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Sommario
Introduzione ________________________________________________ 3
1. Normativa europea sulle quote di genere ________________________ 7
1.1 Normativa italiana: le quote rosa ___________________________ 20
1.2 La donna in Italia: cenni storici ____________________________ 32
2. Gender diversity: analisi della letteratura _______________________ 38
2.1 Donne manager nelle aziende familiari ______________________ 72
3. Analisi empirica __________________________________________ 79
3.1 Research questions ______________________________________ 79
3.2 La raccolta dati e le variabili investigate _____________________ 80
3.3 Risultati dell’analisi empirica ______________________________ 82
Conclusioni ________________________________________________ 90
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Introduzione
Il tema trattato nella presente tesi è la gender diversity, argomento che cercherò di
analizzare dal punto di vista concettuale e normativo e che studierò empiricamente, attraverso un’analisi del mercato italiano.
Innanzitutto cos’è la gender diversity e perché è un argomento di cui si parla sempre di più? La diversità di genere, che in questo lavoro è analizzata specificatamente in relazione
alle organizzazioni e alle performance finanziarie di queste, è diventato negli ultimi anni,
un tema su cui si è dibattuto e sulla quale, negli ultimi anni, molti governi europei hanno
preso posizione. Come è ben noto, la storia vede le donne come madri e mogli, ma non ci insegna molto sulle potenzialità inespresse dell’essere donna. E’ solo nello scorso secolo che il “gentil sesso”, nel mondo occidentale, ha ottenuto diritti e doveri pari all’uomo, compreso il diritto di lavorare negli stessi ruoli e con le stesse mansioni. Il diritto, però, non è un vero diritto se questo non viene garantito; infatti, benché ad oggi,
contrattualmente, non esistano differenze tra i generi, nella realtà le donne sono più
svantaggiate degli uomini, tanto nelle assunzioni, tanto nella crescita professionale, per
non parlare poi del divario retributivo che esiste ancora oggi in tutto il mondo.
Nel primo capitolo mi sono focalizzata sulle politiche della commissione europea che,
nel 2010, si è attivata affinché i gap tra le opportunità femminili e maschili si riducessero
al minimo fino a scomparire. La Europe 2020, che è una strategia suddivisa in due parti
(2010-2015 e 2016-2020), si propone, con un programma a tempo determinato, di “educare” alla non discriminazione di genere, sia per quanto riguarda le pari opportunità in l’ambito lavorativo e quindi, accesso alle assunzioni, ad una pari retribuzione e alla scalata professionale delle donne, sia per quanto riguarda la lotta alla violenza perpetrata
a danno delle donne nella vita di tutti i giorni. Inoltre, l’obiettivo di queste politiche è quello di diffondere il rispetto alla dignità e all’integrazione delle donne anche oltre i
4 confini europei, nei paesi in via di sviluppo. Dopo aver esposto le azioni positive attuate
in ambito europeo, mi sono concentrata su ciò che è stato fatto in Italia, dalla legge Golfo –Mosca del 2011, le cosiddette quote rosa, imposte per legge nelle aziende quotate italiane e a quelle a controllo pubblico. La legge prevede che gli organi sociali delle
aziende quotate, al primo rinnovo dopo l’entrata in vigore della norma, abbiano nel loro
organico almeno un quinto del genere meno rappresentato (le donne) e dal secondo e terzo
rinnovo del consiglio, una percentuale di almeno un terzo sul totale degli amministratori. Ho proseguito con un’analisi degli effetti, fino ad ora riscontrati nel nostro Paese, fino ad osservare, regione per regione, la situazione attuale delle donne ai vertici delle
organizzazioni. I dati che emergono sono vari, a seconda che si guardi alle regioni del
nord, del centro o del sud.
Una volta affrontata la parte relativa al quadro giuridico internazionale, ho brevemente
ripercorso la storia delle donne in Italia, limitatamente agli ultimi due secoli, per esporre
quante e quali azioni sono state portate avanti affinché alle donne fossero concessi gli
stessi diritti degli uomini; storia piena di risvolti e vittorie, ma che sembra essere senza
fine, visto che ancora oggi, in alcune zone del mondo, quando per religione, quando per
cultura, alle donne sono ancora negati i diritti basilari che dovrebbero essere garantiti a
tutti gli esseri umani..
Nel secondo capitolo, ho provato a fare il punto della situazione, per chiarire cosa sia la
diversità dal punto di vista di un aggregato e quali siano gli effetti riscontrabili in un’organizzazione che risulta integrata, dal punto di vista razziale, culturale, di genere e così via. In questo caso, le tre teorie principali sono la categorizzazione sociale, il
paradigma similarità-attrazione e la decision-making perspective: mentre le prime due
5 gruppi osservati, l’ultima attribuisce alla diversità un valore aggiunto per l’impresa che voglia sfidare un ambiente sempre più dinamico e complesso.
La mia analisi prosegue con una disamina delle varie teorie sulla gender diversity, e del ruolo delle donne nei consigli d’amministrazione delle aziende. Gli studi che hanno ispirato questo lavoro sono diversi, molti dei quali, approfondendo l’analisi dell’influenza
del genere femminile sui risultati finanziari delle società di cui fanno parte, portano a risultati talvolta contraddittori. Solo a titolo d’esempio, mentre Adams e Ferreira (2009) rilevano un nesso negativo tra presenza femminile nei consigli di amministrazione e
performance finanziaria, Smith et al. (2006) sostengono che la presenza femminile nei board porti a risultati positivi in termini finanziari; ancora, c’è anche chi, come Miller e
del Carmen Triana (2009), non osserva nessuna relazione tra gender diversity e
performance.
Ho poi cercato di indagare quali siano le differenze tra le donne presenti in consiglio
appartenenti alla famiglia proprietaria e quelle, che invece, non sono legate da rapporti di
parentela. Le risposte, in questo caso, sono abbastanza uniformi, anche se a seconda dei paesi e delle culture, sussistono comunque delle difformità; c’è infatti chi ritiene che, l’appartenenza alla famiglia, sia un vantaggio a tutto tondo, e chi invece sostiene che il beneficio sia visibile sono dal punto di vista soggettivo della donna, ma non sia presente
dal punto di vista sociale e finanziario.
Lo sviluppo empirico dello studio viene esposto nel terzo capitolo, dove viene presentata
la metodologia di campionamento adottata e l’analisi delle performance, in termini di
ROS, ROA, e ROE delle aziende quotate italiane legate alla presenza delle donne ai
vertici. La mia ricerca si è basata sulle aziende quotate italiane individuate nel 2012 e nel
6 d’amministrazione e quindi la presenza di donne al suo interno, l’appartenenza o meno di queste donne alla famiglia proprietaria ed infine, i dati finanziari; attraverso questo studio
ho cercato di analizzare l’impatto delle donne sulle performance aziendali per gli anni in
esame, cercando di capire se e quanto, la legge Golfo-Mosca abbia contribuito ad una maggiore diversità di genere. E’ stato inoltre tentato un approccio qualitativo, per cercare di capire se le donne appartenenti alla famiglia influiscono in modo maggiore o minore
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1. Normativa europea sulle quote di genere
Nell’ultimo decennio, la Commissione Europea, ha deciso di rilanciare alcuni importanti obiettivi di politica sociale ed ambientale, rinnovando l’impegno verso una crescita sostenibile ed inclusiva; sono quindi state avviate una serie di iniziative ad elevato profilo strategico e politico, con l’intento di rilanciare il principio delle pari opportunità di genere. Nel 2010, la Commissione, ha definito la strategia, denominata Europe 2020 (con
obiettivi a breve/medio termine contenuti nel programma 2010-2015), che ha come fine,
non solo il superamento della crisi in cui versano gran parte dei Paesi europei, ma quello
di colmare alcuni gap nel nostro modello di crescita e creare condizioni per uno sviluppo più intelligente e sostenibile. L’obiettivo dell’organismo comunitario è, sostanzialmente, quello di dare corpo e forma all’art. 8 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, il quale prevede che “nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”.
La Europe 2020 nasce in concomitanza con un altro documento, sempre di iniziativa
comunitaria, da cui trae principi e direzioni: la Carta delle Donne1.
Con la Carta delle Donne, la Commissione intende rafforzare il proprio impegno a favore
della parità di genere entro il 2015. La Carta propone cinque campi d'azione specifici:
- l’indipendenza economica, raggiunta attraverso la lotta alla discriminazione, agli
stereotipi nell'educazione, alla segregazione del mercato del lavoro, alla precarietà
delle condizioni di occupazione, al lavoro part-time involontario e lo squilibrio
nella suddivisione dei compiti di assistenza tra donne e uomini;
1 “Maggiore impegno verso la parità tra donne e uomini - Carta per le donne - Dichiarazione della Commissione europea in occasione della giornata internazionale della donna 2010 - Commemorazione del 15° anniversario dell'adozione della dichiarazione e della piattaforma d'azione della Conferenza mondiale dell'ONU sulle donne, svoltasi a Pechino, e del 30° anniversario della Convenzione dell'ONU sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne”. Non pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
8 - la pari retribuzione tra donne e uomini;
- la rappresentazione di donne nei processi decisionali e nelle posizioni di potere,
dove continuano ad essere sottorappresentate rispetto agli uomini, nel settore sia
pubblico che privato;
- il rispetto della dignità e dell’integrità delle donne;
- l’azione oltre i confini dell’UE in materia di parità tra donne e uomini.
Come già accennato, i campi d’azione sopra esplicitati sono stati utilizzati come
criteri guida dalla strategia Europe 2020 per definire gli scopi e le politiche da
adottare. Attraverso questi documenti, risulta chiaro l’intento della Commissione di
rimuovere gli ostacoli per una completa realizzazione delle potenzialità delle donne
ed il pieno impiego delle loro capacità.
Nel mese di marzo del 2011, il Consiglio dell’UE ha adottato il Patto europeo per
l'uguaglianza di genere per il periodo 2011-2020 in cui la parità uomo - donna è stata
riconosciuta come principio fondamentale, sottolineandone l’importanza ai fini della crescita economica dell’Unione. Secondo l’art. 4 del Patto europeo, Europe 2020 aiuterà gli Stati membri e l'Unione europea a fornire alti livelli di competitività e
produttività, ad incrementare e gestire la crescita, la coesione sociale e la convergenza
economica.
Particolare importanza viene posta sul contrasto agli stereotipi, alla presenza della
donne nei luoghi decisionali e, soprattutto, alla garanzia della parità salariale, altra priorità d’azione della Commissione europea.
Europe 2020 traduce i principi della Carta e del Patto in una serie di azioni specifiche,
che mirano, attraverso politiche specifiche, ad eliminare questo gap, soprattutto in ambito decisionale. E’ infatti dimostrato che una maggiore presenza femminile ai vertici delle imprese può concorrere ad un ambiente di lavoro più produttivo e
9 innovativo, con effetti positivi sull'insieme delle prestazioni aziendali, stimolando la
competitività. Nonostante il 60% dei nuovi laureati siano donne, poche riescono poi
a scalare le vette aziendali. Rimuovere gli ostacoli, affinché sia loro garantito l’accesso ai posti di comando delle imprese significa incentivarle ad entrare nel mercato del lavoro e a rimanervi, aumentando quindi il tasso di occupazione
femminile e valorizzandone le potenzialità in termini di risorse umane.2
Nel novembre 2012, la Commissione europea ha formalmente adottato la proposta di
direttiva che auspica il raggiungimento di una presenza del genere femminile (cd.
quote rosa) del 40% negli organi di amministrazione di società quotate private (entro
il 2020) e pubbliche (entro il 2018). La proposta, fortemente voluta dall’allora
vicepresidente della Commissione europea Viviane Reding, potrebbe rappresentare
un passo fondamentale nel cammino volto a garantire una maggiore rappresentanza
al genere femminile in posizioni apicali del settore economico; la portata
ridimensionata del proprio contenuto precettivo, però, ha deluso le aspettative
generali. Essa, infatti, lascia agli Stati membri diverse possibilità di non adeguarsi agli
obblighi di prevedere quote di genere nei board. Innanzitutto, il testo rivisto della
proposta, si applica esclusivamente alle società quotate, con esclusione di quelle che,
per dimensioni, possono essere considerate piccole e medie imprese ed ha imposto l’obbligo di rispetto della quota di genere solo in relazione ai componenti non esecutivi dei consigli di amministrazione. Altro motivo di scontento, per la
disomogeneità della disposizione riguarda il sistema sanzionatorio: è prevista infatti l’imposizione di sanzioni per la violazione delle disposizioni precettive in essa contenute, è lasciata però ai singoli Stati membri la definizione di quali misure
10 applicare (proponendo dalla multa, alla dichiarazione di nullità della nomina), richiedendo unicamente che esse siano “efficaci, proporzionate e dissuasive”.
Secondo la Commissione europea, esistono ancora degli ostacoli, delle resistenze,
affinché le politiche di inclusione e di valorizzazione femminile possano avere successo.
Alcuni, tra i più rilevanti, analizzati dal Center for inclusive leadership3 sono:
- pyramid of lost women: questo modello si riferisce alla mancanza di avanzamento delle carriere femminili all’interno delle società, dovuta principalmente alla cultura aziendale (variabile molto difficile da modificare);
- assenza delle donne dalle reti informali di reclutamento dei nuovi amministratori;
- il pregiudizio di genere nel processo di selezione.
Nel corso degli ultimi anni, nonostante le barriere esistenti, molte società hanno
sviluppato metodi di inclusione e sviluppo delle carriere femminili. Spesso, le società che
si impegnano nella rimozione degli ostacoli:
- utilizzano maggiormente i risultati delle ricerche accademiche, che mostrano l’impatto della diversità (intesa il più delle volte nella sua accezione più ampia) sull’efficacia del processo decisionale e sull’innovazione;
- definiscono gli obiettivi come strumenti del cambiamento della cultura aziendale,
delle politiche riguardanti la gestione delle risorse umane e dei processi di
reclutamento e selezione del personale;
- attuano un monitoraggio trasparente e predispongono l’elaborazione di relazioni
periodiche sugli obiettivi, per avere valutazioni cicliche e regolari;
3 Workshop Gender balance in decision-making positions in politics and economics elaborato per la Commissione europea
11 - vengono formulati programmi di leadership specifici per le donne, di mentoring,
coaching e reti aziendali, necessari per sviluppare una leadership di talento e
creare piattaforme comuni per il sostegno e l'apprendimento reciproco.
Nella figura che segue è possibile notare la situazione generale europea sulla presenza di donne nei board all’ottobre 2014, dove solo 10 degli stati membri raggiungono la quota del 20%.
Figura 1 Presenza donne e uomini nelle maggiori aziende quotate europee (dati Ottobre 2014) Fonte: Sito Unione Europea (europa.eu)
Nel settembre 2015, la Commissione europea e l’European External Action Service
hanno adottato un nuovo framework per le attività dell'UE in materia di parità di genere
e l'empowerment delle donne nelle relazioni esterne dell'UE (programma 2016-2020). Lo
scopo è quello di sostenere i paesi partner, in particolare quelli in via di sviluppo, per ottenere risultati tangibili sulla parità di genere. Il nuovo piano d’azione si baserà sui risultati raggiunti nell’attuazione della strategia 2010-2015; sarà più focalizzato sui risultati tangibili e sarà finanziato attraverso una serie di strumenti comunitari (come lo
strumento dello sviluppo e della cooperazione) e modalità di aiuto (il sostegno al bilancio
o l'assistenza di organizzazioni della società civile). Il nuovo quadro si articola in quattro
pilastri, per le quali esistono indicatori concreti e obiettivi fissati. Questi pilastri sono i
12 - combattere la violenza di qualsiasi tipo contro donne;
- emancipazione economica e sociale, per esempio per aumentare l'accesso delle
donne all'istruzione e alla formazione di qualità, anche per quanto riguarda
l'imprenditorialità, facilitando il loro accesso ai servizi finanziari, ai posti di
lavoro dignitosi e ai servizi di base;
- rafforzare la partecipazione: azioni concrete potrebbero includere una maggiore
partecipazione delle donne nella politica e nel processo decisionale a tutti i livelli;
- cambiamenti nella cultura istituzionale: per assicurare un'azione più efficace su
impegni dell'UE, tutti gli attori dell'UE sono tenuti ad analizzare le priorità di
sviluppo dei paesi terzi in cui lavorano, così come il contesto locale per le donne.4
Figura 2 Gender Equality Index. Fonte: sito dell'European Institute for gender equality (eige.europa.eu)
4 New framework for Gender Equality and Women's Empowerment: Transforming the Lives of Girls and Women through EU External Relations (2016-2020) adopted. Brussels, 22 September 2015
13 Il Gender Equality Index 20155 (GEI), nella figura sopra, ci offre un quadro, sia di sintesi che di analisi, del successo (o meno) delle politiche europee sul tema dell’uguaglianza di genere tra il 2005 e il 2013.
I risultati del GEI ci mostrano che ci sono stati dei miglioramenti, seppur marginali, tra il
2005 e il 2012 nei settori presi ad esame: con un punteggio complessivo di 52,9 su 100 nel 2012, rispetto al 51,3 del 2005 (dove 100 indica uguaglianza sostanziale); l’Unione Europea si trova quindi solo a metà strada e sarà necessario aumentare le azioni volte a
stimolare politiche sempre più inclusive, affinché gli obiettivi contenuti nella strategia
Europe 2020 vengano raggiunti.
In conclusione, la questione gender equality non è solo etica e morale: la diversity genera
valore. Gli elementi più spesso evidenziati come rilevanti nel determinare il legame tra
presenza femminile nei cda e performance dell’impresa sono riconducibili ad aree di
eccellenza dello stile di direzione femminile: l’attenzione alle persone, la gestione delle
relazioni con gli interlocutori sia interni sia esterni, la prevenzione e la gestione dei
conflitti, la condivisione delle decisioni, la minor propensione al rischio. Sembra logico
che un Cda più eterogeneo generi maggiori abilità nel problem solving anche se all’opposto, troppi punti di vista potrebbero determinare un rallentamento nei processi decisionali ed una maggiore conflittualità. L’eterogeneità sembra inoltre associata ad una maggiore innovazione e creatività, determinanti fondamentali per incrementare la competitività, sia interna che esterna dell’azienda6.
5 Ultimo aggiornamento pubblicato dall’EIGE nel giugno 2015, Il Gender Equality Index valuta l'impatto delle politiche di parità di genere nell'Unione europea e dagli Stati membri nel corso del tempo. Esso misura i divari di genere all'interno di una gamma di settori rilevanti per la politica quadro dell'UE (lavoro, denaro, la conoscenza, il tempo, il potere, la salute, la violenza e le disuguaglianze che si intersecano).
6 McKinsey & Company (2008), Woman Matter: Female Leadership, A Competitive Edge for the Future, in Women Matter, secondo rapporto annuale
14 Le disposizioni europee, come già indicato, richiedono l’adozione di misure che
consentano il raggiungimento del 40% di donne tra le schiere degli amministratori senza
incarichi esecutivi nelle società quotate entro il 2020, anticipato al 2018 per le società
quotate, soggette a controllo pubblico. Alcuni stati hanno risposto con semplici “raccomandazioni” (come la Gran Bretagna), mentre altri paesi hanno emanato normative ad hoc, volte al soddisfacimento degli standard prefissati a livello europeo (Norvegia,
Francia, Danimarca, Italia, Paesi Bassi, Germania, Belgio, Spagna). Nella figura che
segue è possibile, in prima battuta, notare i paesi che hanno scelto di adottare normative
più rigide e quelle che invece hanno preferito definire dei target, che rappresentano
appunto semplici raccomandazioni.
Figura 3 Distribuzione normativa tra quote e target in Europa. Fonte: sito Oxford Analytica (www.oxan.com)
La Norvegia, che nel grafico è rappresentata come primo stato del mondo
nell’implementazione delle quote rosa, possiede una legge sull’eguaglianza di genere dal 1978 (Lov om likestilling mellom kjønnen.-Likestillingsloven–likestl), modificata nel
15 2005, dove nell’articolo 21, dispone che la rappresentanza femminile nelle commissioni di enti pubblici, nei comitati aziendali, nei consigli di amministrazione di società, sia
assicurata nei seguenti modi:
- se la commissione è formata da 2 o 3 membri, ciascuno dei due sessi deve essere
rappresentato;
- se la commissione è formata da 4 o 5 membri, ciascuno dei due sessi deve avere
almeno 2 rappresentanti;
- se la commissione è formata da 6 a 8 membri, ciascuno dei due sessi deve avere
almeno 3 rappresentanti;
- se la commissione è formata da 9 membri, ciascuno dei due sessi deve avere
almeno 4 rappresentanti;
- se la commissione è formata da un numero di membri superiore a 9, ciascuno dei
due sessi deve essere rappresentato da almeno il 40% dei membri.
Dal 2006 le medesime norme sono contenute dalla legge sulle società quotate in borsa e
sulle società controllate dallo stato, del 13 giugno 1997, n. 45 (Lov om
allmennaksjeselskaper – allmennaksjeloven). La legge prevede altresì lo scioglimento
dell'azienda in caso di non adempimento.
In Francia, sono state inserite dal legislatore, alcune disposizioni sulle quote di
rappresentanza femminile negli organi direttivi delle società pubbliche e private già nel
2006 nella Loi relative à l’égalité salariale entre les femmes et les hommes (legge
2006-340). In particolare il Titolo III della legge (artt. 21-26) aveva l’obiettivo di agevolare l’accesso delle donne alle istanze deliberative nell’impresa e alle giurisdizioni professionali; tale parte della legge venne però allora dichiarata incostituzionale dal
Consiglio costituzionale il 16 marzo 2006 e la legge venne promulgata il 23 marzo 2006,
16 La revisione costituzionale del 23 luglio 2008 e l’iscrizione nell’art. 1 della Costituzione
francese del principio secondo il quale la legge favorisce l’uguale accesso alle donne e
agli uomini ai mandati elettorali e funzioni elettive, così come alle responsabilità professionali e sociali hanno reso possibile un nuovo ricorso allo strumento legislativo.
La legge n° 2011-103 del 27 gennaio 2011 promuove l’uguaglianza professionale tra uomini e donne in seno all’impresa e impone la ricerca di una rappresentanza equilibrata
tra uomini e donne negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in
Borsa, delle imprese del settore pubblico e degli enti pubblici a carattere industriale e
commerciale soggetti al diritto privato. La proporzione degli amministratori di ciascun
sesso non può essere inferiore al 40%, proporzione da raggiungere nell'arco di 6 anni, con
il raggiungimento minimo del 20% entro 3 anni dalla promulgazione della legge. Negli
organi di amministrazione con meno di 8 membri, lo scarto tra i rappresentanti dello
stesso sesso non può essere superiore a 2. Secondo il progetto di legge, il mancato rispetto
delle quote fissate comporterà la nullità delle nomine dei consigli di amministrazione,
avvenute in violazione a tali percentuali, ad eccezione delle nomine di amministratori
appartenenti al sesso sotto-rappresentato nel cda ed implicherà l’obbligo di convocare una
nuova assemblea generale per regolarizzare la composizione del Consiglio di
amministrazione.
In Danimarca, il 14 dicembre 2012, il parlamento danese ha emanato una legge, (entrata in vigore l’anno successivo) che obbliga circa cento delle più grandi aziende del paese a raggiungere una giusta proporzione del genere femminile nelle posizioni di comando.
Nei Paesi Bassi, ai sensi della legge 31 maggio 2011, le grandi imprese hanno l'obbligo
di raggiungere un equilibrio di genere (30% di ciascun sesso) sia nell'esecutivo che nella
vigilanza; non sono però previste sanzioni formali in caso di inadempimento, infatti i
17 In Germania, le discussioni sulle quote rosa sono durate anni: finalmente, nel marzo del
2015, il parlamento tedesco ha approvato una nuova legge, che prevede, a partire dal 2016, l’obbligo della quota di genere al 30% nei Cda e nei comitati di sorveglianza delle maggiori aziende del paese. Il piano è quello di aumentare la quota al 50% dal 2018. Allo
stesso tempo, migliaia di piccole/medie imprese tedesche, sono tenute a fissare obiettivi
vincolanti per incrementare il numero di donne, sia nei comitati di sorveglianza, che dei
comitati esecutivi.
Anche il Belgio si è uniformato alle disposizioni europee nel 2011, varando una legge
sulle quote di genere nei consigli di amministrazione delle imprese: anche in questo caso,
la soglia a cui attenersi è quella del 30%. A seconda che si tratti di imprese pubbliche, di
grandi società quotate o piccole medie imprese quotate, il tempo consentito per adeguarsi
alla nuova normativa è rispettivamente di un anno, cinque anni ed otto anni. In caso di
mancato rispetto delle disposizioni, la legge prevede la sospensione di qualsiasi vantaggio
finanziario.
In Spagna, la Legge organica per la parità effettiva tra gli uomini e le donne, del 22
marzo 2007, n. 3, è una norma specifica che disciplina la partecipazione delle donne nei CDA delle società commerciali. Le società aventi l’obbligo di presentare un conto perdite e profitti non abbreviato, cercheranno di includere nel proprio Consiglio di
amministrazione un numero di donne che consenta di raggiungere una presenza equilibrata di donne e uomini in un periodo di otto anni a partire dall’entrata in vigore della presente Legge. Inoltre, per quanto riguarda i membri degli organi di amministrazione o controllo scelti da una lista di candidati, quest’ultima dovrà essere composta da candidati uomini e donne in egual numero, alternati.
La Gran Bretagna si distingue dagli altri paesi sopra menzionati, per l’assenza di una
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Strategy, Building a Fairer Britain, che consiste in un quadro strategico d'azione per
promuovere la parità di genere nel decennio 2006-2016 (ad esclusione dell'Irlanda del
Nord). La strategia è volta a:
- cambiare la cultura e gli atteggiamenti;
- affrontare le cause della disuguaglianza;
- costruire una società più forte, più giusta e più solidale, in cui l'uguaglianza è per
tutti ed è responsabilità di tutti.
Si basa su cinque principi di sostegno, connesse:
- alla creazione di pari opportunità per tutti;
- al conferimento di poteri alle persone;
- alla trasparenza;
- al sostenimento dell'azione sociale;
- all’inclusione ed all’uguaglianza.
Sembra logico che un Cda più eterogeneo generi maggiori abilità nel problem solving anche se all’opposto, troppi punti di vista potrebbero determinare un rallentamento nei processi decisionali ed una maggiore conflittualità. L’eterogeneità sembra inoltre associata ad una maggiore innovazione e creatività, determinanti fondamentali per
incrementare la competitività, sia interna che esterna dell’azienda7.
7 Il Diversity Management a cura di Simona Cuomo e Adele Mapelli, Gender diversity e Corporate governance dopo la legge Golfo-Mosca
19 Country Legislation (quota, targets, procedural obigation State owned companies specific legislation Corporate Governance Code and
other voluntary targets Norway 2005 2008 Sweden 2004 Finland 2004 2003-2008 France 2011 2010 Denmark 2013 1990 2011 Italy 2011 2011 Netherlands 2009 2008 Germany 2013 2001-2010-2011 Belgium 2011 2011 2009 Slovak Republic United Kingdom 2011-2012 Austria 2011 2009 Ireland Poland 2010 Spain 2007 2006 Hungary Portugal 2012 Greece 2010 2012 Czech Republic
Tabella 1 Tipo di regolamentazione ed anni di attuazione delle normative sulla gender diversity. Dati aggiornati a fine 2013.
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1.1 Normativa italiana: le quote rosa
Per inquadrare introduttivamente l’argomento, può essere utile indicare, per titoli, il background normativo inerente alla parità di genere e alla non-discriminazione degli
ultimi anni. E’ necessario, innanzitutto, fare riferimento alle disposizioni costituzionali di
cui agli artt. 3, (principio di uguaglianza formale e sostanziale), 37 c.1,
(non-discriminazione della donna lavoratrice) e 51 (parità di accesso a funzioni pubbliche e cariche elettive, con espresso riferimento alle “pari opportunità” introdotto con l. costituzionale 1/2003). Il principio di non-discriminazione, inteso quale manifestazione
specifica del principio generale di uguaglianza sostanziale, è altresì ribadito nell’art. 14
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU). Di rilevante importanza sono poi le c.d. leggi di parità sostanziale, approvate a partire dalla metà degli anni ’80, il cui apice è rappresentato dalla legge del 10 aprile 1991, n. 125 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro; il
contenuto ed i principi contenuti in questa norma verranno successivamente trasposti all’interno del Codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/2006, spec. art. 42), opera di consolidazione del complesso normativo afferente alla parità formale e sostanziale.
La prima proposta di legge, specifica sulle quote rosa, fu presentata nel Novembre 2009, anno in cui l’Italia, stando ai dati forniti dalla Consob, era agli ultimi posti nelle classifiche europee ed internazionali per rappresentanza femminile: 6,8% nelle società
quotate, e al 4% nelle società a partecipazione pubblica. E’ quindi molto recente l’introduzione di una normativa in materia di parità di accesso agli organi delle società. Sebbene la legge sia stata approvata dalla Camera in seconda lettura, l’iter legislativo è
durato più di due anni ed è stato caratterizzato da diversi momenti di stallo, specie nelle
Commissioni Finanza e Affari Costituzionali. Finalmente, nel 2011, fu approvata la legge
21 materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo del 24 febbraio 1998,
n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle
società quotate in mercati regolamentati.
Figura 4 Percentuale europea delle donne presenti nei board delle società europee con capitalizzazione azionaria superiore a 1 MLN di Sterline. Fonte: European PWN Board Women Monitor 2008.
Tale testo normativo si pone l’obiettivo di superare il problema della scarsa presenza di donne negli organi di vertice delle società commerciali e, in particolare, nei consigli di
amministrazione delle società quotate in borsa. (situazione che è possibile osservare nel grafico precedente, dove l’Italia si trova agli ultimi posti come presenza femminile). A tal fine è previsto un doppio binario normativo:
- per le società non controllate da Pubbliche Amministrazioni, la disciplina in
materia di equilibrio di genere è recata puntualmente dalle disposizioni di rango
primario;
- per le società a controllo pubblico, i principi applicabili rimangono quelli di legge,
mentre la disciplina di dettaglio è affidata ad un apposito regolamento, con la
finalità di garantire una disciplina uniforme per tutte le società interessate. Tale
regolamentazione è contenuta nel D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251.
Società private. L'articolo 1 della legge (che, come già accennato, introduce il comma
22 cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) impone che lo statuto societario
preveda un riparto degli amministratori da eleggere, effettuato in base a un criterio
che assicuri l'equilibrio tra i generi, dovendo il genere meno rappresentato ottenere
almeno un terzo degli amministratori eletti. E’ prevista un’articolata procedura per l’ipotesi in cui il cda eletto non rispetti i predetti criteri di equilibrio dei generi: in particolare, la Consob diffida la società inottemperante, affinché si adegui entro il termine massimo di quattro mesi. L’inottemperanza alla diffida comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa (da 100.000 euro a 1 milione di euro) e la fissazione di un ulteriore termine di tre mesi per adempiere. Solo all’inosservanza di tale ultima diffida consegue la decadenza dei membri del cda. Le norme proposte affidano allo statuto societario la disciplina delle modalità di
formazione delle liste e dei casi di sostituzione in corso di mandato, al fine di garantire l’equilibrio dei generi.
Le disposizioni in materia di equilibrio di genere sono estese (inserendo, all'articolo
147-quater del TUIF, il comma 1-bis) anche al consiglio di gestione, ove costituito da
almeno tre membri; affidano all'atto costitutivo della società il compito di disciplinare
il riparto dei membri del collegio sindacale (a tal fine inserendo il comma 1-bis
all'articolo 148 del TUIF) secondo i già citati criteri di tutela del genere meno
rappresentato.
Anche per tale ipotesi, si prevede l'attivazione di apposite procedure di diffida da parte
della Consob per l'ipotesi di inottemperanza, con l’eventuale applicazione di una
sanzione pecuniaria (da 20.000 a 200.000 euro) e, in ultima istanza, la decadenza dei
membri del collegio sindacale della società inadempiente.
Le norme (articolo 2) trovano applicazione dal primo rinnovo degli organi societari
23 norme stesse). Sono inoltre previste disposizioni transitorie per il primo mandato degli
organi eletti secondo le nuove prescrizioni, al fine di renderne graduale l’applicazione: almeno un quinto degli organi amministrativi e di controllo societario devono essere riservati al genere meno rappresentato.
Società a controllo pubblico. Come già anticipato, le disposizioni in materia di
equilibrio di genere (articolo 3 della legge) si applicano anche alle società a controllo
pubblico non quotate. Si demanda però ad un regolamento la definizione di termini e
modalità di attuazione delle prescrizioni in tema di equilibrio dei generi negli organi
di amministrazione e controllo delle società pubbliche, con lo scopo di recare una
disciplina uniforme per tutte le società interessate.
Al predetto regolamento è affidata la disciplina della vigilanza sull’applicazione delle norme introdotte, nonché delle forme e dei termini dei provvedimenti da adottare e le
modalità di sostituzione dei componenti decaduti.
In particolare, il già richiamato DPR n. 251/2012 impone, come avviene anche per le
società private, agli statuti delle società pubbliche non quotate di prevedere modalità
di nomina degli organi di amministrazione e di controllo, se a composizione
collegiale, secondo modalità tali da garantire che il genere meno rappresentato ottenga
almeno un terzo dei componenti di ciascun organo. Anche in tali ipotesi, gli statuti
disciplinano le formazione delle liste in applicazione del criterio di riparto tra generi,
prevedendo modalità di elezione e di estrazione dei singoli componenti idonee a
garantire il rispetto delle previsioni di legge.
Tuttavia, il DPR n. 251 del 2012 vieta agli statuti delle società pubbliche di prevedere
il rispetto del criterio di riparto tra generi, ove le liste presentino un numero di
candidati inferiore a tre. Inoltre gli statuti disciplinano l'esercizio dei diritti di nomina,
24 Anche in tale ipotesi, per il primo mandato degli organi apicali, la quota riservata al
genere meno rappresentato deve essere pari ad almeno un quinto del numero dei
componenti dell'organo. La vigilanza sul rispetto delle disposizioni in materia di
parità di genere è affidata al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro
delegato per le pari opportunità, con presentazione al Parlamento di apposita relazione
triennale.
A tal fine, le società sono obbligate a comunicare la composizione degli organi sociali
entro quindici giorni dalla data di nomina degli stessi o dalla data di sostituzione, dove avvenuta. L’organo di amministrazione e quello di controllo comunicano altresì la mancanza di equilibrio tra i generi, anche in corso di mandato. Tale segnalazione può
essere altresì fatta pervenire da chiunque vi abbia interesse.
Ove si accerti il mancato rispetto della quota di un terzo nella composizione degli
organi sociali, si prevede una diffida alla società a ripristinare l'equilibrio tra i generi
entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza alla diffida, il Presidente del
Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità fissano un nuovo
termine di sessanta giorni ad adempiere, con l'avvertimento che, decorso inutilmente
questo termine, dove la società non provveda, i componenti dell'organo sociale
interessato decadono e si provvede alla ricostituzione dell'organo nei modi e nei
termini previsti dalla legge e dallo statuto. Rispetto, dunque, alla disciplina delle
società private, non è prevista alcuna sanzione pecuniaria.
Riassumendo in breve:
art.1: prevede che, nella composizione e nomina degli organi sociali delle società quotate,
almeno un terzo dei componenti sia espressione del genere meno rappresentato per tre
25
art.2: stabilisce il regime transitorio, fissando la decorrenza degli effetti della legge dal
primo rinnovo degli organi di amministrazione e il controllo successivo al 12 agosto2012, cioè ad un anno dall’entrata in vigore (pubblicazione su Gazzetta Ufficiale il 28luglio 2011 + 15 gg di vacatio legis) e prevede che la quota debba essere di almeno 1/5in sede
di primo mandato e di 1/3 nel secondo e nel terzo mandato;
art. 3: reca la disciplina per le società non quotate, controllate dalla P.A. e demanda la
definizione di termini e modalità ad un regolamento concernente la parità di accesso agli
organi di amministrazione e di controllo nelle società costituite in Italia e controllate dalle
pubbliche amministrazioni, entrato in vigore il 12 febbraio 2013 con il Decreto del
Presidente della Repubblica n. 251.
Per le società quotate:
- la Consob diffida ad adeguarsi entro 4 mesi;
- la Consob irroga sanzione (da euro 100.000 a euro 1.000.000) e diffida ad
adeguarsi entro 3 mesi; decadenza automatica dei componenti
Per le società a controllo pubblico:
- diffida ad adempiere da parte del Dipartimento delle Pari Opportunità
- in caso di inottemperanza alla diffida, i componenti eletti decadono dalla carica.
Il tratto saliente della normativa è il suo essere “a termine”: difatti, le disposizioni
contenute nella norma, manifestano effetti per tre mandati degli organi di
amministrazione e controllo delle società interessate e sono quindi programmate per avere
vigenza, considerato che la durata massima degli incarichi elettivi all’interno degli organi
societari è di tre anni (ex art. 2383 c. 2 c.c.), al massimo fino al 2021. La temporaneità
degli effetti della legge Golfo-Mosca potrebbe essere spiegata con la consapevolezza del
legislatore dei potenziali effetti collaterali e distorsivi di una normativa che stabilmente
26 l’intento del legislatore, infatti, è quello di “sbloccare” una situazione giudicata nei fatti discriminatoria nei confronti del genere femminile, ma permettendo al mercato, sulla
scorta degli stimoli legislativi, di trovare col tempo e progressivamente un proprio
equilibrio naturale.
I primi giudizi non sono stati però tutti a favore della legge: il presidente emerito della Corte Costituzionale, Antonio Baldassarre, durante l’iter in Senato, espresse le sue obiezioni asserendo che questa, a suo avviso, fosse “una norma incostituzionale perché lede la libertà di iniziativa economica […]. Le nomine dei consigli di amministrazione sono fiduciarie, se io ho fiducia in persone tutte di sesso maschile non posso essere obbligato per legge a cambiare […] a maggior ragione è evidente l’incostituzionalità in quanto la norma prevede la sanzione della decadenza del cda nel caso non ottemperi all’obbligo di includere una certa quota di donne”8. Le sue impressioni sono state tuttavia smentite successivamente. La misura introdotta con la legge n. 120/2011, presenta infatti caratteristiche tali da renderla compatibile con l’art 3 della Costituzione. Questa:
- interviene in ambito economico e non sulla rappresentanza politica;
- si tratta di una misura temporanea valida per 3 mandati;
- è formulata in termini neutri di genere meno rappresentato;
- prevede una quota minima del 30% (20% al primo mandato);
- vale per private quotate, pubbliche, per organi gestori e di controllo.
Esiste inoltre la sentenza della Corte Costituzionale n. 109 del 1993 relativa alla legge n. 215 del 1992 sull’imprenditoria femminile, secondo la quale se una discriminazione
storica esiste è ammissibile una disposizione di legge che introduca una momentanea discriminazione al contrario per riequilibrare lo stato delle cose e garantire quindi la parità come da Costituzione.
27 Ad oggi, il modello italiano sembra stia diventando un esempio in Europa.
Il progetto Women mean business and economic growth, svolto dal Centro Dondena dell’università Bocconi in partnership con il dipartimento Pari opportunità della Presidenza del consiglio dei ministri, finanziato dalla Commissione europea nell’ambito dei progetti Progress, si propone di andare a fondo nell’analisi dei cambiamenti conseguenti alla legge 120/2011. I primi risultati ci mostrano che, non solo il numero di
donne in posizioni di vertice è aumentato, ma anche la governance delle società è
migliorata. Il progetto, diviso in due parti, si focalizza in prima battuta sui cambiamenti
nella composizione dei consigli di amministrazione delle società quotate, costruendo un
database che raccoglie le informazioni da circa 3.170 curriculum vitae dei consiglieri e
sindaci, uomini e donne, delle società quotate italiane al giugno 2013. Nello studio, si
prendono come riferimento i dati risalenti al primo periodo di attuazione della legge e il
30 giugno 2013; vengono così identificati tre gruppi di società: quelle che non hanno rinnovato il consiglio dopo l’approvazione della legge (e quindi hanno avuto l’ultimo rinnovo prima di agosto 2011), quelle che hanno rinnovato il consiglio quando la legge
era fu approvata ma non era ancora entrata in vigore (e quindi tra agosto 2011 e agosto
2012) e quelle che hanno rinnovato il consiglio dopo agosto 2012, e cioè quando la legge
era in vigore. I risultati mostrano che tra le società quotate che hanno rinnovato i propri
consigli di amministrazione dopo l’emanazione della legge sulle quote di genere, la
presenza femminile è sensibilmente aumentata: la quota di donne è passata dal 12,6% tra
le società con consigli rinnovati prima della riforma, a circa un quarto nei consigli
rinnovati dopo la riforma, superando i limiti minimi imposti dalla legge per il primo
rinnovo (20%). Nella fase intermedia tra agosto 2011 e agosto 2012 la percentuale di donne è già salita a circa il 15%. Un’evoluzione simile, con percentuali leggermente superiori, si è verificata per i collegi sindacali.
28 Andando oltre l’aspetto numerico, l’aumentata presenza femminile si è accompagnata ad un trend positivo, relativo al miglioramento degli indici di qualità nella composizione
degli organi societari delle società quotate; infatti, tra i curricula delle nuove nomine al
femminile nei boards delle quotate, la percentuale dei profili con il più altro livello di
istruzione (post laurea) è pari al 15,4 per le donne e 7,6 per gli uomini. Inoltre, l’introduzione di quote non si lega a due temuti fenomeni: alle cosiddette “golden skirts” (poche donne in molti consigli) e all’aumento dei consiglieri scelti all’interno della cerchia familiare. Infatti, le posizioni multiple sono diminuite, in particolare tra le donne
(dal 25,4 al 18,6 per cento), segnalando un allargamento della platea di candidati dai quali
sono selezionati i consiglieri, e le donne legate da rapporti di parentela con altri
componenti (family-linked) del consiglio sono passate dal 16,2 al 7,9 per cento.
Il sistema di quote, in altri termini, sembra innescare un cambiamento nella selezione dei
consiglieri, con un forte incentivo per le società a escludere gli uomini meno qualificati a
favore di donne più competenti, aumentando così la qualità media dei propri
rappresentanti, che presumibilmente, agirà con maggiore efficacia e potrà portare a
risultati migliori. Le quote rompono un equilibrio in cui il potere si concentra nelle mani
degli uomini e aiutano a raggiungerne uno nuovo di parità di opportunità per uomini e
donne e, allo stesso tempo, un rinnovamento della classe dirigente benefico non solo per
le aziende, ma per tutta la società9.
Nel seguente grafico sono rappresentate, sul lato sinistro, la percentuale di donne presenti
nei board italiani, sulla destra invece, la percentuale di società nella quale è presente almeno una donna nell’organo sociale; i dati si riferiscono ad un periodo che va dal 2008 al 2015, ed è evidente un miglioramento della situazione generale.
9 Quote rosa italiane, un modello che funziona di J. Ignacio Conde-Ruiz e Paola Profeta, Lavoce.info, 7 marzo 2015
29
Figura 5 Presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate italiane. Fonte: La stampa, 2 giugno 2015 (www.lastampa.it)
Può essere interessante esaminare, in modo sintetico, i risultati finora ottenuti in Italia,
ma guardandola nelle sue realtà specifiche, essendo il nostro un Paese dalle mille
sfaccettature, ed avendo culture diverse e molto radicate, difficili da modificare.
Da uno studio condotto da Grant Thornton10, rappresentato nel grafico che segue, si nota
che solo il 13,8% delle donne ricopre il ruolo di Amministratore Delegato e il 6,6% quello
di Presidente del cda.
I dati che più colpiscono però sono nella distribuzione geografica dei ruoli, infatti il 61%
delle donne in cda si trova al nord, il 34% al centro, solo il 5% al sud; la Toscana e l’Umbria risultano essere le regioni più rosa, all’ultimo posto troviamo la Basilicata.
10 Analisi elaborata dall’Ufficio Studi di Grant Thornton (dati aggiornati 2015) su database AIDA-Bureau Van Dijk, su 13.133 aziende italiane con fatturato compreso tra 30 e 500 milioni di Euro.
30
Figura 6 Distribuzione femminile nei consigli di amministrazione italiani. Fonte: Grant Thornton 2015 (sito www.ria.grantthornton.it)
Le donne membri di Consigli di Amministrazione sono concentrate per il 33% in
Lombardia, il 16% in Emilia Romagna e il 12% in Veneto, mentre il Molise rappresenta il fanalino di coda con lo 0,04%. Il Piemonte, con l’8,87%, la Toscana, 6,59% e il Lazio, 6,37%, superano la soglia del 5% di donne presenti nei consigli di amministrazione, quota
non raggiunta nemmeno dal Friuli Venezia Giulia e dal Trentino Alto Adige, che si
fermano rispettivamente al 2,68% e 2,33%, dati vicini a quello delle Marche; 2,15%. Tra l’1 e il 2% si collocano, in rapporto al dato nazionale, la Campania (1,97%) l’Umbria (1,96%) la Sicilia (1,34%), la Liguria (1,27%) e la Puglia (1,11%). In coda alla classifica generale si trovano l’Abruzzo (0,80%), la Sardegna (0,43%) e con i medesimi risultati, 0,11%, la Valle d’Aosta, Basilicata e Calabria.
Da un’analisi comparata, (presenza di donne nei cda/fatturato delle aziende in esame), come raffigurato nel grafico seguente, emerge che le donne sono presenti in modo
particolare nei Consigli di Amministrazione di aziende con un fatturato compreso tra
30-100 milioni (che rappresentano circa il 69%): la presenza di quote rosa va mano a mano diminuendo con l’aumentare del fatturato delle aziende. A livello di incarichi le donne a
31 presiedere i Consigli di Amministrazione in qualità di Presidenti rappresentano il 6,6%
(sostanzialmente stabili rispetto al 2014) ed il 13,8% ricoprono la carica di
Amministratore Delegato, dato in aumento rispetto agli anni precedenti.
Figura 7 Donne nei cda di aziende per fascie di fatturato. Fonte: Grant Thornton 2015 (www.grantthornton.it)
In conclusione, credo che la nuova normativa in materia di quote di genere abbia segnato
un momento fondamentale per lo sviluppo e il rinnovamento della società. La
partecipazione attiva delle donne alla vita imprenditoriale rappresenta un’occasione per
creare una nuova generazione dirigenziale, composta da uomini e donne che cooperano
fra di loro e gettano le basi per una realtà efficiente. Gli importanti traguardi finora
raggiunti però, rappresentano soltanto la fase iniziale di un lungo percorso di integrazione
e di sviluppo dell’intera società italiana, soprattutto per quanto riguarda lo studio interregionale. Risultano evidenti le diseguaglianze esistenti all’interno del nostro Paese, diseguaglianze presenti in modo radicato da secoli e che continuano a persistere,
32 pronta risoluzione a queste problematiche, in particolare dove il glass ceiling risulta ancora “infrangibile”; servirà tempo ed impegno affinché questi ostacoli possano essere superati. Dall’intervento del legislatore, precedentemente sintetizzato, appare chiaro che l’obiettivo da raggiungere, non sia tanto l’uguaglianza di genere, quanto piuttosto la valorizzazione della diversità; riuscire a dare maggiore enfasi alle differenze di genere
potrebbe contribuire alla creazione di una società più inclusiva, dove le aziende creano valore basandosi sull’eterogeneità delle figure chiave, sulle diverse idee e prospettive di sviluppo apportate sia da uomini che da donne, diversi per alcune caratteristiche (perlopiù
psicologiche) ma complementari gli uni con le altre e quindi capaci, insieme, di migliorare nel suo complesso l’ambiente economico.
1.2 La donna in Italia: cenni storici
Come già evidenziato, la discriminazione di genere ha radici profonde, che affondano, per quanto riguarda la nostra cultura, nell’antica Grecia. Non è compito di questo lavoro presentare un excursus storico completo sull’evoluzione del ruolo femminile, ma può
essere interessante osservare i cambiamenti più recenti, avvenuti nel nostro paese, per capire meglio come superare gli ostacoli nell’educazione all’uguaglianza di genere. Benché in Italia, oggi, le donne siano considerate (almeno in termini legislativi) al pari
degli uomini, non è sempre stato così: in un passato neanche molto lontano, le donne
erano discriminate non solo dal punto di vista professionale, come avviene spesso ancora
oggi, ma erano considerate cittadine di serie B sotto molti punti di vista.
Nella seconda metà dell’Ottocento, alle donne era precluso l’accesso ai pubblici uffici ed il Codice di Famiglia negava loro il diritto di tutela sui figli legittimi; nemmeno i soldi
guadagnati potevano essere gestiti dalle donne, perché questo compito spettava agli uomini. Esisteva ancora l’autorizzazione maritale per le pratiche di straordinaria
33 amministrazione (gestione di immobili e di capitali) o per ottenere la separazione legale. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.
Durante il Risorgimento italiano vi furono timidi tentativi di emancipazione femminile,
stroncati dalle teorie di alcuni illustri pensatori dell’epoca che ribadirono la soggezione della donna all’uomo, teorie che furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia Unita, riformato soltanto nel 1975; le donne erano perfino escluse dal godimento dei diritti
politici.
L’idea del maschio, inteso come capo famiglia ed unico in grado di prendere decisioni, era radicata non solo nel pensiero maschile, ma lo era molto anche in quello femminile,
che infatti spesso si opponeva al concetto di emancipazione. Fu così che nel 1867, la
Camera dei Deputati del Regno d’Italia, respinse la proposta volta a modificare la legge
elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne
Fu fondato nel 1879 da Anna Maria Mozzoni la Lega promotrice degli interessi
femminili, che lottava per ottenere il voto per le donne, ma i primi movimenti femministi
italiani erano più interessati alle questioni sociali. In effetti, nel periodo a cavallo tra
Ottocento e Novecento, esisteva una forte disparità socio-economica, anche perché,
benché il lavoro femminile esistesse, non era riconosciuto come tale ed anche quando
questo avveniva, la retribuzione superava di poco la metà di quella corrisposta ad un uomo
per lo stesso lavoro.
Nel 1902 fu introdotta la legge sul lavoro femminile, che limitò ancora una di più il campo d’azione delle donne: infatti, la norma, vietava loro l’accesso ad alcuni lavori, perché considerati pericolosi. In realtà, era chiaro l’intento dello Stato di riportare le donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale, la casa. Intanto, buona parte dei lavoratori
34 di sesso maschile, si oppose a qualsiasi norma a tutela del lavoro femminile, per paura
che, a causa dei bassi salari percepiti dalle colleghe, potesse aumentare la concorrenza.
Sul versante dei diritti civili e politici, nacquero frattanto l’Associazione nazionale per la donna a Roma nel 1897, l’Unione femminile nazionale a Milano nel 1899 e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane, aderente al Consiglio internazionale femminile. Per quanto riguarda l’istruzione, solo nel 1974 fu concesso l’accesso delle donne ai licei ed alle università, anche se poi nei fatti, per molti anni, le iscrizioni femminili
continuarono ad essere respinte.
Agli inizi del Novecento, fu convocato il primo Consiglio nazionale delle donne italiane,
articolato in vari settori sui diritti sociali, economici, civili e politici e negli anni a seguire
nacquero nuove associazioni orientate al raggiungimento dei diritti civili e politici.
Maria Montessori, nel 1906, chiese alle donne italiane sulle pagine de La Vita, di iscriversi alle liste elettorali; molte donne e studentesse, spinte dall’intraprendenza della Montessori, si iscrissero alle liste, scatenando così un acceso dibattito tra i fautori del voto alle donne e i contrari. L’iniziativa però non ebbe successo perché le richieste furono respinte dalle corti d’appello delle varie città dove erano avvenute le iscrizioni.
Ugualmente però, in quel periodo, alcune donne riuscirono ad abbattere quel muro,
entrando in ambiti da cui fino ad allora erano escluse: nel 1907 Ernestina Prola fu la prima
donna italiana ad ottenere la patente, nel 1908 Emma Strada si laureò in ingegneria, nel 1912 Teresa Labriola si iscrisse all’Albo degli Avvocati e Argentina Altobelli e Carlotta Chierici vennero elette al Consiglio Superiore del lavoro.
Il primo Congresso delle Donne italiane si tenne in Campidoglio a Roma nel 1908, luogo in cui furono approvate molte mozioni, tra le quali l’obbligo scolastico, la fondazione di casse di assistenza e previdenza per la maternità e la richiesta di poter esercitare la tutela
35 Negli anni che seguirono, molti furono gli spunti per riaprire il dibattito sul suffragio
femminile; le cose stavano per cambiare, e qualche passo in avanti fu fatto, ma le due guerre rallentarono il processo di “civilizzazione” che stava avvenendo.
Con la Prima Guerra Mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini richiamati al fronte
vennero occupati dalle donne, nei campi, ma soprattutto nelle fabbriche. Circolari ministeriali permisero infatti l’uso di manodopera femminile fino all’80% del personale nell’industria meccanica e in quella bellica (da cui le donne erano state escluse con la legge del 1902). Con la fine della guerra però, le donne, accusate di rubare lavoro ai
reduci, persero questi posti di lavoro.
Nel primo dopoguerra il dibattito sul voto alle donne si riaccese, nel frattempo, nel 1919 venne abolita l’autorizzazione maritale (anche se con delle limitazioni), concedendo alle donne l’emancipazione giuridica. Nello stesso anno, fu approvata in prima istanza la legge sul suffragio femminile, ma le camere furono sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla; l’anno successivo la legge venne nuovamente approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni.
Nel 1922, Modigliani presentò una semplice proposta di legge, il cui articolo unico recitava: "Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne". Tale proposta, ancora una volta, non poté essere discussa ed in ottobre vi fu la
Marcia su Roma.
Col fascismo fu concesso il diritto di voto passivo ad alcune categorie di donne per le sole
elezioni amministrative: la legge Acerbo concesse il voto alle decorate, alle madri di
caduti, a coloro che esercitassero la patria potestà, che avessero conseguito il diploma
elementare, che sapessero leggere e scrivere e pagassero tasse comunali pari ad almeno
36 le donne furono abolite proprio dal fascismo. Furono sciolte le associazioni femminili, e
quando questo non avvenne, fu lo stesso Mussolini a nominare le nuove presidentesse.
Durante il Ventennio furono lanciati nuovi slogan, uno dei quali centrava in pieno l’obiettivo politico di relegare le donne all’interno delle mura domestiche: "la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo"11. Le donne prolifiche infatti venivano insignite di apposite medaglie.
Dal punto di vista lavorativo, alle donne furono proibite alcune materie di insegnamento in licei (lettere e filosofia) e in istituti tecnici; fu vietato loro l’accesso a posizioni apicali all’interno dell’istituzione scolastica ed i loro stipendi furono fissati per legge alla metà di quelli corrisposti agli uomini. Anche nel pubblico impiego le assunzioni femminili
furono fortemente limitate, escludendole dai bandi di concorso e concedendo loro un
numero di posti limitato (in genere il 10%) e nella pubblica amministrazione furono
vietate loro la carriera e tutta una serie di posizioni prestigiose.
Il Codice di Famiglia, che risultava già abbastanza retrivo, venne ancor di più inasprito
dal fascismo: le donne furono assoggettate al marito che poteva decidere autonomamente
il luogo di residenza al quale le donne devono eterna fedeltà, anche in caso di separazione,
e sul piano economico, tutti i beni appartenevano al marito (in caso di morte venivano ereditati dai figli, mentre alla donna spettava solo l’usufrutto).
Nel nuovo Codice Penale fu aggiunto l’art. 587 (legge sul “delitto d’onore”) che
prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia.
Finalmente, con la caduta del fascismo, nel 1945, su proposta di Togliatti e De Gasperi venne concesso il voto alle donne. La Costituzione garantiva l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il
37 periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e nel Codice
Penale.
L’emancipazione andò comunque avanti, anche se a piccoli passi:
- nel 1951 venne nominata la prima donna in un governo (la democristiana Angela Cingolani, sottosegretaria all’Industria e al Commercio);
- nel 1958 venne approvata la legge Merlin, che abolì lo sfruttamento statale della
prostituzione e la minorazione dei diritti delle prostitute;
- nel 1959 nacque il Corpo di polizia femminile, con compiti sulle donne e i minori;
- nel 1961 fu aperta alle donne la carriera nel corpo diplomatico e in magistratura. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, nacquero anche in Italia i primi gruppi femminili distaccati dal corpo studentesco e fu istituito il Movimento di
liberazione della donna (MDL): nel documento costitutivo si proponeva di informare sui
mezzi anticoncezionali anche nelle scuole e ottenere la loro distribuzione gratuita, liberalizzare e legalizzare l’aborto, eliminare nelle scuole i programmi differenziati fra i sessi (educazione domestica e tecnica), socializzare i servizi che gravano sulle spalle delle
donne sotto forma di lavoro domestico, creazione di asili-nido. Parallelamente all’MDL
si costituisce nel 1973 il Centro di Informazione Sterilizzazione e Aborto (CISA).
Nella primavera del 1975, vennero raccolte oltre 800.000 firme su un nuovo referendum abrogativo sull’aborto (referendum che si tenne anche l’anno precedente ma nel quale non fu raggiunto il quorum); prima però che i cittadini venissero chiamati a votare il referendum, il parlamento approvò nel 1977 una legge sulla legalizzazione dell’aborto. Nel frattempo, nel 1970 fu concesso il divorzio e nel 1975 fu infine riformato il diritto di
famiglia, garantendo la parità legale fra i coniugi e la possibilità della comunione dei beni.
La società italiana stava notevolmente cambiando e le leggi avevano in parte sancito tale
38 - il femminismo ottocentesco, che aveva per scopo la conquista dei diritti civili e l’ingresso delle donne nel mondo degli uomini di cui si accettavano i valori;
- il femminismo moderno, che invece mette in discussione proprio i valori di una
società maschilista ed afferma la positività della femminilità in ogni sfera della vita pubblica e proclama l’autogestione del proprio corpo.
Insomma, per la coscienza che ha conquistato, la donna non si accontenta più di essere
accettata nella società, ma vuole modificarla, imponendo la sua presenza in tutti i tessuti sociali che la costituiscono. E’ vero, che dagli anni Ottanta ad oggi, i progressi fatti sono molti, infatti a livello giuridico c’è stata un’apertura anche in ambito militare e non esistono più limiti per l’accesso femminile in nessun settore; possiamo affermare quindi che, la cosiddetta uguaglianza formale, sia stata ottenuta con successo. La domanda però,
alla quale sarebbe opportuno rispondere, è se a questa uguaglianza formale, segua o meno
una corrispettiva uguaglianza sostanziale: a ben vedere, dalle direttive europee già
precedentemente analizzate, come dalle leggi e regolamenti emanati dai diversi stati europei, tra cui spicca come già riportato anche l’Italia, risulta chiaro che, nella pratica, le donne non sono ancora considerate al pari degli uomini, o perlomeno, non sono ancora
date loro le opportunità che in modo naturale appartengono agli uomini da sempre. Nel seguito della trattazione procederò con l’evidenziare le varie teorie presenti nella letteratura scientifica, relativa all’impatto (se rilevato) delle donne manager sulla gestione aziendale e le varie implicazioni in termini di performance.
39
2 Gender diversity: analisi della letteratura
Prima di addentrarmi nella disamina delle teorie e degli studi condotti sulla gender
diversity, può essere utile analizzare, innanzitutto, cosa sia la diversità nella sua accezione
più ampia e quali siano gli effetti, positivi o negativi, che essa può provocare sul sistema
aziendale.
Secondo la prospettiva psicologico-sociale, elaborata da Turner (1987), tutti gli esseri umani tendono all’etnocentrismo12, ossia, nelle relazioni interpersonali, utilizzano qualsiasi attributo, visibile o meno, per effettuare delle categorizzazioni; la diversità,
quindi, è la sintesi delle caratteristiche, siano esse fisiche o comportamentali, che
permettono di focalizzare sé stessi diversamente rispetto agli altri. Da questa definizione
di diversità, è possibile estrapolare due considerazioni:
- ogni caratteristica o categoria sociale, che risulti sottorappresentata all’interno del
gruppo/organizzazione, è molto probabilmente destinata ad essere oggetto di
categorizzazione;
- in secondo luogo, molte caratteristiche demografiche, quali etnia, genere ed età,
essendo visibili, risultano essere più rilevanti ai fini di una categorizzazione sociale rispetto a caratteristiche più intrinseche e meno visibili, come l’esperienza o la scolarizzazione.
Identificando, in sintesi, la diversità come l’elemento sulla quale si basano i pregiudizi e le stereotipazioni, è possibile intuire come questa possa costituire la causa scatenante del peggioramento delle performance e dei processi all’interno dei gruppi e delle organizzazioni (Stephan, 1985).
12 Termine che indica la tendenza a giudicare i membri, la struttura, la cultura e la storia di gruppi diversi dal proprio, con riferimento ai valori, alle norme e ai costumi ai quali si è stati educati. Quasi sempre l’etnocentrismo comporta la supervalutazione della propria cultura e, di conseguenza, la svalutazione della cultura altrui.