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Valutazione degli effetti di un estratto titolato di Eruca Sativa L. su un modello sperimentale subcronico di dislipidemie

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ÀÀ

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Specialistica in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche

Tesi di Laurea

VALUTAZIONI DEGLI EFFETTI DI UN ESTRATTO

TITOLATO DI ERUCA SATIVA L. SU UN MODELLO

SPERIMENTALE SUBCRONICO DI DISLIPIDEMIA

Relatori:

Prof. Vincenzo Calderone

Dott.ssa Lara Testai

Candidata:

Beatrice Parolini

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Sommario

CAPITOLO 1 ... 4

INTRODUZIONE ... 4

1.1 MALATTIE CARDIOVASCOLARI E LORO PREVENZIONE ... 4

1.2 VALUTAZIONE DEL RISCHIO CV ... 7

1.3 DISLIPIDEMIE ... 13

1.3.1 COLESTEROLO ... 13

1.3.2 BIOSINTESI DEL COLESTEROLO ... 14

1.4 LIPOPROTEINE: CLASSIFICAZIONE E CENNI DI METABOLISMO ... 16

1.4.1 CLASSIFICAZIONE DI DISLIPIDEMIE ... 18

1.4.1.1 DISLIPIDEMIE PRIMARIE ... 19

1.4.1.2 CAUSE SECONDARIE DI DISLIPIDEMIE ... 20

1.5 TRATTAMENTO FARMACOLOGICO ... 22

1.5.1 STATINE ... 22

1.5.2 SEQUESTRATORI DI ACIDI BILIARI ... 23

1.5.3 INIBITORI DELL’ASSORBIMENTO DI COLESTEROLO ... 24

1.5.4 INIBITORI PCSK9 ... 24

1.5.5 ACIDO NICOTINICO ... 25

1.5.6 COMBINAZIONI TERAPEUTICHE ... 25

1.6 NUTRACEUTICI PER IL TRATTAMENTO DELL’IPERCOLESTEROLEMIA ... 27

1.6.1 FIBRA ... 27

1.6.2 FITOSTEROLI ... 29

1.6.3 SOJA ... 31

1.6.4 RISO ROSSO FERMENTATO ... 33

1.6.5 BERBERINA ... 35

1.6.6 EFFETTI DELLA SUPPLEMENTAZIONE COMBINATA DI NUTRACEUTICI ... 37

CAPITOLO 2 ... 41

2.1 BRASSICACEAE ... 41

2.2 GLUCOSINOLATI ... 41

2.3 IDROLISI DEI GLUCOSINOLATI ... 42

2.4 ISOTIOCIANATI ... 43

2.5 ATTIVITÀ BIOLOGICA DELLE BRASSICACEAE ... 43

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2.7 SCOPO DELLA RICERCA ... 47

CAPITOLO 3 ... 48 MATERIALI E METODI ... 48 3.1 SPERIMENTAZIONE ANIMALE ... 48 3.2 ESPERIMENTI IN SUBCRONICO ... 48 3.2.1 PRIMO TRATTAMENTO... 48 3.2.2 SECONDO TRATTAMENTO ... 48 3.2.3 TERZO TRATTAMENTO ... 49 3.3 PROTOCOLLO SPERIMENTALE ... 49

3.4 TECNICA DI COLORAZIONE CON OIL RED O ... 50

3.5 SOLUZIONI ... 50

3.6 COMPOSIZIONE DELLE DIETE ... 51

CAPITOLO 4 ... 54

RISULTATI E CONCLUSIONE ... 54

4.1 MESSA A PUNTO MODELLO SPERIMENTALE SUB-CRONICO DI DISLIPIDEMIA ... 54

4.2 MODELLO DIETA HF E HFHF ... 54

4.3 MODELLO DIETA HFc E HFHFc ... 60

4.4 MODELLO DIETA HFc E HFc+E.S. ... 69

4.5 CONCLUSIONI ... 76

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CAPITOLO 1

INTRODUZIONE

1.1 MALATTIE CARDIOVASCOLARI E LORO PREVENZIONE

Le malattie cardiovascolari (CV) sono un gruppo di malattie che coinvolgono il cuore e/o i vasi sanguigni. Infatti, il restringimento e l'ostruzione dei vasi sanguigni sono responsabili di patologie molto diffuse, come quelle coronariche (angina pectoris ed infarto del miocardio), cerebrovascolari (ictus) e vascolari periferiche (claudicatio intermittens).

Dati epidemiologici dimostrano che, ogni anno, le malattie CV causano la morte di più di 4 milioni di persone in Europa ogni anno, per questo motivo, attualmente costituiscono una delle principali cause di morbilità e mortalità (Townsend et al., 2015) rappresentando, inoltre, un notevole problema dal punto di vista economico. Nel 2009, infatti, i costi sanitari correlati alle malattie CV in Europa ammontarono a 106 miliardi di €, costituendo circa il 9% della spesa sanitaria totale in tutta l’Unione Europea (Nichols et al., 2012); in più, è stato stimato che negli USA i costi annuali relativi alle malattie CV triplicheranno tra il 2010 e il 2030 (Heidenreichet al., 2011). Pertanto, una corretta ed efficace prevenzione rappresenta una delle principali strategie per limitare l’insorgenza di malattie CV, riducendo così l’impatto sulla spesa sanitaria e, soprattutto sulla salute. In particolare, la prevenzione cardiovascolare comprende una serie di interventi volti a promuovere un corretto stile di vita (alimentazione, attività fisica, riduzione del fumo di sigarette e consumo di alcol), facendo anche ricorso ad appropriate terapie farmacologiche allo scopo di ridurre i fattori di rischio CV.

Diversi interventi si sono dimostrati in grado di influenzare in modo efficace lo stile di vita della popolazione: nell’ultimo decennio è aumentata la consapevolezza e la conoscenza dei fattori di rischio che conducono allo sviluppo di una malattia cardiovascolare, cosa che ha notevolmente contribuito a porre una maggiore attenzione ai livelli di colesterolo, determinando inoltre una riduzione del fumo e del consumo di sale. (Cobiac et al., 2012¸Collins et al., 2014; Mason et al., 2014; O'Keeffe et al., 2013; Moreira et al., 2015). La prevenzione quindi si dimostra efficace nel ridurre l’impatto

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delle malattie CV fino all’80% (Liu et al., 2012; Ezzati et al., 2004).

I fattori di rischio cardiovascolare sono specifiche condizioni che risultano statisticamente correlate a una malattia cardiovascolare e che pertanto si ritiene possano concorrere alla sua patogenesi. I fattori di rischio non sono pertanto da considerare agenti causali, ma indicatori di probabilità di comparsa di una malattia; la loro assenza non esclude la comparsa della malattia, ma la presenza di uno di essi, e ancor di più la compresenza di più fattori di rischio legati fra loro, ne aumenta notevolmente il rischio di insorgenza e di sviluppo.

I fattori di rischio cardiovascolare si dividono tradizionalmente in fattori di rischio non modificabili e fattori di rischio modificabili.

I fattori non modificabili sono:

 età: il rischio di malattie cardiovascolari aumenta con l'età e, nei pazienti anziani, l'età diviene il fattore di rischio dominante.

 sesso: gli studi finora condotti hanno fatto emergere un rischio maggiore negli uomini rispetto alle donne in pre-menopausa. Dopo la menopausa, tuttavia, il rischio cardiovascolare nelle donne tende ad aumentare rapidamente. L'effetto protettivo è esercitato, almeno in parte, dagli estrogeni che favoriscono livelli più elevati di colesterolo HDL rispetto agli uomini.

 familiarità: il rischio CV è tanto maggiore quanto più diretto il grado di parentela con un individuo affetto da patologia CV, quanto più elevato è il numero di parenti affetti, e quanto più precocemente si è manifestata la malattia in questi soggetti. In alcuni casi, la familiarità è dovuta alla trasmissione ereditaria di altri fattori di rischio quali diabete, ipertensione o ipercolesterolemia.

I fattori modificabili sono quelli suscettibili di correzione mediante modifiche dell'alimentazione, del comportamento, dello stile di vita, o mediante interventi farmacologici:

 Dislipidemie  Ipertensione

 Diabete

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 Fumo

 Sedentarietà

Tra questi, le dislipidemie rappresentano un fattore di rischio importante e per questo la loro prevenzione costituisce un target primario nella prevenzione delle malattie CV. È ampiamente documentata l’associazione tra dislipidemie, in particolare ipercolesterolemia, e rischio di malattie cardiovascolari (Murphy at al. 2012); pertanto la diagnosi e il trattamento precoce delle dislipidemie sono fondamentali per prevenire le malattie cardiovascolari. Infatti una delle principali malattie CV è l'aterosclerosi, patologia cronica e progressiva che si manifesta tipicamente nell'età adulta o avanzata, caratterizzata da ispessimento, indurimento, perdita di elasticità delle pareti arteriose, e conseguente riduzione dell'apporto del sangue ai tessuti. I processi aterosclerotici sono accompagnati da un’infiammazione cronica della tonaca intima delle arterie di grande e medio calibro, solitamente provocata dall'accumulo e dalla ossidazione delle lipoproteine nella parete arteriosa (Goldman e Shafer, 2012); questa condizione patologica produce un insieme dinamico di lesioni multifocali, la più tipica delle quali è la placca aterosclerotica o ateroma, ossia un ispessimento della tonaca intima delle arterie dovuto principalmente all'accumulo di materiale lipidico e alla proliferazione di tessuto connettivo, con formazione di una cappa fibrosa cicatriziale, costituita da cellule muscolari lisce, collagene e matrice extracellulare, al di sopra del nucleo lipidico costituito soprattutto da colesterolo. La placca aterosclerotica è responsabile dei sintomi dell'aterosclerosi, in quanto tende a restringere il vaso in misura più o meno marcata. Quando la stenosi dell'arteria supera un certo livello, il passaggio del sangue si fa difficoltoso e di conseguenza risulta compromessa l’irrorazione e quindi il nutrimento dei tessuti a valle. Inoltre, le placche possono andare incontro a rottura per svariati motivi e dare origine a due tipi di fenomeno. In primo luogo, piccoli frammenti della placca possono entrare in circolo, sotto forma di micro-emboli, e procedere lungo il flusso sanguigno fino ad incontrare vasi dal diametro sempre più piccolo, restando infine incuneati e impedendo l'ulteriore passaggio del sangue; questo fenomeno è detto embolia. La conseguenza è che a valle dell'ostruzione non arriverà sangue, e quindi non arriveranno ossigeno e sostanze nutritizie. Se l'ostruzione del vaso si mantiene nel tempo si produce il fenomeno dell'ischemia: il tessuto soffre per l'assenza di ossigeno e le cellule che lo costituiscono vanno incontro a morte (necrosi) e si arriva all'infarto. In

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secondo luogo, a livello della rottura si attiva il sistema della coagulazione, che determina la formazione di un tappo (trombo) costituito dalle piastrine e dai componenti del sistema della coagulazione (in particolare da fibrina, sostanza a composizione proteica, di natura filamentosa e insolubile), che provoca l’occlusione più o meno completa del lume del vaso sanguigno; questo fenomeno è detto trombosi. Anche in questo caso si avranno fenomeni ischemici, con danno ai tessuti in cui il sangue non può più arrivare. Inoltre, può avvenire il distacco di materiale trombotico della placca, dando luogo al fenomeno noto come trombo-embolia che, con meccanismo analogo a quello sopra descritto, determina sofferenza ischemica dei tessuti interessati, con la differenza che possono essere interessati vasi di calibro maggiore.

Pertanto, si comprende perché l'aterosclerosi possa dare origine a sintomi fra loro diversi, a seconda dell'arteria interessata dalla placca. Così, un'ostruzione a livello delle arterie coronarie, i vasi arteriosi che nutrono il cuore, provocherà la cardiopatia ischemica, che si manifesterà con l'angina o l'infarto; un'occlusione di un vaso che reca il sangue al cervello condizionerà la comparsa di un ictus; quando l'arteria malata è quella di una gamba, insorgeranno disturbi tipici, caratterizzati da un dolore che compare camminando e scompare con il riposo (claudicatio intermittens); l'indebolimento della parete dell'aorta, provocato dalla presenza delle lesioni aterosclerotiche, è responsabile del suo cedimento con dilatazione e formazione di aneurismi.

1.2 VALUTAZIONE DEL RISCHIO CV

Nella popolazione europea, la valutazione del rischio CV è stata effettuata tramite il progetto SCORE (Systematic Coronary Risk Evaluation) (Conroy et al., 2003) nel quale sono stati raccolti i dati derivanti da studi clinici condotti in 12 paesi europei, per un totale di 205178 persone (88080 donne e 117098 uomini) analizzando le seguenti variabili

• Età;

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• Colesterolo Totale o Rapporto Colesterolo Totale/HDL (i valori di riferimento plasmatici per il colesterolo totale sono inferiori a 190mg/dl e 115mg/dl per il colesterolo LDL;

• Pressione arteriosa sistolica; il rischio CV cresce all'aumentare della pressione sanguigna. Valori di pressione sistolica >180mmHg e/o pressione diastolica >110mmHg sono considerati ad alto rischio e suscettibili di opportuni trattamenti farmacologici;

• Fumo di sigaretta.

Il rischio viene valutato per un periodo di 10 anni e gli end-point considerati sono stati: mortalità cardiovascolare dovuta ad aterosclerosi, malattia ischemica del cuore, morte improvvisa.

La valutazione del rischio cardiovascolare totale viene effettuata sulla base di apposite carte del rischio che misurano gli eventi fatali nei successivi 10 anni (Figura1, Figura2, Figura 3).

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Figura 1 Carta di rischio CV a 10 anni nella popolazione a basso rischio CV basato sui seguenti fattori di

rischio: età, sesso, fumo, pressione sistolica e colesterolo totale. Poiché tale sistema valuta solo la mortalità e non la morbilità si suggerisce che per trasformare il rischio di morte in rischio di morte/morbilità si moltiplica per 3 il punteggio degli uomini e per quattro quello delle donne. In pratica un punteggio SCORE di 5, (nella carta per i paesi europei a basso rischio) equivarrebbe con molta approssimazione a un punteggio di 15 per una carta di mortalità/morbilità come quella italiana dell’Istituto Superiore di Sanità.

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Figura 2 Carta di rischio CV a 10 anni nella popolazione ad alto rischio CV basato sui seguenti fattori di

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Figura 3 Un esempio di tale carta di rischio SCORE è riportata nella figura: facendo pari a 1 il rischio del

soggetto più in basso a sinistra (senza fattori di rischio) esso aumenta di ben 12 volte nel soggetto più in alto a dx (fumatore con pressione arteriosa di 180 mmHg e colesterolo totale di 310 mg/dl).

Sulla base del punteggio SCORE pazienti sono stati distinti in gruppi in base al livello di rischio CV (Figura 4):

Pazienti a rischio molto elevato

 Malattia CV documentata da test invasivo o non, precedente infarto miocardico (MI); ictus ischemico

 I pazienti con diabete di tipo 2 o 1 con danno d'organo

 I pazienti con insufficienza renale cronica, da moderata a severa

 Un rischio calcolato ≥ 10% nei 10 anni di studio ( Pyo¨ra¨la¨ et al., 1994) Pazienti a alto rischio

 Fattori di rischio quali dislipidemie familiari e ipertensione grave  Un rischio calcolato ≥ 5% e <10% nei 10 anni di studio.

Pazienti a rischio moderato

Sono considerati a rischio moderato i soggetti in cui lo SCORE è ≥1% e <5% nei 10 anni di studio. Molti soggetti di età media appartengono a questa categoria di rischio. Pazienti a basso rischio

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Come mostrato in Figura 4 in funzione dei livelli di Colesterolo LDL (prima riga in alto) e del livello di rischio (prima colonna a sinistra), si delinea la strategia di intervento che può essere totalmente astensionista nel caso di basso rischio e basso LDL fino ad essere farmacologicamente aggressiva per alto rischio e alto LDL. Vi sono tuttavia situazioni di rischio alto o molto alto che richiedono l’intervento farmacologico indipendentemente dal valore di LDL (ad esempio esiti di infarto, diabete o i due associati).

Figura 4 correlazione valori LDL-rischio CV

Nel trattamento delle dislipidemie il bersaglio primario della terapia è rappresentato dalle LDL. I trials clinici più recenti mostrano una relazione lineare tra incidenza di rischio CV e valori delle LDL. Ad ogni riduzione di 40 mg/dL di LDL corrisponde una diminuzione del 22% d’incidenza del rischio CV. Il raggiungimento di valori di LDL inferiori a 70 mg/dL determina il massimo beneficio in termini di riduzione d’insorgenza di patologie CV (Cholesterol Treatment Trialists’ (CTT) Collaboration, 2010). Bersagli secondari della terapia delle dislipidemie sono l’apolipoproteina B (apo B) e le HDL.

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1.3 DISLIPIDEMIE

Per dislipidemia si intende un aumento della concentrazione del colesterolo totale a digiuno, generalmente accompagnata ad un’elevata concentrazione di trigliceridi (Nelson, 2013).

1.3.1 COLESTEROLO

Figura 5 Molecola di colesterolo

Il colesterolo (Figura 5) è una molecola appartenente alla classe degli steroli che riveste un ruolo particolarmente importante nella fisiologia degli animali, uomo incluso, in quanto svolge funzioni sia strutturali che metaboliche. Per la sua struttura a quattro anelli rigidi, è un costituente insostituibile delle membrane cellulari animali. L’85% del colesterolo libero intracellulare si trova nella membrana plasmatica dove, inserendosi all’interno del doppio strato fosfolipidico (interno soprattutto), conferisce stabilità meccanica e regola la fluidità della membrana dalla quale dipendono funzioni come la permeabilità a piccole molecole e l’attività di recettori ed enzimi di membrana. Dal punto di vista metabolico, il colesterolo è il precursore degli ormoni steroidei delle ghiandole surrenali (aldosterone, cortisone) e delle gonadi (testosterone, estradiolo, etc.) e risulta essenziale per la sintesi della vitamina D. Inoltre, il colesterolo prodotto nel fegato viene impiegato in buona parte per la produzione degli acidi biliari della bile, sostanza escreta nel duodeno che serve ad emulsionare i lipidi introdotti con l’alimentazione per renderli assorbibili dall'intestino tenue.

Tutte le cellule dell'organismo sono capaci di sintetizzare colesterolo a partire dall'acetilcoenzima A, ma l'organo centrale del metabolismo del colesterolo è il fegato. Esso, infatti, riceve il colesterolo proveniente dall'assorbimento intestinale e lo utilizza

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per la produzione delle lipoproteine plasmatiche destinate al trasporto del colesterolo ai tessuti periferici; inoltre il fegato è l'unico organo in grado di eliminare dall'organismo, servendosi della bile, il colesterolo in eccesso che gli perviene dai tessuti mediante le HDL (high density lipoproteins). A livello epatico, il colesterolo di origine alimentare giunge trasportato dalle particelle rimanenti dei chilomicroni; ad esso si aggiungono il colesterolo endogeno di sintesi epatica e il colesterolo di ritorno dai tessuti periferici tramite le HDL (il cosiddetto trasporto inverso del colesterolo). La produzione del colesterolo endogeno è regolata dai componenti della dieta, in modo tale che la sua sintesi viene inibita dal colesterolo alimentare e stimolata dagli acidi grassi. Negli epatociti il colesterolo è assemblato nelle VLDL (very low density lipoproteins), affinché possa essere trasportato in tutto l'organismo. Il colesterolo epatico viene utilizzato anche per la secrezione nella bile, sia in forma di sali biliari, sia come colesterolo non esterificato. Anche a livello dei tessuti periferici il pool intracellulare di colesterolo deriva in parte dall'esterno e in parte dalla sintesi endogena. Il primo è costituito dal colesterolo trasportato dalle LDL (low density lipoproteins) che vengono endocitate grazie all'intervento dei recettori specifici (LDLR). Quando la disponibilità intracellulare di colesterolo è alta vengono inibite sia la sintesi endogena sia l'espressione dei recettori LDLR, così da evitare un eccesso di colesterolo libero nelle membrane e un suo accumulo nel citoplasma in forma di colesterolo esterificato. Dalla membrana plasmatica il colesterolo libero può essere rimosso dalle HDL che lo riportano nuovamente al fegato. Poiché le LDL non riescono a superare la barriera ematoencefalica, il cervello deve produrre da solo il colesterolo di cui necessita (Nelson e Cox, 2002).

1.3.2 BIOSINTESI DEL COLESTEROLO

Le tappe biosintetiche seguono la via metabolica dell'acido mevalonico (Figura 6): nella prima tappa si ha la conversione dell'acetil-CoA in mevalonato. È suddivisa in tre sotto-tappe: nella prima si ha la condensazione di due molecole di acetil-CoA per formare acetoacetil-CoA (reazione catalizzata dalla β-chetotiolasi); nella seconda tappa l'acetoacetil-CoA prodotto reagisce con un'altra molecola di acetil-CoA e si forma 3-idrossi-3-metilglutaril-CoA (HMG-CoA) reazione catalizzata dalla HMG-CoA sintasi; nella terza tappa l'HMG-CoA viene ridotto, in presenza di NADPH, a mevalonato dall'enzima HMG-CoA reduttasi, ed è proprio a questo livello che agiscono alcuni farmaci e composti ad azione ipocolesterolemizzante (statine e riso rosso fermentato). Le prime due tappe

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sono reversibili, mentre la terza è una tappa obbligata che determina la velocità della reazione. Nella seconda tappa si ha la formazione di unità isopreniche attivate. Per prima cosa tre gruppi fosfato vengono aggiunti al mevalonato per trasferimento dall'ATP (che viene quindi idrolizzato ad ADP). Successivamente il gruppo ossidrilico sul carbonio-3 viene rimosso, insieme al gruppo carbossilico vicino, e si forma in questo modo la prima unità isoprenica attivata, il Δ3-isopentenil pirofosfato. Per isomerizzazione di quest'ultima sostanza, si forma un’ulteriore unità isoprenica attivata: il dimetilallil-pirofosfato. Nella terza tappa (in tre sotto-tappe) si forma lo squalene per condensazioni "testa-coda" (prime due tappe) o "testa-testa" (terza tappa) tra le unità isopreniche attivate formatesi nelle reazioni precedenti (Nelson e Cox, 2002).

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1.4 LIPOPROTEINE: CLASSIFICAZIONE E CENNI DI METABOLISMO

Le lipoproteine plasmatiche sono aggregati micellari macromolecolari di elevato peso molecolare, costituiti da un mantello esterno anfipatico composto da apo-proteine e da un singolo strato di fosfolipidi e colesterolo libero e un nucleo interno idrofobico contenente lipidi apolari (colesterolo esterificato e trigliceridi); questa struttura le rende solubili nel plasma. In base alla densità, le lipoproteine plasmatiche sono classificate in: chilomicroni, lipoproteine a densità molto bassa (VLDL), lipoproteine a densità intermedia (IDL), lipoproteine a bassa densità (LDL), lipoproteine ad alta densità (HDL), lipoproteine a (Lpa).

• Chilomicroni - le meno dense, sintetizzate a livello dell'intestino tenue, veicolano soprattutto trigliceridi e colesterolo introdotti con la dieta e sono dirette ai tessuti muscolare e adiposo prima di essere rimossi dal fegato come particelle rimanenti. Sono presenti in circolo soltanto dopo il pasto (periodo post-prandiale);

• Lipoproteine a densità molto bassa o VLDL (Very low density lipoprotein) - trasportano i trigliceridi sintetizzati dal fegato ai tessuti. • Lipoproteine a densità intermedia o IDL (Intermediate density lipoprotein) - sono prodotti del metabolismo delle VLDL e hanno densità intermedia tra le VLDL e le LDL.

• Lipoproteine a bassa densità o LDL (Low density lipoprotein) - trasportano il colesterolo dal fegato alle cellule dell'organismo. Volgarmente sono definite le lipoproteine del "colesterolo cattivo". • Lipoproteine ad alta densità o HDL (High density lipoprotein) -

recuperano il colesterolo dai tessuti e lo trasportano al fegato. Sono note come le lipoproteine del "colesterolo buono".

Strutturalmente le lipoproteine plasmatiche presentano un core che è del tutto apolare e interagisce con la faccia interna apolare dell'involucro fosfolipidico. L'involucro a sua volta è composto da tre principali tipi di molecole: un primo di natura proteica, le apolipoproteine, e due di origine lipidica (fosfolipidi e colesterolo non esterificato). La superficie delle lipoproteine è idrofila, pertanto non presenta problemi di interazione con l'ambiente acquoso esistente nei vasi sanguigni, nei vasi linfatici e nelle cellule.

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Le apoliproteine svolgono l'essenziale funzione di definire il destino delle singole particelle. Le lipoproteine prodotte a livello del tenue (chilomicroni) esprimono come componente specifica l'apoproteina B48 (apoB48), mentre quelle sintetizzate nel fegato (VLDL e derivati metabolici) presentano come costituente specifico apoB100. Sia i chilomicroni che le VLDL e le IDL plasmatiche contengono inoltre diverse molecole di apoE, che vengono riconosciute dagli specifici recettori delle cellule del fegato (LDL Receptor-like Protein: LRP) che portano alla rimozione epatica di tali lipoproteine. Alla apoB e alle apoE si aggiungono le apolipoproteine di classe C con funzioni correlate alla metabolizzazione dei trigliceridi: apoCII attiva la lipoproteinlipasi e apoCIII la inibisce. Le LDL contengono solo apoB100, riconosciuta dai recettori per le LDL o LDLR (ubiquitari nelle cellule nucleate) che consentono l'internalizzazione del colesterolo nelle cellule di tutti i tessuti. Le HDL esprimono invece apolipoproteine di classe apoA; in particolare le apoAI favoriscono l'immagazzinamento di colesterolo esterificato nella particella, in quanto cofattori dell'enzima lecithin cholesterolacyltransferase (LCAT), catalizzatore della formazione di esteri del colesterolo. La Lp(a) ha una composizione simile alle LDL, ma ne differisce per la presenza dell'apolipoproteina(a), o apo(a), sintetizzata nel fegato e legata all'apoB100 (Nelson e Cox, 2002).

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I chilomicroni trasportano i grassi alimentari provenienti dall'assorbimento intestinale (grassi esogeni), mentre le VLDL, sintetizzate nel fegato, veicolano i grassi endogeni elaborati dal fegato durante il periodo di digiuno. I chilomicroni e le VLDL subiscono l'azione idrolitica delle lipoproteinlipasi, che scindendo i trigliceridi del core in acidi grassi e glicerolo, forniscono i substrati energetici necessari alle cellule muscolari e al tessuto adiposo; agendo sui chilomicroni, le lipoproteinlipasi determinano la formazione dei c.d. “remnants”; agendo sulle VLDL determinano la formazione di IDL e LDL (Figura 7).

Le HDL sono responsabili del "trasporto inverso" del colesterolo (Figura 8) dai tessuti periferici al fegato, l'unico organo in grado di eliminare il colesterolo, tramite la bile (Kasper et al., 2015).

Figura 8 Metabolismo delle lipoproteine HDL e trasporto inverso del colesterolo.

Tutte le lipoproteine contenenti apoB, ad eccezione dei chilomicroni e delle VLDL più voluminose, sono in grado di causare aterosclerosi; al contrario quelle contenenti apoAI rivestono un ruolo protettivo (Ginsberg et al., 2009).

1.4.1 CLASSIFICAZIONE DI DISLIPIDEMIE

Come riportano le più recenti linee guida sul trattamento delle dislipidemie (Catapano et al. 2016), le dislipidemie possono essere causate da fattori ereditari o da abitudini di vita scorrette, ma possono anche manifestarsi secondariamente ad altre patologie, quali obesità ed ipotiroidismo.

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1.4.1.1 DISLIPIDEMIE PRIMARIE Ipercolesterolemie familiari

- Iperlipidemia familiare combinata Questa condizione è caratterizzata da elevati livelli di colesterolo LDL (c-LDL) e trigliceridi o entrambi. Il fenotipo può variare tra i membri della stessa famiglia.

- Ipercolesterolemia familiare (eterozigote o omozigote). È caratterizzata da un’alterazione monogenetica, quindi di un solo gene, del recettore per le LDL (LDL-R). Si manifesta con elevati livelli di c-LDL e un notevole rischio di malattia coronarica, che si presenta molto precocemente (anche prima dei 20 anni) nella forma omozigote, e intorno ai 55-60 anni nella forma eterozigote. Questa condizione, pertanto, necessita di un trattamento precoce.

Disbetalipoproteinemia familiare È una malattia autosomica recessiva, causata dalla presenza di una diversa isoforma dell’apo-E (nella maggior parte dei casi omozigosi dell’isoforma E2 dell’apoE); poichè l’apoE è importante per la clearence dei remnants e delle IDL, questa patologia è caratterizzata da elevati livelli di colesterolo totale e trigliceridi (TG).

Cause genetiche di ipertrigliceridemia Le cause genetiche dell’ipetrigliceridemia sono legate all’effetto poligenico di più geni, che influenzano il metabolismo delle VLDL (Hegele et al., 2014; Johansen et al., 2011).

Altri disordini genetici del metabolismo delle lipoproteine

- Ipobetalipoproteinemia: alterazione dell’apoB, per cui si osservano bassi livelli di c-LDL.

- Abetalipoproteinemia: dovuta ad un deficit più importante dell’apoB.

- Analphalipoproteinemia (malttia di Tangier): quasi assenza di c-HDL

- Deficit di lecitina-colesterolo aciltransferasi: quasi assenza di c-HDL

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1.4.1.2 CAUSE SECONDARIE DI DISLIPIDEMIE

- Obesità L’obesità è frequentemente associata a dislipidemia. L’aumento della massa degli adipociti e la concomitante riduzione della sensibilità insulinica associata all’obesità hanno numerosi effetti sul metabolismo lipidico. Un maggior numero di acidi grassi liberi (FFA) viene trasportato dal tessuto adiposo verso il fegato, dove vengono riesterificati dagli adipociti per formare i trigliceridi che, impacchettati nelle VLDL, vengono secreti nel circolo ematico. Gli aumentati livelli di insulina promuovono la sintesi epatica di acidi grassi. L’assunzione attraverso la dieta di un eccesso di carboidrati semplici conduce, inoltre, alla produzione epatica di VLDL, a cui consegue, in alcuni individui obesi, un incremento di VLDL e/o LDL. I livelli plasmatici di c-HDL tendono a essere bassi nell’obesità, in parte a causa della ridotta lipolisi. La perdita di peso è spesso associata ad una diminuzione delle lipoproteine plasmatiche contenenti apoB e ad un incremento delle HDL plasmatiche (Kasper et al., 2015).

- Diabete mellito I pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 (DM1) non sono in genere dislipidemici se mantengono un buon controllo glicemico. I pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 (DM2) sono in genere dislipidemici, anche con un controllo glicemico relativamente buono. Gli alti livelli di insulina e l’insulinoresistenza associata al DM2 hanno diversi effetti sul metabolismo lipidico: 1) diminuzione dell’attività della lipoprotein-lipasi, che comporta una diminuzione nel catabolismo dei chilomicroni e delle VLDL; 2) incremento nel rilascio degli acidi grassi liberi dal tessuto adiposo; 3) incremento della sintesi degli acidi grassi nel fegato; 4) aumento nella produzione epatica di VLDL. I pazienti affetti da DM2 hanno diverse anomalie lipidiche, compresi elevati livelli plasmatici di trigliceridi (dovuti all’aumento di VLDL e lipoproteine residue), elevati livelli di LDL dense e un abbassamento di c-HDL (Kasper et al., 2015).

- Malattie della tiroide L’ipotiroidismo si associa a elevati livelli di c-LDL, dovuto principalmente alla riduzione della funzione del recettore epatico dell’LDL e al ritardo nella rimozione dell’LDL.

- Malattie renali La sindrome nefrosica è spesso associata a iperlipoproteinemia, che è in genere combinata ma può anche manifestarsi come ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia. La displipidemia della sindrome nefrosica è legata alla

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combinazione di un incremento della produzione epatica delle VLDL e di una diminuzione dello smaltimento, con aumento della produzione di LDL. L’insufficienza renale terminale è spesso associata a modesta ipertrigliceridemia, ed è dovuta all’accumulo di VLDL e lipoproteine residue nella circolazione.

- Malattie epatiche L’epatite dovuta a infezioni, farmaci o alcool è spesso associata ad aumenti della sintesi di VLDL e a ipertrigliceridemia, da leggera a moderata. Numerose epatiti ed insufficienze epatiche sono associate ad una significativa riduzione del colesterolo plasmatico e dei trigliceridi, dovuta ad una ridotta attività biosintetica delle lipoproteine. Nella colestasi si osserva ipercolesterolemia a volte molto grave, essendo la bile la via principale con cui il colesterolo viene eliminato. Il colesterolo in questo caso viene escreto nel plasma associato ai fosfolipidi, costituendo una particella lamellare chiamata LPx, responsabile della formazione di xantomi palmari striati.

- Malattie da accumulo lisosomiale Malattie da accumulo degli esteri del colesterolo (deficit della lipasi acida lisosomiale) e glicogenosi (malattia di von Gierke, causata dalla mutazione della glucosio-6-fosfatasi).

- Sindrome di Cushing L’eccesso dei glucocorticoidi è associata a incremento della sintesi di VLDL e a ipertrigliceridemia. Possibile inolre un leggero aumento del c-LDL.

- Alcool Il consumo regolare di alcool ha un effetto variabile sui livelli lipidi plasmatici. L’effetto più comune è l’incremento dei livelli di trigliceridi nel plasma. Il consumo di alcol stimola la secrezione epatica di VLDL, presumibilmente in seguito all’inibizione dell’ossidazione epatica degli acidi grassi liberi, i quali a loro volta promuovono la secrezione epatica di trigliceridi e la secrezione delle VLDL. Il consumo regolare di alcool è inoltre associato ad un incremento dei livelli plasmatici di HDL.

- Farmaci La somministrazione di estrogeni è associata ad un incremento della sintesi di VLDL e HDL, che determina elevati livelli plasmatici di trigliceridi e c-HDL, pattern piuttosto specifico, poiché solitamente i livelli di trigliceridi e c-HDL sono di solito inversamente correlati. Molti farmaci hanno impatto significativo sul metabolismo lipidico e possono indurre importanti alterazioni nel profilo lipoproteico:

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 Riduzione LDL: tossicità da niacina  Aumento HDL: estrogeni

 Riduzione HDL: steroidi anabolizzanti, beta-bloccanti

 Elevazione VLDL: estrogeni, betabloccanti, glucocorticoidi, acido retinoico, resine leganti gli acidi biliari

1.5 TRATTAMENTO FARMACOLOGICO

1.5.1 STATINE

Le statine riducono la sintesi di colesterolo a livello del fegato, avendo un’azione competitiva di tipo inibitoria con l’enzima HMG-CoA reduttasi, enzima che regola la biosintesi di colesterolo e che nella via biosintetica del colesterolo converte il 3-idrossi-3-metilglutaril-CoA in acido mevalonico a livello epatico (Figura 6).

La riduzione di colesterolo intracellulare induce l’aumento di espressione del recettore delle LDL sulla superficie degli epatociti, con conseguente incremento dell’uptake di c-LDL dal sangue e una riduzione dei livelli di c-c-LDL plasmatici e di altre lipoproteine contenenti apo-B, tra cui le particelle ricche in trigliceridi.

La riduzione di c-LDL è dose dipendente e varia tra le diverse statine (Weng et al., 2010). C’è inoltre una considerevole variabilità individuale nella riduzione

di c-LDL con la stessa dose di statine (Boekholdt et al., 2014).

Una ridotta risposta al trattamento con statine è in parte causato da una bassa compliance, ma può essere anche dovuto ad alterazioni a carico sia di geni coinvolti nel metabolismo del colesterolo sia di geni coinvolti nell’uptake e nel metabolismo delle statine a livello epatico (Chasman et al., 2012; Reiner, 2014).

Inoltre vanno prese in considerazioni patologie determinanti ipercolesterolemia come ad esempio l’ipotiroidismo. Infatti variazioni interindividuali nella risposta alle statine giustificano il monitoraggio della risposta individuale una volta iniziata la terapia Le statine sono tra i farmaci più studiati nell’ambito della prevenzione delle malattie CV. Un elevato numero di studi su larga scala, ha dimostrato che le statine riducono sostanzialmente morbilità e mortalità cardiovascolare sia nella prevenzione primaria che secondaria in entrambi i sessi ed in tutti i gruppi di età.

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contribuire alla regressione della aterosclerosi coronarica. Le evidenze attualmente disponibili suggeriscono che il beneficio clinico è indipendente dal tipo di statina utilizzata, ma dipende dalla riduzione del c-LDL; pertanto la scelta della statina dovrebbe basarsi sul livello di colesterolo LDL che si vuole raggiungere in ciascun paziente.

1.5.2 SEQUESTRATORI DI ACIDI BILIARI

Gli acidi biliari sono sintetizzati nel fegato a partire dal colesterolo e sono rilasciati all’interno del lume intestinale, ma la maggior parte degli acidi biliari vengono riassorbiti attraverso il circolo entero-epatico. I due sequestratori di acidi biliari più datati sono la colestiramina e il colestipolo, entrambi resine leganti gli acidi biliari. Recentemente è stato introdotto il farmaco sintetico colesevelam. I sequestratori di acidi biliari non sono assorbiti sistematicamente o metabolizzati dagli enzimi digestivi, quindi gli effetti benefici a livello clinico sono indiretti. Legando gli acidi biliari, questi farmaci prevengono l’assorbimento degli acidi biliari nel sangue, in tal modo rimuovono un’ampia porzione di acidi biliari dal circolo entero-epatico. Il diminuito ritorno di acidi biliari al fegato conduce ad un’up-regulation di enzimi chiave responsabili della sintesi di acidi biliari a partire dal colesterolo, in particolare CYP7A1. L’aumentato catabolismo di colesterolo in acidi biliari, risulta da un aumento compensatorio dell’attività del recettore delle LDL epatico, rimuovendo c-LDL dal circolo e quindi riducendone i livelli plasmatici.

Al dosaggio massimo di colestiramina, colestipolo o colesevelam, è stata osservata una riduzione di c-LDL del 18-25%. Non sono riportati effetti sui livelli di c-HDL, mentre i livelli di trigliceridi possono aumentare in pazienti predisposti. Nei trial clinici, i sequestratori di acidi biliari hanno largamente contribuito a dimostrare l’efficacia della riduzione di c-LDL nel ridurre eventi cardiovascolari in soggetti ipercolesterolemici, con benefici proporzionali all’abbassamento di c-LDL (The Lipid Research Clinics Coronary Primary Prevention Trial results I, 1984; Pre-entry characteristics of participants in the Lipid Research Clinics' Coronary Primary Prevention Trial, 1983; The Lipid Research Clinics Coronary Primary Prevention Trial, 1992).

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1.5.3 INIBITORI DELL’ASSORBIMENTO DI COLESTEROLO

L’ezetimibe è il primo farmaco ipolipemizzante che inibisce l’assorbimento intestinale di colesterolo introdotto con la dieta e colesterolo biliare senza interferire con l’assorbimento di nutrienti liposolubili. Inibendo l’assorbimento di colesterolo a livello dei villi intestinali, interagendo con la Niemann-Pick C1-like protein 1 (NPC1L1), ezetimibe riduce la quantità di colesterolo trasportato al fegato, che risponde aumentando l’espressione del recettore per le LDL; questo conduce ad una aumentata clearance di c-LDL dal sangue.

Gli studi clinici hanno dimostrato che la terapia con ezetimibe riduce il c-LDL in pazienti ipercolesterolemici del 15-22%. La terapia combinata con ezetimibe e statine fornisce una ulteriore riduzione del 15-20%. L’associazione di ezetimibe e simvastatina è stata valutata in pazienti con stenosi aortica nello studio SEAS (Simvastatin and Ezetimibe in Aortic Stenosis) (Rossebø et al., 2008) e in pazienti con malattie renali croniche nello studio SHARP (Study of Heart and Renal Protection); entrambi gli studi hanno dimostrato una riduzione degli eventi cardiovascolari nei pazienti trattati con simvastatina-ezetimibe rispetto a quelli trattati con placebo (Rossebø et al., 2008; Sharp Collaborative Group, 2010).

Nello studio IMPROVE-IT (Improved Reduction of Outcomes: Vytorin Efficacy International Trial) l’ezetimibe è stato aggiunto alla simvastatina (40 mg) in pazienti con pregressa sindrome coronarica acuta (Cannon et al., 2015).

I risultati dello studio IMPROVE-IT (Stitziel et al., 2014) insieme a quelli di altri studi come lo studio PRECISE-IVUS(Tsujita et al., 2015), dimostrano che l’ezetimibe dovrebbe essere utilizzato come terapia di seconda linea in associazione con una statina quando l’obiettivo terapeutico non si è raggiunto alla massima dose tollerata di statina o in pazienti intolleranti alle statine o in cui esse siano controindicate.

1.5.4 INIBITORI PCSK9

È da poco disponibile una nuova classe di farmaci inibitori della proteina PCSK9, la quale è coinvolta nell’espressione del recettore per le LDL (Abifadel et al., 2003). Elevati livelli di questa proteina nel plasma riducono l’espressione del recettore per le LDL, legandosi ad esso e promuovendone il catabolismo lisosomiale, e aumentando di conseguenza la concentrazione plasmatica di c-LDL; al contrario, bassi livelli di PCSK9

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determinano una riduzione dei livelli del c-LDL plasmatico (Norata et al., 2014). Le strategie terapeutiche sviluppate prevedono l’utilizzo di anticorpi monoclonali che bloccano la proteina PCSK9 determinando una maggiore espressione di recettori per le LDL sulla superficie cellulare e quindi una riduzione del c-LDL fino a circa il 60%, indipendentemente dalla presenza di una terapia di fondo ipolipemizzante (statine, ezetimibe etc.) (Norata et al., 2014).

1.5.5 ACIDO NICOTINICO

L’acido nicotinico ha ampia azione nella modulazione lipidica, aumentando il c-HDL in modo dose-dipendente fino al 25% e riducendo il c-LDL del 15-18% e i TG del 20-40% alla dose di 2g/die. Inoltre l’acido nicotinico è l’unico a ridurre i livelli di Lp(a) fino al 30% a questa dose. Dopo che due grossi studi con acido nicotinico, uno con niacina a rilascio prolungato (Boden et al., 2011) e uno con niacina e laropiprant (Landray et al., 2014), non mostrarono beneficio clinico ma piuttosto un’aumentata frequenza di gravi reazioni avverse, al momento in Europa non è approvato nessun farmaco contenente acido nicotinico per il trattamento dell’ipercolesterolemia. Il suo utilizzo è riservato ai casi di ipertrigliceridemia.

1.5.6 COMBINAZIONI TERAPEUTICHE

Sebbene risultati soddisfacenti siano raggiunti con la monoterapia in molti pazienti, un numero significativo di soggetti ad alto rischio o pazienti con livelli molto alti di c-LDL necessitano di una terapia combinata. Inoltre alcuni pazienti sono intolleranti alle statine oppure non tollerano statine ad alto dosaggio; in questi casi una terapia dovrebbe essere presa in considerazione una terapia combinata (Figura 9).

Come precedentemente discusso la terapia combinata con ezetimibe-statina determina un incremento nella riduzione del c-LDL rispetto a quanto si osserva con la sola statina. La combinazione di una statina con colestiramina, colestipolo, colesevelam può essere utile nel raggiungere l’obiettivo terapeutico; in media l’aggiunta di una resina sequestrante gli acidi biliari ad una statina determina un’ulteriore riduzione di c-LDL del 10-20%. Vi sono evidenze che questa combinazione possa ridurre i processi aterosclerotici, sulla base delle valutazioni con angiografia coronarica (Zhao et al., 2009)

nei pazienti ad alto rischio come quelli con FH (ipercolesterolemia familiare) o in caso di intolleranza alle statine possono essere considerate altre combinazioni.

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La cosomministrazione di ezetimibe e resine sequestranti gli acidi biliari determina una riduzione addizionale del c-LDL senza effetti avversi addizionali se comparati con la monoterapia con resine sequestranti gli acidi biliari (Jones e Nwose, 2013). Alimenti contenenti fitosteroli così come integratori a base di steroli vegetali riducono ulteriormente i livelli di c-LDL fino al 5-10% in pazienti che assumono una statina, e questa combinazione, inoltre è ben tollerata e sicura (Gylling et al., 2014; Abumweis et al., 2008).Comunque non è ancora noto se questo possa ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, non essendo stati condotti trials clinici. La combinazione di riso rosso fermentato e statine non è raccomandata.

Nei pazienti a rischio molto alto, con livelli di c-LDL persistentemente elevati nonostante il trattamento con statina a dose massima in combinazione con ezetimibe, o in pazienti intolleranti alle statine dovrebbe essere preso in considerazione un inibitore di PCSK9. Le raccomandazioni per il trattamento dell’ipercolesterolemia sono riassunte nella tabella della figura 9.

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1.6

NUTRACEUTICI

PER

IL

TRATTAMENTO

DELL’IPERCOLESTEROLEMIA

Le strategie terapeutiche per il raggiungimento di valori ottimali di colesterolo LDL prevedono sia interventi sullo stile di vita che interventi farmacologici. Infatti, l’approccio terapeutico iniziale al paziente con ipercolesterolemia prevede innanzitutto l’attuazione di misure di intervento non farmacologiche (Catapano et al., 2011). Una dieta corretta, che preveda un basso apporto di grassi saturi, di acidi grassi “trans” e di colesterolo ed un aumento dell’apporto di fibre alimentari, oltre che la prescrizione di un programma di esercizio fisico si accompagnano a riduzioni più o meno rilevanti del colesterolo LDL con un effetto favorevole su altri fattori di rischio cardiovascolare. L’intervento sullo stile di vita è necessario non solo come approccio iniziale, ma anche quando si ravvisi l'opportunità di somministrare farmaci ipocolesterolemizzanti. Per quanto riguarda l’intervento dietetico, è doveroso sottolineare alcuni aspetti che spesso ne limitano l’efficacia: la compliance da parte dei pazienti è spesso insoddisfacente e gravata da un elevato tasso di ridotta persistenza a medio-lungo termine (Chapman, 2010); inoltre, alcuni componenti della dieta con possibile o provata azione ipocolesterolemizzante sono presenti in quantità modesta o funzionalmente insignificante negli alimenti. Per tali motivi, negli ultimi anni si è diffusa la possibilità dell’utilizzo dei “nutraceutici”, ovvero nutrienti e/o composti bioattivi presenti talora in alcuni alimenti, spesso di origine vegetale o microbica, con possibili effetti benefici sulla salute dell’uomo. Per ottenere effetti farmacologici devono essere assunti in quantità nettamente superiore a quella presente negli alimenti stessi e che, quindi, devono essere addizionati a questi ultimi e/o assunti sotto forma di integratori alimentari (formulazioni liquide, compresse, capsule).

1.6.1 FIBRE

La fibra alimentare è costituita dalle parti edibili dei vegetali che sfuggono alla digestione nell’intestino tenue dell’uomo e transitano integre nell’intestino crasso. Essa include polisaccaridi non amilacei (cellulosa, emicellulosa, gomme, pectine), oligosaccaridi (inulina, frutto-oligosaccaridi) e lignina.

L’effetto ipocolesterolemizzante della fibra è associato in primo luogo alla sua viscosità. Infatti, le fibre viscose solubili in acqua formano un gel che lega gli acidi biliari nell’intestino tenue e aumenta la loro escrezione nelle feci. Il colesterolo è un

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componente importante della bile, e di conseguenza, l’aumentata escrezione di acidi biliari induce un maggiore utilizzo del colesterolo per la produzione epatica di bile. Più alta è la viscosità della fibra, maggiore è il suo potenziale ipocolesterolemizzante (Chutkan et al., 2011; Vuksan et al., 2011). Inoltre, è stato suggerito un possibile meccanismo indiretto esercitato dai prodotti della fermentazione intestinale della fibra, noti come acidi grassi a corta catena (SCFA), che possono esercitare effetti favorevoli sul metabolismo lipidico (Assmann et al., 2014; Moreno et al., 2014). Dati epidemiologici hanno dimostrato che il consumo abituale di fibra alimentare è associato alla riduzione del rischio cardiovascolare (Yang et al., 2014). In particolare, per ogni incremento di 10 g/die del consumo di fibra, specialmente da cereali integrali e frutta, è stata osservata una riduzione del 14% del rischio di eventi coronarici e del 27% di morte per malattia coronarica (Pereira et al., 2004). Tale associazione può essere spiegata dagli effetti metabolici delle fibre, in primis quello ipolipemizzante. Numerosi studi hanno poi valutato l’effetto del consumo di fibra sulla riduzione delle concentrazioni dei lipidi plasmatici dimostrando che una dieta ricca in fibre, derivate soprattutto da legumi, frutta e verdura, induce una riduzione sia del colesterolo totale sia della frazione legata

alle LDL (Bazzano et al., 2011; Riccardi e Rivellese, 1991). Sulla base delle evidenze riportate, da molti anni viene raccomandato un consumo di

fibre di circa 35 g/die per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Tuttavia, in tutto il mondo l'assunzione di fibre è inferiore alla dose giornaliera raccomandata (Grooms et al., 2009; Cust et al., 2009); questo accade anche nei paesi del Mediterraneo, abituati almeno nel passato, ad un maggior consumo di fibre (Sette et al., 2011; Cust et al., 2009). Pertanto, negli ultimi anni sempre più interesse è stato rivolto allo studio dell’effetto ipocolesterolemizzante del consumo di singole fibre aggiunte alla dieta abituale. Diversi studi mostrano che la supplementazione dietetica con fibre quali, β-glucano d’avena (Brown et al., 2014; Whitehead et al., 2014), psyllium (Brown et al., 2014; Wei et al., 2009; 31 Solà et al., 2010), pectine (Brown et al., 2014), gomma guar (Brown et al., 2014) chitosano (Jull et al., 2008), glucomannano (Sood et al., 2008) e idrossipropilmetilcellulosa (Reppas et al.,2009; Maki et al., 2009), riduce in maniera significativa le concentrazioni di colesterolo LDL in soggetti sani, in pazienti ipercolesterolemici ed in quelli affetti da diabete mellito.

L’effetto ipocolesterolemizzante delle specifiche fibre si colloca in un range che va dal 4% (chitosano) al 14% (gomma guar) in relazione alle dosi medie utilizzate nei diversi

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studi. È da sottolineare che questo effetto può essere maggiore se la dose di fibra utilizzata è più alta e che anche a dosi elevate non si osservano effetti collaterali di rilievo. L’effetto delle fibre sui trigliceridi e sulla frazione di colesterolo legata alle HDL è meno chiaro, sebbene alcuni studi suggeriscano un loro possibile effetto nel ridurre la trigliceridemia postprandiale (De Natale et al., 2014; Giacco et al., 2014). In conclusione, il consumo abituale di fibra, soprattutto di tipo viscoso, riduce le concentrazioni di colesterolo LDL. In caso di difficoltà a raggiungere un apporto adeguato di fibra con la sola dieta, l’utilizzo di fibra aggiunta agli alimenti (cibi addizionati in fibra) o di integratori contenenti fibra (capsule, estratti) può rappresentare una valida strategia per ottenere un effetto ipocolesterolemizzante e, di conseguenza, una possibile riduzione del rischio cardiovascolare. Non sono stati registrati effetti collaterali di rilievo legati ad un eccessivo introito di fibra ad esclusione di sintomi da disconfort intestinale (gonfiore, flatulenza, meteorismo) (Dahl e Stewart, 2015). Pertanto, valutando i possibili vantaggi e svantaggi, e considerando il costo non molto elevato, l’uso di tali componenti può essere utile:

- nella popolazione generale che non riesce ad aumentare l’apporto di fibra con la sola dieta;

- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e rischio cardiovascolare non elevato;

- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e sindrome metabolica.

1.6.2 FITOSTEROLI

I fitosteroli e i loro derivati esterificati, sono componenti bioattivi di origine vegetale che presentano una struttura chimica molto simile a quella del colesterolo e che vengono assorbiti in quantità molto limitata (0.5-2% per gli steroli e 0.04-0.2% per gli stanoli). Si trovano in piccole quantità in alimenti di origine vegetale (frutta, verdura, noci, semi, cereali, legumi e oli vegetali) e il loro consumo medio nella dieta è di circa 300 mg/die, ma può raggiungere i 600 mg/die nei soggetti vegetariani (Gylling e al., 2014). Il meccanismo alla base dell’effetto ipocolesterolemizzante dei fitosteroli è da ricondurre alla loro struttura analoga a quella del colesterolo. Infatti, a livello intestinale, i fitosteroli competono con il colesterolo, sia quello di origine alimentare che quello di derivazione biliare, sostituendolo nelle micelle e limitandone, di conseguenza, l’assorbimento. In seguito, vengono traghettati nuovamente nel lume intestinale ed

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escreti con le feci (Chen et al., 2011). Diversi studi hanno mostrato una proporzione inversa tra consumo di fitosteroli di origine naturale e livelli di colesterolo LDL (Andersson et al.,2004; Wang et al., 2012). Diversi studi, infatti, mostrano che il consumo di prodotti contenenti fitosteroli riduce in maniera significativa le concentrazioni di colesterolo totale e della frazione legata alle LDL di circa 12 mg/dl (~ 8-10%), sia in soggetti sani che in soggetti con ipercolesterolemia (Mannarino et al., 2009; Baker et al., 2009). Tale entità di riduzione è stata rilevata anche in studi condotti su pazienti diabetici (Demonty et al., 2013). Anche per i fitosteroli, l’effetto sui trigliceridi e sul colesterolo-HDL è poco chiaro. Infatti, gli studi clinici presenti in letteratura forniscono risultati contrastanti e le evidenze derivanti da metanalisi non mostrano effetti significativi della supplementazione di fitosteroli su questi parametri biochimici (Wu et al., 2009; Malhotra et al., 2014).

L’effetto ipocolesterolemizzante dei fitosteroli sembra essere maggiore nei pazienti con livelli di colesterolo LDL plasmatico >160 mg/dl (Abumweis et al., 2008; Wu et al., 2009; DEmonty et al., 2009; Ras et al., 2013). Nei pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare, sembra che l’efficacia ipocolesterolemizzante dei fitosteroli sia maggiore nei soggetti eterozigoti rispetto a quelli omozigoti (Ketomaki et al., 2004). L’efficacia del consumo di fitosteroli è dose dipendente per dosi somministrate < 3 g/die; al di sopra di questa dose si osserva un effetto plateau, per cui non sembra esserci un ulteriore effetto significativo sul colesterolo LDL. Inoltre, le evidenze scientifiche mostrano che non ci sono differenze di efficacia tra steroli e stanoli vegetali fino ad un consumo di 2 g/die (Musa-Veloso et al., 2011), che rappresenta la dose di fitosteroli raccomandata (Catapano et al., 2011; Lichtenstein et al., 2001). Difficilmente la dieta, anche se completamente vegetariana, garantisce un consumo soddisfacente di fitosteroli; pertanto, i fitosteroli vengono impiegati per arricchire alimenti e bevande (più frequentemente margarine, yogurt da bere, formaggi spalmabili ma anche prodotti da forno) o entrano a fare parte dei costituenti di alcuni integratori. Alla luce di queste evidenze, la FDA e l’EFSA promuovono la riduzione del colesterolo LDL mediato dai fitosteroli. In particolare, l’EFSA raccomanda di non eccedere la dose di 3 g/die e suggerisce che i pazienti in trattamento farmacologico con ipolipemizzanti dovrebbero consumare il prodotto sotto la supervisione del medico. Inoltre, L’FDA ha formulato l’health claim per la riduzione del rischio di malattia coronarica per una dose di fitosteroli fino a 3.4 g/die. In conclusione, in accordo con le principali società scientifiche

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internazionali (Catapano et al.2011; Lichtenstein et Deckelbaum, 2001; Perk et al., 2012), il consumo abituale di 2 g/die di fitosteroli può essere utile al fine di ottenere una riduzione del colesterolo LDL del 7-10%:

- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e rischio cardiovascolare non elevato nei quali non sia ancora indicata una terapia farmacologica;

- nei pazienti già in terapia farmacologica che non riescano a raggiungere livelli adeguati di colesterolo LDL;

- nei pazienti intolleranti alle statine. Come per la maggior parte dei nutraceutici bisogna considerare il costo elevato, soprattutto in considerazione del fatto che, per mantenere gli effetti sul colesterolo LDL, è necessario che tale supplementazione sia costante e continuativa nel tempo.

1.6.3 SOJA

La soja (Glycine max) è una pianta leguminosa originaria dell’Asia orientale, coltivata per i suoi semi ricchi di proprietà nutritive. Pur essendo un legume ricco di proteine (36-46%, in relazione alla varietà), lipidi (18%), carboidrati solubili (15%) e fibre (15%), si distingue profondamente dagli altri legumi per le sue peculiarità riguardanti soprattutto la qualità delle proteine, ad elevato contenuto di aminoacidi essenziali. La soja contiene, inoltre, numerosi micronutrienti quali lecitina (0.5%), steroli (0.3%), isoflavoni (0.1%), tocoferoli (0.02%) e livelli molto bassi di tocotrienoli, sfingolipidi e lignani (van Ee, 2009). I vantaggi nutrizionali ed i benefici sulla salute della soja sono stati studiati per molti anni, partendo da osservazioni epidemiologiche che suggeriscono una relazione inversa tra il consumo di soja e il rischio di malattie cardiovascolari. L'effetto ipocolesterolemizzante della soja viene solitamente attribuito agli isoflavoni, associati alla frazione proteica. Gli isoflavoni sono una classe di fitoestrogeni capaci di legare il recettore degli estrogeni ed avere attività simil-estrogenica, influenzando così il metabolismo lipidico direttamente attraverso la modulazione della lipogenesi e della lipolisi, o indirettamente modulando l'appetito e il bilancio energentico (Setchell, 1998). La quantità di isoflavoni varia ampiamente in relazione alla varietà di soja, alle condizioni di coltura e soprattutto in relazione alle modalità di processazione della soja stessa (Wang e Murphy, 1994). La soja integra, poco utilizzata nei paesi occidentali, contiene la più alta concentrazione di isoflavoni (100%), la cui presenza si riduce progressivamente con l'aumentare del grado

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di processazione della soja (farina di soja 85%, tofu 23%, latte di soja 15%) (Wang e Murphy,1994). La riduzione della colesterolemia associata al consumo di soja potrebbe essere, però, dovuta ad un'azione sinergica dei suoi vari costituenti (Descovich et al., 1980). Infatti, ad essa potrebbe contribuire la riduzione dell'assorbimento intestinale del colesterolo da parte della lecitina (una classe naturale di fosfolipidi) e degli steroli della soja (il più rappresentato è il beta-sitosterolo, 60-65%) (van Ee, 2009), ma anche l'aumentata escrezione di acidi biliari favorita dal β-glucano, con conseguente aumento del metabolismo e riduzione dell'assorbimento di colesterolo (Marlett,1997). Inoltre, le proteine della soja, in particolare la β-conglicinina (globulina 7S) e la glicinina (globulina 11S), e i loro peptidi ottenuti mediante idrolisi a livello intestinale, potrebbero svolgere un’azione ipocolesterolemizzante, soprattutto a livello epatico, attivando il recettore delle LDL (LDLR) (Torres et al., 2006; Sirtori et al., 2009). Una metanalisi di 38 studi condotti fra il 1967 e il 1994, ha concluso che l'impiego di proteine della soja è in grado di ridurre i livelli di colesterolo LDL del 12.9% (Anderson et al., 1995). Questa osservazione ha portato nel 1999 ad un claim della FDA che suggeriva il consumo alimentare di 25 g/die di proteine della soja per favorire la riduzione del rischio cardiovascolare, anche in assenza di studi di intervento su end-points cardiovascolari (U.S. Food and Drug Administration, 2014). Tuttavia, numerose metanalisi successive (Malhotra et al., 2014; Weggemans e Trautwein, 2003; Yang et al., 2011) hanno dimostrato che la riduzione del colesterolo LDL associato al consumo di proteine della soja è compresa fra il 4% e il 6%. Nel 2012 l'EFSA ha nuovamente respinto un claim in favore degli effetti benefici della soja per mancanza di evidenza di una relazione causa-effetto (European Food Safety Authority, 2012), ma una recente valutazione dell'Health Canada ha evidenziato che nel 33% degli studi di intervento con proteine isolate e proteine concentrate della soja, si osserva una riduzione significativa del colesterolo LDL (Benkhedda et al., 2014). Gli studi che si sono susseguiti negli ultimi anni hanno fornito risultati contraddittori sugli effetti ipocolesterolemizzanti della soja (Padhi et al., 2015; European Food Safety Authority, 2012L'incoerenza dei dati osservati può avere numerose spiegazioni: la soja contiene differenti componenti bioattivi capaci di influenzare i livelli di colesterolo LDL, sebbene non sia del tutto chiaro quale di questi sia maggiormente responsabile dell'effetto ipocolesterolemizzante; differenze nel tipo, nella dose e nella durata dell'integrazione con soja e le diverse popolazioni studiate, non rappresentative della popolazione generale, rendono difficile il confronto fra gli studi e

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l'interpretazione dei risultati. Infine, non si deve dimenticare che il riscontro di una riduzione statisticamente significativa, ma di modesta entità, dei livelli di colesterolo LDL potrebbe non associarsi necessariamente ad un beneficio clinico rilevante, soprattutto in mancanza di dati di outcome cardiovascolare. Pertanto, la soja resta di per sé un cibo salutare e il suo impiego nella dieta dovrebbe essere incoraggiato, in quanto fonte abbastanza completa di proteine vegetali, fibre, grassi insaturi, vitamine, minerali e fitonutrienti. Inoltre, i prodotti della soja possono essere un utile sostituto di cibi di origine animale, ricchi in grassi saturi e colesterolo. Sebbene, le evidenze in supporto di una integrazione con derivati della soja siano attualmente contradditorie per poter dare indicazioni precise, tale supplementazione potrebbe essere presa in considerazione in alcune tipologie di soggetti:

- nella popolazione generale

- nei pazienti con ipercolesterolemia lieve e rischio cardiovascolare non elevato.

1.6.4 RISO ROSSO FERMENTATO

Il riso rosso fermentato (RRF) è un prodotto fermentato di riso usato per secoli in Cina per la preparazione del vino di riso, come esaltatore di sapidità, come colorante alimentare ed a scopo terapeutico come “coadiuvante della digestione e della circolazione" (Gordon e Becker, 2011). La fermentazione del riso rosso da parte del lievito Monascus purpureus produce, tra le tante, una sostanza denominata monacolina K, capace di inibire la HMGCoA reduttasi e quindi la sintesi di colesterolo, strutturalmente e funzionalmente identica alla lovastatina (Gordon e Becker, 2011; Burke, 2015). L’effetto ipocolesterolemizzante del RRF potrebbe essere solo in parte attribuibile all’azione della monacolina K. Infatti, il RRF contiene almeno 10 diverse monacoline, molte con presunta attività inibitoria sulla HMG-CoA reduttasi. Inoltre, il RRF contiene beta-sitosterolo e campesterolo, sostanze in grado di limitare l’assorbimento intestinale del colesterolo, nonché fibre e niacina, capaci di esercitare anch’esse un effetto ipocolesterolemizzante (Burke, 2015; Ma et al 2000). Diversi studi hanno dimostrato che il RRF risulta efficace e sicuro nel trattamento di pazienti con ipercolesterolemia lieve-moderata. Studi controllati contro placebo, anche di durata superiore a 4 anni, hanno dimostrato un effetto ipocolesterolemizzante del RRF, con una riduzione variabile del colesterolo totale dal 16% al 31% e del colesterolo LDL dal 22% al

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32% (Mannarino et al., 2014). Numerosi altri trials clinici con RRF, inclusi in alcune metanalisi (Liu et al., 2006; Xiong et al., 2015), hanno mostrato risultati sovrapponibili in diverse popolazioni di studio. Ad esempio, in una metanalisi di tredici studi randomizzati controllati contro placebo (Li et al., 2014) condotta in oltre 800 pazienti dislipidemici, si è visto che il RRF è risultato capace di ridurre significativamente i livelli di colesterolo LDL (-34 mg/dL, 95% CI -28/-40 mg/dl; p <0,001) rispetto al placebo. Inoltre è emerso che l’effetto ipocolesterolemizzante del RRF non risulta correlato alla dose o alla durata dell’intervento con il nutraceutico né si è accompagnato ad effetti collaterali di rilievo (Li et al., 2014). Risultati sovrapponibili sono stati documentati in altre metanalisi (Xiong et al., 2015; Gererds et al., 2015), nelle quali si conferma l’efficacia ipocolesterolemizzante del RRF ed il buon profilo di tollerabilità del nutraceutico. In pazienti con dimostrata intolleranza a più statine, l’intervento con 3.6 g/die di RRF ha portato ad una riduzione della colesterolemia LDL del 27% rispetto al placebo, con un profilo di tollerabilità sovrapponibile tra RRF e placebo (Becker et al., 2009). Ad oggi è stato condotto un trial di prevenzione secondaria finalizzato a valutare l’efficacia del RRF sul rischio di eventi cardiovascolari. Il China Coronary Secondary Prevention Study (Lu et al., 2008) è stato condotto su una popolazione di 4870 pazienti cinesi con pregresso infarto del miocardio ed ipercolesterolemia moderata, randomizzati a ricevere per 5 anni un estratto purificato di RRF (5-6.4 mg di monacolina K), lo Xuenzhikang, o il placebo. L’intervento con RRF, oltre a promuovere una riduzione del 20% dei livelli di LDL colesterolo, ha determinato una riduzione significativa del rischio di eventi coronarici del 45% rispetto al placebo. Il trattamento con RRF ha ridotto significativamente la mortalità totale del 33%, la mortalità cardiovascolare del 30%, e la necessità di interventi di rivascolarizzazione coronarica del 33%, a fronte di un profilo di tollerabilità sovrapponibile al placebo. L’effetto protettivo cardiovascolare del RRF sembra essere avvalorato dalla dimostrazione che la sua somministrazione si accompagna ad un miglioramento della funzione endoteliale (Zhao et al., 2004). A sostegno del possibile impiego del RRF nel paziente con ipercolesterolemia, le linee guida europee per il trattamento delle dislipidemie, annoverano il RRF tra gli integratori dietetici con attività ipocolesterolemizzante (Catapano et al., 2011).

Sulla base di quanto è ad oggi noto, le categorie di pazienti che maggiormente potrebbero beneficiare dell’utilizzo di preparati a base di RRF contenenti dosi di monacolina K ≤10 mg/die sono:

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- pazienti a rischio cardiovascolare lieve-moderato con livelli di colesterolo LDL superiori rispetto agli obiettivi terepeutici raccomandati di non oltre il 20-25%, nonostante siano state attuate misure di trattamento dietetico e modifiche dello stile di vita.

1.6.5 BERBERINA

La berberina (BBR) è un alcaloide isochinolinico vegetale appartenente alla classe delle protoberberine presenti in diverse piante, quali Berberis vulgaris, Coptis chinensis, Berberis aristata (Imanshahidi et al., 2008). La BBR ha diverse proprietà farmacologiche, anti-microbica, immuno-modulatoria, anti-tumorale e metabolica (Imanshahidi et al., 2008). Diversi studi hanno dimostrato che la BBR esercita numerose altre azioni favorevoli sul sistema cardiovascolare, promuovendo la vasodilatazione, riducendo il rischio di insufficienza cardiaca congestizia, ipertrofia cardiaca e di aritmie (Pirillo et al., 2015).

L’effetto ipocolesterolemizzante della BBR può essere ascritto a diversi meccanismi d’azione. È stato descritto che la BBR promuove un aumento dell'espressione e dell'emivita del LDLR sulla superficie degli epatociti (Lee et al., 2007¸(Kong et al., 2004). Studi in vitro hanno mostrato che la BBR riduce l'espressione di PCSK9; poiché PCSK9 promuove la degradazione lisosomiale di LDLR, l'inibizione di PCSK9 da parte della BBR aumenterebbe la disponibilità di LDLR (Cameron et al., 2008). Sembra inoltre che la BBR possa ridurre i livelli di lipidi plasmatici inibendo la sintesi epatica di colesterolo e trigliceridi attraverso l'attivazione di AMPK, che a sua volta inattiva l’HMGCoA reduttasi

(Brusq et al., 2006).

Il primo studio che ha valutato l'effetto della BBR in una popolazione di pazienti

ipercolesterolemici cinesi ne ha registrato un significativo effetto

ipocolesterolemizzante ed ipotrigliceridemizzante, con una riduzione del colesterolo LDL del 25% e dei trigliceridi del 35% (Kong et al., 2004); questi effetti si sono dimostrati più marcati nei soggetti che non assumevano altri farmaci ipolipemizzanti. L’effetto ipolipemizzante della BBR è stato valutato in almeno tre metanalisi (Dong et al., 2012; Lan et al., 2015; Dong et al., 2013). Dong e coll. (Dong et al., 2012; Dong et al., 2013) hanno condotto due metanalisi con trial clinici controllati in pazienti con ipercolesterolemia e/o diabete mellito di tipo 2. La dose di BBR impiegata nei vari studi inclusi nelle due metanalisi era compresa tra 0,5 g e 1,5 g/die. I risultati delle metanalisi hanno mostrato risultati sovrapponibili: la BBR ha favorito una diminuzione media del

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