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La Tabaccaia di Montefalcone: recupero e riqualificazione dell'ex complesso produttivo situato a Castelfranco di Sotto (PI).

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Corso di laurea in Ingegneria Edile Architettura A.A.2016/2017

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Recupero e riqualificazione dell’ex complesso produttivo

situato nel comune di Castelfranco di Sotto (PI)

La Tabaccaia

di Montefalcone

Relatori:

Prof. Ing. Marco Giorgio Bevilacqua Prof. Arch. Pietro Carlo Pellegrini Prof. Ing. Fabio Fantozzi

Arch. Teresa Cervino

Candidato:

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Ai miei genitori, a mio fratello, ai miei nonni.

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01 - Archeologia Industriale

Fatto archeologico o fatto industriale? 13

Definizione di archeologia industriale 18

Il manufatto industriale 22

Esempi di recupero: Auditorium Paganini, Renzo Piano Building Workshop 24

Esempi di recupero: Cittadella dei ragazzi, Guido Canali 30

Esempi di recupero: Tecnopolo di Reggio Emilia, Andrea Oliva 34

Esempi di recupero: Ex fornace di Riccione, Pietro carlo Pellegrini 40

Esempi di recupero: Museo della conceria, Massimo Carmassi e Pietro Carlo Pellegrini 44

Esempi di recupero: Memoriale Giuseppe Garibaldi, Pietro Carlo Pellegrini 48

Esempi di recupero: Kolumba Museum, Peter Zumthor 54

02 - Tabacco e Tabaccaie Dal nuovo al vecchio continente 59

Il tabacco in Italia 66

Il tabacco Kentucky 74

La tabacchicoltura in Toscana 80

Le “cattedrali” del tabacco 84

Analisi delle tabaccaie del comune di San Miniato e del Padule di Fucecchio 88

03 - Il Caso di Montefalcone Il comune di Castelfranco di Sotto 173

L’area della ex Tabaccaia: inquadramento 182

La storia della Tabaccaia 188

I corpi di fabbrica dell’ex complesso produttivo 200 04 - Una nuova vita per la Tabaccaia Cosa fare della Tabaccaia? 231

Un quadro normativo dell’area 242

La Tabaccaia di Montefalcone oggi 254

La Tabaccaia di Montefacone domani 262

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9 05 - Una Tabaccaia “sostenibile”

Criteri minimi ambientali negli appalti pubblici 289

I CAM Edilizia e i protocolli di sostenibilità volontari 296

Certificazione energetica e certificazione ambientale 304

Il protocollo ITACA 308

Il protocollo LEED 312

Confronto tra CAM e protocolli di certificazione 316

Il protocollo GBC Historic Building 322

La Tabaccaia secondo GBC Historic Building 330

Conclusioni 386 Bibliografia e sitografia 390

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“Sono a tutti note le caratteristiche e i valori del patrimonio culturale della Toscana, considerata una tra le regioni più ricche di beni storico artistici. Molto meno conosciuto ed apprezzato è invece un particolare aspetto di questo patrimonio: quello che documenta la nascita e l’attività delle prime lavorazioni industriali, ovvero l’archeologia industriale. Si tratta di una presenza molto diversificata che spazia dalle strutture architettoniche ed ingegneristiche fino al documento archivistico, dalle attività di trasformazione del paesaggio alle tradizioni popolari. Spesso testimonianza di un’attività produttiva che sin dall’antichità giunge ininterrottamente ai giorni nostri”9.

1 Regione Toscana - Giunta Regionale, a cura di Carlo Cresti, Michele Lungonelli, Leonardo Rombai, Ivano Tognarini, Luoghi e immagini dell’industria toscana. Storia e permanenze, Marsilio Editori, Venezia, 1993

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| Archeologia industiale

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fatto archeologico o fatto industriale?

Il termine “archeologia industriale” fu coniato nei primi anni cinquanta da Donald Dudley, al-lora direttore del dipartimento extra-mural e

suc-cessivamente professore di latino dell’Università di Birmingham.

Per quanto egli non si definisse un “archeologo industriale”, tuttavia suggerì che forse valeva la pena di indagare sulle possibilità accademiche e pratiche di quel che egli aveva ribattezzato arche-ologia industriale.

Michael Rix1, collega di Dudley, scrisse nel 1955

un articolo per The Amateur Historian, nel quale

non fece un vero e proprio tentativo di definire questa materia, ma puntualizzò che i suoi inte-ressi si focalizzavano principalmente su materiali del XVIII e XIX secolo (ad esempio macchine a vapore, locomotive, i primi edifici di cemento ar-mato, i primi tentativi di costruzione di ferrovie, dighe e canali). Riteneva che tutto ciò fosse un campo nuovo e interessante da esplorare.

Tempo prima, però, l’iniziatore del dibattito era stato Karl Marx con la sua definizione di “gran-de industria”: come attività collettiva organizza-ta intorno a materiali da trasformare in visorganizza-ta di un certo uso, essa esiste infatti fin dall’antichità; l’estrazione di minerali e la costruzione di edifici, per esempio, sono forme antichissime di industria basate quasi esclusivamente sul lavoro degli schia-vi e sull’uso di macchine molto semplici (mulini ad acqua, argani, etc) o di strumenti di lavoro in-dividuali.

Per questo Marx, criticando le considerazioni ideologiche sui rapporti tra uomo e natura, pote-va affermare che “la celeberrima unità dell’uomo con la natura è sempre esistita nell’industria”2.

1 M. Rix, Historical Archeology, London, The Historical

Association, 1967, in A. Negri (a cura di), L’archeologia in-dustriale, Messina-Firenze, 1978.

2 Karl Marx, L’ideologia tedesca, 1846, capitolo II

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Qui infatti l’uomo attraverso il lavoro conosce, utilizza e modifica forze e materiali naturali. Ma è con l’introduzione di “macchinari”, cioè di un insieme comprendente la macchina motrice, il meccanismo di trasmissione, la macchina utensi-le o operatrice, che sorge quella che Marx chiama la “grande industria”, l’industria moderna, erede della manifattura.

La discussione si basava in sostanza sull’interro-gativo se l’archeologia industriale dovesse limita-re la propria indagine esclusivamente all’ambito temporale della Rivoluzione Industriale (Arche-ologia dell’Industria), oppure se fosse lecito inda-gare anche sull’età delle manifatture (Archeolo-gia Industriale), risalendo così nel tempo anche alle più remote manifestazioni del lavoro umano3.

Kenneth Hudson, invece, non era pienamente d’accordo sul fatto che l’archeologia industriale dovesse incentrarsi esclusivamente sui monu-menti della Rivoluzione industriale, appoggiando all’epoca la tesi sostenuta, a suo tempo, da O. G. S. Crawford, fondatore nel 1927 e primo editore della rivista Antiquity, una rivista peer-reviewed

di archeologia mondiale, il quale sosteneva che “l’archeologia non è che il tempo passato dell’an-tropologia. Lo sviluppo della cultura umana nel tempo è il suo oggetto”4.

Nel 1963 viene pubblicata la prima monografia su questo tema da parte di Hudson dal titolo In-dustrial Archaeology. An introduction.

La comparsa di tale prima formulazione ha avu-to un impatavu-to semantico soprattutavu-to in paesi con una struttura culturale più classica. L’acco-stamento al termine archeologia di qualcosa di apparentemente antitetico quale l’attività indu-striale presuppone, quindi, almeno due passaggi 3 G. E. Rubino, Industrialismo e archeologia industriale. Ri-epilogo metodologico, 1993.

4 K. Hudson, World Industrial Archeology: a New Intro-duction, Cambridge, 1979.

comuni ad oggetti provenienti da epoche così distanti: l’abbandono per il mancato uso e la “ri-scoperta” quando ormai l’oggetto ha assunto una sufficiente distanza cronologica dall’osservatore da poter essere testimonianza di civiltà passate. Se ciò per l’archeologia in senso classico avviene su una discriminante cronologica evidente, per l’archeologia industriale la necessità di definire il campo di azione in base agli oggetti di studio ha comportato e comporta revisioni continue. Se si accetta il principio che statuisce la condizione di patrimonio industriale per complessi o edifici che hanno rappresentato emblematicamente una svolta rivoluzionaria nell’industrializzazione di un’area geografica, di un paese o di un popolo, si deve anche arrivare a estendere i limiti cronologi-ci, poiché tale svolta arriva per differenti aree ge-ografiche in tempi anche notevolmente distanti. Nella terza edizione del suo lavoro World Indu-strial Archeology: a New Introduction, Hudson

avanzò l’ipotesi che l’archeologia industriale in Gran Bretagna fosse passata attraverso due fasi di sviluppo, e che stesse entrando in una terza. La prima fase, terminata circa nel 1960, aveva visto un “piccolo gruppo di pionieri” sensibiliz-zare l’opinione pubblica sulla scomparsa rapida di macchinari e di edifici che rappresentavano la storia dell’industria britannica. La seconda fase, che va dagli anni sessanta ai primi anni settan-ta, vide alcuni gruppi di dilettanti che facevano dell’archeologia industriale una sorta di hobby, la creazione di un ‘Registro Nazionale dei Monu-menti Industriali’ e infine la crescita dell’interesse riguardo la materia presso gli ambienti accademi-ci. La terza nasceva infine dal chiedersi cosa aves-sero significato le prime due fasi, e quindi nell’in-terrogarsi sulla reale importanza e consistenza di questo campo sempre più vasto. Hudson sottoli-nea come inizialmente l’archeologia industriale

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| Archeologia industiale

15 fosse un accumulare oggetti, privo di speculazio-ne. Come se, davanti alla rovina incombente e alla distruzione, si fosse reso necessario salvare tutto ciò che rimaneva come testimonianza dell’indu-stria, ma senza interrogarsi realmente sul perché valesse la pena fare ciò.

La rivista Industrial Archaeology Review5,

suc-ceduta alla Industrial Archaeology, iniziò il suo operato nel 1976, ma fu da subito attaccata in una recensione di Philip Riden apparsa sul Times Literary Supplement il 14 gennaio 1977.

Riden aveva definito l’archeologia industriale come “un informe ammasso di oggetti accatastati su oggetti senza criterio e ordine”, mentre non la pensava così il Dr. R. A. Buchanan, che al contra-rio manifestava un maggiore ottimismo rispetto all’interesse verso questa disciplina affermando che “l’archeologia industriale è un campo di stu-di che si occupa stu-di indagare, rilevare, registrare e, in alcuni casi, conservare monumenti industriali; il suo obiettivo, inoltre, è quello di valutare il si-gnificato di questi monumenti nel contesto della storia sociale e tecnologica”6, mentre lo studioso

Massimo Negri aggiunge che essa è “un’archeo-logia del presente, dunque, giacché la produzione industriale è ancora fatto dominante della vita contemporanea e per il suo incessante rinnovarsi lascia di continuo tracce molto concrete della sua storia”7 .

Sir. Neil Cossons, uno dei più eminenti archeo-logi industriali del Regno Unito, primo direttore 5 Industrial Archaeology Review è la rivista dell’Association

for Industrial Archaeology. Viene pubblicato due volte l’anno; il tema comune dei suoi contenuti è la testimonian-za di attività industriali superstiti.

6 R. A. Buchanan, Industrial Archaeology in Britain, Har-mondsworth, 1972.

7 Negri M., Che cos’è l’archeologia industriale, in Ricatti B.

e Tavone F. (a cura di), Archeologia Industriale e scuola,

Ma-rietti Scuola, Casale Monferrato, 1989, p.7.

della Trustbridge Gorge Museum di Ironbridge, oltre che di altri numerosi musei e pro-proponen-te e presidenpro-proponen-te del consiglio del Royal College of Art dal 2007 al 2015, insiste sull’importanza di evitare di definire in maniera troppo severa una materia così nuova: sarà il tempo a definire i con-fini dell’archeologia industriale. Egli afferma che l’archeologia industriale deve essere inserita in un contesto culturale adeguato, e non deve fare capo solamente al diciottesimo e diciannovesimo secolo.

Lo studio di queste testimonianze consente quin-di quin-di comprendere come si è venuto a formare il tessuto urbanistico attuale e di carpire alcuni aspetti fondamentali della cultura di oggi e delle trasformazioni della vita e della società umana. Si può dunque considerare l’archeologia industria-le come la disciplina che si occupa di studiare industria-le tracce e le testimonianze dell’epoca della rivo-luzione industriale, in tutte le sue varie declina-zioni (macchine, edifici, tecnologie, infrastrut-ture) e che analizza gli impatti e le conseguenze economiche e sociali che ne derivano. L’arche-ologia industriale è una scienza con una valenza multidisciplinare che interessa l’architettura, la sociologia, l’urbanistica, la tecnologia e la storia dell’arte. Giancarlo Mainini afferma che “parlare di archeologia industriale non significa limitarsi ad esaminare i resti di impianti di quel solo speci-fico settore produttivo […], rientrano perciò nel campo dell’archeologia industriale tutti i resti materiali di quelle forme di produzione urbane e rurali derivanti dagli innovamenti tecnologici introdotti nel period della rivoluzione industriale o antecedenti, funzionali in maniera diretta o su-balterna ai meccanismi di sviluppo e di riprodu-zione dell’industria e del suo capitale”8.

8 Mainini G., Rosa G., Sajeva A. (a cura di), Archeologia industriale, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 19-20.

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Oggetto di studio dell’archeologia industriale è quindi l’Industrial Heritage, il patrimonio

arche-ologico-industriale, cioè l’insieme dei manufatti (in primo luogo la macchina e la fabbrica) che hanno contribuito alla creazione del paesaggio urbano industriale che si delineò a partire dal XVIII secolo e che sono testimonianze del pro-cesso di trasformazione dell’ambiente e della so-cietà a seguito della rivoluzione industriale. Si possono far rientrare dunque in questa defini-zione le aree industriali abbandonate o dismesse oppure utilizzate per altri tipi di produzione, sta-zioni ferroviarie, officine, depositi, reti di strade, canali, ponti, gallerie, cave e miniere, villaggi ope-rai. Non ci si limita però a comprendere nella defi-nizione solamente il patrimonio materiale tangi-bile, ma anche un insieme di elementi immateriali come la memoria scritta e orale, le tradizioni, le forme del sapere tecnico e i modi di produzione: “un’insieme, dunque, composto da tutto quello che deriva dall’intreccio tra attività industriale, l’ambito territoriale, i gruppi umani”9.

Un’altra delle difficoltà da affrontare, al momento della nascita di questa disciplina, era stata quella linguistica, in quanto secondo Hudson il termine “archeologia” era stato sempre identificato con la parola “scavo”.

Michael Rix nel 1967 sosteneva già che i termi-ni “archeologia” e “industria” fossero apparente-mente contraddittori: il primo termine rimanda-va ad un’antichità che affonda le sue radici nella notte dei tempi, il secondo rinviava, invece, ad un processo tutto interno alla modernità che ha investito e modificato profondamente l’Europa e l’America del Nord, con sempre più ampie pro-paggini in America latina, in Asia, in Oceania e 9 Curti R., Macchine, tecnologie, forme del sapere tecnico: il contesto del patrimonio industriale, in Ricatti B. e Tavone F.

(a cura di), Archeologia industriale e scuola, Casale

Monfer-rato, Marietti Scuola, 1989, p.185.

in parte dell’Africa. Sembrava che non riuscissero a stare assieme e le suggestioni che essi evocavano apparivano avere un ruolo solo nel breve periodo, come strumento propagandistico utilizzato per proteggere i resti della rivoluzione industriale. Ma col passare degli anni il campo disciplinare ha retto alla prova del tempo e si è progressivamente esteso a buona parte dei paesi del mondo .

Le tecniche e le pratiche dell’archeologo dell’età della pietra non appartengono all’archeologo in-dustriale, per questo è difficile far affermare tale riconoscimento. L’archeologo industriale non deve scavare, e ripulire i reperti, catalogarli se-condo le età sottoponendoli a una serie di prove di laboratorio. Bensì, l’archeologo industriale ha il compito di intervistare chi ha lavorato in quei luoghi, chi ha guadagnato da vivere utilizzando i primi macchinari utilizzati. Si serve di fotografie, disegni, analisi scritte per documentare strutture che ancora esistono, e ne analizza i materiali e le tecnologie di funzionamento.

Queste operazioni specialistiche sono importanti quanto il lavoro di scavo più tradizionale dell’ar-cheologia fino ad allora conosciuta e concepita come tale.

Hudson afferma che il processo di ricostruzione delle condizioni di lavoro di una fabbrica, par-tendo da ciò che rimane di essa, è essenzialmente identico alla ricostruzione della vita di una comu-nità preistorica. Fino ad oggi, l’archeologia è sem-pre stata considerata come “scienza del passato” e si è identificata con lo studio delle “antichità” e dello sviluppo della cultura umana nel tempo. Recentemente, infatti, si tende ad identificare la ricerca archeologica nel recupero delle testimo-nianze materiali del tempo trascorso (che può essere sia recente che remoto), con la possibilità di interagire con altre discipline. La disciplina risulta, in questo modo, al centro di molteplici

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| Archeologia industiale

17 interessi. Questo è il significato che oggi assume la definizione di archeologia industriale.

Alla base del lavoro dell’archeologo dell’indu-stria vi sono lo studio comparato dei resti mate-riali, della catalogazione dell’esistente, le istanze di conservazione.

In conclusione, si può affermare che “oggi l’Ar-cheologia Industriale è vista come una sorta di scintillante “crocevia intellettuale” alla frontiera di discipline diverse, nella consapevolezza che il “fatto industriale” (come il “fatto archeologico”) è soprattutto conseguenza di un rapporto fra uo-mini, fra classi sociali e che dallo studio dei dati materiali si possa derivare una migliore compren-sione dei dati antropologici”10.

10 G. E. Rubino, Industrialismo e archeologia industriale. Riepilogo metodologico, 1993.

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Non è semplice riuscire a dare una definizione completa di archeologia industriale: sarebbe solo parzialmente corretto definirla come disciplina che si occupa di riscoprire e catalogare gli impian-ti industriali e tutimpian-ti gli aspetimpian-ti materiali che tesimpian-ti- testi-moniano l’avvento della rivoluzione industriale, intesi come prova degli avvenimenti economici, storici e sociali che son andati a modificare i vari paesaggi urbani e rurali.

Nell’ambiente culturale anglosassone in cui nac-que, animato da archeologi e storici dell’arte e dell’architettura, essa rivolgeva la sua attenzione ai prodotti della rivoluzione industriale, tributan-do importanza in un primo tempo ai manufatti e alle architetture e subito dopo alle infrastrutture e anche alle macchine.

L’archeologia industriale o meglio, gli architetti, ingegneri, archeologi e gli amanti di questa disci-plina, hanno soprattutto l’obiettivo di valorizza-zione e riusare questi complessi, talora imponenti e abbandonati a loro stessi, indagando le specifi-che realtà costruttive di tali oggetti architettonici realizzati dell’uomo dal XVIII secolo ad oggi. Fu a partire dalla fine degli anni Settanta, con la fine dell’era industriale, che si iniziò a pensare di recuperare questi impianti, non solo per questio-ni economiche, ma anche per questioquestio-ni ambien-tali. Queste aree divennero così vere e proprie “officine di sperimentazione” sia per gli archi-tetti-restauratori, sia per le persone che vivevano questi spazi.

Di certo tutt’oggi la fabbrica rimane uno dei gran-di soggetti del moderno, nonostante si parli para-dossalmente di fabbrica del terziario, nasconden-do al proprio interno l’industria e incorporannasconden-do i servizi. Gli insediamenti industriali storici ven-gono posti all’attenzione delle comunità come veri monumenti dell’uomo, insostituibile da altre fonti. Alcuni dei principali caratteri guida, definizione di archeologia

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| Archeologia industiale

alla base di questi recuperi, son proprio la riqua-lificazione architettonica, l’impatto ambientale e la sostenibilità economica, ottenuti dall’inte-grazione degli stabilimenti industriali nei tessuti urbani limitrofi, per ridisegnare la città in termini qualitativamente migliori. Altro elemento che ca-ratterizza la differente percezione che si ha di tale patrimonio, è la formulazione del concetto stesso di bene culturale in epoche e luoghi differenti. In Italia la legge 26 aprile 1964 n. 310, istituì, su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione, una Commissione d’indagine per la tutela e la va-lorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio. Questa Commissione, che concluderà i suoi lavori nel 1966, è conosciu-ta anche come “Commissione Franceschini” dal nome del suo presidente, Francesco Franceschini. Tra i molti meriti dei lavori della Commissione va ricordata proprio l’adozione della locuzione “bene culturale” con il significato di “tutto ciò che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Questa definizione, vittima forse della eccessiva genericità, si adatta perfettamente al concetto di archeologia industriale, soprattutto nella fase iniziale della diffusione di tale discipli-na nel nostro paese, gli anni Settanta del Nove-cento, rappresentando una evoluzione concettua-le di grande importanza che segna il superamento della concezione estetizzante del “bello d’arte” dell’approccio anglosassone e l’introduzione di una concezione storicistica.

Parte delle proposte trovarono attuazione con l’istituzione, circa dieci anni dopo, del Ministero per i beni culturali e l’ambiente, istituito nel 1974 e di lì a poco ribattezzato Ministero per i beni cul-turali e ambientali.

Gli Atti, i documenti e gli altri materiali prodotti dalla Commissione vennero raccolti in tre volumi e pubblicati nel 1967 con il titolo Per la salvezza

dei beni culturali in Italia, Casa Editrice

Colom-bo, Roma.

La “via italiana all’archeologia industriale” pas-sa per una revisione ideologica della questione, con la comprensibile volontà di portare al centro dell’attenzione la conservazione di valori legati in special modo alla vita operaia che si consumava nelle fabbriche e quindi consacrare le moderne cattedrali del lavoro ai silenziosi operatori che ne avevano animato gli spazi, ponendo il problema della conservazione e della conversione dei grandi complessi produttivi.

Le prime mostre e convegni organizzati in Euro-pa ed in Italia, facendo leva sapientemente anche su una documentazione prevalentemente icono-grafica, puntavano l’attenzione quindi sul tema della società produttiva più che sui singoli ogget-ti, riuscendo a far cambiare prospettiva su quelle che fino a poco tempo prima venivano liquidate come semplici aree dismesse.

Per l’Italia, la realtà di regioni con settori produt-tivi tanto differenti tra loro, ha fatto in modo che fin dal primo convegno del 1977 sui temi dell’ar-cheologia industriale, si cominciasse a ragionare sull’importanza di tutte le testimonianze della storia industriale del nostro Paese, dalla siderur-gia delle regioni centrali alle manifatture tessili del nord, dalle zone minerarie della Sardegna alle tonnare di Sicilia.

Tra la comprensione del problema e la possibilità di elaborare un progetto di tutela di un patrimo-nio diffuso in maniera così capillare sul territorio con caratterizzazioni legate a tante variabili, si af-fermò da subito la necessità di elaborare un inven-tario per ogni realtà per riuscire a far confluire tali dati in un unico catalogo.

Gli ostacoli nel realizzare una operazione del ge-nere emergono anche dalla difficoltà di affrontare ricerche “storiche” in senso stretto.

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Oltre ai casi più noti e comunque già inclusi nella storiografia dell’architettura in quanto progettati da noti architetti tra il XVIII e il XIX secolo è infatti spesso difficile reperire documentazione sugli edifici e sui complessi, così come i rari ar-chivi delle stesse fabbriche offrono spesso scarse informazioni.

Anche la relazione con l’ambiente rappresenta parte significativa degli intenti di tutela di tale patrimonio; ne è esemplificativa l’estensione di molti strumenti di salvaguardia dalle singole fab-briche a vaste aree di territorio dove ancora più evidente si nota il legame tra complessi produttivi e insediamenti per operai o anche tra processi di produzione e contesto.

Ultima fase in termini cronologici è quindi la ra-zionalizzazione del materiale documentario e di catalogazione raccolto.

Tenendo conto anche della velocità con la qua-le i materiali dell’industria diventano obsoqua-leti e, quindi, sempre più rapidamente rischiano di es-sere cancellati. A livello internazionale si segnala The International Committee for the Conserva-tion of Industrial Heritage fondato in Svezia nel 1978 e attualmente con sede presso l’Ironbridge Gorge Museum Trust, come coordinamento di quasi tutte le associazioni nazionali e regionali. Per l’Italia l’Istituto di Cultura Materiale e Ar-cheologia Industriale (ICMAI) ha svolto, dalla sua nascita nel 1985, azioni di sensibilizzazione verso la tutela del patrimonio industriale, fino al riconoscimento da parte ministeriale della neces-sità di istituire una apposita Commissione Nazio-nale per i Beni Culturali Industriali nel 1994.

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Ex zuccherificio Eridania, Codigoro (FE), realizzato nel 1899.

Ex Officine Meccaniche Reggiane, Reggio Emilia (RE), costruite nel 1901. Ex Fornace Penna di Sampieri (RG), realizzata tra il 1909 e il 1912.

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il manufatto industriale

Il manufatto industriale è un contenitore di con-tenuti e di valori storici, sociali, culturali, archi-tettonici ed economici. Il manufatto del comples-so industriale è in sé stescomples-so una complessità. Escomples-so non è solo forma, volume, funzione, è qualche cosa di più proprio perché racchiude un insieme di contenuti che esso rappresenta e detiene. Per capire tutti questi contenuti, però, è neces-sario guardare, studiare, conoscere il manufatto stesso. Guardando un edificio industriale si è in grado di leggere un insieme di valori e di signifi-cati che rendono particolarmente complessa non solo la lettura, ma anche il recupero degli stessi. Il manufatto anche se degradato, con le copertu-re marcite, più o meno ricoperto da vegetazione, continua a trasmettere il suo passato, la sua vitali-tà non ancora uccisa dal degrado.

Il fondamento per il recupero degli edifici e delle strutture produttive è che riconoscendo l’impos-sibilità di recuperare l’intero patrimonio arche-ologico industriale, è necessario studiarlo, cata-logarlo, conoscerlo perché non ci può essere una politica di recupero verso qualche cosa di scono-sciuto.

È fondamentale conoscere bene, prima di recupe-rare, un manufatto industriale perché esso risul-ta essere una complessità e racchiude in sé valori storici, culturali, architettonici ed artistici che appartengono alla sua storia e che creano la sua importanza.

Recuperare un edificio industriale significa, oltre che recuperare manufatti architettonici, conser-varne le memorie e la storia.

Pensare al recupero di questi manufatti significa ipotizzare un recupero complesso che va oltre ad un semplice recupero architettonico perché de-vono essere ripristinati significati e valori.

Si deve recuperare il materico e il non materico, il visibile e l’invisibile facendo in modo che il

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| Archeologia industiale

manufatto edilizio nella sua trasformazione con-tinui e trasmettere valori e significati di un passa-to recente, ma che è comunque passapassa-to e non più presente.

Per quanto riguarda il contesto in cui questi ma-nufatti si trovano, si tratta di aree che nel corso della storia hanno avuto rilevanza dal punto di vi-sta industriale, e avendone segnato storicamente lo sviluppo sono considerabili patrimoni cultura-li, storici e industriali.

La tematica degli edifici industriali dismessi, non coinvolge solo umanisti ed architetti, ma anche tutti coloro che si occupano di gestione territo-riale ai fini di sviluppo, di creazione di valore e di rinnovamento economico e sociale.

La valorizzazione e la rivitalizzazione dell’archi-tettura dismessa diviene motore di sviluppo e strumento di conoscenza del passato industriale ed economico di un popolo.

Tale patrimonio richiede un sistema progettuale fondato su conservazione e valorizzazione di tut-te le carattut-teristiche culturali, storiche, tut- tecnologi-che e ambientali tecnologi-che lo compongono.

L’edificio non deve comunque essere considerato un cimelio da tutelare e musealizzare, ma un ma-nufatto, un luogo che diventa esso stesso museo e collezione museale, inserito nel contesto ambien-tale e territoriale di appartenenza e sede di nuo-ve attività che lo rivitalizzano e funzionalizzano, portando il fruitore ad una lettura dell’edificio più approfondita e specifica.

Attraverso la progettazione archeologico-indu-striale si viene quindi a strutturare un nuovo edi-ficio che appartiene alla collettività, qualunque sia la sua nuova destinazione d’uso.

Il concetto di salvaguardia del bene non è più inteso come “congelamento” del bene stesso, ma come processo di dialogo e di trasformazione dell’intero contesto a cui il manufatto appartiene,

in modo da non fossilizzare la musealizzazione dell’edificio, ma creare invece dinamicità e nuovi valori da poter condividere e far apprezzare alla collettività.

La conoscenza del manufatto nella sua interez-za ed in tutti i suoi aspetti è quindi il punto di partenza per ogni intervento di archeologia indu-striale, in quanto è necessario conoscere ciò che si vuole recuperare, perchè non si può recuperare ciò che non si conosce.

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esempi di recupero:

auditorium paganini, renzo piano building workshop

L'Auditorium "Paganini", progettato dal Renzo Piano Building Workshop di Parigi, con la consu-lenza acustica della Muller-BBM GMBH di Mo-naco di Baviera, e realizzato all’interno dell’area ex Eridania, un complesso di edifici costruito nel 1899 e dismesso nel 1968, è stato definito, dallo stesso Piano, come "unico in Italia, destinato ad entrare in una stretta cerchia di sale per concerti a livello europeo”.

Il progetto fu avviato su iniziativa del Comune di Parma nel 1999 e fu inaugurato nel 2001.Esso fa parte di un programma più generale di riqualifi-cazione urbana di uno dei più importanti com-parti urbani dei primi decenni del '900, dove si concentrano i primi primi opifici come l’ex im-pianto di raffineria dello zuccherificio Eridania, il pastificio Barilla, il macello pubblico, il consorzio agrario e i grandi servizi tecnologici dell’epoca, come la Stazione delle Tranvie e il Gasometro, proponendo il complessivo riuso delle strutture esistenti, conservando le architetture più signifi-cative e inserendovi funzioni differenziate di rile-vanza urbana e territoriale.

Il tutto è vicino al centro storico, e inserito in un parco urbano ormai consolidato, caratterizzato dalla presenza di varie essenze, molte delle quali di elevata qualità e ad alto fusto.

In questo giardino Renzo Piano ha colto l’impat-to dei grossi muri perimetrali, che rappresentava-no l’elemento di maggiore carattere, e costituiva-no un segcostituiva-no urbacostituiva-no forte, l’eredità e la memoria della storia industriale di Parma, di quel fabbrica-to che un tempo ospitava i macchinari per la lavo-razione dello zucchero: lungo 80 metri, coperto da capriate in acciaio, corredato da un edificio accessorio adibito a officina di manutenzione e da un fumaiolo alto 45 metri, lo stabilimento ha for-nito lo schema distributivo per la sala da musica e per quella delle prove, per gli spazi di servizio e

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L'entrata principale dell'Auditorium Paganini.

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per gli impianti tecnici.

Nella sua classica configurazione funzionale, lo stabilimento era una grande “scatola”; da qui l’i-dea che potesse trasformarsi in una perfetta “boi-te à musique” con palco frontale: il layout molto lineare dell’edificio avrebbe consentito di realiz-zare un ambiente unico con volumetrie corrette per un auditorium.

Il restauro dello stabilimento ex Eridania ha com-portato importanti interventi sulla struttura, pur nel rispetto della morfologia dell’edificio esisten-te.

Sono state realizzate nuove fondazioni, e il recu-pero delle vecchie mura è avvenuto attraverso op-portuni inserimenti in cemento armato disposti a pettine all’interno della struttura preesistente. La copertura rispecchia la forma di quella ori-ginaria, che è stata totalmente ricostruita con capriate metalliche a vista per sostituire i vecchi materiali non più ideonei sia dal punto di vista meccanico-strutturale che acustico, con un man-to in rame pretrattaman-to di colore verde per ottenere una copertura il più naturale possibile che muterà nel tempo come le belle coperture in rame del passato.

Il progetto ha previsto l’eliminazione delle pareti trasversali del corpo principale, e la loro sostitu-zione con tre grandi vetrate acustiche, in modo da assicurare una totale trasparenza lungo tutto l’asse longitudinale del corpo di fabbrica, lungo circa 90 metri in modo da ottenere una sorta di “cannocchiale” visivo che, delimitando gli spazi del foyer e della sala da musica, fa del parco cir-costante, la scena naturale per il grande palcosce-nico.

Nel corpo principale sono state inserite tutte le funzioni dedicate al pubblico e allo spettacolo: il foyer, la sala principale ed un palco in grado di ospitare un’orchestra sinfonica ed un coro,

rispettando le proporzioni “canoniche” corrette in termini di resa acustica.

L’ubicazione dell’edificio in mezzo al parco ha semplificato notevolmente le opere necessarie all’isolamento nei confronti dei rumori esterni. Gli edifici accessori intorno al corpo principale sono stati demoliti, tranne uno ristrutturato per ricavarne una sala prove, i camerini, i servizi e l’uf-ficio di gestione.

L’ingresso al pubblico è posto a sud, aperto verso il parco. In successione, lungo l’asse longitudinale dell’edificio, si trova un primo spazio aperto ma protetto dalla copertura e una “piazza coperta” che media il passaggio dall’esterno all’interno, su cui si affacciano il foyer e la biglietteria.

Attraverso la prima grande vetrata si passa al foyer, diviso in due livelli, collegati da un’ampia scalinata: in basso gli spazi adibiti a guardaroba, in alto l’accesso al bar e alla platea.

Il palco è posto al limite nord del fabbricato, in prossimità della parete vetrata trasversale di chiu-sura. Misura 17 metri di larghezza e 14 di lun-ghezza, per un totale di 238 metri quadrati, tali da consentire di ospitare grandi orchestre.

La platea, capace di ospitare 780 posti divisi in sei settori su 590 metri quadri, si estende su un unico livello in leggera pendenza, per favorire la visibi-lità da tutte le file di posti del palcoscenico, a cui fanno da sfondo i cedri del Libano, le querce e i platani del parco.

Il palco ha un pavimento rialzato che lavora come una cassa armonica naturale.

Un sistema di pannellature acustiche in ciliegio, sospeso alle capriate in corrispondenza del pal-co, completa l’organizzazione spaziale del corpo principale di fabbrica.

Queste pannellature servono per rompere le onde sonore dirette e rimandare la pressione acustica alla sala. Altri elementi di controllo del suono

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L'ex zuccherificio Eridania prima degli interventi.

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sono i deflettori in vetro collocati nelle testate tra-sparenti e i pannelli a listelli di legno collocati alle spalle dell’orchestra. Questi ultimi hanno anche la funzione di evitare che il pubblico si specchi sulla vetrata.

Anche le nicchie delle finestre, elemento della struttura originaria, hanno una funzione acusti-ca: favoriscono infatti l’omogeneità del suono perché ne modificano continuamente gli angoli di flessione.

Servizi e sale prove sono collocati nell'appendice est dell'edificio dentro una "volumetria straor-dinaria" dall'acustica perfetta: "uno Stradivari", come lo ha definito il celebre architetto.

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I pannelli acustici in ciliegio. I deflettori in vetro.

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Il progetto di riqualificazione dell’ex caserma, poi divenuta ostello, del parco della Cittadella, redat-to dalla Canali Associati, è frutredat-to di un attenredat-to studio storico e filologico che è partito dalle vec-chie mappe della fortezza farnesiana con riferi-mento anche a planimetrie recuperate nell’archi-vio militare di Roma.

Si tratta di uno studio molto dettagliato che pre-vede la rinascita di un luogo che diventerà un punto di riferimento importante per il territorio, il più possibile fruibile e utile alla cittadinanza. La ristrutturazione, attualmente in fase di con-clusione, sarà un luogo vocato per bambini e fa-miglie, ma anche per giovani, studenti, anziani: un grande punto di aggregazione e di incontro per i frequentatori del Parco urbano più caro ai parmigiani: un progetto innovativo volto a fare dell’ex caserma prima ed ex ostello poi un punto di produzione creativa e culturale e, in prospetti-va, anche un punto di riferimento per i podisti. "Una soluzione tranquilla e molto rispettosa del dato storico”, spiega Canali, che ha posto l’accen-to sul rapporl’accen-to dialettico tra la parte costruita e suoi interni e l’esterno, ovvero il grande giardino che verrà realizzato nella parte di fronte all'edifi-cio che costeggia i bastioni.

Si tratta di un giardino che sarà luogo di svago ma anche di apprendimento e quindi didattico e che nasce dallo studio dei tracciati delle fondamenta della vecchia caserma che un tempo si trovava in quel luogo e che verranno ripresi nel suo allesti-mento, messi in luce dagli scavi curati dalla So-printendenza ai Beni architettonici.

L’edificio si presenta come un grande parallelepi-pedo diviso in due zone, di cui quella sulla sinistra vicino alla rampata dei bastioni è la più antica, quella più a destra è la parte più recente.

Nel complesso si tratta di 1.600 metri quadrati, distribuiti su tre piani.

esempi di recupero:

cittadella dei ragazzi, guido canali

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L'entrata principale della Cittadella dei ragazzi.

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La soluzione architettonica prevede il prolunga-mento della struttura originaria, con muratura a faccia vista e finestre simili a quelle dell'edificio antico.

Al piano terra della struttura, nella parte più an-tica, vicino alla rampata dei bastioni, verranno ri-cavati laboratori per bambini e spazi gioco, oltre ai servizi e locali accessori e un ascensore. Sempre in questa parte, una stanza, la più esterna, verrà adibita a spogliatoio con armadietti per i podisti. Nella parte nuova, sempre a piano terra, sarà pre-senta un grande open space che verrà strutturato per accogliere attività legate a famiglie e bambini: per incontri ed attività esperienziali. Sempre al piano terra del salone è previsto un bar caffetteria. Il grande open space, simile ad un ampio salone, sarà sormontato da un soppalco, aperto al centro, dove potranno trovare posto attività di lettura, una biblioteca di quartiere. Sarà uno spazio in cui le persone potranno fermarsi a leggere un libro oppure, grazie ai collegamenti ai internet, usare il computer un po’ come in un internet point. Nell'insieme il nuovo fabbricato richiama molto quello dell'Auditorium Paganini, curato da Ren-zo Piano:

"Nessuno ha copiato - scherza Canali - è la tipo-logia stessa dell'edificio a suggerire questo tipo di soluzione".

La ristrutturazione dell'ex ostello rintra nel più ampio progetto di riqualificazione dell'intera area della Cittadella che prevede la ristrutturazio-ne dell'ingresso monumentale, la riqualificazioristrutturazio-ne di tutti i percorsi asfaltati e del percorso podisti-co dell'anello alto dei bastioni, il potenziamento dell'illuminazione pubblica, oltre alla realizzazio-ne di nuovi spazi dedicati alle attrezzature spor-tive (due campi da basket, un campo di beach volley e uno "skate park") e ludiche per i bambini (tappeti elastici, giostre) oltre a nuovi giochi per i

più piccoli vicino alla Cittadella dei ragazzi. Inoltre verrà realizzata un'arena all'aperto per eventi nello spiazzo a lato dell'ingresso sud del parco ed infine è prevista l'idea di realizzare un terzo accesso alla Cittadella, in corrispondenza delle antiche mura di collegamento con il Petitot.

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Vista a volo d'uccello del progetto di riqualificazione del parco della Cittadella.

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Finanziato dal Comune di Reggio Emilia e dalla Regione Emilia Romagna per un costo comples-sivo di 5 milioni e 500 mila euro, il recupero del capannone 19 (3.700 metri quadrati utili) si in-serisce nel più ampio programma che punta alla realizzazione del Parco Innovazione.Conoscenza e Creatività all'interno dell'area diventata di pro-prietà del Comune a seguito dell'accordo con il gruppo Fantuzzi-Reggiane.

Le ex Officine Meccaniche Reggiane, attive con oltre dieci mila operai durante il secolo scorso nella produzione di materiale rotabile ferroviario, bellico e di aeroplani, ospitano oggi il primo tec-nopolo della regione Emilia Romagna. L'edificio, ormai in disuso, è stato oggetto di un concorso a inviti bandito dall'amministrazione comunale nel 2010 e mirato alla riqualificazione e al riuso dei suoi spazi. A vincere il concorso e ad aggiudicarsi l'incarico è stato lo studio locale di Andrea Oliva che nel giro di tre anni, rispettando tempi e bud-get, ha restituito alla città un polmone di memo-ria storica, oggi motore di nuove attività votate alla ricerca e all'innovazione.

Andrea Oliva ha commentato così il progetto, una volta completati i lavori: “Recuperare l’archi-tettura industriale significa stabilire un rapporto con la conoscenza dei significati. Ricerca e inda-gine diventano lo strumento per l’individuazione delle possibili trasformazioni future interpretan-do la rovina come un cantiere, come un edifico che nel suo deterioramento rivela le proprie re-gole compositive e costruttive. Dei luoghi e de-gli edifici dell’architettura industriale sono parte fondamentale i rumori delle lavorazioni, gli odo-ri, le macchine, i residui di lavorazione e le per-sone. Il degrado più significativo delle Reggiane è il silenzio. [...] L'archeologia industriale si tra-sforma in un contenitore che prosegue ideologi-camente il vecchio processo produttivo connesso esempi di recupero:

tecnopolo di reggio emilia, andrea oliva

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Il Tecnopolo di Reggio Emilia oggi.

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alle ex officine reggiane all'interno delle nuove 'produzioni' della ricerca universitaria".

Il progetto di recupero conserva la struttura stori-ca originaria a tutt'altezza della fabbristori-ca, rimasta integra, secondo le linee di un accurato restauro conservativo.

Il Capannone 19 si presentava come il risultato di una sovrapposizione tra un reparto di fonde-ria, prima, e di sbavatura, dopo. Una basilica di ferro la cui navata centrale ha sempre contraddi-stinto lo spazio di movimentazione: prima con i nastri trasportatori poi col carroponte, lasciando ai transetti laterali le lavorazioni statiche, prima dei crogioli e poi dei torni. Anche questa architet-tura, come il resto dei capannoni, riconosce, nella sua giustapposizione strutturale e nei suoi accessi, la geografia del fascio di binari che attraversava tutta l'area produttiva, agendo da transito fisico delle fasi di lavoro.

Nella fase di ideazione del concept il progettista ha dovuto coniugare la richiesta di ripristinare uno spazio dei primi anni 20 del '900, vincolato dalla Soprintendenza, con l'esigenza di ricavare un sistema di laboratori di ricerca e di trasferi-mento tecnologico.

Il rapporto tra fabbrica e contesto è mediato dalla copertura che, come un manto, si appoggia fino a terra, racchiudendo l'articolazione volumetrica del nuovo nel rispetto della sagoma storica dei suoi fronti, sui quali sono stati recuperati i mura-les dell’artista Blu.

Il concetto di funzionalità è stato raggiunto con la massima efficienza, combinando in modo quasi perfetto l’industrialità caratteristica della fabbri-ca e l’avanguardia dinamifabbri-ca dei nuovi sistemi co-struttivi per il capannone.

Fatta eccezione per la vecchia copertura in fibra di cemento amianto, smantellata e sostituita con una copertura coibentata in metallo dotata di

lucernari integrati, l'intervento tende a conserva-re il più possibile la struttura originaria.

la suddivisione degli ambienti avviene tramite moduli autoportanti, indipendenti termicamen-te e reversibili, migliorando la struttura anche a livello sismico.

Lungo la navata del capannone, alla scansione rit-mica delle originarie strutture metalliche fa eco la sequenza del sistema delle scatole, composte da travi e montanti in legno massiccio a strati incro-ciati, coibentato e tamponato con lastre in OSB e cartongesso, soluzione che rende sostenibile il fabbisogno energetico.

I box hanno un interasse costante di 5 metri e lunghezze variabili da 16,35 e 6,60 m che creano ambienti di varia dimensione e metratura.

Ogni laboratorio creato con questi moduli rive-stiti in cartongesso garantisce ottime prestazioni in termini di resistenza al fuoco, trasmissione di rumore, vibrazioni, odori, luce e onde elettroma-gnetiche, ed infatti il progetto è stato anche insi-gnito del Premio Innovazione e Qualità Urbana 2014.

“I nuovi manufatti di suddivisione e distribuzio-ne - afferma il progettista - formano un edificio nell'edificio, la cui articolazione è subordinata alla spazialità del capannone originale evitando solu-zioni di contatto, mimesi o interferenza”. I box sono disposti su tre livelli e ospitano laboratori, uffici per start-up e spin-off, spazi di incontro; la giustapposizione variabile fra i diversi corpi in le-gno crea terrazzamenti, sbalzi e percorsi che con-feriscono dinamicità al nuovo assetto distributi-vo. All'interno, il foyer e la sala riunioni sono stati ricavati dall'architettura esistente con separazioni trasparenti e opache.

Anche gli impianti, inseriti come residui del pro-cesso industriale, ricalcano le geografie dei percor-si meccanici interni al fabbricato, riutilizzando

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Schema 1 dei principi progettuali che hanno accompagnato gli interventi.

Schema 2 dei principi progettuali che hanno accompagnato gli interventi.

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passaggi, forometrie, mensole e travi. L'uso del calcestruzzo sabbiato, poi, traduce il nuovo ma-nufatto edilizio in un monolite astratto, elimi-nando le evidenze dei processi costruttivi e la-sciando all'archeologia industriale l'unico ruolo di testimonianza tecnologica, artigianale e mani-fatturiera.

I percorsi si estendono, tra interno ed esterno, at-traverso lastre di cementi e bitumi intervallati da spaccato di porfido (utilizzato per massicciate fer-roviarie), contribuendo così a liquefare il paesag-gio esistente, sospeso tra degrado e innovazione. Sempre a contatto diretto con la memoria, lo spazio si comprime e si dilata in una sequenza di spazi aperti, semichiusi e passaggi che stabilisco-no una relazione biunivoca tra passato e futuro, tra interno ed esterno, tra edifico e paesaggio, tra spazio privato e spazio pubblico.

L'articolazione dei volumi affacciati in galleria, vi-sibili dall'ingresso principale, esprime la dinami-cità della ricerca (laboratori) mentre, sul retro, il loro allineamento alla copertura configura terraz-ze e percorsi per il lavoro interdisciplinare. In tal senso, ancora una volta l'architettura contribuisce a sottolineare il rapporto tra forma e funzione. L'intervento di Andrea Oliva si distingue sia per la sensibilità verso il dialogo fra preesistenza e nuova costruzione sia per la cura con la quale sono state affrontate le opere di recupero, conso-lidamento, restauro: poche demolizioni “control-late”, come le definisce lo stesso progettista, nessu-na operazione di mimesi, attenzione al risparmio energetico, miglioramento sismico delle strutture hanno guidato il progetto verso un risultato che intende far convivere l'edificio originario con le nuove soluzioni adottate per riportarlo in vita. Passato e presente si confrontano senza produrre fratture, corroborando i loro messaggi l'uno con l'altro.

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Il capannone 19 in stato di degrado prima degli interventi e dopo la conclusione del recupero.

L'interno del Tecnopolo con vista del foyer d'ingresso e dei moduli in legno dal primo piano. L'entrata principale del capannone 19 prima e dopo gli interventi di recupero.

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Il progetto riguarda il recupero realizzato dall’Ar-ch. Pietro Carlo Pellegrini della ex fornace di Riccione, complesso industriale adibito alla pro-duzione di laterizi, costruito nel 1908 e dismesso nel 1970.

L’area di intervento misura nel complesso 40.000 m2, mentre la superficie coperta è di 3.400 m2 to-tali.

Le vecchie destinazioni lasciano posto alle nuove, sfruttando le possibilità spaziali dei vecchi corpi di fabbrica, che mantengono così le loro forme, memoria storica del luogo: nei corpi di fabbrica trovano posto una scuola media di 18 classi, per un totale di 450 alunni, un teatro multifunziona-le da 650 posti, una sede ad uffici.

L'intervento, globalmente improntato al minimo impatto ambientale, motivo per cui è stata privile-giata la sostituzione degli edifici preesistenti con nuove realizzazioni ad altissima efficienza ener-getica, senza l’occupazione di ulteriori superfici, mira da un lato al recupero e alla valorizzazione degli elementi murari in laterizio esistenti, dall'al-tro a differenziare il nuovo dall'esistente mante-nendo una coerenza compositiva nel complesso dell'intervento.

Il proposito progettuale è di creare volumi archi-tettonici semplici e riconoscibili, uniformando forme, materiali e colori e reinterpretando gli aspetti storici alla luce della contemporaneità. Il progetto aspira, per quanto riguarda la sintassi compositiva, ad una certa continuità con la Sto-ria, consentendo la trasformazione dell'uso delle opere nel tempo, senza che perdano la loro iden-tità: da qui il confronto dialettico tra il mattone recuperato e la nuova pelle in laterizio, tra la vec-chia ciminiera e quella simbolico ecocompatibile del teatro (non ancora realizzato).

Il rapporto tra nuovo e costruito viene affrontato con una forte continuità materica, differenziando esempi di recupero:

ex fornace di riccione, pietro carlo pellegrini

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I due fabbricati della scuola media: si noti la commistione tra il laterizio esistente e la nuova pelle in cotto.

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le forme, rispettando la qualità di archeologia in-dustriale dell’edificio nel suo luogo, in un dialogo continuo tra l’esistente ed il contemporaneo. La scuola Media è composta da un corpo ad un piano e da un altro, con questo collegato, di due piani fuori terra: le aule sono servite da un corri-doio centrale di smistamento; l’amministrazione, l’aula professori e la biblioteca sono divise dall’a-rea della palestra dal volume a tutta altezza dei collegamenti verticali.

Esternamente con i brise soleil in cotto si utilizza un materiale tradizionale in una forma innovativa portando coerenza e differenziazione nelvento: questi danno una unitarietà a tutto l'inter-vento caratterizzato da una moltitudine di situa-zioni preesistenti e al contempo fanno risaltare la muratura preesistente che viene mantenuta. La copertura dei corpi scuola viene affidata a ca-priate metalliche di tipo Polonceau, doppio assito in legno, strato coibentante e un manto di coper-tura in tegole di tipo embrice affiancate; sopra la palestra una terrazza viene racchiusa dal sistema brise soleil in trasparenza creando uniformità con il corpo scuola.

Anche nel teatro i brise soleil in cotto paglierino hanno la funzione di creare una parete semi-ven-tilata in grado inoltre di fornire la bicromia ri-chiesta da bando come requisito cogente, creare uniformità all'intervento celando dove necessario le retrostanti aperture e uniformando le situazio-ni distributive

Il teatro si presenta così come blocco monolitico e monumentale, con finestre e aperture ricavate e celate all’interno del sistema di facciata in brise soleil. Le zone riservate al pubblico presentano una copertura a falde con successione di embrici, mentre le zone lavorative di servizio sono a coper-tura piana praticabile; si ottiene così una gerar-chizzazione del volume tra spazi serviti e serventi.

La piazza e l’ingresso sono gli elementi architet-tonici più significativi e di comunicazione. Ne-cessari per gestire i flussi del pubblico, sono una sorta di prolungamento del foyer, un luogo me-tafisico coronato ai lati da due lunghe sedute in pietra serena, come la pavimentazione interna. All’ingresso una bussola in acciaio e vetro valo-rizza la facciata esistente in tutti i suoi aspetti ori-ginari, di integrazione e cambiamento; una sorta di teca che volutamente “mostra” il valore simbo-lico e rappresentativo di recupero archeologico dell’ex opificio.

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| Archeologia industiale

Schizzo progettuale del complesso e schizzi compisitivi vari.

Prospetto frontale e vista a volo d'uccello del complesso, con il teatro non ancora realizzato. La sovrapposizione tra la vecchia muratura recuperata edi nuovi elementi in cotto della scuola.

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La realizzazione del Museo della Conceria nell’a-rea di Via della Pelle, in cui si è avuta in tempi recenti la dismissione delle attività di lavorazio-ne dei pellami che vi si svolgevano, con il conse-guente abbandono degli impianti, è considerata dall'amministrazione come l'occasione per avvia-re un processo di riqualificazione dell'intero com-parto.

Il complesso è costituito dall'ex conceria Lapi e dal macello comunale e si affaccia direttamente su Via della Pelle, una strada disordinata, dal pun-to di vista architetpun-tonico e urbanistico, per la cre-scita rapida delle industrie conciarie attorno alla metà del secolo scorso.

L'analisi degli edifici esistenti nel sito ha portato alla decisione di conservare solo il corpo di fab-brica della conceria, modificato solo nella parte terminale per permettere il passaggionella nuo-va ala, ed il prospetto del macello, frammento, quest'ultimo, destinato a divenire una sorta di iso-lato portale nella nuova piazza pubblica.

Il complesso è completato da due nuovi elementi in mattoni a faccia vista: una loggia trasparente su pilastri in acciaio, che chiude lo spazio verso l'impianto sportivo adiacente, ed un edificio di forma lenticolare, deputato ad ospitare le sezioni introduttive e didattiche del museo.

La semplicità del meccanismo si accompagna ne-cessariamente all'estrema precisione nella defini-zione delle sue parti, come ad esempio l'accurata individuazione dei punti in cui ritagliare le aper-ture sulle pareti, per offrire le viste più significati-ve tra interno ed esterno, oppure l'accorta dispo-sizione degli elementi di servizio quali l'ascensore, gli uffici, lo spazio estruso sul retro del volume, che ospita biglietteria e guardaroba, nell'edificio di forma lenticolare.

Osservazioni analoghe si possono fare, nell'ex conceria, a proposito della sovrapposizione di un esempi di recupero:

museo della conceria, massimo carmassi e pietro carlo pellegrini

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Il cortile d'ingresso con il prospetto d'ingresso del vecchio macello e la vecchia fabbrica sullo sfondo.

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Vista assonometrica del complesso di fronte. percorso leggero, con passerelle metalliche, sopra

il sistema delle vasche; o dell'inserimento discreto della nuova scala che consente di raggiungere il secondo piano.

Ma il nodo più delicato è sicuramente il passag-gio tra la vecchia fabbrica ed il nuovo volume: la compenetrazione tra i due volumi, con il parziale svuotamento dell'angolo della conceria per inse-rirvi il corpo vetrato di collegamento su due livel-li, costituisce, infatti, l'occasione da non perdere per trasformare una necessaria cerniera funziona-le in un luogo assai più rappresentativo e capace di offrire una prospettiva inedita per comprende-re il carattecomprende-re stratigrafico dell'intero intervento. La nuova ala del museo si configura interamen-te come uno spazio a doppia alinteramen-tezza, attraversato longitudinalmente da un ballatoio ed illuminato prevalentemente dall'alto, per poter usufruire del massimo di superficie espositiva.

L'itinerario museale si svolge come una sorta di anello a partire dall'ingresso, posto all'estremità del nuovo edificio, in corrispondenza della log-gia: dopo aver transitato per la sala al piano ter-reno del museo, il pubblico potrà accedere alla conceria, visitare gli ambienti di lavoro ricostruiti in entrambi i piani per poi ritornare, attraverso un elemento di collegamento tra le due costru-zioni, nel nuovo edificio al livello del ballatoio; di qui, tramite una scala o un ascensore, sarà infi-ne possibile raggiungere l'uscita, coincidente con l'ingresso.

Vista assonometrica del complesso dal retro.

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L'interno del nuovo edificio lenticolare visto dal piano terra e dal primo piano.

L'interno della vecchia conceria restaurata.

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La ristrutturazione sull'isola di Caprera dei volu-mi del vecchio Forte Arbuticci, ottocentesca rea-lizzazione sabauda, che fino alla II Guerra Mon-diale ha ospitato strutture militari operative per la difesa della flotta della Marina Militare Italiana, ha come tema la narrazione di una vita eroica, straordinaria e generosa come quella di Giuseppe Garibaldi.

Nell'isola simbolo di Garibaldi, dove questi tra-scorse gli ultimi anni della sua vita, si realizza un intervento che integra il restauro e la conserva-zione, con una ricerca progettuale contempora-nea sempre pronta a dialogare con la tradizione storica ed architettonica del luogo. Nel forte di-smesso, che si colloca in uno tra i panorami più ammirati dell’arcipelago della La Maddalena, si decide di intervenire costruendo nel costruito, per creare un luogo dedicato alla figura di Giusep-pe Garibaldi, che riGiusep-percorra le vicende della vita straordinaria di una delle figure emblematiche del Risorgimento italiano.

Partendo da un'approfondita conoscenza storica e tecnica del contesto, sia ambientale che archi-tettonico, questo progetto di "restauro creativo", come lo definisce lo stesso Pellegrini, propone una nuova chiave di lettura dei segni e dei raccon-ti della storia, che inevitabilmente si intrecciano a quelli contemporanei: una continua conversazio-ne tra architettura ed ambiente, tra disegno for-male e stato dei luoghi, tra scala territoriale, av-vicinandosi da centinaia di metri, e scala umana, del passo del visitatore, del suo braccio allungato, della sua mano, svolto attraverso il lavoro con i materiali, la luce naturale e artificiale, le dimen-sioni dello spazio.

Il progetto di restauro rispetta la memoria dei luoghi e valorizza l'esistente con interventi mor-bidi e leggeri che ridanno vitalità agli edifici: quattro casermette diventano i corpi destinati esempi di recupero:

memoriale giuseppe garibaldi, pietro carlo pellegrini

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Il piazzale d'ingresso con il cancello ed il monumento in acciaio cor-ten.

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all'esposizione museale ed a questi si affiancano gli edifici più piccoli che ospitano la reception, il bookshop ed i servizi al pubblico.

I manufatti sono mantenuti nelle loro caratteristi-che tipologicaratteristi-che e costruttive originarie, cui ven-gono accuratamente aggiunti dettagli contempo-ranei che donano eleganza all'intero complesso, conferendogli un nuovo aspetto. I paramenti murari esterni vengono restaurati e consolidati e sono aggiunte ringhiere metalliche e dissuasori, in modo da creare una rete di percorsi panoramici che si affacciano sul mare, sul cui sfondo svettano le sette bandiere storiche dedicate a Garibaldi. I quattro edifici espositivi e i servizi vengono in-tonacati e tinteggiati di bianco, lo stesso colore che identifica la “casa bianca” di Garibaldi, in cui trascorse l’ultima fase della sua esistenza.

Il nuovo Memoriale, infatti, andrà ulteriormente a connotare Caprera come Isola Garibaldina, mu-seo vivo delle memorie e della storia di una delle maggiori personalità dell’Ottocento italiano e non solo.

Il Memoriale Garibaldi è concepito per accompa-gnare il visitatore in un viaggio attraverso i luoghi e le vicende della vita del generale, il Sud America delle lotte per la libertà, l'Africa e la Cina dei viag-gi commerciali, gli Stati Uniti dell'esilio e dell'at-tesa, l'Europa, la sua Italia ed infine Caprera. Attraverso pannelli espositivi che, come pagine di un libro, raccontano, attraverso i dettagli di importanti opere pittoriche, le cronache della sua vivace esistenza, e con vetrine appositamente di-segnate, che mostrano al loro interno importanti documenti storici e collezioni, in particolare la collezione Birardi, e infine con l'aiuto di instal-lazioni multimediali ed interattive, si ricostrui-scono luoghi, vicende e spostamenti di uomini e mezzi, narrazioni di un'attività politica e privata fuori dal comune.

I nuovi infissi in metallo hanno vetri serigrafati con il volto del Generale e aiutano il visitatore a seguire il filo conduttore dell'esposizione.

Oltre all'allestimento, il progetto ha previsto la sistemazione degli esterni, con il restauro della pavimentazione originaria in granito, che viene valorizzata ed incrementata. Ad essa si affianca, per i piazzali esterni, un pavimentazione in un prodotto ecocompatibile e stabilizzante, che non altera le caratteristiche materiche e cromatiche dell'esistente.

A completamento degli interventi sul forte, il progetto delle aree esterne si estende anche agli altri manufatti, in modo da creare un percor-so panoramico interno alla struttura fortificata, che tenga conto delle caratteristiche ambientali uniche del sito. In questo senso, si inseriscono le nuove aree di sosta ed un nuovo camminamento pedonale protetto e non invasivo.

Per quanto riguarda le riservette, che versavano in forti condizioni di degrado, sia interno che ester-no, sono stati mantenuti i caratteri tipologici an-tecedenti l'intervento, con l'uso di materiali simili all'esistente ed il ripristino delle superfici.

All'ingresso del Forte, un cancello in acciaio cor-ten di lettere, dove le parole ripetute “Giuseppe Garibaldi l’eroe dei due mondi” diventano la struttura portante del manufatto e a seguire un monumento, in lame sempre di corten, con la scritta “Memoriale Giuseppe Garibaldi” accolgo-no il visitatore e segnalaaccolgo-no il volto dell'Eroe dei Due Mondi, dipinto sul prospetto laterale dell'e-dificio dei servizi.

Di fronte ai quattro corpi espositivi, è realizzata la Piazza Italia, uno spazio pubblico scultoreo, dove la forma stilizzata della penisola, costruita con un mosaico lapideo rosso, si trasforma in pa-vimentazione e sedute. All'interno del mosaico, il mare ha pezzi di vetro frantumati ed annegati in

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Antica planimetria del Forte Arbuticci. Planimetria del nuovo Memoriale Garibaldi.

Vista d'insieme del complesso. Il mosaico e le sedute di Piazza Italia. L'ingresso del Memoriale. Le bandiere storiche dedicate a Garibaldi.

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seminato lapideo giallo siena ed infine Caprera è segnalata con una formella in vetro di Murano di colore rosso.

Questa piazza è un omaggio simbolico per com-memorare l'Italia, Garibaldi ed i 150 anni dell'U-nità, ma è anche un lavoro dedicato al futuro: “un'opera-segno per non dimenticare”, in cui nul-la ha a che fare con il mimetismo, ma tutto ha a che fare con la mimesi.

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L'interno di una delle sale espositive dalle due angolazioni opposte.

La sala espositiva multimediale. La sala espositiva dell'Impresa dei Mille. L'ingresso alle sale espositive. Planimetria del percorso museale.

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Questo intervento si distingue dai precedenti, in quanto non si tratta di un recupero di archeologia industriale, bensì di vera e propria archeologia, ma risulta molto interessante per comprendere il tema dell'accostamento tra nuovo ed esistente e soprattutto il concetto del "costruire nel costrui-to", come lo chiama l'arch. Pietro Carlo Pellegrini. Nel 1996 l’Arcidiocesi di Colonia ha lanciato un bando di concorso per un nuovo museo d’arte, il Kolumba Museum, sulle rovine di una chiesa tardo-gotica, distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.

Il sito in cui oggi risiede l’edificio gotico fu tra il I e il IV secolo destinato ad abitazione romana per una famiglia di nobili origini, e successivamente ampliata con un’abside tra il VII e VIII secolo. Ulteriori ritrovamenti archeologici, avvenuti sino agli anni Settanta, di sepolture risalenti al VIII e il IX secolo hanno fatto pensare ad un uso suc-cessivo di queste edificio come chiesa ad una sola navata, sfruttando la struttura preesistente della casa romana.

Tale costruzione diventerà quindi il modello su cui verranno fondate le successive chiese nello stesso sito, amplificandone la pianta e gli orna-menti a seconda degli usi e influenze artistiche dei diversi periodi storici che susseguiranno.

L'architetto svizzero Peter Zumthor, vincitore del concorso, ha proposto un edificio-museo desti-nato ad accogliere opere d’arte, ma che al tempo stesso è luogo di contemplazione e memoria. Dall’esterno l’edificio viene percepito come un volume in muratura, pulito ed equilibrato, con poche grandi aperture, un fortilizio che preserva al proprio interno le rovine, e pare negarsi al rap-porto verso l’esterno.

L’antico e il nuovo si fondono insieme in una sola massa muraria: il nuovo imponente paramen-to murario (60 cm di spessore) si intreccia alla esempi di recupero:

kolumba museum, peter zumthor

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Il Kolumba Museum visto dal lato strada.

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stratificata e preesistente muratura medievale in un incredibile gioco di tessiture e trame, prima sempre più fitte, poi man mano più rade, dive-nendo trafori che lasciano penetrare la luce natu-rale all’interno degli spazi museali.

Le dimensioni dei mattoni, la colorazione e la malta stessa sono stati studiati a lungo per garan-tire le migliori condizioni di adattamento e acco-stamento alle rovine: è stato ideato un formato inconsueto di mattone, 4x21x54 cm, al quale è stato dato il nome di “Kolumba Stein”, realizza-to a mano in Danimarca, adatrealizza-to a innestarsi nei muri medievali.

Grazie a questo gioco di tessiture, luci e ombre attraversano gli spazi interni, scoprendo effetti cromataci sempre nuovi nel corso della giornata e delle stagioni, esaltando la continuità tra nuovo e antico, rivelando la “sacralità” dello spazio in un spettacolo irreale ed immateriale.

Gli ambienti interni sono volutamente essenziali ed isolano il visitatore dal caos della città ester-na: un museo come un giardino segreto, luogo di raccolta e contemplazione, all’interno del quale sono custoditi molteplici strati di storia.

A livello planimetrico, Zumthor ha risposto al programma funzionale richiesto per il museo: sedici sale espositive suddivise in spazi di esposi-zione permanente, per le opere di natura religio-sa, pezzi di arte applicata, oggetti di design e arte contemporanea; e sale per esposizioni tempora-nee.

Al centro del complesso, un giardino di contem-plazione all’aria aperta: uno spazio per la preghie-ra su cui si affaccia un’ampia finestpreghie-ra che distoglie l’attenzione del visitatore, il quale viene indiriz-zato verso un enorme portale illuminato da una grande apertura.

Il portale permette l’accesso alla sala delle ro-vine, uno spazio a doppia altezza interamente

attraversato da un percorso sospeso, una prome-nade archeologica che si snoda tra sottili pilastri in acciaio fasciati nel cemento che sostengono assieme alla muratura gli spazi costruiti sovra-stanti e che costeggiano esternamente le cappelle “del Sacramento” e la “Madonna delle Macerie” dell’architetto tedesco Gottfried Böhm.

La sala delle rovine diventa così un ambiente di mediazione tra il luogo dell’arte e lo spazio sacro. Ai livelli superiori si susseguono le sale del mu-seo, ora ambienti aperti, ora spazi raccolti in cui, mentre muta la percezione, il comfort rimane co-stante.

Questo perchè vi è attenzione anche alla compo-nente energetica: lo spessore dei muri in mattone è attraversato da tubi che sfruttano la geotermia; l’aria nelle sale penetra dal soffitto mentre l’ele-gante stacco tra pareti e pavimenti l’aspira. Tralasciandogliaspetti tecnici, un’atmosfera ma-gica, quasi immateriale attraversa l'intero com-plesso, che non vuole solo esibire e preservare i resti del passato, ma intende esaltarne la memoria attraverso una scelta architettonica che fa spazio alle emozioni dei ricordi senza voce.

L’architettura di Zumthor ha dato vita ad uno spazio in cui fede e conoscenza dialogano, passato e presente si incontrano, memoria e modernità si fondono, perchè come afferma lo stesso architet-to “Passaarchitet-to e presente nella buona arte si incon-trano [...]. A Kolumba tutto comincia dall’arte”.

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| Archeologia industiale

La Sacrestia all'aperto. Il giardino di contemplazione.

La promenade archeologica. La galleria al primo piano. Pianta del piano terra del museo. Pianta del primo piano del museo.

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