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Il coaching: come liberare il potenziale per massimizzare la crescita. Percorso personale e possibile applicazione al mondo del calcio.

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Academic year: 2021

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1 UNIVERSITÀ DI PISA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN COMUNICAZIONE D’IMPRESA

E POLITICA DELLE RISORSE UMANE (LM 59)

TESI DI LAUREA IN

ORGANIZZAZIONE AZIENDALE

IL COACHING: COME LIBERARE IL POTENZIALE

PER MASSIMIZZARE LA CRESCITA.

PERCORSO PERSONALE

E POSSIBILE APPLICAZIONE AL MONDO DEL CALCIO.

CANDIDATO: DOCENTE RELATORE: Alessandro Marone Prof. Marco Giannini

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INDICE

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO 1

Alla scoperta del coaching

1. Cos’è il coaching 8

2. Le origini del coaching 8

3. La potenza del coaching 10

4. Le diverse tipologie di coaching 12

5. La metafora della bicicletta 13

6. Chi è il coach 14

7. Le competenze del coach 15

7.1 Dare feedback 16

8. Consapevolezza e responsabilità 18

9. Le domande potenti 20

10. Il modello GROW 22

10.1 Caratteristiche di un buon obiettivo 23

10.2 Le presupposizioni negative 26

10.3 L’esercizio dei nove puntini 26

11. I benefici del coaching 28

CAPITOLO 2

Il mio percorso di coaching

1. Come mi sono avvicinato al coaching 29

2. Il Master CIBA e il focus sulla persona 31

3. La situazione di partenza 32

4. Le convinzioni depotenzianti 33

5. Il cambiamento come opportunità 34

6. Togliere le zavorre per puntare all’autorealizzazione 35

7. La “cassetta degli strumenti” del coach: scrivere per chiarire 36

7.1 L’atteggiamento del coach 37

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9. Cosa fare da grande? 40

10. I benefici del coaching 41

CAPITOLO 3

Il coaching e il calcio

1. Il gioco interiore 44 2. Le interviste 46 - Christian Amoroso 48 - Mirco Antenucci 51 - Alessandro Birindelli 54 - Francesco Caputo 57 - Alessandro Grandoni 60 - Carlalberto Ludi 64 - Enrico Magnozzi 68 - Francesco Marianini 71 - Giacomo Mitrotti 74 - Marco Nappi 77 - Alessandro Pierini 80 - Attilio Tesser 83 - Giovanni Vaglini 86 - Paolo Vajani 91

3. Analisi delle interviste 94

CONCLUSIONI 103

BIBLIOGRAFIA 106

ABSTRACT 107

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5

INTRODUZIONE

Se dovessi descrivere con un aggettivo il mio incontro con il coaching, userei il termine “illuminante”. Più che di un incontro, si è trattato di una vera e propria folgorazione: questa metodologia ha subito suscitato il mio interesse, la mia curiosità e il suo impatto sulla mia persona è stato travolgente.

Ho attribuito alla tesi un forte valore simbolico: questo lavoro va a chiudere un ciclo, un percorso universitario durato tanti (forse troppi…) anni e la scelta dell’argomento è stata rapida, un qualcosa di naturale: ho semplicemente ascoltato il cuore.

Questa tesi nasce da una sinergia: l’illuminante incontro con il coaching e la mia passione per il mondo del calcio.

John Whitmore, il padre del coaching, lo definisce “un modo di pensare e quindi anche

un modo di essere” e sostiene che fare coaching voglia dire “liberare il potenziale delle persone per massimizzare la crescita”. Il coach vede le persone in termini di

potenziale (anche nascosto), non di prestazioni e supporta la persona nel proprio percorso di crescita (sia in ambito personale, che professionale o sportivo). Il coach è uno “strumento” che instaura col coachee un rapporto di grande fiducia e lo supporta nell’individuazione e nel raggiungimento dei propri obiettivi, un “ponte” che accompagna il coachee da una situazione di partenza alla destinazione finale.

Ma, attenzione, il coach non insegna, non dà consigli e non fornisce soluzioni. E, soprattutto, il coach non è responsabile dei risultati raggiunti, ma solo del percorso: la palla passa al coachee e determinante è la sua volontà di raggiungere l’obiettivo, il “sogno”.

Il primo capitolo è un viaggio nel mondo del coaching, descrivendo in cosa consiste, le sue origini e in che modo il coach lavora sull’essenza della persona, aiutandola ad acquisire consapevolezza dei propri talenti (“conosci te stesso”) e tirar fuori il massimo del proprio potenziale.

Mi soffermo, inoltre, sulla figura del coach e sugli strumenti a cui fa ricorso durante le sessioni.

Dopo aver descritto in cosa consiste il coaching, il viaggio prosegue con la mia esperienza diretta, il mio percorso. Perché questa scelta di dare un forte tocco personale

(6)

6 alla tesi? Prima di iniziare il ciclo di sessioni, mi sono reso conto che, sebbene volessi svolgere la tesi su questo argomento, in pratica avevo una conoscenza di tipo teorico, limitata a quanto avevo letto su alcuni libri. Credo che per fare coaching, oltre al desiderio di migliorarsi e raggiungere degli obiettivi, sia importante anche mettersi in gioco. Vivere il coaching in prima persona mi ha sicuramente aiutato nel comprendere con maggior chiarezza in cosa consista questa metodologia, come se avessi tradotto la teoria in pratica.

Travolgente, coinvolgente, il coaching ha avuto un effetto rinvigorente su di me e mi ha cambiato. D’altronde “nulla è permanente tranne il cambiamento”, come sosteneva Eraclito; e anche noi, unici e straordinari nella nostra unicità, siamo in costante cambiamento, sia per scelte proprie e consapevoli, sia per eventi esterni sui quali non abbiamo il pieno controllo. L’importante è mantenere la consapevolezza di se stessi, dei propri valori e dei propri obiettivi: in questo modo, a seconda del nostro atteggiamento nei confronti del cambiamento, quest’ultimo potrebbe rivelarsi un’opportunità, una sfida, un’occasione di crescita.

Molti sono stati i vantaggi che ho tratto da questa metodologia, ma svelo una curiosità riguardante il mio percorso di coaching: se leggete queste righe, vuol dire che l’obiettivo (ogni sessione di coaching ha un obiettivo; c’è, poi, l’obiettivo di fine percorso, la destinazione) è stato raggiunto... Questo è un elemento tangibile. Quello che non si vede è il modo in cui ho affrontato la scrittura della tesi, il mio atteggiamento (difficile immaginarlo, fino a pochi mesi prima...), la soddisfazione di raggiungere un traguardo con la consapevolezza della propria forza e assumendosi la responsabilità del risultato. Non c’è stato un solo attimo in cui abbia pensato “non ce la farò” oppure abbia anche solo dubitato sul fatto che potessi raggiungere l’obiettivo. Una delle (tante) frasi di John Whitmore che mi ha colpito e che ho cercato di fare propria è questa:

“Quelli che vogliono vincere vincono, quelli che hanno paura di perdere perdono: tendiamo a conseguire ciò su cui ci concentriamo. Se temiamo di fallire, vuol dire che siamo concentrati sul fallimento, ed è proprio quello a cui andremo incontro”1.

1 J.Whitmore, Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e

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7 Un concetto simile a quello espresso dalla frase del libro L’Alchimista, di Paulo Coelho: “soltanto una cosa rende impossibile un sogno, la paura di fallire”2.

Sono sincero: senza il percorso personale di coaching non sono sicuro che avrei raggiunto il traguardo. Grazie al coaching ho risvegliato un potenziale che sembrava latente, ho risvegliato la fiducia in me stesso, la forza, la motivazione, la volontà e la determinazione che sembravano sopiti. Ecco perché ho usato l’aggettivo “illuminante” in precedenza: il coaching ha fatto sì che la mia luce, che sembrava offuscata, tornasse a splendere.

Il viaggio si conclude con il binomio coaching-calcio. Cosa conoscono e cosa pensano allenatori e giocatori di questa metodologia? Sono d’accordo con la formula di Gallwey riguardo alla performance? In che modo il coaching potrebbe essere uno strumento utile per migliorare le performance? La parte delle interviste è stata molto interessante e, allo stesso tempo, emozionante, piacevole e divertente. Avere l’opportunità di contattare e chiacchierare anche con personaggi che da ragazzino vedevo in tv (o sulle figurine dell’album Panini) è stato stimolante: l’analisi delle loro risposte e dei loro contributi mi ha consentito di fare una piccola fotografia sulla possibile applicazione del coaching al mondo del calcio.

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CAPITOLO 1

Alla scoperta del coaching

1. Cos’è il coaching.

La Federazione Internazionale Coach (ICF) definisce il coaching come un “rapporto

di partnership che si stabilisce tra coach e cliente con lo scopo di aiutare quest’ultimo ad ottenere risultati ottimali in ambito sia lavorativo che personale. Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita”.

Detto in altri termini, il coach instaura col cliente (definito coachee) un rapporto di collaborazione e lo supporta nel suo percorso di crescita e nel perseguimento dei propri obiettivi. Il coach lavora affinché il coachee focalizzi i propri obiettivi, individui i propri desideri e trovi gli strumenti e le opzioni più adatte per passare all’azione e realizzarli. Il coach ti aiuta a prendere consapevolezza della realtà che ti circonda, della situazione attuale, ti chiede dove vuoi arrivare e ti “butta” nel sogno. Attenzione: il coach è responsabile solo del percorso, non del risultato.

Ma allora in che modo il coach supporta le persone nel loro percorso di crescita personale e le aiuta nel perseguimento dei propri obiettivi? Chi è il coach? Andiamo con ordine e addentriamoci con curiosità alla scoperta del coaching.

2. Le origini del coaching.

Dal punto di vista etimologico, il termine coaching deriva da “Kocs”, un piccolo villaggio ungherese che nel XV secolo era noto per la produzione di carrozze di qualità (dette in ungherese kocsi, in inglese coach). Come una carrozza è un mezzo per

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9 raggiungere più rapidamente una destinazione, così il coach è uno strumento a cui il coachee si rivolge per accelerare il raggiungimento di una meta, di un obbiettivo. Il coach affianca il coachee durante il percorso, lo accompagna a prendere consapevolezza delle proprie risorse, a tirar fuori il meglio di sé e a superare le barriere e le interferenze che gli impediscono di esprimere la miglior performance.

Le origini del coaching risalgono alla filosofia antica: possiamo considerare Socrate come l’antesignano, l’ispiratore di questa metodologia. Socrate è il padre fondatore della maieutica (l’arte della levatrice): attraverso il dialogo e le domande, il filosofo aiutava gli interlocutori a tirar fuori i propri pensieri. Socrate non inculcava idee, ma aiutava gli allievi a partorire le loro verità e a trovare dentro di loro le risposte che stavano cercando. La maieutica socratica non è l’arte di insegnare, ma di aiutare ad imparare. “Conosci te stesso”3 è il celebre motto che il filosofo greco fece proprio: allo stesso modo il coach non dà consigli al coachee, ma lo aiuta a prendere consapevolezza delle sue potenzialità e della sua unicità e a trovare le risposte alle sue domande in maniera autonoma.

Intorno alla metà del XIX secolo il termine coach è stato accostato alla figura dei tutor dell’università di Oxford, molto abili nel motivare gli studenti al conseguimento di risultati brillanti. Negli Stati Uniti le origini risalgono al mondo dello sport, con il coach (allenatore) che è alla guida di una squadra e deve far emergere le potenzialità di ciascun giocatore. Agli inizi del XX secolo il coaching ha iniziato a prender piede anche nel mondo aziendale, con l’abitudine, in alcune importanti imprese americane, dell’opera di addestramento e affiancamento dei senior manager nei confronti delle nuove leve e l’inserimento della metodologia del coaching nei programmi di leadership delle università. Ma è negli anni 70’ del Novecento che il coaching “esplode” grazie alla pubblicazione del libro “The Inner Game of Tennis” (Il Gioco Interiore nel Tennis) da parte di Timothy Gallwey, ritenuto, assieme a John Whitmore, il padre fondatore del coaching. Gallwey, professore universitario ed ex giocatore ed istruttore di tennis, rivoluziona le metodologie di allenamento sportivo. Egli sostiene

3 L’espressione era scritta a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo a

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10 che “l’avversario che si nasconde nella nostra mente è molto più forte di quello che

troviamo dall’altra parte della rete”.

L’approccio di Gallwey riprende il metodo socratico e può essere sintetizzato nella formula:

Performance = Potenziale – Interferenze.

Il focus è sulla persona, sulla sua capacità di apprendimento, di sviluppare fiducia nelle proprie risorse e riconoscere ed eliminare gli ostacoli interni che influiscono negativamente sulla prestazione. Whitmore rimase affascinato dal libro di Gallwey, che aveva colto l’essenza del coaching: “liberare il potenziale delle persone per

massimizzare le loro prestazioni. Più che di insegnare loro qualcosa, si tratta di aiutarle ad imparare”4. I due hanno collaborato, contribuendo a far sì che il metodo

del coaching venisse esportato dal mondo sportivo a quello aziendale e personale. Nel 1992 Whitmore ha pubblicato “Coaching”, che è diventato il libro per eccellenza sul coaching.

3. La potenza del coaching.

John Whitmore, uno degli ideatori del coaching, lo definisce “non una tecnica, ma un

modo di guidare e di gestire le persone, un modo di pensare e quindi anche un modo di essere”5. Negli anni in cui Gallwey pubblicava “The Inner Game of Tennis” si stava

facendo largo un nuovo modello di psicologia diverso e più ottimistico rispetto a quello comportamentista: l’uomo non è un recipiente pressoché vuoto da riempire, ma

4 J.Whitmore, Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e

nella vita di tutti i giorni, Roberti Editore, Urgnano (BG), 2016, pag. 23.

5 J.Whitmore, Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e

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11 racchiude al proprio interno il potenziale. L’uomo è simile ad una ghianda ed ha al suo interno l’essenza di una meravigliosa quercia: per crescere gli occorrono nutrimento, luce e incoraggiamento.

Il coaching è un viaggio, un percorso da una destinazione iniziale all’autorealizzazione. Si tratta di un approccio coinvolgente e travolgente: il focus è incentrato sulla persona, sulla sua autenticità ed unicità. Il coaching è una metodologia che aiuta le persone (coachee) a scoprire ed allenare le proprie potenzialità, ad individuare i propri obiettivi e traguardi e le azioni necessarie per raggiungerli.

“Il coaching è liberare il potenziale di una persona per massimizzarne la crescita”

John Whitmore

Così si esprimeva John Whitmore riguardo al coaching. Esso opera affinché l’individuo riesca a tirar fuori il meglio di sé e si prenda carico della realizzazione dei suoi desideri, in qualsiasi ambito, da quello personale alle relazioni sociali, passando per l’ambito professionale e sportivo.

Le persone non sono viste in termini di prestazioni, ma di potenziale. Per utilizzare il coaching con successo è necessario credere e avere fiducia nelle capacità latenti delle persone, nel loro potenziale nascosto.

Non basta essere ottimisti, si tratta di modificare le convinzioni riguardo alle capacità altrui. Molti esperimenti, soprattutto nel campo dell’istruzione, hanno dimostrato come ci sia una correlazione tra le convinzioni sulle capacità di una persona e la sua prestazione. Il test consiste nel riferire a degli insegnanti che alcuni studenti (le cui prestazioni rientrano nella media) sono candidati a borse di studio perché particolarmente intelligenti e altri hanno difficoltà di apprendimento: i risultati rispecchiano le false convinzioni degli insegnanti riguardo alle capacità degli studenti.

“Per ottenere il meglio dalle persone dobbiamo credere che il meglio sia già in loro.

Ma come facciamo a sapere che c’è, quanto ce ne è, e come si arriva a farlo uscire?” John Whitmore

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4. Le diverse tipologie di coaching.

Il coaching trova applicazione in vari ambiti e, a seconda del campo in cui opera, assume diverse denominazioni:

 Life coaching: verte su questioni personali e sulla sfera privata della vita del coachee. Il life coaching accompagna il cliente in un percorso di crescita personale, lo supporta nell’affrontare le sfide della vita con maggiore autostima e focalizzando in maniera consapevole i propri obiettivi.

 Business coaching: accompagna il coachee nel raggiungimento dei suoi obiettivi professionali per la sua totale realizzazione e soddisfazione.

 Executive coaching: è destinato all’amministratore delegato e a figure dirigenziali. Il coach aiuta i manager nell’analisi dei problemi e nell’individuazione delle azioni da intraprendere per risolverli. L’executive coaching è particolarmente utile per sviluppare stili efficaci di leadership, aiutare l’azienda ad affrontare e gestire al meglio il cambiamento e aiutare i manager ad essere più flessibili e a gestire lo stress.

 Corporate coaching: è uguale all’executive coaching, ma è destinato a figure aziendali al di sotto del livello executive. Il percorso è richiesto direttamente dall’azienda, la quale concorda gli obiettivi da raggiungere con coach e coachee. Questo tipo di coaching risulta particolarmente utile per modificare la cultura aziendale, migliorare la comunicazione e favorire l’integrazione tra diverse culture e approcci.

 Sport coaching: supporta allenatori, staff e atleti nella motivazione, nella preparazione “interiore” e nella definizione degli obiettivi.

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13  Team coaching: se le tipologie di coaching che abbiamo passato in rassegna fino ad ora riguardavano il singolo individuo, il team coaching guida, stimola e supporta un gruppo. Questo tipo di coaching facilita la comunicazione e la gestione dei conflitti e favorisce la focalizzazione su obiettivi comuni.

5. La metafora della bicicletta.

Vari sono i motivi per cui una persona sceglie di rivolgersi ad un coach. Un momento di cambiamento, una decisione importante da prendere, una nuova sfida professionale, la preparazione di una gara, l’esigenza di conoscersi più a fondo ad esempio; il coachee spesso è vulnerabile, ha perso autostima e fiducia in se stesso ed è preda di convinzioni, dubbi, paure e insicurezze. Il coachee vede nel coach un supporto, un appoggio, un alleato. Ma chi è il coach?

Partiamo da una metafora: immaginiamo una persona che è in sella ad una bicicletta e vorrebbe pedalare, ma non ci riesce. In suo aiuto possono andare varie figure:

o Psicologo: cerca di capire la causa della difficoltà, parte dal presente ma scava nel passato.

o Mentore: Fa valere la sua esperienza, sale in sella e fa vedere come si va in bicicletta.

o Counselor: si avvicina alla persona in difficoltà, la fa parlare, la accoglie, ascolta i suoi problemi, la sostiene.

o Consulente: spiega il funzionamento della bicicletta, verifica che essa sia perfettamente funzionante e priva di difetti e fornisce suggerimenti sul metodo per pedalare meglio.

o Coach: chiede dov’è che la persona vuole arrivare, qual è l’obiettivo a cui ambisce, la destinazione a cui mira e per quali motivi. Il coach lancia la persona nel sogno, partendo dal presente per sostenere l’individuo verso il futuro. Il coaching tiene conto della situazione attuale e delle possibilità future; il passato viene tenuto in considerazione per individuare e tenere a bada le

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14 convinzioni depotenzianti che minano il raggiungimento della destinazione finale, la realizzazione del sogno.

Il coach non fornisce soluzioni preconfezionate e consigli, non si occupa di disagi di tipo esistenziale e psicologico, non è un esperto, una guida o un modello, né, tantomeno, cura. Il coach si occupa di persone “sane”, che intendono migliorare la qualità della loro vita e aumentare il loro livello di benessere, supportandole nell’individuazione e nel raggiungimento di determinati traguardi, sfruttando al massimo le potenzialità di cui sono a disposizione.

6. Chi è il coach.

Il coach è la figura che supporta il coachee nel suo percorso verso il raggiungimento dei propri obiettivi. Ma, come abbiamo già detto, il coach è responsabile soltanto del percorso, non della destinazione finale, dei risultati raggiunti. Il coach non dà consigli, non fornisce la sua verità e non offre soluzioni, non trasmette nozioni né insegna stili di vita, piuttosto fa da specchio al coachee e lo aiuta a trovare le risposte che, come nella maieutica socratica, sono già in suo possesso. Il coach è un osservatore attento e neutrale; sospendere il giudizio è fondamentale se si vuole porre senza filtri e pregiudizi nei confronti di altre persone. Per avere fiducia nelle capacità degli altri e nell’esistenza di un potenziale latente, nascosto, il coach non può fare a meno di un costante dialogo interiore: conoscere se stesso, i propri pensieri, il proprio modo di ragionare e le proprie convinzioni.

Il coach stimola il coachee nel liberare il proprio potenziale e attingere alle risorse e alle capacità di cui è in possesso, ma che ancora non ha utilizzato. Il coach riconosce ed aiuta a valorizzare l’unicità e l’autenticità del cliente, con il quale instaura un rapporto di totale fiducia. Il ruolo del coach è quello di fare da “ponte”: mettere a disposizione del coachee la sua variegata e creativa “cassetta di strumenti” per far sì che egli possa padroneggiare la realtà, prendere consapevolezza dei piani d’azione da

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15 mettere in atto e raggiungere i propri traguardi, nelle tempistiche che il cliente stabilisce. È il coachee, infatti, a dettare le regole del viaggio: egli stabilisce la direzione, i tempi e le modalità con cui muoversi verso la destinazione finale.

Il coach crede fortemente nel fatto che il coachee abbia la forza e le capacità per arrivare ovunque vorrà. Il coach non dà opinioni, non giudica e non giustifica, è un osservatore neutrale che può essere allo stesso tempo gentile o spietato: egli crede che tutte le persone abbiano la possibilità di cambiare e autorealizzarsi, ma spesso non sanno o, meglio, “dimenticano” come farlo. Elementi cardine per raggiungere gli obiettivi prefissati sono la volontà, la determinazione e la motivazione: il coach è il primo “tifoso” del coachee, pronto ad affiancarlo e a sostenerlo (“io ci sono”) ed è sicuro che il cliente raggiungerà ciò che desidera, se davvero lo vorrà.

7. Le competenze del coach.

Il fondamento portante del coaching è l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra il coach e il coachee, una vera e propria sinergia. Senza questo elemento è impossibile aver dei risultati ed inutile proseguire con il percorso. Il cliente che si rivolge ad un coach deve sentirsi a proprio agio, propenso ad esprimere perplessità, ad esprimere le sue emozioni, ad aprirsi e rivelare alcuni aspetti della vita privata. Il protagonista del percorso di coaching è il coachee, con i suoi obiettivi e il suo desiderio di ritrovarsi riscoprendo la sua unicità, di conoscere le proprie risorse (anche quelle “nascoste”) e mettere in gioco i propri talenti. Un coach che diventa a sua volta protagonista, fornendo soluzioni e ritenendosi quasi indispensabile per il coachee non può che fare danni. L’obiettivo del coaching è diametralmente opposto: aiutare il coachee ad acquisire maggiore consapevolezza, autonomia, capacità di scelta e responsabilità delle proprie azioni. Il coach è un osservatore neutrale, che sponsorizza il coachee ritenendolo un individuo unico e accogliendo i suoi punti di forza Quali sono i requisiti, le caratteristiche che devono far parte del “bagaglio” di un coach?

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16  Maturità personale: il coach è capace di gestire relazioni e situazioni talvolta anche complesse. Il coach ha svolto un percorso di introspezione personale, ha lavorato su se stesso (ritorna il celebre “conosci te stesso”) ed è consapevole dei propri pensieri, dei propri schemi e delle proprie convinzioni.

 Flessibilità: il coach è aperto al dialogo, a rispondere ai dubbi e alle perplessità del coachee e a trovare la “chiave d’entrata” giusta per entrare in connessione con lui.

 Neutralità: il coach è un osservatore attento, ma lavora con le persone senza filtri e pregiudizi.

 Capacità di ascolto: il tipo di ascolto del coach è globale (attivo e intuitivo) e pone al centro il coachee, facendo attenzione anche al tono di voce, al suo linguaggio corporeo, a ciò che comunica attraverso la sua energia.

 Assertività: così come tra coach e coachee vi è un rapporto schietto, trasparente, allo stesso modo la comunicazione del coach è diretta, incisiva.  Essere incoraggiante: il coach è il primo “tifoso” del proprio coachee, crede

nelle sue potenzialità ed è pronto a stimolarlo, affiancarlo e sostenerlo nel raggiungimento degli obiettivi.

 Danzare con il momento: è costantemente focalizzato sul “qui e ora” per poter specchiare il proprio coachee in ogni sfumatura.

 Buona memoria: è totalmente focalizzato sul suo coachee in sessione da diventare un tutt’uno con lui e ricordare ogni piccola sfumatura.

 Creatività: la “cassetta degli strumenti” del coach è variegata, ma sta a lui scegliere quello più adatto o inventarne di nuovi.

 Perspicacia: derivante dalla sua capacità intuitiva.

 Senso etico: valori quali il rispetto, la condivisione, la sinergia e la felicità sono suoi fedeli compagni in ogni sessione.

7.1 Dare feedback

“Il feedback più negativo è personale e critico. Il feedback più efficace è soggettivo e

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17 Tra le competenze del coach, correlata al saper ascoltare, rientra senza dubbio quella di saper dare al coachee un feedback mirato e continuo. Il coach è un osservatore che non esprime giudizi, fa da specchio al coachee, gli dà un ritorno di informazioni e mira a far aumentare la consapevolezza del coachee e il suo apprendimento.

Soffermiamoci un attimo sul concetto di feedback. In generale è possibile identificare 5 livelli di feedback che vengono utilizzati6: soltanto uno è in grado di influire in maniera positiva sull’apprendimento e sulla performance.

Immaginiamo di trovarci in un contesto aziendale: ecco alcuni feedback che il manager potrebbe fornire ad un collaboratore.

1) “Sei un incapace!”

Si tratta di una critica personalizzata che va a minare l’autostima e la fiducia in se stesso del destinatario: totalmente inutile, è impossibile che produca effetti positivi, provocando, piuttosto, un ulteriore peggioramento della performance.

2) “Il tuo resoconto è inutile”.

Si tratta di un commento di critico sul resoconto (e non sulla persona), che, seppur in misura minore rispetto al precedente, va comunque a danneggiare l’autostima del destinatario, non fornendogli indicazioni per migliorare il resoconto,

3) “Il contenuto del tuo resoconto era chiaro e conciso, ma il layout e la presentazione erano rivolti ad un pubblico troppo basso per i lettori a cui è destinato”.

Questo tipo di feedback fornisce all’autore del resoconto qualche informazione sulla base della quale agire, ma i dettagli sono insufficienti e non generano una presa di possesso del miglioramento.

4) “Che sensazione hai riguardo al resoconto?”

Ora l’autore ha il possesso del miglioramento, ma è probabile che esprima un giudizio di valore sul resoconto (ad esempio: “è ottimo”, “è scadente”), invece di darne una descrizione più utile.

6 J.Whitmore, Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e

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5) “Qual è lo scopo essenziale del tuo resoconto?”; “Fino a che punto pensi che questa bozza lo raggiunga?”; “Quali ritieni altri punti da enfatizzare?”; “Che tipo di lettore vedi come target?”.

Rispondendo a domande di questo tipo, l’autore dà una descrizione dettagliata e priva di giudizi del resoconto.

Solo l’ultimo livello di feedback accelera l’apprendimento e il miglioramento della performance, perché rispecchia i principi che sono alla base del coaching. L’uso di una terminologia descrittiva invece che valutativa evita l’atteggiamento difensivo e il ricorso a giustificazioni e scuse, non funzionali al miglioramento della performance. Per rispondere alle domande del manager, inoltre, l’autore è costretto a mettere in moto il cervello, raccogliere i propri pensieri: possiamo definirla consapevolezza. Le domande del manager aiutano l’autore del resoconto ad imparare come valutare il proprio valore, diventando più autonomo, prendendo “possesso” della sua performance: si tratta di responsabilità.

8. Consapevolezza e responsabilità.

“Creare consapevolezza e responsabilità è l’essenza di un buon coaching” John Whitmore

Tra i principi chiave del coaching, ci sono sicuramente i concetti di consapevolezza e responsabilità. La consapevolezza delle nostre potenzialità, della situazione attuale, del mondo esterno, degli ostacoli e delle opportunità che si presentano è frutto di attenzione mirata, concentrazione e chiarezza e consiste nel raccogliere le informazioni rilevanti. La consapevolezza comprende anche l’autoconsapevolezza (il “cosa ti sta succedendo?”), consentendoci di capire quando e come le emozioni distorcono la percezione che abbiamo di noi stessi e influenzano il nostro stato d’animo.

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“Sono in grado di controllare solamente ciò di cui sono consapevole. Ciò di cui non sono consapevole mi controlla. La consapevolezza mi dà più potere”

John Whitmore.

La consapevolezza è in grado di aumentare la fiducia in se stessi, l’autonomia e la sicurezza. Una consapevolezza elevata favorisce il miglioramento e la continua scoperta di noi stessi.

Altro concetto chiave del coaching è quello di responsabilità, fondamentale per una performance elevata. Se ci assumiamo la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni, l’impegno profuso aumenta e, di conseguenza, si alza anche il livello della performance. Per sentirsi responsabili è necessario poter scegliere. Prendere delle decisioni, riuscire in qualcosa, effettuare delle scelte e assumersi la piena responsabilità tanto dei successi quanto dei fallimenti (in quanto dovuti interamente all’impegno e agli sforzi profusi) aumenta la fiducia in se stessi.

Se riceviamo un consiglio (a maggior ragione se quest’ultimo non è richiesto), mettiamo in pratica quanto ci è stato detto e falliamo, quale sarà la nostra reazione? Molto probabilmente incolperemo l’altro: attribuiremo, quindi, la responsabilità all’esterno.

Chiudiamo questo paragrafo con un esempio. Immaginiamo un gruppo di muratori e la richiesta ad uno di loro di andare a prendere una scala nel capanno degli attrezzi7. Il muratore si reca nel posto indicato, ma non trova nessuna scala e torna indietro. Poniamo invece che la richiesta sia formulata in questo modo: “Ci serve una scala. Ce n’è una nel capanno degli attrezzi. Chi ha voglia di andarla a prendere?”. Un muratore si offre, ma ugualmente non trova la scala. Tornerà indietro? No, proseguirà nella ricerca e proverà a cercarla altrove: è una sua scelta, si sente responsabile e vuole portare a termine il compito per la sua autostima.

7 J.Whitmore, Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e

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“Fiducia in se stessi, automotivazione, scelta, chiarezza, impegno, consapevolezza, responsabilità e azione sono tutti prodotti del coaching”.

John Whitmore

9. Le domande potenti.

“Dire cosa fare o porre domande chiuse risparmia alle persone la necessità di

pensare. Porre domande aperte le spinge a pensare da sole”. John Whitmore

Lo strumento chiave utilizzato dal coach nel processo di coaching è la capacità di porre domande “potenti”, utili ed efficaci. Attraverso le domande il coach non vuole mettere in difficoltà il coachee, ma punta ad aumentare la sua consapevolezza e responsabilità. Le domande che il coach pone non sono chiuse: le risposte “sì o no” chiudono la porta all’esplorazione e alla scoperta. Il coach pone domande aperte, di cui non conosce le risposte, ma sa solo che il coachee ha le informazioni necessarie per rispondere. Le domande aperte promuovono la consapevolezza, bloccano la chiacchiera mentale. In genere le domande più efficaci iniziano con parole come “cosa, quando, chi, quanto o quanti”; “perché” è sconsigliato, in quanto potrebbe suonare come una critica e indurre un atteggiamento difensivo: in sostituzione si utilizza “per quale motivo”.

Le domande del coach sono concrete, fanno riferimento alla realtà e, solitamente, partono da un ampio respiro iniziale per concentrarsi progressivamente sui dettagli. Il coach pone la massima attenzione alle risposte fornite dal coachee: se non lo fa, oltre a perdere il filo del discorso, perderà anche la sua fiducia. Le domande sorgono spontaneamente, quelle preparate interrompono il flusso di pensieri del coachee. Il coach ascolta fino in fondo ciò che il coachee ha da dire: interromperlo mentre egli sta rispondendo implica che in realtà il coach non lo sta ascoltando.

“Ci sono altri problemi?” invita il cliente a rispondere “No”. “Quali altri problemi ci potrebbero essere?” invita invece a una riflessione più profonda.

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21 Il coach, dopo aver ascoltato la risposta del coachee, può fare una pausa e, magari, utilizzarla per pensare alla domanda successiva da porre.

Ascoltare è un’abilità fondamentale, che richiede concentrazione e pratica; spesso il desiderio di parlare è irrefrenabile, ma, in ottemperanza alla frase che recita “se

abbiamo due orecchie e una sola bocca, significa che dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo”8, il coach deve imparare anche a stare zitto.

Mentre ascolta, il coach deve cercare di fare attenzione anche al tono di voce del coachee, per cogliere le emozioni: una voce più animata indica il sorgere di nuove idee, una voce più monotona la ripetizione di vecchi schemi di pensiero ad esempio. Anche il linguaggio corporeo va osservato attentamente ed è in grado di aiutare nella scelta delle domande e nel percepire le emozioni e i pensieri del coachee. Una postura tesa in avanti è indice di particolare interesse, una mano che copre parzialmente la bocca può significare incertezza, così come le braccia incrociate sono sintomo di chiusura; e se le parole dicono una cosa e il corpo ne dice un’altra, è più probabile che sia il corpo ad esprimere le vere sensazioni della persona.

Le domande del coaching sono prive di giudizio, sono “domande di evoluzione”, che puntano al futuro, a far crescere il coachee e a consentirgli di superare gli ostacoli e scoprire nuove strade e soluzioni: puntano a fare in modo che il coachee metta in pratica azioni funzionali al perseguimento dei propri obiettivi.

“Le domande del coaching costringono a porre attenzione alla risposta, concentrano gli sforzi verso la precisione e creano un ciclo di feedback. Impartire istruzioni non suscita nessuno di questi effetti”.

John Whitmore

Ecco alcuni esempi di domande “utili”: “e oltre a questo?”, “Se sapessi la risposta, quale sarebbe?”, “Immagina di parlare con la persona più saggia che conosci. Cosa ti direbbe di fare?”, “Cosa guadagneresti facendo questa cosa?”.

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10. Il modello GROW.

Il coaching è una metodologia che parte da un punto A (situazione attuale del coachee) per arrivare ad un punto B (obiettivo, stato desiderato dal coachee). Nelle sessioni di coaching c’è un modello di conversazione che viene solitamente applicato e che racchiude l’essenza di questa metodologia: questo modello si chiama GROW (in inglese “crescere”) e il suo ideatore è John Whitmore, padre fondatore del coaching.

Vediamo quali sono le parole racchiuse nell’acronimo GROW:

- G sta per GOAL setting: fissare un obiettivo, sia per la sessione che a lungo termine. - R sta per REALITY: consapevolezza della situazione attuale;

- O sta per OPTION: strategie o azioni alternative, “cosa puoi fare?”. - W sta per WILL: il piano d’azione.

 Goal (obiettivo): stabilire cosa si desidera raggiungere. Il percorso di coaching è caratterizzato da un macro obiettivo finale, ma ogni sessione inizia con la determinazione di un micro obiettivo (“Cosa vorresti trarre da questa sessione?”, “Dove vorresti arrivare alla fine di questa sessione?”).

Saper stabilire un obiettivo è di importanza cruciale per raggiungere i risultati che desideriamo.

Bisogna distinguere tra obiettivo finale e obiettivo sulla performance. Il primo (ad esempio: vincere la medaglia d’oro, diventare leader sul mercato…) di rado è sotto il completo controllo dell’individuo, in quanto non si può sapere cosa faranno i concorrenti; il secondo, invece, riguarda il livello di performance stimato per avere buone chances di raggiugere l’obiettivo finale. L’obiettivo sulla performance è sotto il proprio controllo: risulta, pertanto, più semplice impegnarsi e assumersi la responsabilità dell’obiettivo.

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10.1. Caratteristiche di un buon obiettivo.

Ma quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un obiettivo ben costruito? Possiamo fare ricorso ad un altro acronimo ed affermare che un obiettivo dovrebbe essere SMART (in inglese “intelligente”).

- S sta per “specifico”: quanto più chiaro e dettagliato è l’obiettivo che si ha in mente, tanto più esso può essere scomposto in micro obiettivi, realizzabili attraverso azioni più semplici. “Diventare un giornalista” non è un obiettivo specifico, piuttosto un desiderio, un’aspirazione; “diventare giornalista sportivo, specializzandosi in tematiche calcistiche e lavorare nel quotidiano più autorevole della regione” fornisce maggiori indicazioni sulle competenze da acquisire e sulle azioni da compiere. - M sta per “misurabile”: per essere in grado di misurare i progressi, bisogna avere dei punti di riferimento. Nella definizione di un obiettivo è bene aver in mente un punto di partenza e un punto di arrivo, così come i comportamenti e le azioni per raggiungerlo.

- A sta per “concordato” (in inglese: “agreed”): un obiettivo deve essere sentito come “proprio”, altrimenti viene meno la motivazione nel raggiungerlo e il senso di responsabilità.

- R sta per “realistico”: esistono obiettivi del tutto irrealistici se si considerano le capacità, l’ambiente e le circostanze. Andare sulla luna, diventare un calciatore di serie A o aumentare lo stipendio di sei volte in un paio di mesi, ad esempio, sono obiettivi non realistici per la quasi totalità delle persone. Quando si vede che, nonostante gli sforzi, si è lontani dal raggiungimento anche parziale dell’obiettivo, subentra la frustrazione. Pertanto è importante che l’obiettivo da raggiungere sia stimolante, ambizioso, ma raggiungibile.

- T sta per “definito nel tempo” (in inglese: “time phased”): uno dei primi passi quando si determina un obiettivo è quello di fissare una scadenza e chiedersi: “quando lo raggiungerò?”. Un limite temporale è importante per rendere l’obiettivo misurabile e attuabile e per dettare il ritmo delle azioni necessarie per raggiungerlo.

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24 Molto importante, inoltre, è che l’obiettivo sia espresso in positivo. Cosa succede se un obiettivo è espresso in negativo, ad esempio “Non dobbiamo arrivare ultimi in classifica”? L’attenzione è incentrata sull’essere ultimi in classifica. Gli obiettivi espressi in negativo ci fanno guardare nello specchietto retrovisore, ci dicono dove non stiamo andando e da cosa ci stiamo allontanando, ma rendono più difficile guardare la strada che è davanti.

Un obiettivo, poi, deve essere ecologico, vale a dire compatibile con i nostri valori e il nostro benessere e con quello delle altre persone dell’ambiente. Un buon obiettivo è stimolante, motivante: un obiettivo troppo facile o, all’opposto, troppo difficile non produrrà grande impegno. La motivazione nel raggiungimento di un obiettivo può essere intrinseca (legata ai valori e alla vision di un individuo) o estrinseca (legata a bisogni esterni e materiali): il primo tipo di motivazione è più forte.

 Reality (realtà): “Quando la realtà è chiara, gli obiettivi sono meglio a

fuoco”. John Whitmore

Una volta definiti gli obiettivi, bisogna chiarire qual è la situazione attuale e, una volta che la realtà sarà analizzata in maniera accurata, gli obiettivi potranno essere espressi con maggiore accuratezza o modificati, se la realtà dovesse rivelarsi notevolmente diversa da ciò che si pensava. L’esplorazione della realtà ha lo scopo di prendere piena consapevolezza di quello che è il punto di partenza, esaminare le risorse di cui si è a disposizione, gli ostacoli che si potrebbero incontrare, definire i primi passi e le azioni che porteranno al raggiungimento dell’obiettivo. Nell’analisi della situazione attuale è fondamentale osservare la realtà senza giudicarla: il criterio più importante è l’obiettività. Spesso nel descrivere il mondo esterno si è portati a creare opinioni, interpretare, dare giudizi, generalizzare, concentrarsi solo su una parte della realtà. L’obiettività assoluta non esiste, ma si può essere consapevoli dei fattori che vanno a distorcere la percezione della realtà. “La cosa migliore che possiamo ottenere è un

certo grado di obiettività: più riusciamo ad avvicinarci a esso, meglio è”, sostiene

John Whitmore. Nel coaching è importante che il coach si rapporti al coachee con un certo distacco e formuli le domande in modo da far sì che il coachee si attenga ai fatti: “Quali sono stati i fattori che hanno determinato la tua decisione?” è diverso da un

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25 “Perché l’hai fatto?”, eviterà che il coachee si ponga sulla difensiva e accampi giustificazioni, favorendo, invece, un tipo di riposta più approfondita e accurata. Il coach, inoltre, usa una terminologia descrittiva e non valutativa e incoraggia il coachee a fare lo stesso: ciò favorisce l’obiettività e riduce l’autocritica.

“Più le nostre parole e le nostre frasi diventano specifiche e descrittive, meno giudizi critici tendono a portare con sé, e più il coaching sarà produttivo”.

John Whitmore

 Option (opzioni): Dopo aver analizzato la realtà nella maniera più obiettiva possibile e priva di pregiudizi, è il momento di aprire il ventaglio delle possibilità, delle opzioni a disposizione per mettersi in cammino verso il raggiungimento dell’obiettivo. Nella fase di raccolta delle opzioni il coachee fa lavorare al massimo il cervello, stimola la creatività e crea una lista con il maggior numero possibile di opzioni e strade percorribili.

“Quando sei sicuro di non avere più idee, tirane fuori ancora una”.

John Whitmore

Anche in questa fase entra in azione il metodo socratico della maieutica: è il coachee a tirar fuori le opzioni possibili per raggiungere il suo obiettivo. Per estrarre la lista delle possibilità, il coachee deve sentirsi libero di esprimersi, dare massimo sfogo alla propria creatività, senza timore di essere giudicato per ciò che dice; tutto ciò può avvenire soltanto se il coachee sente la piena fiducia e sostegno da parte del coach. Una volta stilata la lista, il coachee valuta le risorse a disposizione, i benefici e gli aspetti negativi di ogni opzione per stabilire quale sia la più adatta.

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10.2 Le presupposizioni negative.

Uno dei fattori che limita la generazione e il sorgere di soluzioni creative e potenzialmente efficaci sono le presupposizioni implicite che un individuo si porta dietro, spesso anche inconsapevolmente:

- Non si può fare;

- Non mi direbbe mai di sì; - Costa troppo;

- Ci avrà già pensato qualcun altro; - Non mi prenderà mai in considerazione;

Ecco giusto qualche esempio di convinzioni negative che sbarrano la strada verso il raggiungimento di un determinato obiettivo; il compito del coach è quello di aiutare il coachee a guardare oltre l’ostacolo, superare queste convinzioni. Ad esempio: “E se ti dicesse di sì, cosa faresti?” oppure “E se avessi il budget necessario a disposizione?”.

10.3. L’esercizio dei nove puntini.

Spesso nei corsi di formazione per coach viene proposto l’esercizio dei 9 puntini9, il cui scopo è quello di dimostrare graficamente le presupposizioni limitanti che caratterizzano l’individuo.

L’esercizio consiste nell’unire i nove puntini usando soltanto quattro linee rette, non alzando mai la penna dal foglio e non ri-tracciando alcuna riga.

9 J.Whitmore, Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e

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27 Le soluzioni all’esercizio sono diverse, anche utilizzando meno di quattro righe: è possibile risolvere l’esercizio addirittura con una sola riga.

Mentre la mente è impegnata a ragionare sulle possibili soluzioni, alcune delle presupposizioni che potrebbero emergere sono quella che impone di rimanere all’interno del quadrato, oppure di tracciare la riga all’interno dei puntini oppure il divieto di strappare la pagina, piegarla o tagliarla in tre strisce.

La chiave per la soluzione dell’esercizio (e, in generale, per ampliare il ventaglio delle opzioni possibili) è quella di eliminare le presupposizioni autolimitanti, trovando così nuovi modi di risolvere un problema o superare un ostacolo.

 Will (piano d’azione): Dopo aver stabilito l’obiettivo, aver preso consapevolezza della situazione attuale e delle opzioni a disposizione, è il momento di costruire un piano d’azione. Quest’ultimo è valido sia per l’obiettivo della singola sessione che, ampliando la prospettiva, in vista del raggiungimento del traguardo.

- “Cosa farai?”: il coach chiede al coachee quale opzione ha scelto e quale decisione ha preso (assunzione di responsabilità).

- “Quando lo farai?”: oltre ad avere ben chiara qual è la strada da seguire, è importante stabilire un limite di tempo per le intenzioni di fare qualcosa. Indicare il momento preciso in cui si farà qualcosa, la data di inizio o di fine è un passo importante per tradurre le intenzioni in realtà. “Il prossimo mese” o “presto” sono indicazioni troppo generiche: il coach sarà martellante per fare in modo che il coachee fissi una precisa indicazione temporale (ad esempio: “martedì mattina alle ore 10:00).

- “Quali ostacoli potresti incontrare?”: è molto probabile che nel corso dell’attuazione del suo piano, il coachee incontri delle difficoltà, degli ostacoli.

- “Chi lo deve sapere?”: quali sono le persone coinvolte nel piano d’azione?

- “Di che tipo di sostegno hai bisogno?”: tramite questa domanda, il coachee valuta la possibilità di avere necessità di risorse provenienti dall’esterno, magari del supporto di altre persone, che vengono coinvolte nel piano d’azione.

- “Da 1 a 10 quanto sei sicuro che intraprenderai le azioni che hai deciso di fare e

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28 mettere in pratica il piano d’azione. La volontà è un ingrediente fondamentale nel percorso di coaching.

Dopo aver stabilito anche il piano d’azione, la sessione di coaching può terminare. La palla passa al coachee perché entri in azione per raggiungere i traguardi concordati in sessione: traguardo dopo traguardo raggiungerà il macro-obiettivo, l’obiettivo di percorso.

11. I benefici del coaching.

Chiudiamo il capitolo con i vantaggi e i benefici che un percorso di coaching può apportare all’individuo.

 Crescita personale.

 Accrescimento della fiducia in se stessi, dell’autostima e dell’auto-motivazione.

 Acquisizione di maggiore consapevolezza delle proprie capacità e punti di forza.

 Focalizzazione più consapevole degli obiettivi da raggiungere.  Maggiore determinazione nel perseguire i propri obiettivi.  Miglioramento della performance.

 Miglioramento dell’apprendimento.

 Miglioramento delle relazioni interpersonali.  Miglioramento della qualità della vita.  Maggiore creatività.

 Reazione più rapida ed efficace alle emergenze.  Maggiore flessibilità e adattamento ai cambiamenti.  Incremento della motivazione.

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CAPITOLO 2

Il mio percorso di coaching

Dopo aver descritto cos’è il coaching, quali sono le sue finalità e il modo in cui la figura professionale del coach entra in azione, ho deciso di addentrarmi ancora di più nelle potenzialità di questo strumento descrivendo la mia esperienza diretta.

Solitamente un percorso di coaching dura dai 3 ai 6 mesi, per un totale di 10-15 sessioni circa; una sessione ha durata variabile da un’ora ad un massimo di due, le prime sessioni si svolgono a distanza di tempo più ravvicinata per consentire l’instaurazione di un rapporto di fiducia, sintonia e sinergia tra coach e coachee. In questo capitolo vado a descrivere quello che è stato il mio percorso di coaching.

1. Come mi sono avvicinato al coaching.

Prima del mese di dicembre 2016 le mie conoscenze sul coaching erano abbastanza deboli, frammentarie, basate su alcune voci e decisamente poco approfondite. La svolta è stata la lettura di un capitolo del libro “La gestione integrata delle risorse umane nelle organizzazioni” (scritto dai professori Giuseppe Bellandi e Marco Giannini) interamente dedicato al tema del coaching. Il titolo del capitolo è “Il coaching professionale come acceleratore di successo per le persone in azienda e nella vita” e, in poche pagine, descrive gli obiettivi del coaching, le caratteristiche del coach, il modo e gli strumenti in cui entra in azione e i benefici di questo strumento.

Credo di non esagerare se affermo di aver avuto una vera e propria folgorazione. La lettura del capitolo ha suscitato in me grandissimo interesse nei confronti di questa metodologia; il tema mi sembrava stimolante, affascinante ed intrigante e, così, ho deciso di sceglierlo come argomento della tesi. Dopo aver incontrato l’autore del libro (nonché mio relatore), il professor Giannini, e aver ottenuto il parere favorevole per lo

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30 svolgimento della tesi su questa tematica, ho preso contatti con la coach Dott.ssa Nicoletta Quagliarella10, autrice del capitolo dedicato al coaching.

Il primo incontro con Nicoletta è avvenuto la mattina di venerdì 3 febbraio nel suo studio. Una delle prime cose che mi ha chiesto Nicoletta è stata quella di darle del “tu”: il rapporto tra coach e coachee è paritetico, si tratta di due persone sullo stesso piano; il “tu” implica apertura, confidenza, il sentirsi a proprio agio, tutti ingredienti fondamentali per l’instaurazione di un rapporto di fiducia, alla base di un buon coaching. Dopo una chiacchierata conoscitiva e dai toni abbastanza informali, la coach ha dato l’assenso per seguirmi nella preparazione della tesi, ma mi ha proposto di provare direttamente il coaching, svolgendo un ciclo di sessioni.

In effetti, per quanto avessi letto qualcosa a riguardo e fossi determinato a svolgere la tesi su questa tematica, non avevo ancora ben chiaro come funzionasse in pratica questo strumento. Confesso che non avevo pensato all’eventualità di avvicinarmi in maniera così diretta e personale al coaching, ma una delle caratteristiche di questo strumento è proprio quella di aiutare a vedere nuove opzioni, nuove soluzioni, nuove strade da percorrere che prima, per vari motivi, non avevamo preso in considerazione. E, se proprio devo dirla tutta, le prime sensazioni che ho avuto quando la coach mi ha invitato ad effettuare un ciclo di sessioni sono riconducibili ad un mix di timore (sia

10 Coach Educazionale specializzata in analisi transazionale e thetahealing; ha

maturato un’esperienza professionale ultra decennale nella gestione delle Persone lavorando come responsabile delle Risorse Umane focalizzata sulla valorizzazione dei talenti.

 È fondatrice di Belight, educare per la vita, una realtà con la quale accompagna attraverso una propria metodologia le Persone, sia individualmente che in gruppo, ad esprimersi nella loro unicità per la propria realizzazione personale e professionale.

 Progetta e svolge interventi educativi per lo sviluppo dell’intelligenza emozionale, la crescita dell’autostima in ambito relazionale e professionale presso aziende e scuole.

 Conduce seminari di crescita attraverso il lavoro di squadra e l’allenamento alla sinergia e alla condivisione.

 Tiene seminari presso l’Università di Pisa con l’obiettivo di formare i Manager di domani attraverso la consapevolezza e la leadership di sé.

 «Ogni volta che illumini la strada per qualcuno, fai luce anche per te» è il suo faro.

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31 perché non sapevo bene a cosa sarei andato incontro, sia una sorta di timore del giudizio altrui), scetticismo, curiosità ed entusiasmo. Ho salutato la coach, ma, mentre ero in macchina per rientrare a Pisa, avevo già preso la mia decisione: avrei accettato la “sfida”, mi sarei messo in gioco e avrei iniziato un percorso, il mio viaggio nel coaching.

2. Il Master CIBA e il focus sulla persona.

Prima di procedere con il racconto del mio percorso di coaching, vorrei citare un’altra esperienza molto importante e affine alla tematica della tesi. L’aspetto che subito mi ha colpito del coaching quando ho letto quel famoso capitolo del libro è stato il focus sulla persona, l’intento di liberare il potenziale delle persone per massimizzare la loro crescita. Tra febbraio e marzo 2016 ho avuto l’opportunità e il privilegio di partecipare ad un Master intensivo organizzato dall’Associazione Eraclito: il Master CIBA (l’acronimo sta per “Comunicazione, Impresa, Banche e Assicurazioni”). Tra i docenti del Master c’era anche il professor Giannini.

Un mese da vivere tutto d’un fiato e senza un attimo di respiro tra lezioni su molteplici argomenti, contributi di spessore da parte di docenti e manager, spunti di riflessione, performance individuali e collettive, progetti, eventi culturali: 35 ragazzi che, da sconosciuti, si sono ritrovati ad interagire, collaborare e confrontarsi.

Credo che il mese del Master CIBA sia stato uno dei più intensi della mia vita, un’esperienza a dir poco incredibile e difficile da descrivere: bisognerebbe viverla, con la consapevolezza che ognuno avrebbe sensazioni, emozioni e impressioni diverse. Il Master è stato molto utile per quanto riguarda l’aspetto formativo e l’acquisizione di competenze trasversali quali l’empatia e la capacità di lavorare in team. Ma l’aspetto del Master che ho maggiormente apprezzato (e che ha diversi punti di contatto con il coaching) è stato il focus sull’individuo, la grande fiducia nel capitale umano, nelle capacità e nelle risorse di una persona. Ognuno di noi è unico, straordinario così com’è, con le sue caratteristiche e i suoi talenti. Ognuno di noi, inoltre, possiede un potenziale;

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32 spesso questo potenziale è espresso solo in parte o è nascosto: allora bisogna trovare il modo per liberarlo ed esprimersi al massimo.

3. La situazione di partenza.

Se dovessi descrivere con alcuni aggettivi l’Alessandro che si è presentato nello studio della coach per la prima sessione userei i termini scarico, poco convinto, poco energico, spento, confuso, fragile, rigido, bloccato.

Prima di procedere, una precisazione per quanto riguarda la location nella quale il coach svolge le sessioni col coachee: si tratta di un ambiente il più possibile confortevole, tranquillo, che possa far sì che il coachee possa aprirsi e sentirsi a proprio agio. Sebbene possa capitare che le sessioni avvengano via Skype, è assolutamente sconsigliato che il coach svolga gli incontri a casa, con interferenze di vario genere (altre persone, animali domestici etc…).

Con Nicoletta siamo partiti dall’analisi di quella che era la situazione attuale, individuando subito due pesi, due zavorre che avevano notevoli ripercussioni sul mio stato d’animo e sul mio rendimento in generale. Il primo peso era attribuibile alla fine di una relazione sentimentale, il secondo al dover ancora chiudere il capitolo università, con annesso “senso di colpa” per aver impiegato (per vari motivi) più anni del necessario per concludere il percorso accademico.

Alessandro negli ultimi mesi aveva perso brillantezza, entusiasmo, persino le attività che lo appassionavano sembravano meno stimolanti. Ricordo che la scrittura degli articoli delle partite che seguivo per il giornale (il calcio è sempre stato una mia grande passione) spesso mi sembrava difficoltosa, a volte lo facevo quasi contro voglia, impiegando anche più tempo del solito e molto spesso ero consapevole di non essermi espresso con la consueta brillantezza, non mi sentivo soddisfatto della qualità dell’articolo, come se mi mancasse l’ispirazione e la concentrazione. Mi ero accorto di avere in generale un atteggiamento più apatico e meno propositivo in vari ambiti, fosse quello dello studio, del lavoro o delle relazioni sociali e, cosa abbastanza grave, mi ero accorto di sorridere molto meno di quanto fossi abituato in precedenza.

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33 In poche parole, era come se fossi intorpidito, il mio livello di autostima e di fiducia in me stesso era diminuito notevolmente.

Oltre a ragionare riguardo alla tematica e alla struttura della tesi, ricordo una frase che mi disse Nicoletta: “ok Ale, ma così non ci arrivi alla laurea”. Quel “così” faceva riferimento alla mia condizione attuale. E come darle torto…

4. Le convinzioni depotenzianti.

Per prima cosa, bisognava alzare l’autostima di Alessandro, dargli una svegliata e far sì che si attivasse. Sebbene fossero passati mesi dalla fine della relazione, questo evento continuava ad avere strascichi e ripercussioni non piacevoli. Mi capitava spesso di non dormire bene a causa di incubi, avevo difficoltà a concentrarmi in qualsiasi attività, a volte persino mentre giocavo a calcio mi venivano dei flash e ciò influenzava il mio rendimento in campo.

Era come se la mia mente guardasse nello specchietto retrovisore, perdendo di vista il presente e, soprattutto, il futuro. Ero impantanato in una sensazione di dolore, alla quale si aggiungeva il senso di colpa per aver prolungato in maniera eccessiva la durata del percorso universitario.

I pensieri che si affastellavano nella mia mente erano di carattere negativo. Ricordo che nei mesi precedenti una frase che mi ripetevo spesso era: “Se non credi in te stesso,

nessuno lo farà per te”. La frase è opera di Michael Jordan, il miglior giocatore di

basket di tutti i tempi; non sono affatto appassionato di questo sport, tuttavia la frase mi colpì molto. Cercavo di tenerla in mente, ma non la mettevo in pratica, come se mi mancasse la forza di agire, di cambiare, di invertire la tendenza.

“Essere lasciato è brutto”, “sto impiegando troppi anni per laurearmi” erano le convinzioni depotenzianti che mi bloccavano e delle quali ero preda. Presa consapevolezza della realtà, della situazione attuale, bisognava cambiare.

“Il coaching si focalizza sulle possibilità future e non sugli errori del passato” John Whitmore

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34

5. Il cambiamento come opportunità.

“Nulla è permanente, tranne il cambiamento”

Eraclito

“Panta rei”, la frase celebre del filosofo greco Eraclito. Tutto scorre, tutto si trasforma: gli stessi uomini sono in costante divenire e cambiano nel corso del tempo. Il cambiamento è un tema di grande rilevanza e sempre attuale ed è uno degli aspetti che il coaching aiuta ad affrontare, vivere e gestire nel miglior modo possibile. Eppure spesso il cambiamento è vissuto con timore, perché ci obbliga ad uscire dalla nostra “zona di comfort”. L’uomo è per sua natura un essere abitudinario, che tende a mettere in pratica delle abitudini e degli schemi di comportamento che già conosce. Nella zona di comfort l’individuo si sente sicuro, a suo agio, anche se alcune situazioni o abitudini, per quanto automatiche, non si adattano più alle sue esigenze, non lo soddisfano e non lo rendono felice.

Un cambiamento, un evento esterno, fa sì che l’individuo passi nella “zona di stretch”, nella quale metterà in pratica nuovi schemi di comportamento, attinge alle proprie risorse e capacità e ne apprende di nuove, andando quindi incontro ad un processo di evoluzione e fissando nuovi obiettivi.

Magari all’inizio la persona non si troverà a proprio agio nella “zona di stretch”, ma, in seguito questa, a forza di agirla, diventa una nuova “zona di comfort”.

Nel caso in cui l’essere umano pretenda troppo dalla propria capacità di reagire al cambiamento e di fissare nuove abitudini ed obiettivi, egli potrebbe finire nella “zona di panico”, caratterizzata da stress, frustrazione e ansia.

Di fronte al cambiamento, è possibile avere due tipi di atteggiamenti:

- La vittima del cambiamento tenderà a restare nella zona di comfort, continuando a ripetere comportamenti che non sono più adatti alle sue esigenze; con questo atteggiamento passivo e rigido, l’individuo subisce il cambiamento, si fa inghiottire dal vortice degli eventi e sprofonda in una spirale negativa.

- Il fautore del cambiamento ha consapevolezza delle proprie capacità e dei propri obiettivi. Un cambiamento esterno, non desiderato e, quindi, non pienamente sotto il

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35 proprio controllo, non è visto come un dramma, come un evento negativo: il cambiamento diventa una sfida, un’opportunità, un’occasione per migliorare e crescere.

Bisogna tener presente, poi, che spesso nei momenti di cambiamento, quando si verifica un evento esterno ed improvviso e nelle situazioni di crisi, l’uomo sfodera energie e risorse che non pensava neanche di possedere. Quando ho letto una frase riguardante questo aspetto, il pensiero è andato subito ad un evento di pochi mesi prima: a dicembre, periodo non particolarmente esaltante per quanto riguarda l’umore e lo stato di forma complessivo, sono riuscito a trovare la forza, le motivazioni e la determinazione per affrontare e superare l’ultimo esame universitario, che da mesi vedevo come uno scoglio insormontabile.

6. Togliere le zavorre per puntare

all’autorealizzazione.

La mia situazione attuale era caratterizzata da un conflitto: da una parte vi era la spinta verso l’autorealizzazione, il desiderio di maggiore autostima e fiducia in me stesso, dall’altra ero bloccato, zavorrato dalle convinzioni negative.

Nella celebre gerarchia dei bisogni elaborata dallo psicologo inglese Abraham Maslow, l’autostima e l’autorealizzazione sono al vertice della piramide. Per ritrovare la fiducia in me stesso e intraprendere la strada dell’autorealizzazione, dovevo innanzitutto liberarmi dai pesi, dalle zavorre che mi condizionavano e mi impedivano di muovermi.

All’inizio di ogni sessione Nicoletta mi chiedeva come mi sentissi e quale fosse il mio obiettivo, su quali aspetti mi volessi concentrare e cosa avrei voluto portare a casa al termine dell’incontro. Al termine della sessione c’erano i “compiti per casa”, delle azioni da svolgere entro l’incontro successivo in quanto, il coaching insegna, è solo agendo che si recupera autostima. Nelle prime sessioni i miei compiti per casa che avevo scelto di compiere erano delle azioni volte a mettere definitivamente la parola fine su un libro che era già terminato (metafora per descrivere la fine della relazione

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36 sentimentale) e a prendermi cura di me, in un certo senso coccolarmi e vedere quali fossero i miei pregi, i miei talenti. Tra le azioni ricordo quella di dedicarmi alla lettura del libro di Whitmore e di Gallwey per approfondire la tematica del coaching, scrivere la lista dei miei talenti e dedicarmi ad attività che mi piacessero e mi facessero rilassare.

7. La “cassetta degli strumenti” del coach:

scrivere per chiarire.

Il coach ha a disposizione una variegata “cassetta degli strumenti” da utilizzare nel corso della sessione, ma, così come ognuno di noi è unico, allo stesso modo l’approccio e la chiave d’entrata più adatta saranno variabili in base al coachee. Abbiamo detto che lo strumento principe del coaching sono le domande potenti (derivanti da un ascolto vero) che, nel corso del dialogo, il coach pone al coachee: si tratta di domande nette, incisive, che vanno dritte al punto e stimolano riflessioni a cui il coach non aveva pensato. Ma il coach, oltre ad essere un osservatore neutrale e attento, deve anche essere flessibile e creativo, pronto persino ad inventare nuovi modi, strumenti ed esercizi per interagire col coachee.

Nel corso delle sessioni con Nicoletta è subito emersa la mia passione per la scrittura e per il giornalismo e la scrittura è stata uno strumento a cui la coach ha fatto spesso ricorso per fare in modo che tirassi fuori le opzioni per raggiungere i miei obiettivi (di sessione o di percorso) e le risposte alle domande che mi ero posto.

Un esercizio particolarmente stimolante e allo stesso tempo creativo è stato quello di scrivere una lettera al piccolo Alessandro. Ho riletto la lettera proprio in questi giorni e devo ammettere che mi ha fatto un certo effetto. Scorrendo le righe, ho avuto la sensazione di un’energia sopita, come la lava di un vulcano pronto ad esplodere; nella lettera, oltre a rievocare piacevoli momenti dell’infanzia, analizzavo quella che era la mia situazione attuale, focalizzando gli obiettivi e guardando al futuro con consapevolezza ed ottimismo. Se avessi scritto la lettera prima di iniziare il percorso

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37 di coaching, non sono sicuro che avrei avuto la stessa lucidità di analisi e la stessa consapevolezza, chiarezza e positività.

Un altro esercizio che ha chiamato in causa l’espressione in forma scritta è stato quello di scrivere due brevi testi: la storia personale di Alessandro ora e quella proiettata nel futuro, Alessandro fra un anno. Se la prima è stata scritta abbastanza rapidamente, con grande consapevolezza e con la quasi totale assenza di giudizio, la stesura della seconda è stata meno semplice.

La finalità di questi esercizi? Con la scrittura della mia storia personale andavo ad analizzare il mio percorso e la mia situazione attuale, acquisendo maggiore consapevolezza, prendendo in esame gli avvenimenti (potenzianti o depotenzianti) che si erano verificati senza giudicarli, ma considerando il mio atteggiamento, le mie reazioni e le mie intenzioni. Lo sguardo, ora, non era rivolto al passato, allo specchietto retrovisore: le zavorre erano pronte ad essere abbandonate; analizzare la situazione attuale con lucidità e fare chiarezza sono sicuramente due step importanti per puntare al raggiungimento di un obiettivo futuro.

A proposito di futuro: la stesura della storia di Alessandro fra un anno è stata rimandata alla sessione successiva, dopo che nel corso della sessione con Nicoletta siamo andati a lavorare su quelli che erano i miei “vuoti”, i miei talenti e un elemento che mi creava indecisione, poca chiarezza e, di conseguenza, difficoltà nel focalizzare e nell’agire: “cosa farò da grande?”. Nella storia immaginavo e descrivevo abbastanza nei dettagli la mia situazione a distanza di un anno: visualizzavo il futuro. Ma, per poter guardare al futuro, era prima necessario aumentare la consapevolezza, fare maggiore chiarezza e insistere sugli elementi potenzianti.

7.1 L’atteggiamento del coach.

Parallelamente alla mia “evoluzione” durante il percorso di coaching, allo stesso modo anche l’atteggiamento della coach nei miei confronti si è modificato, in funzione della mia nuova condizione. All’inizio Nicoletta è stata molto accogliente e mi stava abbastanza addosso (una sorta di “marcatura stretta”, per usare il gergo calcistico) sia per quanto riguardava le azioni da svolgere tra una sessione e l’altra, sia per quanto

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