione dello spirto gentil che nella canzone 53, di ar-gomento politico, frammessa ai due primi madrigali, è chiama-to a soccorrere, nonostante la fortuna ingiurïosa che contrasta a

l’alte imprese (vv. 85-86), un mondo ormai privo della vertù (v.

8) e un’Italia vecchia otïosa et lenta (v. 12).

oggetto del desiderio e figura della poesia come cantus

rec-titudinis dall’inizio del Canzoniere, la parola lauro lo percorre

tutto fino alla canzone 359, dove segna finalmente ed esplicita-mente, con esaltazione spirituale, il trionfo dell’amata in Dio (vv. 50-52 «...il lauro segna / triumpho, ond’io son degna, / mercé di quel Signor che mi die’ forza»). Da lauro deriva

laure-to, che nel congedo della canzone 129 è il sospirato luogo

d’ap-prodo situato oltre la vetta del monte più alto (oltra

quell’al-pe), verso la quale l’amante è spinto dall’impulso del desiderio intenso, e si identifica con la dimora dell’amata lontana (v. 71 quella ovvero l’aura del v. 69) e dell’anima dell’amante (mio cor), anch’essa lontana, contrapposta alla tangibile corporeità

(imagine mia).

Rvf 129

ove d’altra montagna ombra non tocchi, verso ’l maggiore e ’l piú expedito giogo

tirar mi suol un desiderio intenso (4); 55 [...]

Canzone, oltra quell’alpe,

là dove il ciel è più sereno et lieto, mi rivedrai sovr’un ruscel corrente, ove l’aura si sente

d’un fresco et odorifero laureto. 70 Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;

qui veder pôi l’imagine mia sola.

(4) Su questi versi che aprono l’ultima stanza verte in particolare la recente ana-lisi di L. Marcozzi, Il Parnaso di Petrarca (lettura della canzone 129 dei ‘Fragmenta’),

«Petrarchesca» I, 2013, pp. 55-76, secondo il quale ’l maggiore e ’l piú expedito giogo indica una delle due cime del Parnaso, con la precisazione che «in nessun luogo della tradizione una delle due cime appare più alta dell’altra [...], e quindi il “maggiore” dei due gioghi non sarà tale per elevazione fisica, ma per virtù morale e poetica» (p. 75). Alla canzone 129 è dedicato anche il saggio di M. PraLoran, Dentro il

pa-esaggio: «Di pensier in pensier, di monte in monte» (Rvf, 129), in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, firenze,

Edizioni del Galluzzo, 2007, vol. I, pp. 303-24, ora in Id. La canzone di Petrarca.

Orchestrazione formale e percorsi argomentativi, a cura di A. Soldani, Roma-Pa-

dova, Antenore, 2013, pp. 126-46 (analisi dell’ultima stanza e del congedo alle pp. 141-43).

(8)

Hapax assoluto (non trovo altre occorrenze nella banca dati

dell’Opera del Vocabolario Italiano), laureto è calco del latino

lauretum, voce rara, ma certamente presente a Petrarca

attra-verso Plinio, Varrone, Servio, Macrobio, che se ne servono per designare il lucus Saxi, sacro bosco di lauri in cui si trovano una grotta e una fresca sorgente, situato alle falde del colle Aventi-no (5), al quale soAventi-no legate molte delle leggende sulla figura di Numa Pompilio e le sue relazioni con Egeria, prima tra le ninfe Camene (6). Anche Svetonio usa la voce lauretum, all’inizio del (5) PLinio, Naturalis historia, XV 138: «unius arborum Latina lingua nomen

inponitur viris, unius folia distinguntur appellatione; lauream enim vocamus. durat et in urbe inpositum loco, quando Loretum in Aventino vocatur ubi silva laurus fuit. eadem purificationibus adhibetur, testatum que sit obiter et ramo eam seri, quoniam dubitavere Democritus atque Theophrastus»; Varrone, De lingua latina, V 32: «[in

eo] lauretum ab eo quod ibi sepultus est Tatius rex, qui ab Laurentibus interfectus est, ‹aut› ab silua laurea, quod ea ibi excisa et aedificatus uicus, ut inter sacram uiam et macellum editum corneta, quae abscisae loco reliquerunt nomen, ut esculetum ab esculo dictum et fagutal a fago, unde etiam Iouis fagutalis, quod ibi sacellum»; SerVio, Commentarius in Uergilii Aeneidos, comm. a VIII 276: «Varro enim rerum

humana-rum docet in Aventino institutum lauretum, de quo proximo monte decerpta laurus su-mebatur ad sacra: quamvis ipse dixerit populus Alcidae gratissima»; Macrobio, Satur-nalia, III 12 3-4: «Nam, ut primum de frondis genere dicamus, constat quidem nunc

lauro sacrificantes apud aram Maximam coronari, sed multo post Romam conditam haec consuetudo sumpsit exordium, postquam in Aventino Lauretum coepit virere, quam rem docet Varro Humanarum libro secundo. E monte ergo proximo decerpta laurus sumebatur operantibus, quam vicina offerebat occasio».

(6) Il lucus Saxi ha gli stessi tratti distintivi (la grotta e la sorgente) del lucus

Came-narum, che possiamo considerare equivalente all’Elicona, visto che le Camene furono

precocemente assimilate alle Muse greche, e del lucus Egeriae, luogo per eccellenza de-gli incontri di Numa Pompilio con Egeria (cfr. G. Stara-tedde, I boschi sacri dell’an-tica Roma, «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», II, 1905,

pp. 189-232, alle pp. 194-96). Le Camene sono evocate da Petrarca nella prima e nella terza ecloga del Bucolicum carmen. Nella prima, oggetto della celebre lettera familiare X 4, sulla poesia come alieniloquium (cfr. infra la conclusione del par. 5), le Camene sono chiamate a ispirare la poesia di Silvio, alter ego di Petrarca: vv. 40-44 «[...] Nitar, si forte Camene / Dulce aliquid dictare velint quod collibus altis / Et michi complace-at, quod lucidus approbet ether; / Non rauce leve murmur aque, nec cura, nec ardor / Defuerint»; trad. «E continuerò a impegnarmi, se le Camene vorranno continuare a dettarmi qualcosa di dolce che piaccia sia agli alti colli che a me, e che il cielo splen-dente possa approvare: né mancherà il lieve e roco mormorio delle acque, né da parte mia la diligenza e la passione» (e. Fenzi, Verso il Secretum: «Bucolicum carmen» I, Parthenias, in «Petrarchesca», i, 2013, pp. 13-53, alle pp. 33 e 35). Nella terza, il canto

delle Camene è mezzo per conquistare Dafne: vv. 59-62 «Haud tacuisse velim, quod, cum mea pauca putarem / Posse placere tibi, studui si musica forte / Ars michi fer-ret opem, quod te sonus atque camene, / Non auri fulgor capefer-ret»; trad.: «Ma non vorrei tacerti questo: mentre ritenevo che potessero piacerti le mie scarse qualità, mi adoperai per attirarti a me ricorrendo all’arte dei suoni, giacché tu sembravi amare di più il canto delle Camene che lo splendore dell’oro» (f. Petrarca, Bucolicum carmen,

a cura di L. Canali, Lecce, Manni, 2005, pp. 58-59). In un passo del capitolo del De

(9)

libro VII del De vita Caesarum, nel capitolo introduttivo alla figura di Galba. Nel passo, lauretum indica il bosco di lauri dal quale gli imperatori erano soliti attingere, ottenuto il trionfo, la corona d’alloro di cui si cingevano il capo. Il bosco ebbe ori-gine dal ramoscello che Livia, moglie di Augusto, piantò nella sua villa di Veio, dopo averlo raccolto dal becco di una gallina bianca che un’aquila le aveva lasciato cadere in grembo. Di-venne secco durante l’ultimo anno di vita di Nerone, e subito dopo un fulmine colpì il tempio dei Cesari, facendo cadere la testa da tutte le statue degli imperatori e lo scettro dalle mani della statua di Augusto. L’episodio è interpretato come segno premonitore dell’estinzione della famiglia dei Cesari, di cui Nerone fu l’ultimo indegno esponente (7).

Petrarca dichiara di aver visitato la grotta nel bosco delle ninfe Camene dove Numa si recava fingendo (è questa l’opinione di Livio, fonte di Petrarca) d’incontrare Egeria: «Que ut in vulgi animos altius cunta descenderent, quecunque ageret se divino monitu alloquioque edoctum simulans, sic et diis accepta populoque salubria se sancire suadet persuadetque, figmento locum et tempus ydoneum nactus, in nemus siquidem Arici-num intempeste noctis silentio ventitabat. Illic, cavo quodam et umbroso specu, ubi et ipsi nuper cognoscendi studio fuimus, iugis ad fontem aque submotis solus arbitris se se includens, tempus de industria terebat, metu interim comitibus et veneratione perfusis; inde egrediens cum Egeria quadam Camenisque, quibus ob id meritum, ut terrori fideique adderet, lucum ipsum consecraverat, de omni statu reipublice se trac-tasse fingebat: et commento fides habita» (II 9-10); trad.: «E affinché tutte queste cose discendessero assai profondamente nell’animo della gente, simulando qualunque cosa facesse di essere stato istruito da un insegnamento e un discorso divino, in tal modo induce nella convinzione anche che lui sancisca cose gradite agli dei e benefiche al popolo, dopo aver trovato alla finzione il tempo e il luogo adatto, appunto veniva spesso nel silenzio della notte profonda nel bosco Aricino. Lì, in un’ombrosa e vuota caverna, dove anche noi poco tempo fa siamo stati per amore di conoscenza, tra i gioghi presso una sorgente d’acqua, si chiudeva da solo senza che alcuno lo vedesse, di proposito lasciava trascorrere il tempo, e intanto coloro che l’avevano accompagnato erano pervasi da venerazione e timore; uscendone poi fuori con una tal Egeria e le Camene, alle quali in cambio di questo servigio aveva consacrato proprio quel bosco, fingeva di aver trattato di ogni questione intorno allo stato: e con la finzione è stata ottenuta la fede» (f. Petrarca, De viris illustribus, a cura di S. ferrone, firenze, Le

Lettere, 2006, pp. 22-23).

(7) SVetonio, De vita Caesarum, VII 1 1 «Progenies Caesarum in Nerone

defe-cit: quod futurum compluribus quidem signis, sed uel euidentissimis duobus appa-ruit. Liuiae olim post Augusti statim nuptias Veientanum suum reuisenti praeteruo-lans aquila gallinam albam ramulum lauri rostro tenentem, ita ut rapuerat, demisit in gremium; cum que nutriri alitem, pangi ramulum placuisset, tanta pullorum suboles prouenit, ut hodieque ea uilla ad Gallinas uocetur, tale uero lauretum, ut triumphaturi Caesares inde laureas decerperent; fuit que mos triumphantibus, alias confestim eo-dem loco pangere; et obseruatum est sub cuiusque obitum arborem ab ipso institutam elanguisse. ergo nouissimo Neronis anno et silua omnis exaruit radicitus, et quidquid ibi gallinarum erat interiit. ac subinde tacta de caelo Caesarum aede capita omnibus simul statuis deciderunt, Augusti etiam sceptrum e manibus excussum est». È

(10)

possibi-Il bosco-laureto (ovvero il bosco abitato dal lauro) visto come luogo di approdo e di accoglienza, speculare alla selva oscura, è lo scenario prevalente nella canzone delle visioni (323). Si trat-ta però di uno scenario dove immagini simbolo di giovinezza (il

lauro giovenetto et schietto nella terza stanza, v. 26), di armonia

(la fontana che fa da tenor alle voci di nimphe et muse nella quarta stanza, vv. 37 e 42), di rinascita (la strania fenice nella quinta stanza, v. 49), di benignità e rigore morale (la bella

don-na humile in sé, ma ’ncontra Amor superba nella sesta stanza, vv.

62 e 64) svaniscono nella mente dell’amante, che è incapace di trattenerle e si percepisce come parte di un destino universale e tutto mondano di precarietà e di sofferenza (v. 72 «Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!») (8).

Come nota Santagata, la prima delle visioni ambientate nel

bosco-laureto (terza stanza), dove il lauro che vi prospera e dal

quale promanano dolcissimi canti è colpito e divelto da un fulmine, rappresenta un «evento assolutamente straordinario e innaturale», visto che il lauro, sacro ad Apollo, era ritenuto

inattaccabile dai fulmini (9).Che per la conclusione

catastro-le che il passo non sia estraneo ai versi del Triumphus Cupidinis (I 94-99) dove Livia e Nerone si trovano a essere accostati, la prima come oggetto d’amore virtuoso (Augu-sto l’amò tanto che la sposò nonostante fosse incinta, avendo ottenuto il divorzio dal precedente marito), il secondo come prototipo del tiranno dispietato e ’ngiusto, sprov-visto cioè delle qualità del perfetto regnante, la giustizia e la pietà, che usò la forza per avere in moglie Poppea e fu da lei soggiogato. Cfr. F. Petrarca, Triumphi, a cura di V.

Pacca, in Id., Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, intr. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, nota di commento al v. 97, p. 77. Sui manoscritti del De vita cesarum posseduti e annotati da Petrarca, si veda ora M. berté, Petrarca lettore di Svetonio, Messina, Peculiares, 2011, con edizione delle

postille petrarchesche.

(8) Alla bibliografia sulla canzone delle visioni citata in Santagata, p. 1246, e Bet-tarini, p. 1409, si aggiunga S. StroPPa, «Quid vides?». La canzone delle visioni e Ugo di San Vittore, in «Lettere italiane» LIX, 2007, pp. 153-86, dove la preponderante

visione catastrofica della canzone è messa in rapporto con la «costruzione percettiva del mondo del trattato De vanitate mundi di ugo di San Vittore». Si veda in proposito anche f. Petrarca, Canzoniere, a cura di S. Stroppa, Torino, Einaudi, 2011 (d’ora in

poi Stroppa), pp. 497-98.

(9) M. Santagata, Il naufragio dei simboli (R.v.f. 323), in «Chroniques italiennes»,

XI, 1995, pp. 19-41, alle pp. 25-26 (la citazione a p. 25). Secondo G. biLLanoVich,

Uno Svetonio della biblioteca del Petrarca (Berlinese lat. fol. 337), in «Studi

petrarche-schi», VI, 1956, pp. 23-33, a p. 30, il motivo del lauro che non viene colpito dai fulmini, più volte presente nelle opere di Petrarca (come rilevato da ultimo in Berté, op cit., p. 13, e si veda ora M. FioriLLa, I classici nel Canzoniere. Note di lettura e scrittura poetica in Petrarca, Roma-Padova, Antenore, 2012, pp. 124-26), deriverebbe proprio da

(11)

fica della stanza Petrarca si sia ispirato al passo di Svetonio mi sembra ipotesi da tenere in conto. Si può pensare che la straor-dinarietà dell’evento sia tale anche proprio rispetto al prodigio narrato da Svetonio, perché in quel caso il fulmine colpisce il tempio degli imperatori quando il laureto si è appena dissecca-to, non appena viene a mancare il suo effetto protettivo.

Nella successiva visione della quarta stanza, ambientata in

quel medesmo bosco, il canto proviene invece da una chiara fon-tana che sorge d’un sasso e dalle voci di nimphe et muse che si

accostano alla fontana seguendo in armonia il suono delle sue

ac-que fresche et dolci (vv. 37-42 «Chiara fontana in ac-quel medesmo

bosco / sorgea d’un sasso, et acque fresche et dolci / spargea, soavemente mormorando; / al bel seggio, riposto, ombroso et fosco, / né pastori appressavan né bifolci, / ma nimphe et muse a quel tenor cantando», dove tenor, che coincide con la voce latina, potrebbe rimandare alla contemporanea prassi musicale polifonica). Sul piano autobiografico qui il luogo è rappresenta-zione di Valchiusa (Santagata nota l’analogia con la sorgente del-la Sorgue, che nei periodi di magra si ritira rivedel-lando una grotta) (10), ma sul piano simbolico credo si possa dire che i tratti di-stintivi l’accomunino, più che al monte sacro alle Muse, proprio al suo equivalente italico, il lauretum delle Camene.

Possiamo vedere le differenti rappresentazioni del

bosco-laureto nelle due stanze della canzone delle visioni, e più in

ge-nerale nell’intero Canzoniere, in relazione alle descrizioni del

locus amoenus nelle Metamorfosi di ovidio, che si succedono

e da Bettarini, p. 129, a proposito dell’incipit del sonetto 24 («Se l’onorata fronde che prescrive / l’ira del ciel...») −, che Petrarca ha annotato per due volte in due diversi testimoni del De vita caesarum accanto a Tib. 69 (ed. in Berté, op. cit., pp. 13 e 158), in cui si dice che Tiberio usava proteggersi dai fulmini ponendosi sul capo una corona d’alloro (così anche in Plinio, Naturalis Historia, XV 135). Notevole poi il fatto che lo stesso motivo si trovi nei versi della terza ecloga del Bucolicum carmen successivi al già citato passo in cui si menziona il canto delle Camene (vv. 59-62). In questi versi il lauro, ovvero Dafne, viene descritto come l’unica pianta che Giove evita di colpire: vv. 77-79 «Te vates magnique duces, te Iupiter altus / Diligit, ac iaculo refugit violare trisulco, / Quo ferit omne nemus...»; trad.: «te amano i poeti e i grandi duci, te il sommo Giove, che evita di colpirti con il dardo trisulco, che scaglia su ogni albero del bosco» (fran-cesco petrarca, Bucolicum carmen cit., pp. 60-61).

(10) Santagata, Il naufragio dei simboli cit., p. 27. Cfr. inoltre FioriLLa, I classici nel Canzoniere cit., specialmente p. 77, sulla postilla petrarchesca «ut meus Sorgia»

annotata nel Par. lat. 7880 accanto a Iliade XXII 52, tra le fonti classiche dell’immagine della chiara fontana.

(12)

secondo la tecnica della ripresa variata (11). Basti pensare alla prima parte del terzo libro, dove si trovano quasi contigui gli episodi di Atteone e di Narciso (Met. III 131-252 e 402-510), che sono ripresi in ordine invertito nelle stanze conclusive del-la canzone delle metamorfosi. Il primo è ambientato a mez-zogiorno, in un bosco in cui sono situate una grotta di rara bellezza e una sorgente di acqua limpida, il secondo presso una fonte incontaminata collocata in una fitta selva.

Nel Canzoniere, però, il locus amoenus ha una connotazione più specifica, che gli deriva dall’assunzione della metafora del lauro, attraverso la quale si stabilisce una sovrapposizione tra oggetto dell’amore e poesia, e di conseguenza tra amante e po-eta. Con il profilarsi della metafora del lauro, il luogo di nascita dell’amata celebrato come picciol borgo all’inizio del racconto nel sonetto 4 (vv. 12-14 «ed or di picciol borgo un sol n’à dato / tal che natura e ’l luogo si ringratia / onde sì bella donna al mondo nacque») lascia il campo a un bosco-laureto dalla mol-teplice fisionomia, luogo per eccellenza dell’amata, che credo possa dirsi declinato al plurale nel LAURETA del sonetto 5, dove compare la prima menzione del lauro, se si ammette la possibilità che si tratti di voce del latino (12). L’ipotesi è già stata formulata da Guglielmo Gorni e poi ripresa e sviluppata da fredi Chiappelli, che chiama in causa proprio il lauretum (13). Se è vero che la voce laureto, che nel congedo della can-zone 129 designa la dimora dell’amata, è hapax e calco del raro lemma lauretum, attestato negli autori latini per designare i

bo-(11) Devo questo spunto a Luigi Galasso, che ringrazio anche per avermi guidata nell’individuare e valutare l’impiego del lemma lauretum negli autori latini.

(12) Si veda quanto scrive Rosanna Bettarini a proposito della contiguità dei so-netti 4-5: «Sempre dantesca è la contiguità del luogo privilegiato voluto da Dio con il nome della donna, se si pensa al nome e alla città di Beatrice a inizio della Vita nuova (VI 1-2), dove Dante congiunge la “volontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima” con la memoria di quella “cittade ove la mia donna fue posta da l’altissi-mo sire...” [...]. un contatto del beato luogo e del nome benedetto che qui si riproduce nella sequenza di questo sonetto con quello che segue» (Bettarini, pp. 18-19).

(13) g. gorni, rec. alle Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca, a cura dell’ufficio lessicografico dell’opera del Vocabolario, pref. A. Duro, firenze, Acca-demia della Crusca, 1971, in «Metrica» I, 1978, pp. 284-85, a p. 285; f. chiaPPeLLi, L’esegesi petrarchesca e l’elezione del «sermo laurano» per il linguaggio dei «Rerum vul-garium fragmenta», in «Studi petrarcheschi» IV, 1987, pp. 47-85, alle pp. 65-67, con la

nota 21. L’ipotesi è presa in considerazione da Santagata, p. 26, ma non da Bettarini, p. 23, seguita da Stroppa, p. 12.

(13)

schi di lauro abitati dalle Camene, oltre che il bosco del lauro trionfale, allora LAURETA potrebbe davvero essere non dimi-nutivo di un nome proprio ma plurale di lauretum, senhal che evoca la plurima rappresentazione del luogo in cui abita l’aura. 2. L’aura nel laureto

Rispetto a lauro, il falso femminile l’aura occorre nel Can-zoniere più avanti, nel primo dei madrigali (52) (14), anch’esso come senhal dell’amata (Castelvetro, citato da Bettarini ad

lo-cum: «Bel dubbioso parlare, potendosi tirare al vento e alla

don-na, all’uno e all’altro chiudendo i capelli»), pastorella alpestra et

cruda intenta a lavare il velo con cui racchiuderà i biondi capelli

(implicito il rimando al mito di Atteone, il cacciatore trasforma-to in cervo da Diana, offesa dal suo sguardo importuno, che finì per essere sbranato dai suoi stessi cani). un’epifania o piuttosto una folgorazione che fa rabbrividire l’amante d’un amoroso

gie-lo nonostante l’ora meridiana, la stessa in cui ovidio ambienta

il racconto della storia di Atteone (15).

Nell’ora meridiana (quasi a mezzo ’l giorno) è situato anche il secondo madrigale (54), dove l’amata non è più pastorella stanziale ma pellegrina seguita su per l’erbe verdi di una selva dall’amante, che è spronato da una voce fuori campo di natura divina a riconoscere attraverso la riflessione la pericolosità del suo vïaggio. Nel primo è un corso d’acqua non nominato, nel secondo un bosco, a definire un unico ambiente mitico, il

bosco-laureto con la sua fontana, lo stesso descritto nella quarta stanza

della canzone delle visioni.

Rvf 52

Non al suo amante più Dïana piacque, quando per tal ventura tutta ignuda

la vide in mezzo de le gelide acque,

ch’a me la pastorella alpestra et cruda

posta a bagnar un leggiadretto velo, 5 ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda,

(14) Lo nota per primo g. caPoViLLa, I madrigali (LII, LIV, CVI, CXXI), in Id., «Sì vario stile». Studi sul Canzoniere del Petrarca, Modena, Mucchi, 1998, p. 82: «La

prima occorrenza del senhal [...] l’aura/Laura si registra entro il Canzoniere proprio al numero LII».

(14)

tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,

tutto tremar d’un amoroso gielo.

Rvf 54

Perch’al viso d’Amor portava insegna, mosse una pellegrina il mio cor vano, ch’ogni altra mi parea d’onor men degna.

Et lei seguendo su per l’erbe verdi, udì’ dir alta voce di lontano: 5 Ahi, quanti passi per la selva perdi!

Allor mi strinsi a l’ombra d’un bel faggio,

tutto pensoso; et rimirando intorno,

vidi assai periglioso il mio vïaggio:

et tornai indietro quasi a mezzo ’l giorno. 10

È noto che il madrigale 52 è in stretto rapporto con l’ultima stanza della canzone 23, anch’essa incentrata sul mito di Atte-one. Ma a ben guardare, il rapporto con la canzone 23 investe tutt’e due i madrigali se visti in una relazione di complementa-rietà. Possiamo anzi dire che nella canzone 23 i motivi portanti dei due madrigali sono declinati in negativo, esprimono un diso-rientamento definitivo e una violazione con conseguenze fatali.

Come nel madrigale 54, nella sesta stanza della canzone 23 l’amante cerca invano (intorno intorno) l’amata. Nessuna voce lo distoglie però dalla sua ricerca inducendolo a un ripensamen-to, tanto che l’amante, stanco e scoraggiaripensamen-to, dà corso a un pian-to dirotpian-to che lo trasformerà in una fontana. Il legame tra i due testi è ribadito dalla condivisione delle rime intorno : giorno e

faggio : vïaggio (23, vv. 108 : 111, 117 : 118; 54, vv. 7 : 9, 8 : 10). Rvf 23

Ed io non ritrovando intorno intorno

ombra di lei, né pur de’ suoi piedi orma,

come huom che tra via dorma, 110

gittaimi stancho sovra l’erba un giorno.

Ivi accusando il fugitivo raggio, a le lagrime triste allargai ’l freno, et lasciaile cader come a lor parve;

né già mai neve sotto al sol disparve 115 com’io sentì’ me tutto venir meno,

et farmi una fontana a pie’ d’un faggio.

(15)

Nell’ultima stanza della canzone 23, ugualmente ambien-tata nell’ora meridiana (quando ’l sol più forte ardea), l’amata,

ignuda come Diana nel madrigale 52, è all’origine non di una

folgorazione gravida di aspettative ma di una colpevole tra-sgressione, causa della metamorfosi dell’amante in cervo, che diventa così, come Atteone, preda dei suoi cani. Si noti qui la condivisione della rima ignuda : cruda in ordine invertito.

Rvf 23

I’ seguì’ tanto avanti il mio desire

ch’un dì cacciando sì com’io solea mi mossi; e quella fera bella et cruda

in una fonte ignuda 150

si stava, quando ’l sol più forte ardea.

Io, perché d’altra vista non m’appago, stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna; et per farne vendetta, o per celarse,

l’acqua nel viso co le man’ mi sparse. 155 Vero dirò (forse e’ parrà menzogna)

ch’i’ sentì’ trarmi de la propria imago, et in un cervo solitario et vago di selva in selva ratto mi trasformo:

et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo. 160

uno sviluppo di questa immagine per contaminazione con altri miti e leggende lo ritroviamo nell’enigmatico sonetto 190, dove il cervo solitario et vago si sublima nella candida cerva con

duo corna d’oro apparsa «fra due riviere, all’ombra d’un

allo-ro» (nel solito scenario, dove il corso d’acqua è però raddop-piato) e subito inseguita dall’amante, in un gioco di specchio e di sdoppiamento che dall’approccio avvenuto al levarsi del sole arriva fino al pieno coinvolgimento passionale, quand’era

’l sol già volto al mezzo giorno, nell’ora meridiana in cui sono

ambientati l’ultima stanza della canzone 23 e i madrigali 52 e 54. Qui la cerva sparisce come inghiottita dallo svanire della visione, nel momento in cui l’amante cade (ha la sensazione di cadere) ne l’acqua, tornando alla realtà (16).

(16) Ricca la bibliografia sul sonetto 190. Alle voci riportate in Santagata, p. 833, e Bettarini, p. 875, si può aggiungere il saggio di S. StroPPa, Gli occhi «stanchi di mirar». Agostino e Gregorio Magno in «Rerum vulgarium fragmenta», CXC, in «Rivista

di storia e letteratura religiosa», XL, 2004, pp. 553-62, i cui principali argomenti sono assunti in Stroppa, pp. 322-23. Per Bettarini, pp. 876-77, le due riviere sarebbero, in

(16)

Rvf 190

una candida cerva sopra l’erba verde m’apparve, con duo corna d’oro,

fra due riviere, all’ombra d’un alloro,

levando ’l sole a la stagione acerba. 4 Era sua vista sì dolce superba,

ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro: come l’avaro che ’n cercar tesoro

con diletto l’affanno disacerba. 8 «Nessun mi tocchi – al bel collo d’intorno

scritto avea di diamanti et di topazi – :

libera farmi al mio Cesare parve». 11

Et era ’l sol già vòlto al mezzo giorno,

gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,

quand’io caddi ne l’acqua, et ella sparve. 14

A differenza della candida cerva, animale fantastico ed eva-nescente (17), la pastorella e la pellegrina appartengono a que-sto mondo e sono controfigure dell’amata, che la ritraggono in questo mondo nel momento dell’innamoramento (piacque è voce specifica del lessico amoroso) e della queste dell’amante, interrotta dall’alta voce di lontano. Non diversamente appar-tiene a questo mondo la giovenetta donna del madrigale 121, osservata (Or vedi Amor) mentre fronteggia, nonostante la sua inermità, Amore, al quale l’amante chiede di farsi suo tramite, colpendo l’amata con una saetta.

Rvf 121

Or vedi, Amor, che giovenetta donna

tuo regno sprezza, et del mio mal non cura, et tra duo ta’ nemici è sì secura.

Tu se’ armato, et ella in treccie e ’n gonna

si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba, 5 ver’ me spietata, e ’ncontra te superba.

prospettiva autobiografica, «la Sorgue e la Durance, che gettandosi nel Rodano ab-bracciano Avignone» (p. 876). In prospettiva simbolica mi sembra interessante l’analo-gia con i due fiumi del purgatorio dantesco, secondo l’interpretazione di M. cocco, Il sonetto CXC del Petrarca o la poetica dello specchio, in Forma e parola. Studi in memoria di Fredi Chiappelli, a cura di D. J. Dutschke, P. M. forni, f. Grazzini, B. R. Lawton, L.

Sanguineti White, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 81-108.

(17)

I’ son pregion; ma se pietà anchor serba l’arco tuo saldo, et qualchuna saetta,

fa’ di te et di me, signor, vendetta.

I personaggi sulla scena sono gli stessi del sonetto 3, che rappresenta il momento in cui l’amante è imprigionato da Amore, e ha il suo presupposto nel sonetto 2, dove un Amore armato infligge il colpo mortal a un amante incapace di prender

l’arme (da notare il riuso negli ultimi due versi del madrigale

dei rimanti vendetta e saetta che delimitano le quartine nel so-netto 2, anche in questo caso in ordine invertito).

Rvf 2

Per fare una leggiadra sua vendetta,

et punire in un dì ben mille offese, celatamente Amor l’arco riprese,

come huom ch’a nocer luogo et tempo aspetta. 4 Era la mia virtute al cor ristretta

per far ivi et negli occhi sue difese, quando ’l colpo mortal là giù discese

ove solea spuntarsi ogni saetta. 8 Però, turbata nel primiero assalto,

non ebbe tanto né vigor né spazio

che potesse al bisogno prender l’arme, 11 overo al poggio faticoso et alto

ritrarmi accortamente da lo strazio

del quale oggi vorrebbe, et non pò, aitarme. 14

Rvf 3

Era il giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo factore i rai,

quando i’ fui preso, et non me ne guardai,

ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro. 4 Tempo non mi parea da far riparo

contra’ colpi d’Amor: però m’andai

secur, senza sospetto; onde i miei guai

nel commune dolor s’incominciaro. 8 Trovòmmi Amor del tutto disarmato,

et aperta la via per gli occhi al core,

che di lagrime son fatti uscio et varco: 11 però, al mio parer non li fu honore

ferir me de saetta in quello stato,

(18)

Nel madrigale assistiamo a un rinnovamento della situazio-ne di partenza, a un gioco di slittamento e scambio dei ruoli e dei connotati dei personaggi, come se si osservasse la scena in un secondo tempo da una diversa angolazione. Nel sonetto 3 l’amante è disarmato, l’amata è armata come Amore, Amore ri-sparmia l’amata e cattura l’amante (v. 3 quando i’ fui preso), che nella chiusa si rivolge all’amata. Nel madrigale Amore, ancora armato, è al fianco dell’amante divenuto prigioniero (v. 7 I’ son

pregion), ed è a lui che l’amante si rivolge. Nel sonetto Amore

colpisce l’amante, nel madrigale l’amante chiede ad Amore di colpire l’amata. Com’è securo l’amante nel sonetto, così è

se-cura l’amata nel madrigale, ma mentre nel sonetto la sicurezza

è in realtà assenza colpevole di timore (v. 7 senza sospetto, da leggersi con Inf. V 129 «soli eravamo e sanza alcun sospetto»), varco attraverso il quale Amore insinua la sofferenza, nel ma-drigale è corazza che permette all’amata di essere spietata nei confronti dell’amante e di disprezzare Amore (v. 2 «tuo regno sprezza, et del mio mal non cura»; v. 6 «ver’ me spietata, e ’ncontra te superba»), tanto da indurre un desiderio di

ven-detta.

L’inizio del madrigale richiama l’inizio della canzone-se-stina di Dante (vv. 1-2 «Amor, tu vedi ben che questa donna / la tua vertù non cura in alcun tempo») (18). Il distico finale è riformulazione del distico finale di Così nel mio parlar

vo-gl’esser aspro («e dàlle per lo cor d’una saetta / ché bell’onor

s’acquista in far vendetta») (19), implicato anche nell’ultima terzina del sonetto 3, dove l’amante giudica disonorevole zione di Amore, che colpisce lui disarmato, ma risparmia mata armata. Mi pare si possa ritenere che nel madrigale l’a-mante attribuisca alla spietatezza e alla superbia dell’amata la responsabilità del rovinoso e poco dignitoso comportamento di Amore descritto nel sonetto 3, e che per questo Amore sia chiamato a una duplice azione di giustizia (vendetta), che gli (18) caPoViLLa, I madrigali cit., pp. 68-69; d. de robertiS, Petrarca petroso, in «Revue des Études Italiennes», XXIX, 1983, pp. 13-37, ora in Id., Memoriale

petrar-chesco, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 9-44, alle pp. 28-29; Santagata, p. 567; Bettarini, p.

565; Stroppa, p. 221.

(19) de robertiS, Petrarca petroso cit., p. 29; Santagata, p. 568; Bettarini, p. 565;

(19)

permetta di recuperare l’honore e di bilanciare un doloroso squilibrio (20).

Ma la chiusa del madrigale è debitrice anche di due versi della Commedia, che sono parte dell’episodio di Traiano nel canto X del Purgatorio: vv. 83-84 «...“Segnor, fammi vendetta / di mio figliuol ch’è morto...”».

Purg. X

La miserella intra tutti costoro pareva dir: «Segnor, fammi vendetta

di mio figliuol ch’è morto, ond’ io m’accoro»; 84

ed elli a lei rispondere: «or aspetta tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,

come persona in cui dolor s’affretta, 87 «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’ io,

la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene

a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?»; 90 ond’ elli: «or ti conforta; ch’ei convene

ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:

giustizia vuole e pietà mi ritene». 93

Il riscontro suggerisce una possibile altra interpretazione letterale dei versi petrarcheschi. Quasi tutti i commentatori considerano soggetto l’arco tuo saldo e oggetto pietà con

alchu-na saetta: se l’arco tuo saldo serba anchor pietà et qualchualchu-na saet-ta, fa’ di te et di me, signor, vendetta (21). L’enunciato dantesco

induce però a chiedersi se pietà sia soggetto nell’ultima terzi-na del madrigale come nella Commedia, se anche nell’ultima terzina del madrigale l’attuazione della vendetta presupponga la pietà, che trattiene (ritene) l’imperatore dal muovere il suo esercito e mantiene al suo posto (serba saldo) l’arco di Amore con qualchuna saetta, in modo tale che sia pronto all’uso come al momento dell’innamoramento rappresentato nel sonetto 3 (anchor). Piuttosto che un’anticipazione dell’oggetto, questa (20) Cfr. Santagata, commento alla chiusa di 121, p. 568: « ‘vendica, facendola innamorare, il disprezzo che essa mostra verso la tua potenza e l’indifferenza nei con-fronti del mio dolore’: i due ultimi terzetti rovesciano la situazione di 3, 9-14 [...]: cf. inoltre 2, 1 “Per fare una leggiadra sua vendetta” (: saetta); Dante, Così nel mio parlar 82-83».

(21) Ibidem: «Pietà: oggetto, insieme a “saetta” (v. 8), di “serba”. Solo Zingarelli

l’interpreta come soggetto, con il significato di “dolore”, intendendo: “se dunque lo stato pietoso in cui Amore è ridotto lo serba ancora in armi”».

(20)

lettura presuppone uno zeugma, cioè che serba abbia per og-getto sia l’arco sia qualchuna saetta, e che sia completato da un complemento predicativo (saldo) solo in relazione a l’arco. In ogni caso, quello che conta è che nella situazione messa in sce-na da Dante l’imperatore è ministro di usce-na forma di giustizia cristianamente congiunta alla pietà, alla quale nel madrigale è chiamato anche Amore.

Il parallelismo che si stabilisce con la Commedia va però vi-sto attraverso il sistema ideologico del Canzoniere, alla luce del quale l’attuazione della giustizia, che scaturisce dalla compren-sione e dalla considerazione del dolore altrui, non può che im-plicare il reciproco riconoscimento (e il reciproco innamorarsi per mano di Amore), ma allo stesso tempo esclude la passione carnale e non può che dipendere dal negarsi dell’amata al coin-volgimento passionale, deterrente necessario alla salvezza. Se ne desume che nel madrigale l’amante è incapace di riconoscere il vero volto dell’amata, di comprendere che il suo rifiuto cor-risponde a un sentimento di rigore morale, a una consapevole fermezza che è espressione dell’unica forma d’amore ammissi-bile, la carità. Il suo è un fraintendimento (errore) che lo induce a un desiderio ingiustificato di giustizia, mossa da inutile pietà contro un’amata solo apparentemente spietata. un fraintendi-mento che si inserisce nel solco dei fraintendimenti centrali nei due precedenti componimenti, la canzone 119, dove l’amante tarda a riconoscere la natura delle due donne che ha di fronte (vv. 78-80 «su nel primiero scorno, / allor quand’io del suo ac-corger m’accorsi», in rima con corsi, v. 83) (22), e il sonetto 120, che risponde alle rime inutilmente pietose scritte da Antonio (22) Secondo l’interpretazione di Bettarini, p. 558: «su nel primiero scorno: nel primo istante dello “scorno” della mancata agnizione, quando “del suo accorger m’ac-corsi”, [...] quando m’accorsi che lei s’accorse che non l’avevo riconosciuta». Bettarini fa sua e approfondisce la linea esegetica inaugurata da L. Lazzerini, Petrarca, il salmo 49 e l’anello mancante, in «Studi di filologia italiana», XLIX, 1996, pp. 177-82, alle pp.

181-82, che rivede con riferimento alla Sapienza scritturale quella tradizionale per cui le due donne sarebbero l’allegoria di Gloria e Virtù. Vedi anche R. bettarini, Lacrime

e inchiostro nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Clueb, 1998, pp. 81-83; Ead., “Fluc-tuationes” agostiniane nel Canzoniere di Petrarca, in «Studi di filologia italiana», LX,

2002, pp. 129-39, a p. 135: «Al fondo della doppia struttura simbolica della canzone, dove due donne misteriose si confrontano allo specchio l’una dell’altra, sta probabil-mente l’ambiguità originaria di Sapienza, che nei libri salomonici del Vecchio Testa-mento è multiforme: è emanazione di Dio, simile e coeterna [...], è saggezza nel

(21)

da ferrara in seguito alla falsa notizia della morte di Petrar-ca diffusasi nell’autunno del 1343 (v. 1 «Quelle pietose rime in ch’io m’accorsi», ancora in rima con corsi, v. 8, a delimitare le quartine). Diversamente da quanto l’amante percepisce, l’ama-ta inerme e incurante della saetl’ama-ta di Amore (secura) esibisce non avversione ma coraggiosa e ferma volontà, dettata da un rigore morale che la spinge a opporsi alla passione amorosa, tanto che la richiesta dell’amante non ha ragion d’essere se non nella sua visione imperfetta, che non gli consente di cogliere il senso del profondo e puro sentimento nutrito dall’amata.

una leggiadra et bella donna, secura come la giovenetta

don-na del madrigale 121, come lei vestita di udon-na gondon-na (v. 4 del

madrigale ’n gonna), come lei collocata per entro i fiori et l’erba del bosco-laureto (v. 5 del madrigale in mezzo i fiori et l’erba), è protagonista dell’ultima delle sfuggenti apparizioni rappre-sentate nella canzone delle visioni. Messa di fronte ad Amore, la leggiadra et bella donna della visione deroga di necessità alla sua naturale umiltà diventando superba (v. 64 «humile in sé, ma ’ncontra Amor superba», cui corrisponde il v. 6 del madrigale 121 «ver’ me spietata, e ’ncontra te superba»). Ma a differen-za della donna del madrigale, che rimane sulla scena sfidando l’amante e inducendolo all’azione, la donna della visione è de-stinata a scomparire in seguito al morso di un serpente, nuova Euridice perduta dal suo orfeo.

Rvf 323

Alfin vid’io per entro i fiori et l’erba

pensosa ir sì leggiadra et bella donna,

che mai nol penso ch’i’ non arda et treme: humile in sé, ma ’ncontra Amor superba;

et avea indosso sì candida gonna, 65 sì texta, ch’oro et neve parea inseme;

ma le parti supreme

eran avolte d’una nebbia oscura: punta poi nel tallon d’un picciol angue,

come fior colto langue, 70

lieta si dipartio, nonché secura.

Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!

reggimento dei popoli [...], ed è insieme donna tutta desiderabile, la Sposa diletta e perfetta metaforizzata nel Cantico».

(22)

Il madrigale 121, inserito nella forma Malatesta tra i sonetti 242 e 243, non lontano dal sonetto 256 con il quale condivide il tema della vendetta nei confronti dell’amata (256, vv. 1-2 «far potess’io vendetta di colei / che guardando e parlando mi di-strugge...»), sostituisce tra il 1373 e il 1374, nell’ultima fase di orchestrazione del Libro, la ballata Donna mi vene spesso nella

mente (23), che mette nuovamente in scena le due donne della

vicina canzone 119, personificazione della duplice natura della sapienza, e in ultima analisi di vita attiva e vita contemplativa, come Lia e Rachele nel congedo della canzone 206. Due donne che fanno l’unica donna amata, capace di suscitare nell’amante l’esigenza di una crescita spirituale che è via alla salvezza, come soprattutto gli studi e il commento di Rosanna Bettarini hanno saputo mettere in luce (24).

Non mi sembra sia stato finora abbastanza sottolineato che l’ambientazione e gli attributi accomunano le tre figure dei madrigali − rispecchiate in negativo nella canzone delle meta-morfosi da un lato e nella canzone delle visioni dall’altro − alla dantesca Matelda, regina del paradiso terrestre, bella donna che canta come donna innamorata (Purg. XXIX 1 «Cantando come donna innamorata»). Secondo un orientamento critico larga-mente condiviso, Matelda non sarebbe figura della vita attiva, come sostenuto generalmente dagli interpreti antichi, ma sintesi di vita attiva e di vita contemplativa, necessaria al raggiungi-mento della beatitudine terrena, rappresentata dall’Eden (25).

Questo valore ancipite di Matelda può dirsi peraltro prefigu-(23) Cfr. e. h. WiLkinS, The Making of the Canzoniere and Other Petrarchan Stu-dies, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1951, pp. 175-80, ripreso da Santagata, p.

566, e Bettarini, p. 564.

(24) Si veda la nota 22, e ancora Bettarini, pp. 564-65, sulla ballata Donna mi vene: «è probabile invece che le due donne che struggono e infiammano l’amante con forza pari e senza troppa distinzione siano ancora una proiezione in formato ridotto e in chiave antitragica delle due sublimi donne della canzone Una donna più bella assai che

’l sole (CXIX), richiamando per di più il conflictus metaforico delle due donne

emble-matiche dantesche “Bellezza e Virtù”, che convivono con movenze similari nel sonetto che appunto comincia: “Due donne in cima della mente mia / venute sono a ragionar d’amore: / l’una ha in sé cortesia e valore, / ... / l’altra ha bellezza...”».

(25) Sottolinea da ultimo la pervasività dell’interpretazione di Matelda come fi-gura della vita attiva, giudicata un «luogo comune della critica», S. carrai, Matelda, Proserpina e Flora (per Purgatorio XXVIII), in «L’Alighieri», XLVIII, 2007, pp. 49-64,

rielaborato in Id., Dante e l’antico. L’emulazione dei classici nella «Commedia», firen-ze, Edizioni del Galluzzo, 2012, pp. 99-117, a p. 107 con la nota 26, in apertura di

(23)

rato nella visione profetica sognata da Dante verso la fine della sua ascesa purgatoriale, alle soglie dell’Eden. Nella visione, Ra-chele è altrove, in paradiso, immersa nella contemplazione, Lia è presente e canta mentre cammina e raccoglie i fiori con i quali si adorna per piacersi a lo specchio. Il suo è un agire consapevole, non disgiunto dalla contemplazione. È proprio in quest’ottica che il sogno di Dante svolge la funzione di chiave interpretativa del personaggio di Matelda. Come Lia, Matelda cammina men-tre canta e sceglie i fiori (Purg. XXVIII 40-41 «una donna solet-ta che si gia / e cansolet-tando e scegliendo fior da fiore...»); è ferma e ridente mentre li intreccia (vv. 67-68 «Ella ridea da l’altra riva dritta, / trattando più color con le sue mani»), con la sapienza che la rende depositaria e dispensatrice di nozioni teologiche fondamentali per comprendere il profondo significato che Dan-te attribuisce all’Eden. Se Lia ha in sé Rachele, MaDan-telda, di cui Lia è prefigurazione, ha in sé Lia e Rachele (26).

Colpisce nella Commedia la costanza del nesso bella donna riferito a Matelda, tanto che si può parlare di vero e proprio

una rassegna dei principali orientamenti esegetici attuali (a cui rimando anche per la bibliografia), che privilegia l’idea della primitiva felicità, più precisamente, sulla scor-ta del Tesoretto di Brunetto Latini, della natura inconscor-taminascor-ta. osservo in proposito che la primitiva felicità, di cui la natura incontaminata dell’Eden può dirsi specchio, corrisponde alla beatitudine terrena, alla quale secondo Dante si giunge seguendo gli insegnamenti filosofici e operando secondo le virtù morali e intellettuali, attraverso l’uso sia speculativo sia pratico o operativo dell’animo (Monarchia III xVi 7-8; Convivio

IV xxii 11-16).

(26) Cfr. dante aLighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci

Le-onardi, Volume secondo, Purgatorio, Milano, Mondadori, 1994, p. 795 (intr. a Purg. XXVII): «ora le due sorelle (o meglio ciò che esse simboleggiano) sono le due forme della vita umana virtuosa su questa terra [...]. Noi non crediamo quindi − come molti commentatori − che esse corrispondano alle due donne che vedremo poi nel giardino, cioè Matelda e Beatrice. [...] La figura di Matelda riassume dunque quasi certamente in sé, come già pensò il Poletto e oggi il Singleton, il Bosco e altri, tutt’e due le sorelle». A supporto di questa interpretazione del sogno di Dante, mi limito a riportare la sug-gestiva esegesi di G. PaScoLi, Sotto il velame. Saggio di un’interpretazione generale del Poema Sacro [1900], in Tutte le opere di Giovanni Pascoli, Prose, a cura di A.Vicinelli,

Volume II, Scritti danteschi, Milano, Mondadori, 1952, pp. 293-756, dove si insiste sull’importanza della complementarietà di vita attiva e vita contemplativa e sulla cen-tralità del tema nella Commedia. Nel paragrafo dedicato a Matelda (pp. 717-24), parte del capitolo intitolato La mirabile visione (pp. 705-56), si legge: «Dunque Matelda è la vita attiva, è la fatica, è la giustizia? Non propriamente. Lia che appare in sogno è una Lia che si specchia, come Rachele, sebbene non così intensamente e assiduamente. Non siede tutto giorno. Coglie fiori, movendo le mani, per adornarsi e poi piacersi allo specchio. E il medesimo fa Matelda, e canta, come l’altra; ed ha non gli occhi debili dell’antica Lia, ma occhi belli qual Rachele o quasi» (p. 718).

(24)

senhal, con significativa anticipazione come attributo di Lia nel

sogno di Dante (Purg. XXVII 97-98 «giovane e bella in sogno mi parea / donna vedere…») e altrettanto significativa sublima-zione come attributo di Beatrice (Inf. II 52-54 «Io era tra color che son sospesi, / e donna mi chiamò beata e bella, / tal che di comandare io la richiesi»; Par. VIII 15 «la donna mia ch’i’ vidi far più bella»; Par. X 93 «la bella donna ch’al ciel t’avvalora») (27). Diventa così di qualche rilievo che la donna abitatrice del

bosco-laureto sia nella canzone delle visioni leggiadra et bella donna che l’amante vede pensosa ir (vv. 61-62 «Alfin vid’io per

entro i fiori et l’erba / pensosa ir sì leggiadra et bella donna»), e nel madrigale 121 giovenetta donna che si siede in mezzo i fiori

et l’erba: Petrarca assegna alla figura dell’amata gli attributi che

nella Commedia sono propri di Lia, giovane e bella donna che Dante vede andar per una landa cogliendo fiori, e di Rachele, ritratta mentre (si) siede sia nel sogno di Dante sia in paradiso accanto a Beatrice.

Purg. XXVII

Sì ruminando e sì mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente,

anzi che ’l fatto sia, sa le novelle. 93 Ne l’ora, credo, che de l’orïente

prima raggiò nel monte Citerea,

che di foco d’amor par sempre ardente, 96

giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa

cogliendo fiori; e cantando dicea: 99 «Sappia qualunque il mio nome dimanda

ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno

le belle mani a farmi una ghirlanda. 102

Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;

ma mia suora Rachel mai non si smaga

dal suo miraglio, e siede tutto giorno. 105

Inf. II

Lucia, nimica di ciascun crudele, si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,

che mi sedea con l’antica Rachele. 102 (27) Cfr. Purg. XXVIII 43 «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore; XXVIII 148 «poi a la bella donna torna’ il viso»; XXXI 100 «La bella donna ne le braccia aprissi»; XXXII 28 «La bella donna che mi trasse al varco»; XXXIII 121 «...la bella donna: «Questo e altre cose...»; XXXIII 134 «la bella donna mossesi, e a Stazio...».

(25)

Par. XXXII

Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,

siede Rachel di sotto da costei

con Bëatrice, sì come tu vedi. 9

La pastorella, la pellegrina e la giovenetta donna, in quanto figure dell’amata, attraggono l’amante facendolo innamorare (nel madrigale 52), lo spronano a mettersi in gioco nel mon-do correnmon-do il pericolo dell’errore (il periglioso vïaggio del madrigale 54, il desiderio di vendetta del madrigale 121), e nello stesso tempo lo intimoriscono inducendolo a riflettere, a interrogarsi sulla natura della propria anima e sul senso del proprio andare, del proprio agire (52, vv. 7-8 «tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo, / tutto tremar d’un amoroso gielo»; 54, vv. 7-8 «Allor mi strinsi all’ombra d’un bel faggio, / tutto pensoso...»). Questa stessa compresenza di azione e riflessione, che può dirsi insita nella dantesca Matelda e si riflette nell’a-mante attraverso l’amata, può essere attribuita a giusto titolo, con slittamento dal piano personale al piano politico, al dedi-catario della canzone politica Spirto gentil incorniciata dai due primi madrigali, eroe cristiano spronato a coniugare pondera-zione e impegno per riscattare le sorti di Roma-Gerusalemme. E un analogo slittamento dal piano personale al piano politico potrebbe spiegare il fatto che nella Commedia dantesca bella

donna sia per una volta la Chiesa, nel discorso di papa Niccolò

III implicato nella quinta stanza della canzone 23 attraverso la ripresa variata delle parole che Dante pronuncia per farsi riconoscere (Inf. XIX 62 «“Non son colui, non son colui che credi”»), nel verso in cui l’amata reclama a sua volta di essere riconosciuta (23, v. 83 «... I’ non son forse chi tu credi») (28).

Inf. XIX

Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio?

Di parecchi anni mi mentì lo scritto. 54 Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio

per lo qual non temesti tòrre a ’nganno

la bella donna, e poi di farne strazio?». 57 (28) Santagata, p. 114, ripreso da Bettarini, p. 118, e poi da Stroppa, p. 49.

(26)

Tal mi fec’ io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto,

quasi scornati, e risponder non sanno. 60 Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:

Non son colui, non son colui che credi”».

Rvf 23

Ella parlava sì turbata in vista, 81 che tremar mi fea dentro a quella petra,

udendo: I’ non son forse chi tu credi. 3. Mirabilia Amoris

Se l’ora meridiana è nei primi due madrigali l’ora della fol-gorazione e della passione, il primo albeggiare, l’aurora, altro

senhal dell’amata, rappresenta nel racconto autobiografico

l’af-facciarsi di una rinascita a cui l’amante assiste dall’esterno, inca-pace di esserne veramente partecipe. Nel sonetto 219, l’amante saluta l’aurora nel momento in cui sta per scomparire irraggiata dal sole. Nel vicino sonetto 223 l’aurora rischiara l’aura fosca, ma lascia nelle tenebre l’amante. Nella sestina 239, l’aurora e il suo tempo novo sfumano nella dura realtà del rifiuto dell’ama-ta. Nel sonetto 255 l’aurora prelude alla felice hora mattutina, vista però nella sua necessaria e conflittuale reciprocità con la

sera, che doppia et doglia et pianti. Nel sonetto 291, nel codice

degli abbozzi definito de Aurora per l’allusione al mito (v. 5 «o felice Titon...»), l’aurora è lontana nel cielo al pari dell’amata perduta (29). E ancora nel sonetto 343, che conclude la serie di visioni inaugurata da 340, l’aurora è il momento in cui l’amata appare in sogno all’amante, prima di dissolversi colpita dalla luce del giorno.

C’è però un punto del Canzoniere dove il primo albeggiare supera la scansione del tempo immanente, del tempo sfuggente della vita terrena e dell’autobiografia, e prelude a un duraturo risveglio dal sonno dell’insipienza e a uno stabile approdo al porto della consapevolezza. Si tratta della canzone-frottola 105

Mai non vo’ più cantar com’io soleva, vertice del virtuosismo e

(29) Cfr. F. Petrarca, Il codice degli abbozzi. Edizione e storia del manoscritto Vati-cano latino 3196, a cura di L. Paolino, Milano-Napoli, Ricciardi, 2000, p. 253.

(27)

dell’ermetismo di Petrarca, seguita per contrasto dall’enuncia-to breve e leu del madrigale 106.

Secondo l’interpretazione che ho proposto in un preceden-te lavoro, la canzone 105 rappresenta, dietro le quinpreceden-te di un linguaggio ermetico ed enigmatico, e dietro la veste esteriore di un canto del disamore, il raggiungimento di una condizione di pacificazione interiore ottenuta alla fine di un lungo appren-distato, che ha permesso all’amante di riconoscere, alla luce della caritas, la vera natura dell’amata e di riconoscersi in essa, in un confronto reciproco ancora imperfetto che è figura del confronto dell’uomo con Dio (30) (1 Cor 13, 12-13 «Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem. Nunc cognosco ex parte: tunc autem cognoscam sicut et co-gnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, caritas, tria haec: maior autem horum est caritas») (31).

In quest’ottica, l’esordio della canzone 105 motiva la pro-grammatica rinuncia dell’amante poeta alla poesia d’amore con la vergogna (scorno) di non aver riconosciuto per tempo la vera natura dell’amata («Mai non vo’ più cantar com’io soleva / c’altri non m’intendeva, ond’ebbi scorno», con altri oggetto di m’intendeva prima persona singolare come soleva), di aver scambiato per superbia il suo atteggiamento di rigore morale (vv. 9-10 «altera e disdegnosa, / non superba e ritrosa»), come accade, lo si è visto, nel madrigale 121 (v. 6 «ver’ me spietata, e ‘ncontra te superba») (32).

Il tempo della canzone 105 è un tempo presente raffigura-to come approssimarsi del nuovo giorno e come risveglio, è il tempo della resipiscenza, raggiunto alla fine di un difficile ma indispensabile percorso, è il tempo di un rapporto confidente con la divinità, del bilancio, della riflessione (v. 42 «I’ mi fido in Colui che ’l mondo regge»; vv. 76-79 «De’ passati miei danni piango e rido / perché molto mi fido in quel ch’i’ (30) M. S. Lannutti, Per l’interpretazione della canzone 105 di Petrarca, in Cultu-re, livelli di cultura e ambienti nel Medioevo occidentale. VII Convegno triennale della

Società Italiana di filologia Romanza (S.I.f.R.), Bologna, 5-8 ottobre 2009, a cura di A. fassò, G. Giannini, L. formisano, P. Caraffi, G. Brunetti, f. Benozzo, M. Mancini, Roma, Aracne, 2012, pp. 603-53, alle pp. 648-53.

(31) Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, recensuit et brevi apparatu instrunxit R. Weber, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, 19964, pp. 1783-84.

(28)

odo. / Del presente mi godo, et meglio aspetto, et vo contan-do gli anni, et taccio et gricontan-do»). È il tempo in cui si capisce, si ringrazia e si loda il disdetto, che quel percorso ha permesso di affrontare (vv. 81-82 «ch’i’ ne ringratio et lodo il gran di-sdetto / che l’indurato affecto alfine à vinto»); in cui Amore è finalmente percepito come disarmato (v. 11 «Amor regge suo imperio senza spada») e salvifico, tanto che l’amante si sente ora di ringraziarlo al pari del disdetto dell’amata (v. 59 «ond’io ringratio Amore»). Si può in definitiva dire che nella canzone 105 l’amore diventa caritas, che in essa si risolve la duplicità di Amore, al contempo guerriero che trafigge il cuore dell’amante imprigionandolo nelle catene della passione e sentimento reci-proco che dispone alla salvezza (33).

Nel Canzoniere, questa duplicità di Amore credo possa dir-si propriamente rappresentata nel sonetto 25, aperto dall’im-magine del pianto dell’amante e di Amore di fronte agli effecti

acerbi et strani causati da Amore stesso, su cui sarà imperniata

la canzone 135, che vedrà ancora uniti amante e Amore: vv. 1-4 «Qual più diversa et nova / cosa fu mai in qual che stranio clima, / quella, se ben s’estima, / più mi rasembra: a tal son giunto, Amore»; congedo, vv. 94-95 «...né chi lo scorga / v’è se no Amor, che mai nol lascia un passo».

Secondo Claudio Giunta, che per primo l’ha notato, il so-netto è impreziosito da un acrostico che coinvolge le iniziali dei versi dispari da 1 a 9, formando la parola AMORE (34). È tut-tavia probabile che in realtà l’acrostico si interrompa al verso 7, entro le prime due quartine, come la prima figura di lettere del sonetto 5, duplicando la forma apocopata esordiale Amor che corrisponde al nominativo e vocativo latino. L’interpretazione può essere messa in rapporto con la visione iniziale della Vita

nova in cui Amore − lo nota Gorni a proposito del LAURETA

del sonetto 5 − parla in latino, per poi avviarsi verso il cielo, con Beatrice tra le braccia, piangendo come nel sonetto (35).

(33) Ivi, pp. 607-13, 627, 642-43 e 650-51.

(34) C. giunta, Codici. Saggi sulla poesia del medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005,

p. 13.

(35) Gorni, rec. cit., p. 285: «Laureta è il “nome che nel cor mi scrisse Amore”, e Amore nella Vita Nuova, ben vicina a questo acerbo sonetto petrarchesco, parla solo in latino».

(29)

Rvf 25

Amor piangeva, et io con lui talvolta,

dal qual miei passi non fur mai lontani,

Mirando per gli effecti acerbi et strani

l’anima vostra de’ suoi nodi sciolta. 4

Or ch’al dritto camin l’à Dio rivolta,

col cor levando al cielo ambe le mani,

Ringratio lui che ’ giusti preghi humani

benignamente, sua mercede, ascolta. 8 Et se tornando a l’amorosa vita,

per farvi al bel desio volger le spalle,

trovaste per la via fossati o poggi, 11 fu per mostrar quanto è spinoso calle,

et quanto alpestra et dura la salita,

onde al vero valor conven ch’uom poggi. 14

Nel percorso autobiografico, il sonetto 25 è rivolto a un amico poeta, alter ego dell’amante poeta, che torna all’amore e alla poesia d’amore dopo essersene allontanato. Le due situa-zioni, di allontanamento e di ritorno, sono delineate entro le due quartine. Nella seconda quartina trova anche posto un atto di ringraziamento nei confronti di un ambiguo lui (Amore? Dio?), che anzi occupa tre dei quattro versi. Le terzine sono invece incentrate sul motivo della positività della vita amorosa vista come via obbligata verso la salvezza. La seconda quartina è costituita da un unico e complesso periodo retto dalla fra-se ringratio lui, che prefigura il ringratio Amore della canzone 105. Si noti l’impiego al v. 13 di alpestra et dura riferito alla

salita, con minima variazione in metonimia della formula alpe-stra et cruda che nel madrigale 52 qualifica la pastorella. Se nel

testo l’oggetto del verbo reggente della seconda quartina è il pronome lui, nel testo parallelo e nascosto costituito dall’acro-stico sta probabilmente il nome rappresentato dal pronome, che è anche parola iniziale assoluta. La percezione imperfetta di pronome e nome, in «calcolata ambiguità tra sacro e profa-no» (36), trova una possibilità di perfezionamento nel sistema ideologico dell’intero Canzoniere (e nel tempo assoluto che lo

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