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Caratterizzazione della risposta temporale di rivelatori PET basati su fotomoltiplicatori al Silicio e cristalli LYSO e LFS-3

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

La PET (Positron Emission Tomography) è una tecnica di imaging metabolico che si avvale dell’utilizzo di farmaci, in grado di localizzarsi in specifici distretti di interesse, marcati con radioisotopi emettitori +. Nello specifico, la tecnica PET consiste nell’acquisizione di immagini planari, ottenute a diversi angoli di rotazione attorno al paziente, in cui viene ricostruita la distribuzione spaziale del radiotracciante utilizzando appositi algoritmi che combinano le linee di volo dei fotoni da 511 keV, emessi in seguito all’annichilazione dei + con gli elettroni del tessuto. L’annichilazione positrone-elettrone infatti determina l’emissione antilineare di due fotoni γ: poiché tale emissione è spazialmente isotropa, è necessario utilizzare un anello di rivelatori posti in coincidenza temporale tra loro. Solitamente i rivelatori che compongono l’anello PET sono costituiti da uno scintillatore accoppiato otticamente ad un fotorivelatore. Tali componenti sono scelti in modo da soddisfare diversi requisiti di uno scanner PET quali ottime prestazioni spaziali, energetiche e temporali, allo scopo di riconoscere correttamente gli eventi di coincidenza e dunque permettere una ricostruzione quanto più precisa possibile della zona marcata, minimizzando allo stesso tempo il rapporto segnale su rumore delle immagini (SNR).

In particolare, una tecnica in grado di ridurre l’SNR delle immagini è la Time Of Flight PET. Questa tecnica si avvale della misura delle differenze temporali nella rivelazione dei γ allo scopo di restringere la zona in cui avviene l’evento di annichilazione, ma soprattutto fornisce una diminuzione della varianza del fondo e quindi un miglioramento dell’SNR. L’utilizzo di tale tecnica richiede però la presenza di un sistema di rivelazione con risoluzioni temporali inferiori ai 200 ps, mentre gli attuali scanner PET presentano risoluzioni temporali di circa 500 ps.

La risoluzione temporale di uno scanner PET dipende da molti fattori, tra i quali l’acquisizione di un elevato numero di fotoni per migliorare la statistica ed una loro rapida rivelazione e processamento dei segnali ad essi relativi. E’ dunque necessario l’utilizzo di scintillatori e fotorivelatori “veloci” ed in grado di rivelare correttamente il maggior numero di fotoni incidenti.

Questo lavoro di tesi si prefigge l’obiettivo di caratterizzare la risposta temporale di quattro sistemi di rivelazione con potenziali prestazioni temporali: infatti sono stati utilizzati due scintillatori, LYSO e LFS-3, con rese luminose superiori ai 30000 fotoni/MeV e tempi di decadimento inferiori ai 40 ns, e due diverse tecnologie di fotorivelatori al Silicio (SiPM). Negli ultimi venti anni, i SiPM hanno riscosso molto interesse grazie ad alcune loro caratteristiche quali elevati guadagni (confrontabili o superiori a quelli tipici dei Tubi Fotomoltiplicatori -PMT- ma, rispetto ad essi, ottenibili a minori tensioni di alimentazione), buona efficienza di rivelazione e rapide risposte

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2 temporali. Inoltre, la loro compatibilità ai campi magnetici, ha permesso lo studio e la progettazione di nuovi scanner PET da utilizzare sinergicamente agli scanner di Risonanza Magnetica Nucleare per permettere l’acquisizione di immagini diagnostiche contenenti informazioni di tipo sia funzionale che strutturale.

La caratterizzazione dei sistemi a disposizione è stata fatta utilizzando una sorgente di Ge-68 e acquisendo in coincidenza le forme d’onda relative ai fotoni emessi da 511 keV, dopo una iniziale valutazione delle tensioni di alimentazione dei SiPM alle quali i sistemi presentano la migliore risoluzione energetica. La successiva analisi delle forme d’onda ha permesso di calcolare la risoluzione temporale di coincidenza (CTR) al variare della soglia e di individuare il miglior valore di risoluzione temporale per ogni sistema scintillatore-SiPM utilizzato.

La tesi è strutturata come segue:

 Capitolo primo: Rivelatori usati in PET

Questo primo capitolo introduce la tecnica PET dal punto di vista del processo fisico che vi è alla base e delle caratteristiche rilevanti; viene anche spiegato il funzionamento di uno scanner PET e dei rivelatori che lo costituiscono. Infine si descrivono brevemente la tecnica TOF-PET e l’ibrido PET/MRI.

 Capitolo secondo: Rivelatori a scintillazione

Dopo una breve descrizione del principio di funzionamento degli scintillatori, il capitolo pone particolare attenzione alle caratteristiche che tali rivelatori devono possedere per l’utilizzo in PET, con uno specifico riferimento agli scintillatori utilizzati in questo lavoro.  Capitolo terzo: Fotomoltiplicatori al silicio

Questo capitolo è dedicato alla descrizione del funzionamento e delle principali proprietà dei SiPM confrontandole con quelle dei PMT e dei loro “predecessori”, gli Avalanche Photodiodes (APD).

 Capitolo quarto: Materiali e metodi

Con questo capitolo si entra nel vivo del lavoro effettuato poiché vengono descritte nello specifico i materiali utilizzati, il set-up sperimentale, l’acquisizione dei dati e l’algoritmo da me implementato per la loro elaborazione.

 Capitolo quinto: Risultati sperimentali

In questo capitolo sono riportate tutte le informazioni relative all’acquisizione dei dati e i risultati di risoluzione energetica e CTR ottenuti. La loro successiva discussione ha permesso di individuare i fattori limitanti il raggiungimento delle migliori prestazioni temporali ottenute in altri esperimenti, di cui si riportano i riferimenti.

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3

CAPITOLO PRIMO:

RIVELATORI USATI IN PET

1.1

TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI POSITRONI

La Positron Emission Tomography o PET è una tecnica di imaging della Medicina Nucleare che consiste nella misura in vivo della concentrazione locale di attività di emettitori + allo scopo di ricostruirne la distribuzione spaziale e ricavare informazioni funzionali su organi o distretti del paziente.

Poiché si tratta di una tecnica di imaging in emissione, la sorgente radioattiva viene introdotta nell’organismo sottoforma di un complesso radionuclide-molecola, detto radiofarmaco, appositamente studiato per metabolizzare in specifiche zone di interesse: ad esempio, per individuare cellule tumorali, caratterizzate da un elevato metabolismo del glucosio, si può utilizzare come analogo del glucosio il radiofarmaco [18F]Fluoro-2-deossiglucosio ([18F]FDG) (1).

Figura 1.1: rappresentazione schematica del decadimento + e successiva annichilazione e+-e- con conseguente emissione dei due anticollineari.

Ogni positrone emesso dal radiofarmaco annichila con un elettrone del tessuto, generando contemporaneamente, lungo la stessa direzione ma in versi opposti, due fotoni gamma di energia pari a 511 keV (Figura 1.1). L’emissione dei  è isotropa, per cui la loro rivelazione avviene tramite l’uso di una serie di rivelatori in coincidenza temporale posti attorno al paziente: se due fotoni vengono rivelati entro una prefissata finestra temporale (solitamente tra i 4 e i 10 ns) allora vengono associati allo stesso evento di annichilazione e l’unione tra i punti di rivelazione individua una linea

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4 di risposta (Line Of Response o LOR) e, teoricamente, la direzione lungo la quale è avvenuta l’annichilazione del +

.

Figura 1.2: esempio di proiezione bidimensionale p(x’, della distribuzione f(x,y) del radiofarmaco ad una data direzione .

Le LOR vengono acquisite ai vari angoli  di emissione dei fotoni fornendo una proiezione planare della concentrazione in quella data direzione (Figura 1.2); infine, l’immagine tridimensionale si ottiene dall’unione di tutte le proiezioni planari ai vari angoli tramite l’uso di un opportuno algoritmo di ricostruzione (2).

1.2

RIVELATORI PER PET

Nelle applicazioni PET, la rivelazione dei fotoni  avviene tramite l’utilizzo di rivelatori solitamente costituiti da cristalli scintillatori accoppiati otticamente a fotorivelatori e letti da una opportuna elettronica di processamento e acquisizione dati (Figura 1.3). Poiché l’emissione di raggi gamma è

Figura 1.3: componenti di un rivelatore a scintillazione. L’interazione di ogni fotone produce un impulso di corrente nel fotorivelatore la cui ampiezza dipende dal numero di fotoni di scintillazione che raggiungono il

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5 isotropa, per ottenere una proiezione bidimensionale della distribuzione di attività nel paziente, è necessario poter selezionare i fotoni che interagiscono in una data direzione: nella PET ciò viene fatto tramite una collimazione elettronica in cui cioè la direzione dei fotoni è scelta dalla loro rivelazione in coincidenza (Figura 1.4) (3).

Figura 1.4: esempio di collimazione elettronica di un tomografo PET: se i due fotoni sono rivelati all’interno di una data finestra temporale vengono associati allo stesso evento di annichilazione.

Si utilizza uno scintillatore di densità e numero atomico tali da massimizzare la probabilità di interazione dei fotoni da 511 keV: al loro interno, il fotone incidente trasferisce tutta o parte della sua energia agli elettroni del mezzo principalmente tramite effetto fotoelettrico o effetto Compton; in ogni caso l’interazione eccita elettroni nella banda di conduzione e, in seguito alla loro diseccitazione attraverso livelli energetici intermedi introdotti in banda proibita tramite opportuno drogaggio del cristallo, si ha emissione di fotoni visibili in numero proporzionale all’energia depositata nello scintillatore.

I fotoni visibili devono essere rivelati tramite l’uso di fotorivelatori, quali fotomoltiplicatori o fotodiodi a valanga, il cui scopo è amplificare e convertire i fotoni luminosi in segnali elettrici.

Attualmente il rivelatore utilizzato in un tomografo PET è il block detector.

Nelle sue prime versioni, il block detector era costituito da un blocco di scintillatore, solitamente Germanato di Bismuto (BGO), suddiviso in elementi più piccoli tramite tagli longitudinali di profondità maggiori verso i bordi del blocco stesso per evitare perdita di luce; i tagli erano poi riempiti con un materiale bianco riflettente per migliorare l’isolamento ottico tra i vari elementi, mentre come fotorivelatore veniva utilizzata una matrice di fotomoltiplicatori, solitamente quattro. L’informazione sulla posizione dell’elemento dello scintillatore in cui è avvenuta l’interazione viene ricavata a partire dai segnali prodotti da ciascun fotomoltiplicatore calcolando il baricentro dei segnali stessi. In particolare, detti SA, SB, SC e SD i segnali prodotti dai quattro fotomoltiplicatori disposti come in Figura 1.5a, le coordinate dell’elemento colpito dal fotone sono date da:

(6)

6 [1.1]

con E = SA + SB + SC + SD, il segnale totale proporzionale all’energia rilasciata nell’interazione (4). La precisione massima sulla posizione dell’interazione del  è dunque data dalle dimensioni degli elementi stessi.

Figura 1.5: esempi di block detector costituito da un cristallo scintillatore accoppiato a quattro PMTs; in (a) il cristallo presenta dei tagli longitudinali mentre in (b) il cristallo è costituito da una matrice di singoli pixel.

A causa della sua bassa resa luminosa e del lungo tempo di decadimento, il BGO è stato sostituito

Figura 1.6: tomografo PET costituito da un anello di rivelatori che definiscono il FOV; nell’immagine sono rappresentate anche alcune LOR (linee continue).

(7)

7 negli attuali sistemi PET con l’LSO (Ortosilicato di Lutezio), il LYSO (Ortosilicato di Lutezio-Ittrio) o il GSO (Ortosilicato di Gadolinio) che presentano , mentre il blocco è completamente separato in una matrice di elementi di rivelazione, detti pixel (Figura 1.5b).

I moderni tomografi PET sono costituiti da uno o più anelli di rivelatori posti attorno al paziente (Figura 1.6), ogni rivelatore messo in coincidenza con quelli che giacciono su un arco di circonferenza diametralmente opposto. L’intersezione tra tutti i settori cosi determinati definisce il campo di vista o Field of View (FOV) del tomografo: in questo modo si ottiene una copertura angolare completa e non è quindi necessario applicare alcuna rotazione per l’acquisizione dei dati a vari angoli; eventualmente gli anelli vengono traslati lungo l’asse per ottenere l’immagine di una sezione maggiore del corpo.

1.3

CARATTERISTICHE FISICHE RILEVANTI

Nella descrizione di qualsiasi tecnica di imaging è fondamentale definire le risoluzioni spaziali, energetiche e temporali tipiche del processo fisico e del sistema di rivelazione, per comprendere i limiti della tecnica e studiare opportuni metodi per superarli.

Poiché la qualità di un’immagine PET dipende fortemente dalla precisione con cui si riesce ad individuare la concentrazione del radionuclide, la prima caratteristica fisica da definire è la risoluzione spaziale cioè l’abilità di un rivelatore di determinare accuratamente la posizione di una sorgente o, analogamente, la capacità di distinguere due sorgenti puntiformi vicine.

Si definisce Point Spread Function o PSF la funzione di risposta di un rivelatore ad una sorgente puntiforme. In condizioni ideali tale risposta è una delta di Dirac, mentre in realtà è una Gaussiana la cui larghezza a metà altezza (Full Width at Half Maximum o FWHM) viene utilizzata come misura della risoluzione spaziale di un sistema di imaging (come, appunto, un tomografo PET): tanto minore è la FWHM, ossia tanto più stretta è la funzione di risposta del rivelatore, tanto meglio il sistema è in grado di distinguere i vari punti di emissione di positroni nel tessuto.

In un sistema PET sono diversi i fattori che influiscono sulla risoluzione spaziale:

il range r (Figura 1.7a) percorso dal positrone nel tessuto prima di annichilare con un elettrone causa una indeterminazione del punto di emissione di e+ (1-3 mm in acqua1) tanto maggiore quanto maggiore è l’energia cinetica acquisita in seguito al decadimento +

: per esempio i positroni emessi da un nucleo di 18F di energia cinetica media pari a 0.242 MeV, hanno un range medio in acqua di 1.4 mm a cui corrisponde una FWHM di 0.22 mm,

1

L’acqua è una buona approssimazione del tessuto biologico per cui viene utilizzata come materiale di riferimento per la simulazione dei processi fisici nel tessuto.

(8)

8 mentre quelli di un nucleo di 68Ga, con energia cinetica media di 0.74 MeV, hanno un range medio in acqua di 3 mm con una FWHM di 1.35 mm (4);

 l’effetto della non collinearità dei due  emessi (Figura 1.7b), dovuto principalmente all’annichilazione in volo del positrone, espresso come 0.0022 D con D diametro del tomografo PET: per D = 1 m si ottengono dunque FWHM di 2.2 mm;

 l’effetto dell’errore di parallasse p (Figura 1.7c) legato alla geometria di rivelazione dei fotoni e dovuto essenzialmente all’indeterminazione sulla profondità di interazione nel rivelatore;

 la risoluzione spaziale intrinseca del rivelatore, legata alla dimensione finita dei pixel e pari a d/2 con d dimensione del lato del pixel;

 l’errore di codifica b dovuto all’incertezza nell’associare alcuni eventi all’effettivo pixel in cui si è avuta l’interazione del fotone: b = 0 nel caso di un accoppiamento 1:1 tra scintillatore e fotorivelatore, mentre si stima una FWHM = 2.2 mm per un accoppiamento 1:4 tipico dei block detector (un cristallo scintillatore accoppiato a 4 fotomoltiplicatori) (5).

Figura 1.7: a) effetto range: notare come la LOR non si riferisce al punto di emissione del positrone (come si vorrebbe) ma al punto di annichilazione; b) effetto di non collinearità: la LOR viene ricostruita come una retta congiungente i due punti di interazione sui pixel e ciò comporta un errore se i fotoni non vengono emessi a 180°;

c) in realtà l’interazione dei fotoni può avvenire a qualsiasi profondità dei rivelatori: non tener conto di ciò comporta un errore di parallasse nella determinazione della LOR.

Detto ciò, tenendo conto dei limiti intrinseci fisici della tecnica PET (effetto range e non collinearità dei fotoni), quelli dovuti al sistema di rivelazione (dimensioni dei rivelatori e geometria di rivelazione) e gli errori di codifica dell’informazione, la FWHM della risoluzione spaziale di uno scanner PET si può esprimere come:

(9)

9 in cui il fattore 1.2 si introduce per tener conto della perdita di risoluzione dovuta all’algoritmo di ricostruzione (4). La migliore risoluzione spaziale (FWHM = 2.36 mm) ottenibile nella PET clinica prevede l’utilizzo di un tomografo che soddisfi le seguenti caratteristiche:

 un accoppiamento 1:1 tra cristalli e fotorivelatori (b = 0);

 l’utilizzo di un opportuno sistema in grado di misurare la profondità di interazione (p = 0);  un diametro quanto più possibile piccolo (80 cm nel caso di PET cliniche) per minimizzare

l’errore di non collinearità;

l’utilizzo dell’isotopo la cui incertezza dovuta all’effetto del range sia la minima (attualmente 18F);

 l’utilizzo di scintillatori pixelati di dimensioni minime (d = 3 mm).

Sostanzialmente, soltanto i fattori di range e non collinearità sono irrudicibili: i loro contributi combinati forniscono una FWHM = 1.83 mm che rappresenta il limite intrinseco di risoluzione spaziale di un tomografo PET (nel caso in cui si potessero utilizzare rivelatori con d = 0) (5). Nei moderni scanner PET la risoluzione spaziale ha solitamente un valore compreso tra i 3 e i 5 mm (6).

Altra caratteristica fondamentale di un tomografo PET è la sensibilità, definita come il numero di conteggi rivelati al secondo per unità di attività di una sorgente all’interno del FOV.

La sensibilità dipende da diversi fattori quali l’efficienza di rivelazione dei fotoni da 511 keV, l’angolo solido sotteso dal rivelatore, la distanza sorgente-rivelatore e la scelta delle finestre energetica e temporale applicate ai dati. L’efficienza di rivelazione  di un singolo rivelatore è

[1.3]

in cui  è il coefficiente di attenuazione del materiale del rivelatore e d è lo spessore del rivelatore, mentre  è la frazione di eventi rivelati all’interno della finestra energetica scelta. Poiché nella PET è necessario rivelare eventi in coincidenza temporale, l’efficienza di rivelazione degli eventi in coincidenza è il quadrato dell’equazione [3]. L’efficienza geometrica del sistema dipende dall’angolo solido  sotteso dai rivelatori rispetto alla sorgente e quindi descresce all’aumentare della distanza sorgente-rivelatore e del diametro dell’anello, metre cresce linearmente col numero di rivelatori in esso presenti (3).

La qualità di un’immagine PET dipende anche dal numero di coincidenze true T (vere), cioè quelle coincidenze che corrispondono effettivamente alla rivelazione di due  provenienti dalla stessa annichilazione. In realtà un tomografo PET acquisisce anche delle coincidenze che non corrispondono a reali eventi di annichilazione e ciò comporta un aumento del rumore dell’immagine. E’ possibile distinguere due tipi di coincidenze cosiddette “false”: le scattered S e le

(10)

10 random R (Figura 1.8). Le prime si hanno quando uno dei due fotoni emessi subisce un’interazione Compton nel tessuto con conseguente variazione della sua direzione di volo e dunque acquisizione di una LOR errata. Le coincidenze random invece si hanno se due fotoni prodotti da due annichilazioni scorrelate vengono rivelati all’interno della stessa finestra temporale e associati ad un unico evento.

Figura 1.8: esempi di true coincidence T (1), scattered coincidence S (2) e random coincidence R (3 e 4).

Sia le coincidenze scattered S sia le random R determinano un aumento del rumore dell’immagine con conseguente peggioramento del rapporto segnale-rumore (Signal to Noise Ratio o SNR cioè il rapporto tra il valor medio del segnale del tessuto e la deviazione standard del rumore nello sfondo dell’immagine) e diminuzione del contrasto dell’immagine.

La riduzione delle coincidenze S si può ottenere accettando solo quegli eventi la cui energia cade all’interno di una prefissata finestra energetica, scartando in questo modo gli eventi che, in seguito ad uno scattering Compton, hanno energia inferiore rispetto ai fotoni primari; la larghezza di tale finestra, solitamente compresa tra i 350 e i 600 keV, dipende dalla risoluzione energetica R del sistema di rivelazione: infatti, tanto migliore sarà R tanto più facilmente si potranno discriminare eventi Compton da eventi fotoelettrici e quindi restringere la finestra energetica sull’energia del fotopicco.

In generale, la risoluzione energetica è la proprietà per la quale un rivelatore riesce a distinguere picchi di energia vicini nello spettro rivelato. In presenza di una sorgente monoenergetica, lo spettro ideale di radiazione è una funzione delta; in realtà è una Gaussiana di larghezza finita ΔE. La

(11)

11 risoluzione energetica è data dal rapporto R ΔE/E0, in cui E0 è l’energia media depositata nel rivelatore e ΔE è la larghezza totale a mezza altezza o FWHM: poiché / si ha un miglioramento di R al crescere dell’energia. In realtà, la FWHM della distribuzione dipende dalle fluttuazioni del numero di fotoni/elettroni prodotti durante le varie fasi di rivelazione del  iniziale:

 interazione del  nello scintillatore ed emissione di un certo numero di fotoni luminosi in proporzione all’energia rilasciata;

 interazione dei fotoni luminosi nel fotorivelatore e produzione di un certo numero di fotoelettroni in proporzione all’energia rilasciata;

 amplificazione del numero di fotoelettroni per ottenere un segnale elettrico rivelabile.

La specifica dipendenza della risoluzione energetica dagli step appena elencati e, quindi, i modi per migliorarla verranno discussi nei capitoli seguenti. Attualmente i sistemi PET clinici presentano una risoluzione energetica compresa tra il 10-25 % (6).

Le coincidenze random invece dipendono dalla larghezza della finestra temporale: infatti se la finestra temporale è larga si ha una maggiore probabilità di acquisire le random ma, d’altra parte, se la finestra è troppo stretta si rischia di perdere molte coincidenze reali. Il rate di eventi random è infatti dato da:

[1.4]

in cui C1 e C2 sono i rate degli eventi rivelati sui singoli rivelatori e t è proprio la larghezza della finestra temporale. Un tempo di scintillazione τ rapido e una soglia per il trigger posta al livello del primo fotoelettrone permette di restringere la finestra temporale. Infatti, l’istante in cui il segnale supera la soglia del trigger nel singolo rivelatore si distribuisce come una Poissoniana con deviazione standard / (7), in cui Q indica il numero di fotoelettroni a cui viene fissato il trigger e Nfotoelettroni è il numero di fotoelettroni prodotti in seguito all’interazione dei fotoni luminosi nel fotorivelatore. Nel caso migliore con Q=1 e supponendo che i due rivelatori abbiano la stessa t, la risoluzione temporale di coincidenza, espressa come la FWHM di una distribuzione Gaussiana, è . Per massimizzare il numero di coincidenze reali, mantenendo al contempo limitato il numero delle random, si utilizza una finestra di larghezza pari a 2 FWHM (Figura 1.9).

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12 Figura 1.9: esempio di distribuzione Gaussiana delle coincidenze temporali.

Si capisce dunque l’importanza di realizzare sistemi di rivelazione con elevata risoluzione temporale.

Per quanto detto finora, è necessario che uno scanner PET abbia un’alta efficienza di rivelazione dei fotoni da 511 keV e presenti ottime prestazioni per quanto riguarda le risoluzioni spaziale, energetica e temporale.

Attualmente i rivelatori a scintillazione, di cui si parlerà ampiamente nel capitolo secondo, forniscono la più alta efficienza di rivelazione dei fotoni e, conseguentemente, un miglior rapporto segnale su rumore dell’immagine. Buone prestazioni spaziali si possono ottenere accoppiando otticamente allo scintillatore un sistema di fotorivelazione sensibile alla posizione. Le prestazioni energetiche e temporali invece dipendono strettamente dal tipo di cristallo scintillatore e dal fotorivelatore utilizzati, per la cui descrizione si rimanda al terzo capitolo.

1.4

ATTUALI SVILUPPI DELLA PET

1.4.1

LA TIME OF FLIGHT PET

La Time Of Flight (TOF) PET è una tecnica che permette di individuare con maggiore precisione rispetto alla PET convenzionale il punto in cui è avvenuta l’annichilazione del positrone. Infatti, come già visto nel paragrafo 1.1, nella PET standard si individua la LOR contenente il punto in cui si è avuta l’annichilazione, ma ognuno dei suoi punti ha la stessa probabilità di aver generato tale evento. Invece, nella TOF-PET si utilizza la differenza del tempo di volo t nella rivelazione dei due fotoni; infatti t è direttamente legata alla distanza S tra il punto in cui è avvenuta l’annichilazione e il centro del FOV, lungo la LOR identificata dai due rivelatori in coincidenza, secondo la seguente relazione:

(13)

13 [1.5]

in cui c è la velocità della luce (30 cm/ns). Per cui, l’incertezza ΔS sul punto di annichilazione, misurata come FWHM della sua distribuzione, è legata all’incertezza Δt della misura temporale (cioè della risoluzione temporale del sistema di rivelazione in coincidenza) come ΔS = cΔt/2 (Figura 1.10). Per esempio, con una risoluzione temporale di FWHM = 100 ps si potrebbe misurare il punto di annichilazione con una precisione pari a FWHM = 1.5 cm.

Figura 1.10: nella TOF-PET l’incertezza sul punto di annichilazione del positrone è tanto minore quanto migliore è la risoluzione temporale del sistema di rivelazione di coincidenza: in base alla differenza t1 - t2 tra i

diversi tempi di volo dei fotoni, è possibile determinare la distanza del punto di emissione dal centro della LOR .

Le PET standard presentano risoluzioni temporali di qualche nanosecondo, non sufficienti a effettuare la misura del tempo di volo, per cui sono diversi gli studi nati allo scopo di ricercare scintillatori con breve tempo di decadimento (come LYSO o LFS-3) e progettare una migliore elettronica di processamento e acquisizione dei dati (4).

Il vantaggio principale nell’utilizzare la tecnica TOF-PET non è tanto il miglioramento della risoluzione spaziale, comunque apprezzabile, bensì la diminuzione della varianza del fondo e quindi un miglioramento del SNR.

L’SNR di una immagine TOF-PET è legato a quello di un’immagine non TOF dalla seguente relazione:

[1.6]

in cui D è l’effettivo diametro del paziente nel FOV dello scanner; dunque il rapporto segnale-rumore migliora all’aumentare della risoluzione temporale del sistema.

(14)

14 In generale, l’SNR di una immagine PET risulta essere proporzionale alla radice quadrata del Noise Equivalent Count rate (NEC), un parametro che misura la capacità del sistema di selezionare e acquisire gli eventi true T, distinguendoli dunque dalle coincidenze scattered S e random R. Solitamente il NEC viene definito come:

[1.7]

in cui k è un fattore che dipende dal metodo utilizzato per la correzione delle coincidenze random. Dunque, dato il legame tra SNRTOF ed SNRnon-TOF e la proporzionalità tra SNR e NEC, la tecnica TOF-PET comporta sostanzialmente una diminuzione dei conteggi “falsi” e, dunque, un miglioramento del SNR (8).

1.4.2

PET/MRI

Il crescente interesse verso le tecniche di imaging ibride, cioè quelle tecniche che prevedono la combinazione di due diversi sistemi per indagini diagnostiche, è dovuto al grosso vantaggio di ottenere contemporaneamente informazioni complementari (funzionali e morfologiche) sull’organo o distretto di interesse e, soprattutto, migliorare le informazioni spaziali della PET grazie alle maggiori risoluzione spaziali (inferiori al millimetro) della CT e della MR. Il sottoporsi ad un unico esame, oltre a rappresentare un minor disagio per il paziente, permette una migliore sovrapposizione tra le immagini ottenute con le due tecniche, limitando alcuni artefatti dovuti per esempio alla variazione di posizione del corpo: prima dell’avvento dei sistemi ibridi le immagini funzionali e morfologiche venivano infatti fuse a posteriori tramite tecniche software e ciò, sebbene fornisse risultati accettabili per il cervello e le ossa, risultava problematico per i tessuti molli.

La Computed Tomographyo CT è una tecnica diagnostica basata sulla trasmissione di radiazione X attraverso il corpo che fornisce informazioni sulla morfologia, dimensione e posizione degli organi. Un sistema PET/CT è tipicamente costituito da uno scanner PET e uno CT posti uno dopo l’altro: le due tecniche infatti non possono essere applicate contemporaneamente perché sul rivelatore PET inciderebbe un elevato numero di fotoni X scatterati; chiaramente, per garantire la sovrapposizione delle immagini è allora necessario un perfetto allineamento dei due tomografi.

La PET/CT ha inoltre il vantaggio di ricavare in minor tempo i coefficienti di attenuazione della radiazione nel mezzo, necessari alla correzione delle immagini PET, effettuando semplicemente una opportuna calibrazione energetica dei coefficienti ottenuti a livello CT. La correzione per attenuazione delle immagini PET è dovuta al fatto che i fotoni , prima di essere rivelati, possono attraversare spessori e mezzi diversi subendo così una differente attenuazione che deve essere corretta per individuare correttamente le coincidenze vere.

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15 Analogamente alla CT, la Magnetic Resonance Imaging o MRI è una tecnica diagnostica utilizzata per investigare l’anatomia e la fisiologia del corpo tramite uso di campi magnetici e di onde radio.

Figura 1.11: a) disegno schematico di un sistema integrato PET/MRI in cui il rivelatore PET, costituito da un cristallo LSO otticamente accoppiato ad una matrice di fotodiodi a valanga (APD) compatibili con campi

magnetici (b), è posto all’interno del sistema MR (9).

Inizialmente l’ibrido PET/MRI poteva essere effettuato soltanto tramite l’uso in rapida successione di due scanner separati: ciò è dovuto specialmente all’incompatibilità dei fotomoltiplicatori usati in PET con i campi magnetici della risonanza. In seguito, gli studi effettuati sui semiconduttori hanno permesso la messa a punto di fotodiodi al Silicio insensibili a campi magnetici: in questo modo è stato possibile creare un compatto scanner PET da introdurre all’interno di quello MR (Figura 1.11). Un SiPM, di cui si parlerà ampiamente in seguito, è sostanzialmente una matrice di diodi operanti in modalità Geiger: ogni fotone rivelato da uno degli elementi (pixel) della matrice, indipendentemente dalla sua energia, può dare inizio ad una scarica il cui segnale viene poi sommato a quelli proveniente dagli altri pixel fornendo così l’output del SiPM che risulta dunque proporzionale al numero di fotoni rivelati. In modalità Geiger, ogni pixel può produrre un elevato numero di elettroni, per cui il guadagno di questi dispositivi è confrontabile con quello dei fotomoltiplicatori. Inoltre la loro rapida risposta temporale li rende adatti ad applicazioni TOF-PET (10).

La tecnica PET/MRI presenta gli stessi vantaggi sulla complementarità delle informazioni e la facilità di sovrapposizione delle immagini della PET/CT. Il calcolo dei coefficienti di attenuazione è invece basato sulla densità dei protoni e sull’analisi dei tempi tipici di rilassamento.

(16)

16

CAPITOLO SECONDO:

RIVELATORI A SCINTILLAZIONE

2.1

PRINCIPIO DI FUNZIONAMENTO

Il principio di funzionamento di un rivelatore a scintillazione si basa sulla proprietà di alcuni materiali, detti scintillanti, di emettere fotoni luminosi o ultravioletti quando interagiscono con la radiazione. Affinché ciò avvenga, è necessario che la radiazione incidente sia sufficientemente energetica da permettere l’eccitazione elettronica; una volta eccitati, gli elettroni possono tornare al livello fondamentale attraverso diversi canali di decadimento, ad ognuno dei quali è associata una diversa probabilità che dipende dal tipo di materiale; in particolare, se la riemissione di radiazione elettromagnetica avviene in tempi brevi (10-8s) dopo l’assorbimento, il processo viene detto fluorescenza; se invece l’eccitazione elettronica coinvolge stati metastabili, la riemissione di luce avviene con un certo ritardo (dai ms alle ore in base al materiale) e il processo è detto fosforescenza. Esistono due principali categorie di scintillatori: organici ed inorganici.

Gli scintillatori organici sono tipicamente dei composti di idrocarburi aromatici caratterizzati da una delocalizzazione elettronica. I livelli elettronici eccitati dalla radiazione incidente possono in seguito diseccitarsi tramite diversi canali tra i quali emissione di fluorescenza. Questi scintillatori sono più veloci rispetto agli inorganici ma presentano una minore resa luminosa e vengono utilizzati specialmente per la rivelazione di particelle cariche e neutroni veloci.

Tra i più comuni cristalli organici è possibile citare l’antracene (lento ma luminoso) e il naftalene (più rapido ma meno luminoso). Gli scintillatori organici più usati sono gli scintillatori liquidi e i plastici, caratterizzati dai loro brevi tempi di risposta: 2-3 ns per i liquidi e 3-4 ns per i plastici (4).

Gli scintillatori inorganici invece hanno una migliore resa luminosa e risposta lineare su un ampio range di energie sebbene siano più lenti; vengono principalmente utilizzati per la rivelazione dei raggi gamma per via della loro maggiore densità e numero atomico Z. Essi sono costituiti principalmente da cristalli di sali contenenti piccole quantità di impurezze aventi la funzione di attivazione del processo di luminescenza. La luminescenza consiste nell’emissione di radiazione luminosa in seguito ad una iniziale eccitazione elettronica del materiale dovuta a diversi processi (interazione con radiazione, reazioni chimiche, azioni meccaniche) (11).

Il meccanismo di scintillazione nei cristalli inorganici dipende dai livelli energetici legati alla loro struttura cristallina. Il reticolo cristallino periodico dei solidi permette infatti di definire la teoria a

(17)

17 bande degli elettroni. Secondo tale teoria, gli elettroni, in virtù dell’energia posseduta, si dispongono in due possibili bande energetiche: la banda di valenza contiene gli elettroni maggiormente legati ai siti reticolari, la banda di conduzione contiene invece gli elettroni liberi di migrare all’interno del cristallo (12).

In base alla distribuzione degli elettroni, si possono distinguere tre differenti configurazioni delle bande, che permettono di spiegare la diversa conduzione elettrica dei materiali.

Nei sistemi conduttori l’ultima banda di energia è parzialmente occupata (metalli), oppure banda di valenza e banda di conduzione risultano sovrapposte (semimetalli): ciò spiega la loro alta conducibilità (Figura 2.1a).

Negli isolanti e nei semiconduttori le due bande sono invece separate da una gap di energie proibite (funzione della distanza tra gli atomi nel reticolo) di larghezza pari a circa 6 eV (Figura 2.1c) e 1eV (Figura 2.1b) rispettivamente.

Figura 2.1: struttura a bande per conduttori (a), semiconduttori (b) e isolanti (c).

La promozione di un elettrone alla banda di conduzione, dovuta all’assorbimento di radiazione, crea una vacanza, detta lacuna, nella banda di valenza che può essere riempita da un elettrone proveniente da un legame vicino, dove a sua volta lascia una lacuna e così via: a causa di questo processo, la lacuna può considerarsi una portatrice di carica positiva ed è per questo che si parla di creazione di coppie elettrone-lacuna. La successiva diseccitazione dell’elettrone dalla banda di conduzione alla banda di valenza può avvenire in diversi modi, tra i quali l’emissione di radiazione di energia maggiore del visibile.

Affinché l’emissione avvenga nella banda del visibile, vengono introdotte nel cristallo delle impurità (attivatori) che determinano la formazione di livelli energetici intermedi (centri di luminescenza o di ricombinazione) nella banda proibita: in questo modo la lacuna, formatasi in seguito all’eccitazione dell’elettrone, può ionizzare lo stato fondamentale di un sito attivatore mentre l’elettrone può decadere dalla banda di conduzione allo stato eccitato dello stesso sito; se questa configurazione eccitata ha una transizione permessa allo stato fondamentale, si può

(18)

18 Figura 2.2: struttura energetica a banda di uno scintillatore inorganico attivato.

avere diseccitazione (vite medie comprese tra i 50 ns e i 500 ns, (13)) con conseguente emissione di radiazione (fluorescenza o fosforescenza, Figura 2.2) oppure l’energia può essere dissipata, non radiativamente, in energia termica o di vibrazione reticolare (estinzione o quenching) (13).

2.2

CARATTERISTICHE NECESSARIE PER APPLICAZIONI

PET

Nelle applicazioni PET si utilizzano solitamente scintillatori inorganici scelti in modo che le loro caratteristiche fisiche soddisfino i requisiti imposti dall’applicazione PET come discusso nel primo capitolo (paragrafo 1.3). In particolare si richiedono le seguenti caratteristiche (7):

 alta efficienza di rivelazione;

alta efficienza di scintillazione altrimenti detta light yield;  relazione lineare tra i fotoni emessi e l’energia depositata;

 lunghezza d’onda di emissione compatibile con il fotorivelatore usato;

 indice di rifrazione tale da permette un buon accoppiamento ottico con il fotorivelatore;  tempi di fluorescenza veloci e fosforescenza trascurabile.

Avere un’alta efficienza di rivelazione significa richiedere una elevata probabilità di interazione dei  incidenti: ciò vuol dire che tutti o comunque la maggior parte dei fotoni emessi dalla sorgente devono interagire nel rivelatore depositando interamente o parte della loro energia. Tale interazione dipende dal coefficiente di attenuazione lineare (E) e dallo spessore x del mezzo attraversato (Figura 2.3) secondo la seguente relazione:

(19)

19 in cui N è il numero di fotoni trasmessi e N0 il numero di fotoni incidenti; oltre che dall’energia,

(E) dipende dal numero atomico efficace Zeff2 e dalla densità del mezzo: infatti un più alto Zeff

Figura 2.3: grafici relativi ad un cristallo di NaI(Tl): in alto, coefficiente di attenuazione in funzione dell’energia; in basso, probabilità di interazione in funzione dell'energia per due diversi valori di spessore attraversato; in

entrambi i grafici sono rappresentate le sezioni d’urto di fotoelettrico e Compton al variare dell’energia.

2 Il numero atomico efficace è definito come

/ in cui ai è la frazione di elettroni appartenenti

all’i-esimo atomo del cristallo, mentre m è un esponente che dipende dal tipo di interazione considerata e vale 4.5 per l’effetto fotoelettrico e l’effetto Compton (7).

(20)

20 incrementa la sezione d’urto per l’effetto fotoelettrico mentre una maggiore densità accresce la probabilità di interazione del fotone nel mezzo (12). Data la dipendenza dallo spessore attraversato, sarebbe inoltre opportuno utilizzare cristalli più grandi ma ciò non sempre è conveniente: infatti utilizzare cristalli più spessi aumenta l’incertezza sulla profondità di interazione (errore di parallasse) e la probabilità di scattering multipli, riducendo in entrambi i casi la risoluzione spaziale; accresce inoltre la probabilità che i fotoni emessi subiscano riflessioni multiple, rimanendo intrappolati nel cristallo e comportando una degradazione delle risoluzioni energetica e temporale. Invece usare cristalli con una maggiore superficie migliora la sensibilità ma degrada la risoluzione assiale del tomografo (4).

Si definisce efficienza di scintillazione o resa luminosa (light yield) il rapporto tra il numero di fotoni di scintillazione e l’energia depositata nel cristallo.

In generale, il numero di fotoni luminosi emessi dopo l’assorbimento di un fotone  di energia E è dato dalla seguente relazione:

[2.2]

in cui E è il salto energetico tra banda di valenza e banda di conduzione,  è un parametro legato all’energia media necessaria a produrre una coppia elettrone-lacuna, è l’efficienza di trasferimento di energia dalla banda di conduzione ai centri di luminescenza, è l’efficienza di emissione dal centro di luminescenza stesso e è il numero di coppie elettrone-lacune (7).

Figura 2.4: curve di sensibilità di alcuni scintillatori in funzione di emissione a confronto con quella di un tubo

(21)

21 L’E dipende dal tipo di drogante utilizzato: droganti differenti infatti introducono diversi livelli energetici nella banda proibita e, di conseguenza, varia la emissione dei fotoni di scintillazione, la quale deve essere compatibile con il fotorivelatore usato (Figura 2.4) ma diversa dalla lunghezza d’onda di assorbimento dello scintillatore stesso per evitare riassorbimento dei fotoni emessi (12). Inoltre, è importante che la risposta energetica del cristallo (cioè il numero di fotoni luminosi prodotti) sia lineare in un range di energie più ampio possibile, per poter recuperare l’informazione iniziale sull’energia del 

Per massimizzare il numero di fotoni che giungono sul fotorivelatore è inoltre necessario che gli indici di rifrazione dei due mezzi siano il più possibile simili per limitare la riflessione totale all’interfaccia. Inoltre si può avere perdita di luce anche attraverso le pareti laterali del cristallo; per impedirlo le si può rivestire con un materiale di opportuno indice di rifrazione n2<n1 in modo che la luce di scintillazione che incide sul cristallo con un angolo maggiore di  arcsenn1/n2) sia soggetta a riflessione interna (Figura 2.5) (7).

Figura 2.5: accoppiamento ottico scintillatore-fotorivelatore: affinché si abbia riflessione interna sulle pareti del cristallo è necessario che n1>n2; inoltre è necessario che n1~n3 per favorire la trasmissione della luce dallo

scintillatore al fotorivelatore.

Per garantire buone prestazioni temporali e realizzare rivelatori capaci di sostenere elevati rate di conteggi, è necessario che lo scintillatore sia caratterizzato da tempi di decadimento rapidi. Il tempo di decadimento è l’inverso del rate di decadimento, cioè del numero di decadimenti al secondo, e dipende dunque dalla probabilità che si verifichi quella determinata transizione. In prima approssimazione l’evoluzione temporale del processo di emissione dei fotoni di scintillazione può essere descritto come un semplice decadimento esponenziale. Tempi di decadimento tipici degli stati metastabili dovuti alla presenza degli attivatori nel cristallo vanno dai 30 ns ai 500 ns. Alcuni scintillatori inorganici possono essere caratterizzati da un singolo tempo di decadimento (Figura 2.6a):

(22)

22 dove N è il numero di fotoni emessi al tempo t, N0 il numero totale di fotoni emessi e  la costante di decadimento; per alcuni materiali è invece necessario descrivere il processo di riemissione tramite un’esponenziale a due componenti (Figura 2.6b) e, quindi, con due diversi tempi di decadimento: poiché per la maggior parte degli scintillatori una delle due componenti è molto più breve dell’altra, si è soliti parlare di componente veloce (fast) e componente lenta (slow) (11). D’altra parte, è anche importante che la fosforescenza nel cristallo sia assente o poco intensa poiché può costituire una sorgente significativa di luce di fondo (detta anche afterglow). Inoltre si possono avere diseccitazioni non radiative (quenching) che comportano un meccanismo di perdita nella conversione dei  in fotoni luminosi.

Infine bisogna considerare le caratteristiche chimico-fisiche del cristallo quali, per esempio, igroscopicità e durezza, dalle quali possono dipendere dimensioni, forma ed eventuali incapsulamenti dello scintillatore stesso.

Figura 2.6: a) esempio di decadimento esponenziale della radiazione di fluorescenza: il tempo di salita è solitamente molto più rapido del tempo di decadimento: esso cresce con l’energia del fotone incidente; b) esempio di decadimento bi-esponenziale (linea continua) dovuto alla somma di una componente veloce ed una

lenta.

2.3

SCINTILLATORI COMUNEMENTE USATI IN PET

Non esiste uno scintillatore ideale che soddisfi contemporaneamente tutte le caratteristiche descritte precedentemente.

Il primo cristallo utilizzato nelle applicazioni PET fu lo ioduro di sodio drogato al tallio, o NaI(Tl), caratterizzato da un elevato light yield ma in realtà poco adatto alla rivelazione di fotoni da 511 keV perché poco denso e costituito da un numero atomico basso. Altri svantaggi del NaI(Tl) sono il lungo tempo di decadimento e la sua igroscopicità che comporta un particolare incapsulamento del cristallo.

L’ortogermanato di bismuto (BGO), grazie ad una densità quasi doppia rispetto allo NaI(Tl), ha un’alta efficienza di rivelazione dei fotoni da 511 keV ma pecca per il basso light yield e il lungo

(23)

23 tempo di decadimento che limita la risoluzione temporale di coincidenza a valori di circa 300 ns (14).

Scintillatori più veloci, adatti anche ad applicazioni TOF-PET, sono basati su composti del lutezio (Lu) e del lantanio (La). I primi, quali LSO (ortosilicato di lutezio), LuAG (Lutetium aluminum garnet) e lo LuYAP (Lutetium aluminum yttrium perovskite), sono caratterizzati da alte densità (comprese tra 6.7-8.3 g/cm3) e quindi da una elevata efficienza di rivelazione dei fotoni da 511 keV; i materiali basati sul La, quali il bromuro di lantanio (LaBr3) e il cloruro di lantanio (LaCl3), presentano densità minori (tra i 3.8 e i 5.1 g/cm3) ma rese luminose nettamente superiori. Entrambe le classi di scintillatori presentano tempi di decadimento dell’ordine dei 20 ns, variabili in base alla percentuale di attivatore introdotto (15).

Tabella 2.1: elenco delle principali proprietà degli scintillatori discussi; è la costante di decadimento “fast” nel caso di cristalli a più canali di decadimento; la risoluzione energetica si riferisce a 662 keV di energia.

Cristalli Densità

(g/cm3)

Light yield (fotoni/MeV)

(ns) emis (nm) Risoluzione energetica (%) NaI:Tl (16) 3.67 45000 250 415 7.1 CsI:Tl (16) 4.51 56000 980 530 5.7 BGO (16) 7.13 10600 300 480 9.05 LSO:Ce (16) 7.4 27000 40 420 7.9 LuAG:Pr (15) 6.7 < 20000 20 LuAP:Ce (17) 8.4 11400 16 365 9.3 LuYAP (18) 7.1 13000 23 375 LaBr3:Ce (19) 5.3 55300 15 370 3.2 LaCl3:Ce (20) 3.8 46000-49000 25 330-352 3.1-3.5 CeBr3 (21) 5.2 68000 17 371 3.6 BaF2 (22) 4.88 1500 0.8 220

(24)

24 Altro scintillatore dalle prestazioni interessanti è il bromuro di cerio (CeBr3) con una risoluzione energetica del 3.6% a 662keV cioè migliore di circa il doppio rispetto NaI(Tl) e CsI(Tl), buone risoluzioni temporali e elevata efficienza intrinseca (21).

Attualmente, lo scintillatore con il più rapido tempo di decadimento, inferiore al ns, è il fluoruro di Bario (BaF2). Tale cristallo in realtà presenta due emissioni: l’emissione veloce, ad una lunghezza d’onda di circa 220 nm con una resa luminosa di 1500 fotoni/MeV, e l’emissione lenta ( = 600-800 ns) a 300 nm con una resa luminosa di 11000 fotoni/MeV. Data la sua bassa efficienza di scintillazione, il BaF2 non può ancora essere utilizzato nelle applicazioni PET ma sono già diversi gli studi rivolti alla ricerca di un drogante in grado di migliorare tale caratteristica (23).

Nella Tabella 2.1 sono elencate le principali caratteristiche degli scintillatori inorganici appena descritti e di altri cristalli abbondantemente studiati per applicazioni in medicina nucleare.

2.4

SCINTILLATORI A CONFRONTO: LYSO VS LFS-3

In questo lavoro di tesi sono stati utilizzati due diversi scintillatori: l’ortosilicato di lutezio-ittrio (LYSO) e il silicato fine di lutezio (LFS-3).

Il LYSO viene già utilizzato negli scanner PET grazie alla sua elevata densità, il rapido tempo di decadimento e la buona resa luminosa. Per quanto riguarda la densità, questa è dettata soprattutto dalla percentuale di lutezio in quanto il suo numero atomico è maggiore rispetto a quello dell’ittrio (ZLu = 71 e ZY = 39) così come la sua massa atomica: la densità varia dunque da 7.4 a 4.9 g/cm3 per percentuali di lutezio (rispetto a quelle dell’ittrio) che vanno rispettivamente da 100 a 15 (24). La resa luminosa è di 32000 fotoni/MeV e si riduce notevolmente per energie inferiori ai 100 keV, discostandosi dal suo andamento lineare in funzione dell’energia della radiazione incidente (come riscontrato anche con l’LSO); la risoluzione energetica vale 8.9 % misurata al picco del cesio-137 (662 keV) (25). L’attività intrinseca dovuta al decadimento  del lutezio-176 è di 263 conteggi/s·cm3, comunque non compromettente per le misure PET poiché il rate di eventi è una piccola frazione rispetto ai rate tipici dei radiotraccianti usati in PET (26).

Il processo di scintillazione segue un unico canale di decadimento con  = 41 ns. Infine, il LYSO presenta una persistenza nella luminescenza (afterglow) in seguito ad esposizioni nell’UV o nella banda radio comunque minore rispetto a quella riscontrata nei cristalli LSO, ciò in virtù della presenza di ittrio nel cristallo (25) (27).

L’LFS-3 è uno dei cristalli LFS brevettati dalla Zecotek: esso si distingue dagli altri cristalli LFS per densità e massima lunghezza d’onda di emissione (nel range 412-430 nm). Questi nuovi scintillatori

(25)

25 sono caratterizzati da elevate rese luminose (35000 fotoni/MeV) e rapidi tempi di decadimento minori di 33 ns (28). La letteratura attualmente disponibile è scarsa: è stato compiuto uno studio di caratterizzazione dell’LFS-3 in relazione all’LSO che riporta una risoluzione energetica a 662 keV pari a 7.6 % con una resa luminosa di 30000 fotoni/MeV. Il cristallo, con una densità di 7.34 g/cm3, ha il picco di emissione a 435 nm e un tempo di decadimento di 40 ns. Presenta inoltre la stessa risposta non lineare al variare dell’energia incidente dell’LSO (29).

Le caratteristiche dei due scintillatori sono elencate nella Tabella 2.2.

Tabella 2.2: confronto tra le caratteristiche principali dei cristalli LYSO e LFS-3; Zeff è il numero atomico

efficace e n è l'indice di rifrazione; la risoluzione energetica è calcolata a 662 keV.

Cristalli Densità

(g/cm3)

Zeff n emis (nm) (ns)Light yield

(fotoni/MeV)

Ris. en.(%)

L0.9Y0.1SO 7.10 65 1.81 420 41 32000 8.9

(26)

26

CAPITOLO TERZO:

FOTOMOLTIPLICATORI AL SILICIO

3.1

FOTORIVELATORI PER APPLICAZIONI PET

I fotoni luminosi, una volta prodotti nello scintillatore e raccolti alla finestra di uscita del cristallo, devono essere convertiti in un segnale elettrico proporzionale all’energia depositata inizialmente dalla radiazione; a tale scopo è necessario l’uso di un fotorivelatore.

Fino ad oggi, il fotorivelatore principe utilizzato nelle applicazioni PET è stato il tubo fotomoltiplicatore. Il desiderio di ottenere migliori risoluzioni spaziali, di integrare la tecnica TOF alla PET e di realizzare sistemi ibridi PET-MR hanno però spinto i ricercatori verso lo studio di nuovi fotorivelatori quali i fotodiodi a valanga e i fotomoltiplicatori al silicio.

Qui di seguito, verrà descritto il funzionamento dei fotorivelatori in silicio. Per completezza si inserisce un paragrafo dedicato alla descrizione dei tubi fotomoltiplicatori, che ancora oggi rappresentano lo stato dell’arte dei rivelatori presenti negli scanner clinici PET, per consentire un confronto tra le loro caratteristiche principali.

3.1.1

TUBI FOTOMOLTIPLICATORI

Un tubo fotomoltiplicatore (PhotoMultiplier Tube o PMT) è costituito da un fotocatodo per la conversione dei fotoni luminosi in fotoelettroni che vengono poi amplificati da un tubo moltiplicatore. Il tubo così fatto è tenuto sottovuoto per minimizzare la perdita di elettroni (dovuta alla loro interazione con gli elettroni dell’aria) mentre l’ingresso dei fotoni luminosi avviene attraverso una finestra solitamente in vetro (Figura 3.1).

La produzione di fotoelettroni avviene per effetto fotoelettrico: la scelta del fotocatodo deve dunque essere fatta in modo da garantire la migliore efficienza di conversione alla massima lunghezza d’onda di emissione dello scintillatore - questa caratteristica si chiama efficienza quantica o quantum efficiency (QE) di un fotocatodo ed è definita come il rapporto tra il numero medio Ne di fotoelettroni emessi e il numero medio N di fotoni incidenti sul fotocatodo (13):

; [3.1]

il numero di fotoelettroni prodotti dipende dall’energia dei fotoni incidenti per cui la QE è una funzione di . Valori tipici di efficienze quantiche sono del 20-30% (12).

(27)

27 Il tubo fotomoltiplicatore è costituito da una successione di dinodi tra i quali viene applicato un opportuno campo elettrico per accelerare i fotoelettroni emessi: infatti, se tali elettroni hanno sufficiente energia cinetica (di circa 2-3 eV), quando incidono sui dinodi liberano altri elettroni secondari, amplificando il segnale elettrico iniziale. A tale scopo, ogni dinodo si trova ad un potenziale maggiore del precedente per accelerare gli elettroni prodotti che, alla fine della catena moltiplicativa, vengono raccolti sull’anodo.

Figura 3.1: struttura tipica di un tubo fotomoltiplicatore. I fotoni luminosi incidono sul fotocatodo (in alto) producendo fotoelettroni che in seguito colpiscono il primo dinodo provocando la moltiplicazione in cascata degli

elettroni che, alla fine, vengono raccolti sull’anodo.

Poiché i fotocatodi hanno basse QE, è importante raccogliere quanti più fotoelettroni possibili sul primo dinodo. L’efficienza di raccolta degli elettroni (collection efficiency o CE) è definita come il rapporto tra il numero medio di fotoelettroni raccolti dal primo dinodo e il numero medio di fotoelettroni emessi dal fotocatodo:

; [3.2]

la CE è una funzione soprattutto del campo elettrico applicato e dell’orientazione del primo dinodo rispetto al fotocatodo. Efficienze di raccolta tipiche sono dell’80% e anche superiori (13).

(28)

28 Per quanto riguarda invece il processo di amplificazione dei fotoelettroni, questo è dato dal guadagno G del PMT. Supponendo che il tubo sia costituito da N dinodi successivi e che il numero di elettroni prodotti per ogni elettrone incidente su un dinodo sia δ, si ha:

[3.3]

in cui α è la frazione di fotoelettroni emessi dal fotocatodo e raccolti dal primo dinodo.

La creazione di elettroni secondari è un processo statistico, per cui δ fluttua attorno al proprio valor medio da evento ad evento; assumendo una distribuzione Poissoniana, per ogni fotoelettrone che colpisce il primo dinodo si ha una media di δ elettroni secondari prodotti, con una deviazione standard pari a δ 1/2 e una varianza relativa, definita come ( δ)2, pari a 1/δ. Nel caso di N stadi moltiplicativi, il numero medio di elettroni raccolti dall’anodo è dunque N con una varianza pari a:

[3.4]

quindi per δ>>1 la resa dominante nell’impulso in uscita dal PMT è quella dovuta agli elettroni prodotti dal primo dinodo, dove il numero di elettroni è piccolo (12).

Oltre che dal numero di dinodi impiegati, il guadagno dipende anche dalla tensione complessivamente applicata tra il primo dinodo e l’anodo:

; [3.5]

in cui α è una costante che dipende dalla geometria, dall’orientazione e dal materiale dei dinodi ed assume valori compresi tra 0.7 e 0.8. Tipici PMT operano a tensioni comprese tra 1500-2000 V con guadagni dell’ordine di 105

(13).

3.1.2

FOTODIODI A VALANGA

Un fotodiodo a valanga (avalanche photodiode o APD) è un rivelatore costituito da un materiale semiconduttore, tipicamente silicio, che converte i fotoni luminosi che incidono su di esso in un numero proporzionale di coppie elettrone-lacuna.

Come già accennato precedentemente, nei semiconduttori il gap di energia proibita tra banda di valenza e banda di conduzione è pari a circa 1-2 eV: la sola agitazione termica è dunque sufficiente a creare numerose coppie elettrone-lacuna; alcune di queste si ricombinano velocemente (10-9-10-4s) emettendo un fotone od un fonone3, le altre invece migrano liberamente costituendo in questo modo una fonte di rumore (dark noise). Il dark noise può essere ridotto abbassando la temperatura oppure drogando il materiale semiconduttore. Esistono due tipi di drogaggio: il drogaggio di tipo n in cui si introduce un eccesso di elettroni tra i portatori di carica e il drogante introduce dei livelli energetici

3

Ciò avviene a causa della presenza di impurità nel cristallo che introducono all’interno della banda proibita dei livelli permessi che vengono chiamati centri di ricombinazione o di intrappolamento.

(29)

29 disponibili appena sotto la banda di conduzione (Figura 3.2a); il drogaggio di tipo p in cui si rendono disponibili delle lacune e si introducono livelli appena sopra la banda di valenza (Figura 3.2b).

Figura 3.2: esempi di drogaggio di tipo n (a) e p (b).

Mettendo a contatto due strati di semiconduttore diversamente drogati si ottiene una giunzione p-n. La differente concentrazione di elettroni e lacune tra i due materiali porta alla diffusione di lacune dalla regione p verso la regione n ed un’equivalente diffusione di elettroni in senso contrario, con conseguente ricombinazione di molte coppie elettrone-lacuna. Poiché le due regioni p ed n sono inizialmente entrambe neutre, tale ricombinazione provoca la formazione di carica spaziale fissa (atomi dei droganti ionizzati), positiva nella zona n e negativa nella zona p, che crea un campo elettrico nella giunzione e che si oppone alla ulteriore diffusione di elettroni e lacune: la regione di contatto tra i due strati, detta regione di svuotamento, risulta dunque priva di cariche mobili, per cui le coppie elettrone-lacuna prodotte dal passaggio di una radiazione ionizzante che attraversa tale zona, muovendosi sotto l’azione del campo elettrico, producono un segnale di corrente che può essere rivelato.

Figura 3.3: (a) giunzione p-n alimentata inversamente; (b) curva corrente-tensione di una giunzione p-n: se la giunzione è alimentata inversamente al suo interno fluisce una piccola corrente it.

(30)

30 Gli spessori tipici della regione di svuotamento sono insufficienti per poter utilizzare il cristallo come rivelatore. Lo spessore della regione di svuotamento viene aumentato applicando una differenza di potenziale inversa alla giunzione (Figura 3.3a): in questo modo si estende la regione di svuotamento su entrambi i lati della giunzione, allontanando rispettivamente da una parte le lacune e dall’altra gli elettroni verso le estremità del materiale; attraverso la giunzione può quindi fluire soltanto una corrente molto bassa dovuta ai portatori di carica minoritari (Figura 3.3b) (12) (13). Come per i PMT, anche per i fotodiodi è possibile parlare di efficienza quantica, definita semplicemente come il numero di portatori di carica generati per fotone incidente, e di guadagno. Quest’ultimo è dato dal rapporto tra la corrente I prodotta in seguito al processo di moltiplicazione e la corrente IP dovuta ai fotoelettroni prima della loro amplificazione:

. [3.6]

Un APD è una giunzione p-n polarizzata inversamente con una tensione elevata, prossima alla tensione di breakdown (tensione inversa sopra la quale una coppia elettrone-lacuna può innescare la scarica del diodo). Gli elettroni prodotti dai fotoni di scintillazione nella regione di svuotamento migrano verso la regione di moltiplicazione, in cui l’elevato campo elettrico li accelera sufficientemente affinché essi possano liberare elettroni secondari (Figura 3.4); le cariche prodotte risentono a loro volta del campo elettrico, liberando ulteriori elettroni tramite collisioni successive e provocando un processo di moltiplicazione a valanga che permette un’amplificazione del segnale. Il fattore di guadagno può arrivare fino a 100 (13), inoltre esso cresce al crescere della tensione applicata e diminuisce all’aumentare della temperatura (12).

Nelle applicazioni PET questo fattore di guadagno non garantisce un buon SNR (cioè il rapporto tra il segnale e il rumore ad esso associato) per cui si utilizza un amplificatore: il segnale dell’APD viene amplificato di un fattore A mentre il rumore associato al sistema APD-amplificatore è

. [3.7]

Il primo termine di questa espressione rappresenta le fluttuazioni Poissoniane sul numero N di coppie elettrone-lacuna primarie prodotte: infatti l’ENF è l’excess noise factor, che rappresenta l’ampiezza delle variazioni del segnale dovute alla generazione statistica delle cariche secondarie; per A>10 viene determinato principalmente dal contributo delle lacune nel processo di moltiplicazione. Il secondo termine esprime invece il rumore elettronico: in particolare, il rumore dell’amplificatore è espresso come ENC (equivalent noise charge) che permette di convertire il rumore elettronico dell’amplificatore in una carica in ingresso ad esso equivalente (30). Poiché il rumore dipende dalla temperatura e dalla tensione è importante mantenere questi due parametri

(31)

31 costanti: solitamente si utilizza un sistema di raffreddamento per stabilizzare il segnale e migliorare l’SNR.

Figura 3.4: in alto, configurazione tipica di un avalanche photodiode; in basso, profilo del campo elettrico relativo alle due regioni (di svuotamento e di moltiplicazione).

Gli APD comunque presentano un’efficienza quantica maggiore rispetto ai tubi fotomoltiplicatori (fino all’80% alla lunghezza d’onda di massima emissione degli scintillatori) e una buona risoluzione temporale (~1ns) (12): quest’ultima dipende dalle fluttuazioni statistiche del processo di moltiplicazione, dalla variazione nel tempo di raccolta delle cariche generate nella regione di svuotamento ed inoltre dal rumore elettronico dell’amplificatore.

3.1.3

FOTOMOLTIPLICATORI AL SILICIO

Se un APD viene alimentato con una tensione superiore a quella di breakdown i portatori di carica che vengono generati in seguito all’interazione dei fotoni nella regione di svuotamento, indipendentemente dalla loro energia, danno inizio ad una scarica fornendo dunque segnali di uguale carica (Geiger-Mode APD): chiaramente, un dispositivo di questo tipo non è in grado di fornire un segnale proporzionale all’energia del fotone incidente ma può comunque essere utilizzato

(32)

32 in una diversa configurazione che lo permetta: il fotomoltiplicatore al silicio (Silicon Photomultiplier o SiPM).

Figura 3.5: a destra, struttura di un SiPM composto da una matrice di microcelle attaccate su un comune substrato; ogni cella (a sinistra) è una giunzione p-n isolata dalle altre tramite degli anelli di guardia ed è collegata in serie ad una resistenza (circuito di quenching); il segnale di output del SiPM è dato dalla somma dei

segnali di ogni cella che vengono letti in parallelo tramite una griglia di alluminio.

Un SiPM è una matrice di GM-APD (31) di piccole dimensioni (da 10 a 100 micrometri) posti su un comune substrato di silicio e collegati in parallelo tramite una griglia di alluminio (Figura 3.5); ogni microcella o SPAD (Single Photon Avalanche Diode) è una giunzione p-n caratterizzata da una sottile regione di svuotamento (~0.7m) tra i due strati p+ e n+, all’interno della quale si instaura un campo elettrico di ~3·105 V/cm. Poiché la regione di svuotamento è sottile, la tensione necessaria a raggiungere questo elevato campo elettrico è dell’ordine di decine di volt mentre la presenza di anelli di guardia n- all’interno delle celle serve a mantenere uniforme il campo.

Figura 3.6: a) struttura elettrica semplificata di un SiPM costituito da microcelle poste in serie ad una resistenza di quenching; b) quando la microcella viene colpita da un fotone, viene prodotto un segnale di carica Qcell e la

capacità Ccell si scarica attraverso la resistenza Rcell; quando la corrente fluisce attraverso il circuito di

quenching, la tensione decresce fino al valore di breakdown e il processo di scarica si arresta. Una volta dissipata

tale carica, la tensione ritorna al valore Vbias e la cella è nuovamente funzionale.

Ogni microcella opera indipendentemente dalle altre, permettendo un conteggio di singolo fotone ad alto guadagno. Quando un fotone incide su una microcella, se questa è alimentata ad una

(33)

33 tensione maggiore di quella di breakdown, le coppie elettrone-lacuna generate dall’interazione con il fotone danno luogo ad una scarica (modalità Geiger), producendo una carica Qcell pari a

[3.8]

in cui Ccell è la capacità della cella (valori tipici sono di 100 fF) e Vbias la tensione applicata (valori tipici di Vbias-Vbreakdown sono dell’ordine di pochi volts) (31).

Prima di poter rivelare un secondo fotone, è necessario che la microcella ritorni al valore di tensione iniziale Vbias: essa infatti si ricarica fino al valore Vbias dissipando la carica prodotta attraverso una resistenza collegata in serie al diodo (circuito di quenching). Il funzionamento di una singola microcella è mostrato in Figura 3.6b. Poiché le celle sono collegate in parallelo tra loro, il segnale di output della matrice è la somma degli output dei singoli SPAD (Figura 3.6a) ed è proporzionale al numero di celle colpite, fornendo informazioni sul flusso di fotoni e di conseguenza sulla iniziale energia del gamma incidente, posto che i fotoni siano distribuiti spazialmente in modo uniforme e che il rateo di fluenza sia basso (31) (32).

3.2

CARATTERISTICHE DEI SiPM

Il guadagno di una microcella dipende dalla carica che in essa si accumula (equazione 3.8): valori tipici sono compresi tra 105 e 107 e dipendono dalla tensione applicata, a sua volta funzione della temperatura (31) come mostrato in Figura 3.7. Diversamente dagli APD, non è necessario utilizzare un amplificatore (o al massimo uno semplice): il rumore elettronico è infatti trascurabile. Poiché le fluttuazioni sul processo di scarica sono basse, l’ENF è molto piccolo (prossimo a 1) (32).

Figura 3.7:variazione del guadagno, per diverse temperature, in funzione della tensione applicata per un SiPM di area 1x1mm2 costituto da 400 celle (31).

(34)

34 L’efficienza con la quale i fotoni sono convertiti in un segnale prende il nome di efficienza di fotorivelazione (photodetection efficiency o PDE). Questa è definita come:

[3.9]

in cui FF è il fattore di riempimento o fill factor e Pg è la probabilità di dare avvio ad una scarica Geiger (31).

Il fattore di riempimento è definito dal rapporto tra l’area sensibile della microcella e la sua area totale: valori tipici sono di 0.6-0.8 (33) poiché in ogni microcella parte dello spazio è impiegato per contenere le singole resistenze e per isolarle otticamente lungo il loro perimetro. Nelle applicazioni PET, se si utilizza un cristallo con una elevata resa luminosa, è conveniente utilizzare un SiPM con molte celle di piccole dimensioni per evitare la saturazione del dispositivo (32).

La probabilità Pg di innescare una scarica dipende dall’overvoltage (cioè Vbias-Vbreakdown); valori tipici sono compresi tra 0.5-1 (31).

La QE dell’area sensibile di un SiPM è invece definita come:

[3.10]

in cui α ed R sono rispettivamente il coefficiente di assorbimento e il coefficiente di riflessione del silicio mentre G è l’efficienza geometrica (34). Circa il 30% dei fotoni incidenti sul SiPM vengono riflessi all’interfaccia aria/area sensibile: tale fattore di perdita può essere però ridotto utilizzando un opportuno rivestimento anti-riflettente (33). Il processo di assorbimento dei fotoni dipende da  (a sua volta funzione della temperatura) e dallo spessore della regione di svuotamento. La QE, i cui

Figura 3.8:PDE acquisite con un SiPM di area 1x1mm2, costituto da 289 celle e un fattore di riempimento del 48%, per diversi valori di overvoltage ed a una temperatura di 20°C (31).

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