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Maffettone_Marx

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Academic year: 2021

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Marx

E’ per me un grande onore potere contribuire con uno scritto a questo volume in onore di Luciano Pellicani. Per me Luciano è stato infatti non solo un collega e un amico caro ma anche un maestro. Che le due cose vadano assieme –come si può facilmente immaginare- non è facile. E’ successo con Luciano perché lui ha una enorme capacità teoretica e assieme uno stile di ricerca austero ma trasparente. Ho letto molte opere di Pellicani, e di una cosa sono certo: conosce Marx molto meglio di me. Proprio per questa ragione mi sembra una buona idea (ancorché non priva di rischi) dedicargli questo piccolo, elementare ma personale scritto su Marx.

1 Marx: il personaggio e il pensatore.

Due cose sappiamo per certo di Marx: era un uomo di grande intelletto e profonda cultura; non aveva un carattere facile. Piccolo, tarchiato, dotato di folta capigliatura e barba lunga e disordinata, scuro di carnagione tanto da meritare il soprannome de “il Moro”, Marx era ambiziosissimo, non tollerava essere contraddetto e aveva un’opinione molto alta del proprio valore. Assai permaloso, non esitava ad adoperare tutto il suo acume e la sua sapienza per attaccare chiunque non prendesse alla lettera le sue idee e le sue proposte. E lo faceva spesso senza tenere in alcuna considerazione sentimenti di rispetto per gli altri e di equità intellettuale. In sostanza, senza dubbio un genio ma quanto difficile averlo come amico e sodale, e quanto duro averlo come nemico e avversario! Marx era un filosofo tedesco della seconda metà del secolo diciannovesimo. Del filosofo tedesco del suo tempo, possedeva caratteristiche tipiche quali la cultura straordinaria, le competenze multidisciplinari e una robusta arroganza che lo portava a credere che l’andamento del mondo dipendesse da poche essenziali categorie del proprio pensiero. Ma, oltre a esser un filosofo, Marx era sicuramente un umanista a tutto tondo, un grande sociologo, uno storico di rilievo, un economista di primo livello, un capo indiscusso, un leader politico tanto carismatico da potere essere paragonato ai fondatori delle religioni storiche. Soprattutto, Marx era e rimane uno dei personaggi più ingombranti nella storia della cultura. In nome delle sue idee, milioni di persone hanno eretto barricate, hanno cambiato stile di vita, hanno lottato per la giustizia, hanno costruito imperi e ridotto in condizioni di miseria materiale e morale miliardi di esseri umani. Naturalmente, in casi del genere è difficile far risalire a Marx stesso la responsabilità di tante conseguenze storicamente e politicamente rilevanti, essendo queste sicuramente al di là delle sue intenzioni. Tuttavia, chiunque accosti il pensiero e l’opera di Marx non può farlo in maniera innocente: deve

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essere consapevole della enorme congerie di lutti che il comunismo realizzato ha provocato in nome di Marx. Questa consapevolezza non può essere disgiunta dall’interrogativo ulteriore che si impone con forza al lettore di Marx: in che senso si può essere marxisti al giorno d’oggi? Per fortuna, le circostanze storiche attuali ci aiutano a dare una risposta meno emotiva in proposito di quella che si sarebbe potuta dare prima. Il tramonto recente del comunismo ci consente infatti di guardare alla questione con maggiore distacco di quanto non fosse possibile negli anni precedenti il 1989 soprattutto per quegli studiosi che, in Europa Orientale o altrove, studiavano Marx nell’ambito di regimi autoritari che a lui si ispiravano. In altre parole, oggi è possibile per ognuno di noi dire qualcosa dl genere: “Essere marxisti non è un’ipotesi praticabile, ma ciò non mi impedisce di valutare analiticamente il lavoro di Marx come quello di qualsiasi altro grande pensatore”. Marx in questo modo viene trattato come per esempio Aristotele o Kant. Difficile? Senza dubbio, ma non impossibile.

Dal punto di vista della storia della filosofia interessa –più che i processi al passato- cercare di capire nella maniera più semplice possibile che cosa ha detto veramente Marx e quanto di quello che ha detto può essere considerato importante anche oggi. Naturalmente, in questo modo si ragiona- alla luce un anacronismo, cioè valutando Marx da adesso e con lo sguardo di un nostro contemporaneo, non da allora cioè con gli occhi del tempo in cui visse. Marx, anche se lo sgraviamo in parte della sua eredità più strettamente politica, non è comunque un pensatore semplice. Al contrario, la sua visione generale della filosofia e la sua teoria economico-sociale sono assai complicate. Questa difficoltà è aggravata dal fatto che Marx –geniale come si vuole, ma certo non un uomo ordinato!- pubblicò in vita, oltre a articoli di riviste e giornali, assai pochi dei suoi tantissimi scritti importanti tra cui il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte e il primo libro de Il Capitale. Il che vuol dire che egli stesso ritenne all’altezza delle sue capacità solo un migliaio di pagine delle più di trentamila che aveva scritto. In somma, una certa mancanza di disciplina intellettuale accompagna la sua carriera, e partire dai pochi scritti pubblicati non basta a rendere conto della sua opera complessiva.

Anche dire se e come Marx possa essere teoricamente utile oggi è cosa complicata. Il marxismo ai nostri giorni è, con qualche eccezione, periferico da un punto di vista scientifico e non rappresenta parte essenziale del curriculum accademico nelle scienze sociali. Tuttavia, quando si parla di utilità del pensiero di Marx oggi, si intende valutare se e quanto concetti e teorie di Marx che riguardano la lotta di classe, lo sfruttamento, l’alienazione, la natura dell'ideologia, l'interpretazione materialistica della storia, il mutamento tecnologico, il declino del capitalismo abbiano significato alla luce dei problemi sociali e politici del terzo millennio. Questa ardua valutazione per fortuna non

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richiede affatto di sposare il marxismo come credo e pratica di vita. Presuppone invece una ricostruzione storico-critica quanto più serena possibile del lascito intellettuale di Marx a cominciare dalla sua formazione culturale.

Marx: le idee principali

Si sostiene comunemente che il pensiero di Marx poggi su tre pilastri: la filosofia tedesca (soprattutto Hegel), l’economia inglese e la politica francese. Non c’è dubbio però che queste influenze contarono per Marx in ordine decrescente: prima Hegel, poi l’economia inglese e infine e a distanza la politica francese. Hegeliano, Marx lo fu senza dubbio, perlomeno a modo suo. Si può sostenere, come ha fatto Karl Loewith, che la maggiore distinzione tra i due pensatori sia abbastanza chiara: mentre Hegel aveva fatto il possibile per rendere il mondo filosofico, Marx voleva rendere la filosofia del tutto mondana. Più semplicemente, si può dire che mentre per Hegel lo “Spirito” è la forza motrice della storia, Marx intende sostituire lo spirito con le condizioni materiali di vita. Ma la cosa –come si può facilmente intuire- è più complessa e riguarda l’itinerario tortuoso delle diverse scuole hegeliane (come vedremo tra poco).

L’influenza dell’economia inglese invece dipende dal materialismo di Marx. Marx fu di certo un materialista, ma lo fu a modo suo –lui si definiva un materialista “dialettico”- e in maniera diversa dal materialismo settecentesco, la differenza principale essendo costituita dal fatto che, per Marx, il materialismo tradizionale era puramente teoretico mentre lui lo vedeva realizzato solo nella prassi. . Marx era materialista innanzitutto perché anti-romantico e sostenitore di una visione “scientifica” della realtà e della storia. In che senso poi la sua visione possa dirsi scientifica ai nostri giorni è questione aperta, su cui torneremo alla fine del capitolo. La peculiarità del materialismo dialettico sta nel fatto che Marx riteneva che la cultura, la religione, l’arte, la filosofia stessa fossero una conseguenza del modo in cui la ricchezza è prodotta e distribuita. In questo consiste la cosiddetta “concezione materialistica della storia” di Marx. Cosa che rende anche la filosofia ancella dell’economia, nel senso che il pensiero stesso finisce con il dipendere dai processi di produzione e distribuzione. E da questo punto di vista non c’era dubbio che gli economisti britannici quali Smith, Ricardo e Mill fossero all’avanguardia in quei tempi. Così com’era all’avanguardia l’economia industriale della Gran Bretagna di metà del secolo diciannovesimo, che Marx ebbe occasione di conoscere anche attraverso il lungo sodalizio con l’amico e collaboratore scientifico Engels (il cui contributo generale all’opera di Marx è sempre stato fonte di dibattito).

L’influenza francese, infine, è minore e si può riassumere in una generica simpatia per la rivoluzione e per il radicalismo politico che Marx nutrì vita natural durante. Comunque sia, tra i

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francesi del tempo, si può dire che Marx subì sicuramente l’influenza del movimentismo socialista da Babeuf a Louis Blanc e Blanqui, del socialismo utopico di Saint Simon e Fourier e dell’anarchismo socialista di Proudhon che Marx prenderà sul serio perlomeno fino alla metà degli anni 1840.

2. Formazione, anni giovanili e nascita del comunismo

La formazione di Marx ebbe luogo all’interno della crisi dell’hegelismo tedesco del suo tempo. Marx, dopo gli anni di scuola a Treviri, dedicò sei anni (1835-1841) alla sua educazione universitaria, studiando brevemente legge a Bonn e poi più di cinque anni a Berlino. A Berlino si era svolta la fase conclusiva del magistero di Hegel e la sua popolarità era, quando Marx vi arrivò, ancora alle stelle. Nell’ambiente delle scuole hegeliane Marx muove anche i primi passi da filosofo, mostrando un interesse peculiare per le scuole filosofiche del periodo ellenistico. Un interesse del genere era abbastanza diffuso tra i rappresentanti della sinistra hegeliana (su cui v. paragrafo successivo), i quali vedevano probabilmente qualcosa in comune tra la decadenza del periodo ellenistico e quello in cui loro stessi si trovavano a vivere. Di qui muove il primo scritto di Marx pubblicato post mortem, quello dedicato alle Differenze tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicureo, con cui conseguirà nel 1841 la tesi di dottorato all’Università di Jena.

La sinistra hegeliana: Nel complesso Marx contribuì in maniera decisiva a realizzare quella rottura tra ragione e realtà la cui fusione era stato forse l’obiettivo forse principale della filosofia di Hegel. Molti altri avevano criticato e criticheranno Hegel a questo proposito come Kierkegaard o la sinistra hegeliana. La critica si concentrava sul significato di una frase di Hegel che si legge nella Prefazione alla sua Filosofia del diritto: “tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale e razionale”.

La “destra” hegeliana, o se si preferisce i “vecchi” hegeliani, interpretavano la frase de La filosofia del diritto di Hegel sostenendo che la razionalità dovesse adattarsi alla realtà. In questo modo, si propone una visione della filosofia come descrizione quando non giustificazione della realtà soprattutto politica esistente. La “sinistra” hegeliana, o se si preferisce i “giovani” hegeliani invece sostenevano l’opposto: è la realtà che deve conformarsi ai dettami della ragione. In questo modo si pretende che sia la filosofia a criticare la realtà, cercando di cambiarla in meglio. Marx fu

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l’esponente di gran lunga più importante della sinistra hegeliana. Per gli esponenti della sinistra hegeliana, come Feuerbach, Ruge e poi Marx la frase di Hegel era quanto mai ambigua. Come ebbe a dire F. Engels sintetizzando bene gli umori intellettuali della sinistra hegeliana, parlando di Hegel, “Il conservatorismo del suo punto di vista è relativo; il suo carattere rivoluzionario è assoluto”. Per gli autori della sinistra hegeliana, la riconciliazione hegeliana di ragione e realtà era infelice. Essi sostenevano che, facendo come Hegel, si finiva per far coincidere l'essenza necessaria ed eterna con l'esistenza storica delle cose, arrivando a rendere assoluta e inevitabile la realtà di fatto. Ruge attaccò questa confusione dal punto di vista della teoria politica, sostenendo che Hegel aveva assolutizzato alcuni concetti politici –a cominciare da quello di stato- che invece erano transitori e frutto della storia. Feuerbach insisteva invece sull’assoluta specificità dell’esistenza umana in quanto fatto, sostenendo che bisogna commisurare a essa concetti e teorie filosofiche. Solo l’esistenza empirica dell’essere umano ci permette di capire i grandi concetti della filosofia e della teologia, incluso quello centrale di dio. Per Feuerbach, persino dio è una creazione dell’uomo e non invece il contrario. Anche Marx concentra la sua critica di Hegel sulla nozione di esistenza reale o materiale, come farà del resto con altri accenti Kierkegaard. Ma mentre Ruge si sofferma sull’esistenza etico-politica, Feuerbach su quella dell’essere umano in carne e ossa, Marx parte dall’esistenza economica delle masse e dal loro asservimento.

L’idea centrale di Feuerbach è quella che filosofia –dopo Hegel- ha bisogno di una trasformazione radicale, così come proclama nei saggi su la Riforma della filosofia e la Filosofia del futuro. L’argomento principale consiste nel sostenere che la filosofia –impersonata pur sempre da Hegel.- è poco più di una teologia mascherata, una sorta di negazione della teologia che però rimane teologia. Da questa tesi negativa discende quella positiva: la filosofia non deve occuparsi dell’assoluto, sarebbe a dire dio, ma del relativo, cioè l’umano. Questa visione antropologica del filosofare parte poi a sua volta dalla natura sensuale dell’essere umano e dalla sua esistenza corporea. Conseguenza di questa trasformazione filosofica è un mutato atteggiamento verso la politica e la religione. Anche superfluo sottolineare quanto tale rifiuto dell’assoluto e dello spirito in nome di un rinnovato materialismo conti per Marx e per la coscienza europea di quel tempo.

Gli altri esponenti della sinistra hegeliana sono probabilmente meno importanti di Feuerbach sia per Marx sia per quel periodo storico. Ruge concentrò la sua versione di critica dell’hegelismo sulla storicizzazione della realtà in polemica con la sua assolutizzazione (attribuita a Hegel). La conseguenza più evidente di questa voluta storicizzazione consiste nella coincidenza di filosofia e temporalità. Ruge era anche un valente giornalista e le discussioni tra la fine degli anni 1830 e i

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primi 1840 – da lui introdotte- sul Deutsche Jahrbucher videro tra i partecipanti, oltre a Feuerbach, Strauss, Zeller, Droysen, Lachman, e i Grimm. La critica religiosa e politica dello Jahrbucher ottenne un risultato raro per un dibattito così sofisticato, quello di raggiungere l’intero ceto intellettuale tedesco e non solo sparuti gruppi di avanguardia. Il contributo filosofico più noto di Ruge consiste nella critica alla nozione hegeliana di stato: per Ruge lo stato viene visto erroneamente da Hegel come essenza e non criticamente come esistenza.

Bruno Bauer proveniva anche lui da studi teologici, e il suo primo lavoro fu una critica dei vangeli sinottici. Egli era convinto che la filosofia, e indirettamente l’accademia tedesca, attraversasse un periodo di declino inarrestabile, connesso alla critica kantiana e idealistica della metafisica. Contro questo declino, Bauer dichiara la necessità di cogliere l’assoluta individualità dell’essere e su questo costruire una politica per il futuro. Moses Hess, l’autore di Triarchia Europea, fu forse il primo a cercare di conciliare l’eredità hegeliana con l’ideale comunistico, e anche nel suo caso il primo lavoro importante aveva avuto a che fare con la teologia dedicato come è alla La Storia sacra dell’umanità. E’ anche sicuro che la critica della sinistra hegeliana fu presa molto sul serio da Schelling, che la fece in qualche modo sua negli anni della maturità durante le sue lezioni berlinesi dal 1841 in poi. Anche Schelling adottò la distinzione tra essenza e esistenza, accusando Hegel di avere fatto confusione tra le due e dando egli stesso rilievo maggiore alla nozione di esistenza. La filosofia deve procedere –in questa ottica- dall’essere immediato per raggiungere il pensiero e non viceversa. In questa tesi, Schelling non era certamente isolato, e con lui erano Feuerbach, Marx e anche Kirkegaard, che tra l’altro ebbe occasione di seguire le sue lezioni. La critica della sinistra hegeliana relegò per qualche tempo al filosofia di Hegel in secondo piano, e per avere una ripresa simpatetica di studi hegeliani bisognerà aspettare l’inizio del secolo ventesimo dopo Dilthey e Croce.

Marx ha in comune un aspetto importante con la sinistra hegeliana: la scarsa fiducia nella teoria filosofica in quanto tale. E’ difficile dire perché pensatori, pur tra loro diversi, fossero nel complesso così scettici nei confronti della teoria filosofica. Forse, uno dei motivi consiste addirittura in un eccesso di ammirazione per Hegel, che pure veniva da questi autori criticato. Gli esponenti della sinistra hegeliana sembrano nel complesso pensare che dal punto di vista filosofico puro Hegel –pur magari con qualche errore- avesse detto tutto quello che di importante c’era da dire. Per cui, non restava ai suoi successori che cercare di mettere in pratica in maniera originale il nucleo teorico della dialettica hegeliana. Sia questo oppure no il motivo, fatto è che gli scritti dei giovani hegeliani spesso sono deboli dal punto di vista della dimostrazione teorica di una tesi ma capaci di proclami interessanti e talvolta sensazionali. Si tratta di una specie di iper-attivismo

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critico. A questo si lega il radicalismo di molte delle loro tesi, e parallelamente a questo una grande capacità di rivalità reciproca. Feuerbach e Ruge, Ruge e Marx, Marx e Bauer, Bauer e Stirner formano coppie di ostili compagni di strada, pronti alla prima occasione alla inimicizia estrema. In questa situazione di fuoco incrociato, non importa se sia sulla base di un talento giornalistico oppure della capacità di scrivere saggi aspramente polemici, ma rimane fisso che questi autori contano sugli effetti dei loro scritti nella società. Spesso le conseguenze pratiche di questo attivismo radicale furono drammatiche anche dal punto di vista personale, e quasi tutti gli esponenti della sinistra hegeliana ebbero problemi economici e di lavoro nella vita quotidiana.

La critica marxiana di Hegel: Marx collaborava attivamente con Ruge quando il loro giornale – causa le sue opinioni politiche- Il Deutsche Jahrbucher fu espulso dalla Germania per diventare in Francia il Deutsche-Franzosische Jahrbucher, i suoi scambi epistolari con Feuerbach e Strauss erano all’ordine del giorno negli anni 1840, così come la collaborazione con Bauer. In somma, egli era abbastanza integrato nella sinistra hegeliana. Naturalmente, si può dire senza tema di dubbio che la sua profondità filosofica e il suo livello culturale fossero superiori a quelli degli altri esponenti della sinistra hegeliana e che egli era –da questo punto di vista- l’unico paragonabile a Hegel stesso. Non casualmente, dunque, il primo scritto importante di Marx (datato 1843 ma pubblicato postumo nel 1927) è dedicato alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, e rappresenta un commento, fortemente influenzato da Feuerbach, dei paragrafi 261-313 di questa opera hegeliana. In questo saggio, Marx critica Hegel per avere dato una visione idealizzata e distorta del rapporto tra stato e società civile, esagerando l'importanza del primo a discapito della seconda. Marx sostiene invece che la società civile è più importante dello stato, perché in essa si svolge il conflitto tra classi. Con le sue parole:

“lo stato politico non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile, che sono la sua conditio sine qua non”

A questa critica si aggiunge quella, ispirata a Feuerbach, basata sull’inversione del rapporto tra soggetto e predicato nella filosofia di Hegel, il che detto più esplicitamente vuol dire che l’individuo reale (il soggetto) scompare nella filosofia hegeliana nella “mistica sostanza” dell’universale (l’oggetto). In soldoni, la critica di Marx a Hegel, e il rovesciamento dell’idealismo nella prassi sono interessanti ma non del tutto originali perché risentono del clima culturale del tempo. Ciononostante, la critica politica della dottrina dello stato di Hegel e la centralità della sfera economico-sociale fanno intravedere sullo sfondo il Marx maturo.

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Negli anni immediatamente precedenti (1842-1843) Marx aveva fatto il giornalista e poi il direttore del giornale di Colonia “Rheinische Zeitung”. Nel complesso, i suoi articoli politici mostrano una posizione liberal-democratica radicale diversa dal comunismo degli anni seguenti che doveva renderlo famoso. I suoi primi articoli di questi anni riguardano in particolare la critica della censura, la libertà di stampa e la natura dello stato. Negli stessi anni, Marx scrive un breve saggio sulla Questione ebraica in cui riprende il tema della non conciliabilità tra stato e società civile, di cui si era occupato nella critica a Hegel. Criticando Bauer, Marx sostiene qui che l’emancipazione umana non può essere solo quella politica intesa come liberazione dalla religione, ma deve tendere invece a liberare l’uomo dalle catene imposte dalla nascita e dall’appartenenza di classe. Per dirla con le sue parole:

“…soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue “forces propres” come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta”

In questo scritto, Marx indulge –lui che proveniva da una famiglia di origine ebraica con due nonni rabbini!- in strani pregiudizi anti-ebraici. Persino i diritti umani sono concepiti da Marx in maniera piuttosto miope come “diritti dell’uomo borghese”. E anche se bisogna riconoscere che quando Marx pensa ai diritti umani li identifica con una libertà astratta solo politica, cui contrappone una libertà sociale davvero autentica e concreta, la critica in quanto tale non è particolarmente apprezzabile.

Inoltre sempre in questa opera viene introdotto il concetto di alienazione, e l’alienazione politica è fatta derivare da quella economica, seguendo una linea di ragionamento destinata a diventare centrale col tempo. Marx si rivela qui forse per la prima volta anti-liberale, come si può vedere dalla sua critica del costituzionalismo e in genere della tutela che il costituzionalismo garantisce dei diritti civili e politici fondamentali. Per Marx, il costituzionalismo si basa su un errore evidente, che consiste nel volere conservare e garantire l’equilibrio economico-sociale esistente piuttosto che sovvertirlo.

Il primo comunismo di Marx e i socialisti utopici: Marx passa gli anni 1843-1845 a Parigi, dove abbraccia progressivamente il comunismo. Il comunismo emerge da una visione critica della democrazia: la colpa della democrazia –per Marx- è quella di separare la sfera politica da quella economico-sociale. Egli ritiene in primo luogo che non si capisce la politica se la si astrae dai

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rapporti economico-sociali. E in secondo luogo che la politica deve servire per risolvere le questioni concrete economico sociali. Marx cita tra le fonti ispiratrici di questa sua tesi i “francesi moderni”, e gli interpreti hanno di solito ritenuto che si tratti in primis di Saint Simon e Proudhon, ma ci sono altri socialisti della prima metà dell’Ottocento il cui lascito intellettuale fa pensare a Marx come Owen, Weitling, Blanqui, Blanc, Cabet. In generale, il socialismo –negli anni della formazione di Marx- aveva una notevole diffusione tra gli intellettuali, e Marx, nel riprenderlo in maniera originale, si vede costretto a confrontarsi con molti di loro. Nella sostanza il socialismo della prima metà dell’Ottocento nasceva dall’incontro tra Rivoluzione francese e Rivoluzione industriale e dalla reazione conservatrice alla modernizzazione economico-sociale. Il suo contenuto precipuo consisteva probabilmente nella tesi secondo cui la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi avrebbe portato alla miseria generale. Per evitarlo, si proponeva una distribuzione egualitaria della ricchezza. Marx riteneva ingenua questa visione cui contrapponeva la sua concezione materialistica della storia, su cui torneremo più avanti. Ma per comprendere l’elemento essenziale della differenza con i socialisti utopici bisogna riflettere sul fatto che Marx non era soltanto un critico dell’economia, era anche e soprattutto un filosofo (post)-hegeliano. Per lui, quindi, la riconciliazione ultima deve avvenire non soltanto nella sfera economica ma anche all’interno della sfera umana. Quindi, la critica dell’economia politica è funzionale al superamento dell’alienazione e pretende di essere una riconciliazione dell’uomo con se stesso. Basta analizzare alcune analogie e differenze tra Marx e i cosiddetti socialisti utopici per rendersene conto. Sicuramente Marx condivide alcuni aspetti rilevanti del socialismo utopico, come: l’inevitabilità storica del socialismo, la distinzione tra produzione (principale) e distribuzione (secondaria), l'importanza del progresso tecnologico per la determinazione dell’ordine sociale, la relativa irrilevanza delle libertà politiche in quanto tali, la soppressione dei mezzi privati di produzione, la eliminazione delle classi, il centralismo statalistico. Ora, normalmente si dice che la differenza principale consista nel fatto che Marx fornisce una teoria critica dell’economia in luogo della generica aspirazione etica dei socialisti utopici per giustificare tutti questi aspetti comuni del socialismo. E in questa tesi c’è sicuramente qualcosa di vero. Il punto è che c’è un’altra fondamentale differenza, figlia questa dell'hegelismo di Marx: Marx vuole tramite il processo economico riscattare il destino dell’uomo. Il fine ultimo del socialismo è così epocale e quasi escatologico: si tratta di riconciliare l’essere umano con una disumanizzazione, dovuta al capitalismo, che lo aliena e lo estranea da se stesso. Tra i socialisti della prima metà dell’Ottocento un rilievo particolare, sia per oggettiva importanza sia nell’ottica di Marx, lo ebbe Joseph Proudhon (1809-1865). Proudhon nutriva un ideale di giustizia sociale chiaramente normativo fondato su principi di giustizia ed eguaglianza. Tra le sue opere, rimane particolarmente famosa quella intitolata Contraddictions Economiques ou

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Philosophie de la Misère (1846) e, e lo rimane ancora di più per la velenosa critica che ne fece Marx nel suo pamphlet Filosofia della Miseria. Con il senno di poi, è facile dire che la critica di Marx –che accusava Proudhon di superficialità filosofica e ignoranza economica- era sostanzialmente ingiusta. Oggi come oggi, gli ideali socialdemocratici di Proudhon e la sua fiducia nei diritti innati dell’uomo alla libertà e all’eguaglianza sembrano assai plausibili, certo di più del comunismo di Marx. Ma bisogna riconoscere che la sua costruzione normativa, la sua volontà di distribuire universalmente la proprietà piuttosto che eliminarla e in genere e i suoi ideali andavano in direzione opposta a quella di Marx.

I Manoscritti e l’alienazione. In una revisione del saggio critico su Hegel, Marx ribadisce come l’hegelismo presenti “una coscienza capovolta del mondo”, mentre per lui è invece il mondo che dovrebbe essere capovolto. Il che vuol dire all’incirca che non bisogna far diventare il mondo un oggetto filosofico ma piuttosto trasformarlo radicalmente. Questo spirito sovversivo conduce a un’adozione più esplicita da parte di Marx del comunismo come orizzonte filosofico-politico. L’adozione dl comunismo è evidente alla lettura dei famosi Manoscritti economico- filosofici del 1844, pubblicati postumi solo nel 1932. I Manoscritti sono quanto resta di un saggio che Marx stava scrivendo sulla critica dell’economia e dei classici dell’economia (Smith, Ricardo, Say, James Mill) in nome di un’analisi filosofica di categorie quali il capitale, il lavoro, la proprietà e così via. Marx, dopo avere sostenuto che la politica deve essere al servizio dei problemi della società civile, per la prima volta identifica questi ultimi con la struttura economica e col modo in cui i beni sono prodotti e distribuiti. In questi stessi appunti, compare il rapporto centrale tra merce e denaro, e di conseguenza la figura del “lavoro alienato”.

Dal punto di vista filosofico, il bersaglio critico di Marx resta qui Hegel. Marx riconosce alla dialettica hegeliana il merito di aver concepito la storia umana come una serie di processi di alienazione e fuoruscita dall’alienazione. Ma al tempo stesso accusa la filosofia di Hegel di identificare l’essenza umana con l’autocoscienza e per conseguenza il lavoro con l’attività dello spirito. In questo senso, per Hegel la disalienazione coincide con un processo spirituale in cui l’oggetto esterno progressivamente finisce per scomparire. Per Marx, invece, il lavoro come contatto attivo con la natura rappresenta la caratteristica essenziale dell’essere umano. Da questo scambio materialistico, contrariamente a quanto pretendeva lo spiritualismo idealistico, dipende la capacità dell’uomo di comprendere se stesso e l’ambiente che lo circonda. Ma il lavoro nella società capitalistica non si presenta se non nella sua forma distorta di lavoro alienato. L’alienazione di cui si parla è evidente nel fatto che, nella società capitalistica, sia l’attività in cui consiste il lavoro sia il

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suo prodotto diventano estranei al lavoratore. Questo accade perché il lavoro e il lavoratore stesso sono diventate merci come le altre.

Nei Manoscritti in generale gioca un ruolo centrale il concetto di “alienazione”. La società moderna capitalista ha turbato la natura della socialità umana. L’essere umano –causa i rapporti di dominio istituiti tramite lo scambio economico- tende in essa a diventare alieno a stesso. Nella società capitalistica, l’alienazione del lavoratore si rivela nel fatto che sia la sua attività sia il prodotto con questa connesso gli diventano estranei fino al punto da essere costretto in qualche modo a vendere se stesso. L’operaio non lavora, nella società capitalistica alienante, per soddisfare un desiderio di lavoro ma per mantenersi in vita. Ma ciò è frutto di dominio di classe e causa di una specie di schiavitù sociale. Nel capitalismo maturo, il capitale entra sempre di più all’interno dei processi produttivi, fino a trasformare l’operaio in una sorta dia appendice del macchinario – immaginate qui la fabbrica come qualcosa che assomigli alla catena di montaggio resa celebre dal film Tempi moderni di Charlie Chaplin-.

Come conseguenza, l’operaio non è più se stesso quando lavora, ma solo quando mangia, beve, dorme, fa l’amore oppure ha figli. Ma, visto che per Marx il lavoro costituisce parte essenziale della nostra essenza e ciò che più distingue l’essere umano dall’animale, l’alienazione nel lavoro diventa anche una sorta di disumanizzazione. In questo modo, gli uomini diventano isolati ed egoisti, estranei gli uni agli altri e incapaci di partecipare a una vera vita di comunità. Destino infame questo che non riguarda solo l’operaio ma anche il capitalista, seppure in maniera diversa. Il capitalista finisce con ridursi al denaro, e concepirsi alla maniera seguente:

“tanto grande è la mia forza quanto grande la forza del denaro…Ciò che io sono e posso non è, dunque, effetto determinato della mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi le più belle donne. …Io sono come individuo storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe…Io sono un uomo malvagio…ma il denaro è onorato…dunque il suo possessore è buono”

In sostanza, Marx crede che l’alienazione renda impossibile una vita attiva di auto-realizzazione. Ciò avviene in primo luogo perché nel capitalismo l’individuo non controlla i processi di produzione e distribuzione dei beni e non si identifica in essi. Si tratta di una fondamentale perdita di autonomia intesa come incapacità radicale di controllare le cause e le conseguenze delle proprie azioni. Il mercato capitalistico aliena l’individuo perché gli fa perdere il senso della comunità e trasforma le persone in mezzi per la soddisfazione di interessi altrui. Solo la rivoluzione comunista, e l’instaurazione del socialismo, consentirà un’inversione di questa tendenza e renderà l’individuo nuovamente autonomo. Proprio per questo, qualsiasi atteggiamento riformistico verso la società

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capitalistica è infruttuoso e solo la rivoluzione seguita dall’instaurazione del socialismo offre una serie fonte di speranza agli sfruttati. Marx non ha qui in mente il comunismo primitivo e utopico, che tende a eliminare tutte le differenze. La semplice abolizione della proprietà privata e il puro egualitarismo non fanno altro che radicalizzare e universalizzare l’alienazione. Al di là di forme rozze e primitive, solo un comunismo più profondo si presenta come la soluzione ideale e reale assieme degli antagonismi e delle contraddizioni che hanno contraddistinto la storia dell’umanità. Ciò avviene certo attraverso la soppressione della proprietà privata e la conseguente abolizione del denaro. Ma anche e soprattutto avviene attraverso la riappropriazione da parte di un essere umano rinnovato e non più egoista della sua vara natura sociale. Da notare come qui, per Marx, il comunismo non si prospetta come un semplice ideale ma piuttosto come il destino dell’umanità dovuto al realizzarsi di un processo storico naturale. Da questo punto di vista, si capisce perché secondo Marx il comunismo sia “il risolto enigma della storia”. In questo senso, la società socialista equivale alla realizzazione dell’essenza umana.

La pubblicazione dei Manoscritti suscitò un vasto dibattito postumo. Molti autori ritennero che, soprattutto per la teoria dell’alienazione, Marx avesse fornito una versione più generale e filosofica della sua teoria, versione destinata a tramontare poi nel Marx maturo e non rintracciabile nella sua opera principale il Capitale. Sono state scritte biblioteche di libri su questa possibilità di distinguere due Marx differenti attraverso il tempo. E’ difficile in generale avere un’opinione precisa su questioni di interpretazione tanto complesse in cui sicuramente gioca un ruolo importante la propria visione personale di Marx e del marxismo, e sarebbe fuori luogo tentare un bilancio del genere in questa sede. Ci si può solo accontentare di ricordare che l’idea –centrale nel superamento dell’alienazione- di “ritorno dell’uomo a se stesso” permane sempre nell’opera di Marx anche se il termine “alienazione” compare meno dopo i Manoscritti e assai raramente nei suoi scritti dopo il 1858. Inoltre va in direzione di una certa continuità tra il primo Marx e il secondo Marx il fatto che l’alienazione per Marx non sia mai legata al lavoro in quanto tale oppure a un’esperienza puramente esistenziale, ma lo sia piuttosto alla deformazione del lavoro nella società capitalistica e alla mercificazione dell’essere umano che ne consegue.

Se considerata nell’ambito dell’opera di Marx nel suo complesso, la questione dell’alienazione costituisce così un aspetto assai rilevante. L’opera complessiva di Marx può essere infatti concepita come divisa in tre parti analiticamente diverse: (i) una teoria etico-politica su ciò che non funziona nel capitalismo, di cui sono elementi essenziali concetti quali alienazione e sfruttamento e come contro-altare una tesi sulla desiderabilità normativa del comunismo; (ii) una teoria sull’inefficienza nel suo insieme del capitalismo basata sulla dinamica dei modi di produzione, da cui dipende la tesi

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sul crollo del capitalismo stesso e la congiunta necessità di una transizione al socialismo: (iii) una teoria sulla maniera in cui tale trasformazione radicale avrà luogo, teoria basata sulla nozione di lotta di classe e che presuppone i due punti precedenti. In questo equilibrio complesso, la teoria dell’alienazione rappresenta sia un concetto etico-politico centrale sia un anello di congiunzione tra i vari aspetti della visione complessiva.

Tesi su Feuerebch e Sacra famiglia. Una sintesi e una conferma della visione tipica dei Manoscritti si può trovare nelle Tesi su Feuerbach (1845). Un testo questo assai noto e citato anche per la forma icastica e diretta con cui Marx -criticando la sinistra hegeliana e in primis Feuerbach- presenta la sua filosofia della prassi. La critica della sinistra hegeliana non coglie il suo bersaglio anche in quelli che sembrano essere a prima vista i suoi momenti più alti, come la critica della religione di Fueerbach. Questo è dovuto a due ragioni fondamentali. La prima consiste nel non sapere distinguere il vecchio materialismo, che qui Marx identifica con la società borghese, con quello nuovo identificato invece con “la società umana, o l’umanità sociale”. La seconda ragione –che mostra fino in fondo l’avversione di Marx per il socialismo utopico- consiste nel confondere il rapporto tra conoscenza e prassi. Per Marx esiste un assoluto primato della prassi che è sempre per sua natura essenzialmente sociale. La filosofia deve contribuire a chiarire ciò una volta per tutte, e come si dice nella celebrata Tesi XI: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarlo”.

In questi stessi anni, Marx incontra Friedrich Engels (agosto 1844), e i due scrivono assieme La Sacra famiglia: critica del criticismo critico (1845), libro che costituisce un vigoroso e aspro attacco ai fratelli Bauer, noti esponenti della sinistra hegeliana. In questo modo, Marx dimostra – cosa confermata da tutta la sua vita scientifica- che non riesce facilmente a liberarsi di un’idea senza prendersela personalmente con l’autore. Il saggio fornisce comunque ulteriore prova del definitivo addio di Marx a temi e problemi cari alla sinistra hegeliana. Di questa Marx e Engels criticano sia l’ingenuità che il radicalismo in nome del comunismo e della ripresa della tradizione settecentesca del materialismo. La novità forse più significativa qui introdotta è costituita dalla centralità del sistema dei bisogni, da cui dipende lo stato e la politica in genere al contrario di quanto ritenevano i Bauer sulla scorta di Hegel.

L’ideologia tedesca e l’ideologia. Il comportamento di Marx a Parigi e soprattutto le sue frequentazioni con gli emigrati tedeschi per ragioni politiche sono malvisti dalla polizia prussiana, cosicché egli è costretto per le pressioni che ne seguono a lasciare la capitale della Francia. Si

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trasferisce a Bruxelles, dove trascorre tre anni nel complesso operosi e fecondi (1845-1848). Nel 1845-46 collabora con Engels alla scrittura de L’ideologia tedesca (1846) –anche questo saggio fu pubblicato postumo, dopo che alcuni frammenti del testo erano andati perduti- forse il primo lavoro in cui il materialismo storico viene alla ribalta in una forma sufficientemente completa. Feuerbach, Stirner e il socialismo ottocentesco costituiscono gli obiettivi critici del saggio che ha il merito indubbio di presentare alcuni concetti chiave della teoria di Marx. Tra questi, un ruolo speciale ha il concetto di “ideologia” che da Marx in poi prenderà un significato del tutto diverso da quello precedente. Tale concetto era stato introdotto dopo la Rivoluzione francese da Destutt de Tracy per indicare un sapere che si occupa del ruolo e della provenienza delle idee e ripreso da Napoleone con un significato denigratorio che tendeva a identificare l’ideologo con un sognatore politico vacuo. Per Marx, invece, ideologia vuol dire falsa coscienza, intesa quest’ultima come un processo intellettuale mistificatorio in cui l’essere umano non comprende quali sono le forze che costituiscono il suo stesso pensiero. L’ideologia marxiana è un sistema di idee che mostra a prima vista un’apparente indipendenza dal contesto ma che, dopo riflessione, si rivela essere conseguenza delle forze reali sociali ed economiche. Il pensiero, per Marx, dipende dall’insieme dei rapporti economico-sociali, come pure da questi dipendono etica, cultura e diritto. Esemplare è da questo punto di vista il modo in cui Marx vede la religione. Per Marx la religione è espressione appunto “ideologica” di relatà materiali e ingiustizie economiche sottostanti. In questo senso, la religione non è la malattia ma solo un sintomo di profondi problemi sociali. Sono gli oppressori che al adoperano per rendere meglio tollerabile l’esperienza dello sfruttamento da parte degli oppressi. Questo spiega perché Marx ritenne la religione una sorta di “oppio delle masse”.

In questo modo, Marx presenta un elemento essenziale della sua concezione materialistica della storia –su cui torneremo più avanti- concezione che costituisce un’evidente rottura con l’idealismo, in quanto nel dire che le idee dipendono dalle condizioni sociali da cui nasce la coscienza si dice anche che non è il pensiero l’attività che contraddistingue l’essere umano ma piuttosto la sua capacità di produrre i mezzi di sussistenza. Va subito aggiunto che la concezione materialistica della storia presenta il fianco a un’immediata obiezione. Come è possibile fare eccezione per la visione teorica di Marx che senza dubbio aspira alla verità, quando marxianamente tutte le teorie sono “ideologie”, e cioè sono una visione distorta che riflette la realtà dei rapporti economici e sociali?

Nella Ideologia tedesca, Marx e Engels ripresentano la teoria dell’alienazione in termini di divisione del lavoro. La divisione del lavoro –in questa ottica- è la fonte della ineguaglianza e contribuisce, con la proprietà privata, a creare una distanza enorme tra interesse individuale e

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interesse collettivo. Nel sostenere questa tesi Marx e Engels enfatizzano la necessità storica del comunismo. Per dirla alla loro maniera:

“Il comunismo non è per noi uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale cui la realtà debba conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.”

Affermazioni del genere sicuramente consentono a Marx un distacco dai socialisti utopici, ma al tempo tesso creano un problema che –nel futuro- farà discutere molto i comunisti: se il comunismo è un evento storicamente necessario, a che vale darsi da fare per contribuire a realizzarlo?

Il Manifesto e la lotta di classe. Nel 1848 Marx e Engels scrivono assieme Il Manifesto del partito comunista, pubblicato più tardi a Londra in tedesco, forse il più riuscito saggio di propaganda politica mai scritto. Nelle edizioni successive il titolo sarà modificato in Manifesto comunista. Il saggio viene redatto per conto della Lega dei comunisti, che da poco aveva assunto questo nome su indicazione degli stessi Marx e Engels, adottando la famosa parola d’ordine “Proletari di tutto il modo unitevi”. Precedentemente la Lega si chiamava invece “Lega dei giusti”, e aveva come motto “tutti gli uomini sono fratelli”. Il saggio enuncia un programma politico generale in forma semplificata (per quanto possibile) e quasi catechistica, del tipo: “ Che cos’è il comunismo? Il comunismo è la dottrina delle condizioni di liberazione del proletariato”.

Il suo inizio è celebre, come può esserlo un brano di una tragedia di Shakespeare o una terzina di Dante:

“Uno spettro si aggira per l’Europa- lo spettro del comunismo.”

Il saggio tratta nell’ordine: (i) i rapporti tra borghesia e proletariato; (ii) la relazione tra comunismo e proletariato; (iii) la differenza tra comunismo scientifico e altre dottrine socialiste. Marx e Engels presentano la lotta di classe come fulcro della critica e motore della storia, come si evince subito dal famoso incipit del primo capitolo:

“La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto tra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta a

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volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta al società o con al rovina comune delle classi in lotta”.

Le classi principali del tempo in cui scrivono Marx e Engels sono la borghesia e il proletariato. Il proletariato, come rappresentante degli oppressi, ha la funzione emancipatrice di realizzare la trasformazione rivoluzionaria della società. Questo ruolo del proletariato interseca la teoria del mutamento storico, per cui il proletariato darebbe la spallata finale a una società, quella capitalistica, già inefficiente e instabile per conto suo per ragioni inerenti al suo modello di sviluppo. Nel sostenere questa tesi, Marx e Engels insistono però sui meriti storici della borghesia, sulle sue capacità rivoluzionarie e innovative. La borghesia è la prima classe della storia che “ha mostrato che cosa possa l’attività umana”. Al contrario delle classi dominanti del passato, la borghesia non è però una classe conservatrice, ma al contrario:

“/la borghesia/ non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali”

Ma la borghesia di Marx, proprio per perché non può fare a meno di “rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione” alla fine produrrà una permanente contraddizione socio-economica, dato che “i rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotti”. Il proletariato, cioè la classe destinata a soppiantare la borghesia troverà forza e unità necessarie alla rivoluzione da queste crisi del capitalismo. In questo modo, la storia tende a ripetersi: come il trionfo della borghesia è stato dovuto all’inadeguatezza delle forme sociali corrispondenti alle forze di produzione sviluppatesi nell’ambito del feudalesimo, così prima o poi qualcosa di simile accadrà alla borghesia e al capitalismo. La forma fenomenica che questo crollo prossimo futuro prenderà all’inizio è quella di una serie di crisi di sovrapproduzione. Come prima reazione a queste crisi, i capitalisti cercheranno di innovare le forze produttive e di conquistare nuovi mercati. Ma possibilità del genere non sono infinite e dopo un po’ i nodi verranno al pettine.

La tesi principale sostiene che solo una rivoluzione violenta può portare al dominio politico del proletariato e quindi alla vera democrazia che finisce per coincidere col comunismo (su questa coincidenza di comunismo e democrazia naturalmente ci sarebbe molto da discutere). Gli operai sfruttati dalla borghesia e alienati in “semplice accessorio alla macchina”, si incaricheranno di dare la spallato finale al regime capitalistico. In questa ottica, il proletariato sempre più impoverito è e resta l’unica classe veramente rivoluzionaria. Ciò spiega perché dal punto di vista politico i suoi interessi si identificano con quelli dei comunisti. Questi ultimi, a loro volta, hanno il privilegio di

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comprendere tale processo nella sua integrità e per questa ragione precedono l’azione rivoluzionaria del proletariato che intendono guidare alla conquista del potere politico.

Marx e Engels, nel corso del saggio, si preoccupano molto di difendere il comunismo dalle accuse più comuni, come quelle che accomunavano alla nascita del comunismo la fine della proprietà privata e la conseguente crisi delle motivazioni produttive, la abolizione dell’individuo e della famiglia, il tramonto della nazione oppure l’impossibilità di professare la propria religione. Marx e Engels articolano un insieme di risposte contro queste accuse, ma tutte queste risposte hanno in comune un argomento unico: il comunismo abolirà solo forme distorte di relazioni umane per fare trionfare la forme non-alienata delle medesime. Tutto ciò presuppone una chiarificazione della natura del socialismo scientifico. Tale chiarificazione avviene qui per differenza specifica: Il socialismo scientifico viene presentato in alternativa al: (i) socialismo cristiano e millenarista; (ii) socialismo piccolo-borghese (quello di Proudhon), accusato di sostanziale incapacità di cambiare al situazione esistente in nome di ideali di eguaglianza sociale; (iii) socialismo utopico (Saint-Simon, Fourier, Owen), visto come non in grado di comprendere la natura classista della rivoluzione comunista.

Non c'è dubbio che la riduzione della spiegazione storica a lotta di classe sia una drammatica semplificazione, perché per fare un solo esempio la lotta tra patrizi e plebei nella Roma repubblicana non è facilmente definibile come lotta di classe proprio nei termini di Marx. Marx infatti ritiene che la classe sia definibile dal punto di vista della posizione dei gruppi rispetto ai modi in cui si produce ricchezza, mentre invece ci sono tanti conflitti significativi nella storia che dipendono da differenze etniche, culturali, religiose, di status e così via. Ciononostante, il piccolo libro di Marx e Engels congiunge in maniera mirabile analisi e prescrizione in un misto di consapevolezza e fede che è difficile trovare altrove in documenti di questo tipo. Siamo in somma al cospetto di un coktail di utopia e materialismo storico che ha suscitato passioni incredibili e talvolta assai pericolose in milioni di lettori.

Dopo il 1848. Quasi contemporaneamente alla scrittura del Manifesto scoppia la rivoluzione del 1848 a Parigi, i cui echi arrivano subito in tutta Europa. Marx si precipita a Parigi, ma dopo poco torna a Colonia per riprendere le pubblicazioni del suo giornale, questa volta col nome di “Neue Rheinische Zeitung”, che durerà poco più di un anno con 300 numeri pubblicati. L’espulsione dalla Germania è la conseguenza diretta di questa attività. Dall’agosto del 1849 alla morte, Marx vive a Londra, con l’eccezione di brevi viaggi all’estero. Gli articoli pubblicati qui nel 1850 nella

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rinnovata “Neue Rheinische Zeitung” sono in gran numero dedicati alla vita politica in Francia. Alcuni di loro sono poi pubblicati, da Engels nel 1859, sotto il titolo La lotta di classe in Francia, e altri sotto quello di Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte che –come abbiamo ricordato- fu uno dei pochi lavori di Marx pubblicati in vita. Il diciotto Brumaio insieme agli articoli scritti sulla politica inglese fornisce un quadro interessante del modo in cui Marx comprendeva la politica del suo tempo alla luce delle sue tesi sulla lotta di classe. E’ anche interessante la maniera in cui Marx legge il bonapartismo, come esemplare di dittatura cui la borghesia è costretta a ricorrere una volta che non sia più sicura del proprio dominio di classe.

3. Materialismo dialettico e critica dell’economia. Gli anni 1850-1878 sono anni di studio quanto mai intenso. Marx ottiene il permesso di leggere nella Reading Room della British Library a Londra –nel British Museum ancora oggi si può andare a vedere una ricostruzione del posto dove lavorava -cominciando lo studio sistematico dell’economia politica che poi sfocerà ne Il Capitale, l’opera sua più importante. In questo stesso periodo, Marx svolge anche un intenso lavoro da pubblicista, e scrive tra l’altro un breve saggio sull’imperialismo britannico in India. Pochi tra coloro che non ne sono al corrente crederebbero che Marx si rivela qui estremamente filo-occidentale e favorevole all’occupazione britannica dell’India per i suoi effetti positivi a lungo termine [traendo ispirazione dai lavori di James e John Stuart Mill]. Dell’enorme lavoro critico di questi anni solo poco vide la luce quando Marx era ancora in vita, sarebbe a dire la Critica dell’economia politica e il primo libro de Il Capitale. La pubblicazione del resto avverrà tra il 1884 e la fine del secolo ventesimo, in modi e forme che è difficile mettere in ordine in maniera sistematica. Nel 1857-1858 sono redatti i Lineamenti di una critica dell’economia politica (spesso citati come i “Grundrisse” dalla prima parola in tedesco), più di 1000 pagine a stampa di appunti, pubblicati a Mosca nel 1939-41 ma non disponibili agli studiosi occidentali fino al 1953. Si tratta di un lavoro che presenta in maniera interessante e profonda il modo in cu Marx vedeva la filosofia e la storia dell’economia. Nei Grundrisse si trova la spiegazione di alcuni concetti principali: come il denaro dipenda da uno specifico modo di concepire la merce, e come il capitale si sviluppi dal danaro. Sono introdotte qui anche categorie fondamentali del pensiero filosofico-economico di Marx, quali quelli di forza-lavoro e plusvalore. Tutti questi concetti verranno poi sviluppati e perfezionati ne Il Capitale, ma trovano qui la prima esposizione sistematica.

Nell’agosto del 1858, Marx interrompe il lavoro sui Grundrisse, e scrive la prima versione di quella che doveva essere una introduzione generale al suo pensiero economico col titolo Per la critica

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dell’economia politica. Riesce però a completare solo due capitoli, sia pure importanti, quelli sulla merce e il denaro.

Il Capitale (primo volume 1867, secondo volume 1865-1878, terzo volume 1864-1875) è assieme il libro più tecnico e difficile di Marx, causa anche la complessità dell’analisi economica, ma anche forse l’unico che permette di congiungere compiutamente l’analisi economica con l’aspirazione più filosofica di stampo hegeliano di cui si è detto. Scopo di questo libro consiste nello spiegare il funzionamento, i difetti e le prospettive dell’economia capitalistica. Rispetto al Manifesto, la Critica e i Grundrisse non c’è poi tanto di nuovo se non nella maggiore analiticità dell’argomentazione e nella maggiore completezza del contenuto (che comunque non è poco…). Dal punto di vista della introduzione dei concetti, forse la maggiore novità la si trova nell’analisi del lavoro e nei suoi rapporti con le altre categorie fondamentali del pensiero marxiano. Un’analisi appropriata de Il capitale–data la mole e la complessità dell’opera- sarebbe impossibile in questa sede. Si può però a questo punto notare come la presunta scissione tra due Marx, l’uno giovane teorico dell’alienazione dei Manoscritti del 1844, e l’altro l’autore “scientifico” de Il capitale sia stata esagerata. Marx non smise mai di concepire l’economia come parte integrante di una più larga visione dell’uomo, e la teoria economica presentata ne Il Capitale è sicuramente funzionale al riscatto dell’uomo alienato tramite la rivoluzione comunista.

Teoria del valore. L’aspetto più noto e più importante della visione economica di Marx è costituito dalla sua teoria del valore. Questa teoria è basata sulla teoria del valore-lavoro, che Marx stesso riprende dai classici dell’economia politica come Adam Smith e David Ricardo, anche se le sue origini possono essere fatte risalire alla concezione della proprietà di John Locke e persino ad Aristotele. Per Locke, il lavoro umano assicura un titolo di proprietà sui beni che il lavoro stesso trasforma. Secondo la teoria classica del valore-lavoro il valore dipende dalla quantità di lavoro incorporato nelle merci: un bene deve avere un prezzo che dipende dal tempo medio che occorre per produrlo. La teoria del valore di Marx rispetta questo principio ma possiede una sua indubbia originalità. Per cercare di comprenderla, si può partire dalla visione generale della società e della storia che Marx aveva sullo sfondo della sua teoria del valore.

In primo luogo, Marx –come abbiamo visto- concepisce la società come divisa in classi. Nelle società classiste il surplus dell’economia, cioè il valore aggiunto che il sistema economico assicura, corrisponde a lavoro non pagato. Questo surplus viene appropriato da una classe a spese delle altre in virtù della propria posizione sociale. Qualcosa del genere è evidente per esempio in una società

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schiavistica dove il lavoro non pagato delle classi subalterne è lavoro forzato. All’interno di una società capitalistica, però, il lavoro forzato non è esiste mentre sussiste lo sfruttamento di una classe, quella dei capitalisti, su di un’altra, quella dei lavoratori. Uno dei compiti principali che Marx assegna a se stesso sta nel portare alla luce questo tipo di sfruttamento più oscuro e sottile. Mentre in una società schiavistica chiunque guardi con attenzione a ciò che accade può notare lo sfruttamento, ciò non avviene nella società capitalistica dove apparentemente nessuno è costretto a fare quel che fa e lo sceglie liberamente. Si può dire che la filosofia del Marx maturo sia destinata a rivelare come la proprietà dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti sia all’origine dello sfruttamento e come le due classi sociali principali, capitalisti e operai, abbiano interessi sistematicamente in conflitto.In questa ottica, la teoria del valore assume funzioni diverse da quelle che aveva per i grandi predecessori di Marx come Smith e Ricardo. Questa teoria, infatti, non serve più a determinare i meccanismi della distribuzione dei beni ma piuttosto a verificare le cause dello sfruttamento della classe operaia (se cui v. più avanti).

In secondo luogo, Marx si distingue dai classici dell’economia non solo per la centralità dello sfruttamento nell’ambito della sua visione della società divisa in classi ma anche per la sua visione della storia. I classici dell’economia –come Smith e Ricardo- tendono a presentare le leggi dell’economia come universali e atemporali. Per Marx, invece, il sistema economico non può essere-storico, naturale ed eterno. Tale sistema dipende,piuttosto da come la società capitalistica si è venuta configurando in un periodo specifico dello sviluppo storico dell’umanità. Il capitalismo è per Marx un sistema economico storico e transitorio, caratterizzato dalla società di classe e dalla separazione dei mezzi di produzione dai lavoratori. In tale ottica il valore non è più una proprietà "naturale", ma dipende dalle determinazioni storiche di tale modo di produzione.

Su questo sfondo generale, poggia la teoria del valore-lavoro di Marx. La teoria ha due scopi fondamentali: (i) dimostrare che in una società capitalistica tutto il valore aggiunto nella produzione è lavoro sociale; (ii) sostenere che in questo tipo di società il surplus, cioè il valore aggiunto, dipende da sfruttamento.

Il primo scopo si raggiunge partendo da una distinzione tra “valore d’uso” di una merce (quello a cui serve) e “valore di scambio” (il prezzo) di una merce. I prodotti del lavoro umano assumono così un duplice valore. Un prodotto del lavoro umano incorpora valore d’uso in quanto presenta alcune caratteristiche in grado di soddisfare determinati bisogni umani. Al tempo stesso, però, esso –nei processi di scambio- assume un astratto valore di scambio, presentandosi come una sorta di cristallizazione del lavoro umano, concepito come omogeneo, in maniera del tutto indipendente

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dalle caratteristiche specifiche che contraddistinguono il prodotto stesso. Su questa base, Marx può descrivere il sistema capitalistico nel suo complesso come un sistema teso alla continua e illimitata crescita del valore di scambio.

Attraverso il valore di scambio i prodotti del lavoro sono paragonabili tra loro quantitativamente. Questo confronto avviene comparando il tempo di lavoro che è condensato nei vari prodotti. Lo scambio è possibile in quanto tutti gli oggetti sono riducibili a una grandezza omogenea, il tempo di lavoro. Da notare qui che il tempo di lavoro in questione non è per Marx il tempo di lavoro realmente impiegato per produrre un oggetto. Si tratta invece del tempo di lavoro “socialmente necessario”, ossia all’incirca del tempo medio che occorre produrre un certo oggetto in una determinata condizione storica alla presenza di specifiche tecnologie e capacità umane. Quindi, il lavoro possiede un duplice carattere. Può essere infatti visto come:

lavoro concreto, volto a produrre questo o quel valore d’uso;

 oppure come

lavoro astratto, pura estrinsecazione di lavoro umano, che prescinde dalle qualità specifiche e la cui quantità determina il valore creato.

Naturalmente, essere portatore di un valore d’uso è condizione necessaria per possedere un valore di scambio. Per essere scambiabili tra loro, i prodotti del lavoro devono soddisfare alcuni bisogni. Solo in questo caso, i prodotti possono diventare “merce” con il termine adoperato da Marx e in questo modo assumere un valore di scambio. Ma al tempo stesso è attraverso lo scambio che un oggetto diventa “merce”. In questa ottica, il valore di scambio non è affatto una caratteristica naturale della merce ma una conseguenza del fatto che la merce stessa è inserita in un processo sociale di circolazione e scambio di beni. La forma-merce degli oggetti dipende così dal legame sociale tra persone che scambiano tra loro in quanto proprietari e individui dotati di bisogni in modo che “l’uno si appropria della merce altrui, alienando la propria, solo con il consenso dell’altro”. Il valore, nell’ambito di questa visione, non è dato da una o più caratteristiche di una cosa ma piuttosto dal lavoro umano. Il dispendio di forza-lavoro in forma astratta e omogenea crea il valore di scambio, in forma differenziata e specifica il valore d’uso. Quando abbiamo in mente il valore di scambio, in sostanza, non ci interessano le abilità di un calzolaio o di un tecnico di computer ma il dispendio medio di forza lavoro incorporato nel prodotto.

Le merci sono confrontabili tra loro in virtù del valore di scambio che possiedono. Se si assume che lo scambio in quanto tale è basato su un confronto, allora qualsiasi merce potrebbe fungere da misura per tutte le altre. Il denaro vero e proprio, come misura generale del valore, presuppone

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dunque la capacità delle merci di essere scambiate in base al loro valore cioè lavoro astratto occorrente per produrle. L’apparizione del denaro crea accanto al valore il prezzo, ossia la misura universale attraverso cui vengono di solito scambiate le merci. Nel trasformarsi del valore in prezzo, le merci rendono esplicito il loro rapporto quantitativo reciproco e rivelano una immanente contraddizione tra il valore stesso e la sua realizzazione nel sistema de prezzi. Questa contraddizione risulta importante anche perché essa permette di scorgere una contraddizione più fondamentale tra produzione e mercato capitalistico.

Ora, di certo la teoria del valore-lavoro fa appello a una nozione piuttosto intuitiva: dopotutto nessuno di noi scambierebbe volentieri qualcosa che è costato molto tempo produrre con qualcos’altro per cui ne occorre molto meno. Inoltre, la teoria del valore-lavoro offre una certa semplificazione concettuale escludendo l’influenza della domanda nella determinazione del valore e del prezzo di una merce evitando in questo modo complessi calcoli formali. A ben guardare, però, la semplificazione comporta notevoli costi concettuali. E ciò perlomeno per due motivi. In primo luogo non è possibile ridurre tutte le diverse forme di lavoro a unità come pure vorrebbe l’idea di lavoro astratto. L’idea centrale di un tempo di lavoro medio e standardizzato non funziona sempre, e per diverse ragioni. Per esempio, ci possono essere lavori che richiedono particolare addestramento oppure persone con capacità speciali che impiegano assai meno di altre a fare qualcosa (avete mai avuto un compagno di classe assai bravo in matematica?), o ancora ci sono lavori particolarmente spiacevoli e così via. In questi casi, l’idea di un tempo di lavoro medio non aiuta, e per determinare prezzi e valori bisogna riprendere la teoria della domanda e dell’offerta. In secondo luogo, non è semplice capire come alla luce di questa teoria sia possibile misurare effettivamente il valore di una merce in unità di tempo-lavoro necessario dato che il valore di una merce dipende non solo dal tempo impiegato a produrla ma anche dagli strumenti a disposizione (il capitale fisso nel linguaggio di Marx). Da notare che il capitale, per Marx, può essere fisso o variabile. Il capitale fisso è dato dall’insieme di macchinari e strutture, mentre quello variabile dal lavoro umano. Nel tempo, il capitalismo opera in maniera che ci sia una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante, che Marx fa corrispondere a un aumento della composizione organica del capitale complessivo.

In sostanza, ciò che emerge da queste difficolttà è che non è possibile derivare dalla teoria del valore di Marx il prezzo delle merci. Per cui, anche nell’analisi economica marxiana i prezzi devono essere presupposti. Ma questo fatto in quanto tale rende l’idea di una valore “reale” delle merci piuttosto frivola se non addirittura un’entità metafisica (come contrapposta a scientifica). In sostanza, al teoria del valore-lavoro di Marx non sembra applicabile all’analisi empirica dei

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fenomeni economici, e questo spiega non poco la sfiducia degli economisti professionali nei suoi confronti..

La merce. La merce è –per Marx- la cellula elementare della società capitalistica, il punto da cui partire per capirla e l’oggetto la cui accumulazione da luogo al capitale. Il concetto marxiano di merce non è affatto intuitivo: merce non è un oggetto che vediamo in una vetrina e magari ci attira, piuttosto è un oggetto la cui natura profonda è determinata, in una società capitalistica, dai rapporti sociali di produzione.

"Una merce è …una cosa misteriosa, semplicemente perché in essa il carattere sociale del lavoro umano vi appare come un carattere oggettivo impresso sul prodotto di quel lavoro; la relazione tra i produttori alla somma totale del loro stesso lavoro viene a essi presentata come una relazione sociale, che però non sussiste tra loro ma tra i prodotti del loro lavoro. Questa è la ragione per cui i prodotti del lavoro diventano merci, oggetti sociali le cui qualità sono allo stesso tempo percettibili e impercettibili…l’esistenza di cose come merci, e la relazione di valore tra i prodotti del lavoro the li determina come merci non hanno alcuna connessione con le loro proprietà fisiche…C’è piuttosto una definita relazione sociale tra loro, che assume, ai loro occhi la forma fantastica di una relazione tra cose. In questo consiste ciò che io chiamo feticismo… - Marx, Capitale Vol. 1, cap 1 par 4

Da questa visione discende che le merci in quanto tali non hanno un valore. E’ “feticismo”, dice Marx, ritenere che le merci in quanto tali abbiano un valore. Il feticismo comporta una mistificazione delle relazioni umane –dovuta al prevalere del mercato capitalistico- all’interno della quale le relazioni tra persone sono trasformate in relazioni oggettivate tra cose. Il valore delle merci dipende dallo scambio di beni da cui, in una società capitalistica, dipende a sua volta il soddisfacimento dei nostri bisogni. Ma uno scambio per essere sensato presuppone un modo per misurare il valore di una merce rispetto all’altra. Per scambiare le merci tra loro occorre che esse abbiano qualche proprietà che le renda reciprocamente paragonabili nonostante le ovvie differenze qualitative tra loro. Questa misura, cioè la ragione di scambio delle merci tra loro, è costituita dal valore del lavoro socialmente necessario incorporato in esse. Da questo punto di vista, il danaro misura il valore delle merci, ma il valore di una merce sta al valore di ogni altra merce in

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proporzione al tempo di lavoro necessario a produrle. In questo modo, la merce unisce valore d’uso e valore di scambio, è in qualche modo sia merce sia danaro. E il danaro serve solo come mezzo di circolazione. Ciò da luogo al ciclo merce-danaro-merce (m-d-m), per cui la merce passa da una persona all’altra attraverso la sua mediazione sociale costituita dalla trasformazione in danaro. Il danaro tuttavia è anche la base della formazione del capitale –basta pensare a una banca per capirlo!- e quindi il ciclo della merce trova un corrispettivo nel ciclo denaro-merce-denaro (d-m-d) che è il ciclo dell’accumulazione, dove per accumulazione si intende il processo che conduce a una produzione-riproduzione più allargata del capitale.

Plusvalore. La forza-lavoro è l’unica fonte del profitto capitalistico. Quest’ultimo dipende dal “plus-valore”, costituito a sua volta dalla forza-lavoro non pagata dal capitalista all’operaio. La genesi del concetto di plusvalore dipende da un’esigenza implicita in ogni teoria del valore-lavoro. In una teoria del genere lo scambio, che avviene tra “equivalenti”, non può generare profitto. Resta la necessità di spiegare il profitto. Questo dipende –nell’ottica di Marx- dalla capacità del capitalista di reperire una merce “il cui valore d’uso stesso possieda la peculiare qualità di essere fonte di valore”. In questo modo, si otterrebbe che consumando tale merce si creerebbe anche valore. Questa merce esiste ed è una sola, la forza-lavoro. Dato che, nella teoria del valore-lavoro, il valore è lavoro incorporato (come si è visto), allora la forza-lavoro deve essere l’unica merce capace di produrre valore. Il plusvalore nasce dal fatto che il capitalista –date le speciali condizioni della società in cui opera- può acquistare la forza-lavoro come qualsiasi altra merce sul mercato, sarebbe a dire al prezzo corrispondente al tempo di lavoro necessario a (ri)-produrla. Questo per Marx è equivalente all’insieme dei mezzi di sussistenza che la classe dei lavoratori, cioè quanti possiedono la forza-lavoro consuma e utilizza. Il plusvalore dipende dal fatto che il valore di un prodotto è dato dal tempo di lavoro necessario a produrlo, e questo è di regola maggiore di quanto i lavoratori non adoperino per ri-prodursi. Una giornata di lavoro di un operaio rende così di più di quanto l’operaio non consumi a livello di sussistenza e costi al capitalista. Da questo differenziale dipende il plusvalore e quindi il profitto del capitalista.

Sfruttamento. Il plusvalore –cioè lavoro dell’operaio non pagato dal capitalista- è la ragione per cui possiamo parlare di sfruttamento. La teoria del valore-lavoro di Marx ha così come suo corollario una teoria dello sfruttamento che rappresenta una delle parti più interessanti e controverse della sua costruzione generale. Quella di sfruttamento è infatti una nozione ambigua. Da un lato, riprende una lunga tradizione etica che poggia sull’ingiustizia di un mondo diviso tra ricchi e poveri, abbienti e non-abbienti. Dall’altro, dipende dal tentativo di Marx di sostituire il discorso etico e giuridico con una spiegazione che indichi le cause economico-sociali dello sfruttamento piuttosto che le reazioni

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