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Come già evidenziato, la discriminazione di genere ha radici profonde, che affondano, per quanto riguarda la nostra cultura, nell’antica Grecia. Non è compito di questo lavoro presentare un excursus storico completo sull’evoluzione del ruolo femminile, ma può

essere interessante osservare i cambiamenti più recenti, avvenuti nel nostro paese, per capire meglio come superare gli ostacoli nell’educazione all’uguaglianza di genere. Benché in Italia, oggi, le donne siano considerate (almeno in termini legislativi) al pari

degli uomini, non è sempre stato così: in un passato neanche molto lontano, le donne

erano discriminate non solo dal punto di vista professionale, come avviene spesso ancora

oggi, ma erano considerate cittadine di serie B sotto molti punti di vista.

Nella seconda metà dell’Ottocento, alle donne era precluso l’accesso ai pubblici uffici ed il Codice di Famiglia negava loro il diritto di tutela sui figli legittimi; nemmeno i soldi

guadagnati potevano essere gestiti dalle donne, perché questo compito spettava agli uomini. Esisteva ancora l’autorizzazione maritale per le pratiche di straordinaria

33 amministrazione (gestione di immobili e di capitali) o per ottenere la separazione legale. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.

Durante il Risorgimento italiano vi furono timidi tentativi di emancipazione femminile,

stroncati dalle teorie di alcuni illustri pensatori dell’epoca che ribadirono la soggezione della donna all’uomo, teorie che furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia Unita, riformato soltanto nel 1975; le donne erano perfino escluse dal godimento dei diritti

politici.

L’idea del maschio, inteso come capo famiglia ed unico in grado di prendere decisioni, era radicata non solo nel pensiero maschile, ma lo era molto anche in quello femminile,

che infatti spesso si opponeva al concetto di emancipazione. Fu così che nel 1867, la

Camera dei Deputati del Regno d’Italia, respinse la proposta volta a modificare la legge

elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne

Fu fondato nel 1879 da Anna Maria Mozzoni la Lega promotrice degli interessi

femminili, che lottava per ottenere il voto per le donne, ma i primi movimenti femministi

italiani erano più interessati alle questioni sociali. In effetti, nel periodo a cavallo tra

Ottocento e Novecento, esisteva una forte disparità socio-economica, anche perché,

benché il lavoro femminile esistesse, non era riconosciuto come tale ed anche quando

questo avveniva, la retribuzione superava di poco la metà di quella corrisposta ad un uomo

per lo stesso lavoro.

Nel 1902 fu introdotta la legge sul lavoro femminile, che limitò ancora una di più il campo d’azione delle donne: infatti, la norma, vietava loro l’accesso ad alcuni lavori, perché considerati pericolosi. In realtà, era chiaro l’intento dello Stato di riportare le donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale, la casa. Intanto, buona parte dei lavoratori

34 di sesso maschile, si oppose a qualsiasi norma a tutela del lavoro femminile, per paura

che, a causa dei bassi salari percepiti dalle colleghe, potesse aumentare la concorrenza.

Sul versante dei diritti civili e politici, nacquero frattanto l’Associazione nazionale per la donna a Roma nel 1897, l’Unione femminile nazionale a Milano nel 1899 e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane, aderente al Consiglio internazionale femminile. Per quanto riguarda l’istruzione, solo nel 1974 fu concesso l’accesso delle donne ai licei ed alle università, anche se poi nei fatti, per molti anni, le iscrizioni femminili

continuarono ad essere respinte.

Agli inizi del Novecento, fu convocato il primo Consiglio nazionale delle donne italiane,

articolato in vari settori sui diritti sociali, economici, civili e politici e negli anni a seguire

nacquero nuove associazioni orientate al raggiungimento dei diritti civili e politici.

Maria Montessori, nel 1906, chiese alle donne italiane sulle pagine de La Vita, di iscriversi alle liste elettorali; molte donne e studentesse, spinte dall’intraprendenza della Montessori, si iscrissero alle liste, scatenando così un acceso dibattito tra i fautori del voto alle donne e i contrari. L’iniziativa però non ebbe successo perché le richieste furono respinte dalle corti d’appello delle varie città dove erano avvenute le iscrizioni.

Ugualmente però, in quel periodo, alcune donne riuscirono ad abbattere quel muro,

entrando in ambiti da cui fino ad allora erano escluse: nel 1907 Ernestina Prola fu la prima

donna italiana ad ottenere la patente, nel 1908 Emma Strada si laureò in ingegneria, nel 1912 Teresa Labriola si iscrisse all’Albo degli Avvocati e Argentina Altobelli e Carlotta Chierici vennero elette al Consiglio Superiore del lavoro.

Il primo Congresso delle Donne italiane si tenne in Campidoglio a Roma nel 1908, luogo in cui furono approvate molte mozioni, tra le quali l’obbligo scolastico, la fondazione di casse di assistenza e previdenza per la maternità e la richiesta di poter esercitare la tutela

35 Negli anni che seguirono, molti furono gli spunti per riaprire il dibattito sul suffragio

femminile; le cose stavano per cambiare, e qualche passo in avanti fu fatto, ma le due guerre rallentarono il processo di “civilizzazione” che stava avvenendo.

Con la Prima Guerra Mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini richiamati al fronte

vennero occupati dalle donne, nei campi, ma soprattutto nelle fabbriche. Circolari ministeriali permisero infatti l’uso di manodopera femminile fino all’80% del personale nell’industria meccanica e in quella bellica (da cui le donne erano state escluse con la legge del 1902). Con la fine della guerra però, le donne, accusate di rubare lavoro ai

reduci, persero questi posti di lavoro.

Nel primo dopoguerra il dibattito sul voto alle donne si riaccese, nel frattempo, nel 1919 venne abolita l’autorizzazione maritale (anche se con delle limitazioni), concedendo alle donne l’emancipazione giuridica. Nello stesso anno, fu approvata in prima istanza la legge sul suffragio femminile, ma le camere furono sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla; l’anno successivo la legge venne nuovamente approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni.

Nel 1922, Modigliani presentò una semplice proposta di legge, il cui articolo unico recitava: "Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne". Tale proposta, ancora una volta, non poté essere discussa ed in ottobre vi fu la

Marcia su Roma.

Col fascismo fu concesso il diritto di voto passivo ad alcune categorie di donne per le sole

elezioni amministrative: la legge Acerbo concesse il voto alle decorate, alle madri di

caduti, a coloro che esercitassero la patria potestà, che avessero conseguito il diploma

elementare, che sapessero leggere e scrivere e pagassero tasse comunali pari ad almeno

36 le donne furono abolite proprio dal fascismo. Furono sciolte le associazioni femminili, e

quando questo non avvenne, fu lo stesso Mussolini a nominare le nuove presidentesse.

Durante il Ventennio furono lanciati nuovi slogan, uno dei quali centrava in pieno l’obiettivo politico di relegare le donne all’interno delle mura domestiche: "la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo"11. Le donne prolifiche infatti venivano insignite di apposite medaglie.

Dal punto di vista lavorativo, alle donne furono proibite alcune materie di insegnamento in licei (lettere e filosofia) e in istituti tecnici; fu vietato loro l’accesso a posizioni apicali all’interno dell’istituzione scolastica ed i loro stipendi furono fissati per legge alla metà di quelli corrisposti agli uomini. Anche nel pubblico impiego le assunzioni femminili

furono fortemente limitate, escludendole dai bandi di concorso e concedendo loro un

numero di posti limitato (in genere il 10%) e nella pubblica amministrazione furono

vietate loro la carriera e tutta una serie di posizioni prestigiose.

Il Codice di Famiglia, che risultava già abbastanza retrivo, venne ancor di più inasprito

dal fascismo: le donne furono assoggettate al marito che poteva decidere autonomamente

il luogo di residenza al quale le donne devono eterna fedeltà, anche in caso di separazione,

e sul piano economico, tutti i beni appartenevano al marito (in caso di morte venivano ereditati dai figli, mentre alla donna spettava solo l’usufrutto).

Nel nuovo Codice Penale fu aggiunto l’art. 587 (legge sul “delitto d’onore”) che

prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia.

Finalmente, con la caduta del fascismo, nel 1945, su proposta di Togliatti e De Gasperi venne concesso il voto alle donne. La Costituzione garantiva l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il

37 periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e nel Codice

Penale.

L’emancipazione andò comunque avanti, anche se a piccoli passi:

- nel 1951 venne nominata la prima donna in un governo (la democristiana Angela Cingolani, sottosegretaria all’Industria e al Commercio);

- nel 1958 venne approvata la legge Merlin, che abolì lo sfruttamento statale della

prostituzione e la minorazione dei diritti delle prostitute;

- nel 1959 nacque il Corpo di polizia femminile, con compiti sulle donne e i minori;

- nel 1961 fu aperta alle donne la carriera nel corpo diplomatico e in magistratura. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, nacquero anche in Italia i primi gruppi femminili distaccati dal corpo studentesco e fu istituito il Movimento di

liberazione della donna (MDL): nel documento costitutivo si proponeva di informare sui

mezzi anticoncezionali anche nelle scuole e ottenere la loro distribuzione gratuita, liberalizzare e legalizzare l’aborto, eliminare nelle scuole i programmi differenziati fra i sessi (educazione domestica e tecnica), socializzare i servizi che gravano sulle spalle delle

donne sotto forma di lavoro domestico, creazione di asili-nido. Parallelamente all’MDL

si costituisce nel 1973 il Centro di Informazione Sterilizzazione e Aborto (CISA).

Nella primavera del 1975, vennero raccolte oltre 800.000 firme su un nuovo referendum abrogativo sull’aborto (referendum che si tenne anche l’anno precedente ma nel quale non fu raggiunto il quorum); prima però che i cittadini venissero chiamati a votare il referendum, il parlamento approvò nel 1977 una legge sulla legalizzazione dell’aborto. Nel frattempo, nel 1970 fu concesso il divorzio e nel 1975 fu infine riformato il diritto di

famiglia, garantendo la parità legale fra i coniugi e la possibilità della comunione dei beni.

La società italiana stava notevolmente cambiando e le leggi avevano in parte sancito tale

38 - il femminismo ottocentesco, che aveva per scopo la conquista dei diritti civili e l’ingresso delle donne nel mondo degli uomini di cui si accettavano i valori;

- il femminismo moderno, che invece mette in discussione proprio i valori di una

società maschilista ed afferma la positività della femminilità in ogni sfera della vita pubblica e proclama l’autogestione del proprio corpo.

Insomma, per la coscienza che ha conquistato, la donna non si accontenta più di essere

accettata nella società, ma vuole modificarla, imponendo la sua presenza in tutti i tessuti sociali che la costituiscono. E’ vero, che dagli anni Ottanta ad oggi, i progressi fatti sono molti, infatti a livello giuridico c’è stata un’apertura anche in ambito militare e non esistono più limiti per l’accesso femminile in nessun settore; possiamo affermare quindi che, la cosiddetta uguaglianza formale, sia stata ottenuta con successo. La domanda però,

alla quale sarebbe opportuno rispondere, è se a questa uguaglianza formale, segua o meno

una corrispettiva uguaglianza sostanziale: a ben vedere, dalle direttive europee già

precedentemente analizzate, come dalle leggi e regolamenti emanati dai diversi stati europei, tra cui spicca come già riportato anche l’Italia, risulta chiaro che, nella pratica, le donne non sono ancora considerate al pari degli uomini, o perlomeno, non sono ancora

date loro le opportunità che in modo naturale appartengono agli uomini da sempre. Nel seguito della trattazione procederò con l’evidenziare le varie teorie presenti nella letteratura scientifica, relativa all’impatto (se rilevato) delle donne manager sulla gestione aziendale e le varie implicazioni in termini di performance.

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