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IL TRATTAMENTO CONTABILE DEI DERIVATI FINANZIARI. UN CONFRONTO TRA LA DISCIPLINA NAZIONALE E QUELLA INTERNAZIONALE.

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Academic year: 2021

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CONCLUSIONI

Senza ombra di dubbio la tematica affrontata risulta estremamente complessa ed articolata. E’ anche vero tuttavia, che lo sviluppo degli strumenti finanziari derivati nel nostro paese non è un fenomeno antico, bensì si può ricollegare, soprattutto per quanto attiene alle società non finanziarie, agli ultimi 15 anni.

La poca dimestichezza che il sistema italiano ha con questi strumenti ha portato nel tempo a situazioni anche drammatiche. Si pensi ad esempio al forte utilizzo (forte e sconsiderato) di tali strumenti da parte di Enti pubblici, spesso del tutto impreparati nel gestire situazioni di questo tipo396. La variabile rischio all’interno di questi strumenti è spesso del tutto incontrollabile, anche ad opera di soggetti che possiedono conoscenze in ambito finanziario. Inoltre è evidente ricordare come a tutti gli effetti la finalità principe di questi strumenti sia, o meglio dovrebbe essere, la copertura da rischi di varia natura. Evidenti riscontri con la realtà ci permettono tuttavia di comprendere come questi contratti siano negoziati spesso con finalità di mera speculazione; a tal proposito mi sento di poter affermare che questa fattispecie è nettamente più frequente della negoziazione a fini di copertura.

Passando all’oggetto di questa tesi, ovvero all’aspetto contabile dei derivati finanziari, risulta quasi superfluo evidenziare come, la normativa italiana sia del tutto carente in materia. In effetti, mentre per i così detti “enti finanziari”, è possibile rintracciare una normativa (peraltro comunque del tutto inorganica), questa è completamente assente per gli enti non finanziari, ovvero per le imprese industriali e commerciali. Come abbiamo avuto modo di osservare la disciplina in tal senso, è estrapolata dalla stessa normativa che regola la contabilizzazione dei derivati per le imprese finanziarie. Tuttavia è evidente come questo approccio non sia del tutto pacificamente accettato, in quanto è evidente come le attività poste in essere dalle imprese

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Sul tema in questione si riscontrano numerosissimi intervanti Uno fra tutti è quello ad opera di Sciandra che sostiene: “La rassegna delle informazioni disponibili consente tuttavia di evidenziare alcune criticità rilevanti nell’uso che le amministrazioni hanno fatto della finanza innovativa. Il ricorso agli strumenti derivati presenta, infatti, ampi margini di rischio che necessitano di essere adeguatamente conosciuti e valutati dalle amministrazioni. Come si illustrerà infatti, sino all’emanazione del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanza n. 389/2003, nelle strategie degli enti locali è prevalsa la componente speculativa o di funding di breve periodo con ripercussioni, spesso impreviste, sugli equilibri economico finanziari di medio lungo termine.” Sciandra, “I derivati degli enti locali: una rassegna delle informazioni su

dimensioni e criticità”, in “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze”, volume 67, fascicolo 3, parte 1, 2008, pag.

388. Per un maggiore approfondimento rimando allo stesso articolo, in particolare alle considerazioni dell’autrice contenute a pagg. 404-405.

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finanziarie e da quelle non finanziarie siano del tutto differenti. Quindi risulta non corretto ribaltare completamente la disciplina dell’una sull’altra fattispecie, e tale comportamento ha portato nel tempo a comportamenti non corretti o comunque suscettibili di differenti valutazioni. Basti pensare alla diatriba che sussiste tra vari esperti in materia con riguardo all’applicazione del principio della coerenza valutativa per le imprese non finanziarie e con riguardo alla contabilizzazione dei derivati di copertura.

Tuttavia tale comportamento, era a mio avviso, prevedibile; quando un comportamento non è regolato nel dettaglio, esso può sempre essere suscettibile di differenti valutazioni. Peraltro risulta molto debole l’intervento in materia anche da parte dell’Organismo Italiano di Contabilità, che affida ad una “nota” (la numero 18, del documento OIC 19), il rimando per le imprese non finanziarie all’applicazione di alcuni articoli in materia riguardanti il D.Lgs. 87/1992.

In tale contesto, così frammentario e poco chiaro, la disciplina internazione, a mio avviso, si pone come “un’ancora di salvataggio”; essa disciplina il comportamento contabile di questa fattispecie, in modo abbastanza chiaro, seppur con alcune evidenti difficoltà. E’ tuttavia importante sottolineare come la materia in oggetto si presti ben poco ad una puntuale regolamentazione; il mondo della finanza e soprattutto, quello riguardante la materia dei contratti derivati è in continua evoluzione, e, è proprio il caso di dirlo, “sforna” ogni giorno prodotti sempre nuovi e più sofisticati che mai. Basti pensare al rschiamo che ho fatto in merito sia ai così detti derivati esotici, sia ad esempio ai derivati atmosferici, dei quali in particolare non sono stato in grado di rintracciare alcun cenno in materia.

L’approccio elaborato dalla disciplina internazionale è tuttavia molto più semplice rispetto a quello nazionale. In particolare quest’ultimo, è a mio avviso più particolareggiato. Si evidenzia in tal senso che “la rappresentazione dei contratti derivati nei bilanci delle banche costituisce un problema di non facile soluzione: a seconda delle caratteristiche dei diversi strumenti è comunque possibile individuare, in base alle istruzioni di Bankitalia, la corretta voce di conto economico nella quale inserire i proventi e gli oneri del contratto”397. Quindi per ogni “casistica”, si mette in atto una soluzione.

L’approccio internazionale (forse per l’iniziale impostazione che ha nei confronti della sostanza economica delle operazioni) pone, a mio avviso, prima di tutto le soluzioni, alle quali poi ricollega le diverse casistiche. Quest’approccio, adottato in contesto estremamente dinamico, ha portato a soluzioni di gran lunga più flessibili. L’ormai imminente, almeno si

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Rocca, “Quale rappresentazione economica per i derivati?”, in “Amministrazione e finanza”, volume 12, fascicolo 19, 1997, pag. 21.

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spera, recepimento della parte opzionale della direttiva 2001/65/Ce, dovrebbe sancire, in tal senso, l’abbandono dell’attuale contesto normativo italiano, in riferimento ai soggetti individuati, e all’oggetto in questione.

Tuttavia a mio avviso sono riscontrabili alcune critiche anche con riferimento ai principi contabili internazionali. In particolare mi riferisco al criterio del fair value, che a mio avviso presenta elementi di criticità da non sottovalutare.

In tal senso dopo un’iniziale euforia nell’attuazione di tale criterio, sono riscontrabili alcuni passi indietro, anche da parte dello IASB stesso. Basti pensare all’iniziale applicazione della “fair value option” (che permetteva l’iscrizione e la valutazione di qualsiasi elemento in bilancio al fair value), che poi, dopo pesanti critiche, è stata tendenzialmente ridimensionata. Oppure al recente intervento normativo in merito alla riclassificazione di alcune attività finanziarie, di cui ho parlato nel corso del secondo capitolo. Tale intervento si è reso necessario per salvaguardare la stabilità finanziaria, soprattutto delle società bancarie, contro la recente crisi finanziaria. Tale modifica è stata approvata rapidamente dallo IASB ed è immediatamente confluita nel Regolamento 1004/2008/Ce. Essa ha introdotto la possibilità di riclassificare in altra categoria le attività classificate come “held for trading”. Senza questa correzione, che annulla un caposaldo dello IAS 39, le aziende bancarie (più delle altre, com'è ovvio, colpite dalla crisi, in virtù della naturale composizione delle loro attività) avrebbero subito effetti devastanti dovendo contabilizzare ingenti perdite sui titoli (obbligazionari) in portafoglio per effetto della valutazione al fair value secondo il modello del mark-to-market. La mia impressione personale è che il criterio del fair value sia ben accetto da parte di un gran numero di soggetti, fintanto che permette, in un certo senso, di “gonfiare” gli utili derivati dalla rivalutazione degli elementi; esso risulta notevolmente più scomodo quando la situazione diviene meno idilliaca, e si presentano, come di recente, forti crisi finanziarie. La valutazione al fair value è suscettibile ad è “agganciata” alla situazione finanziaria globale. Per cui se da una parte tale criterio di valutazione risulta estremamente soddisfacente nel mostrare la reale situazione dell’azienda e nel fornire un’informazione sicuramente più veritiera, dall’altra esso risulta tendenzialmente poco prudenziale. In effetti il criterio del costo, con tutti i suoi limiti, prevedeva l’assegnazione al bilancio di una “funzione di salvaguardia dell’integrità del patrimonio Sociale” piuttosto che l’attribuzione di una valenza informativa sul valore reale del reddito prodotto398.

La valutazione al fair value segue, come abbiamo visto una precisa gerarchia. Per stabilire il valore di un “oggetto”, parte dalla sua valutazione su mercati attivi: ma come sappiamo,

398

Sul punto è utile osservare anche i commenti effettuati dall’Organismo Italiano di Contabilità, all’interno del documento OIC 3.

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soprattutto nella situazione attuale, tali mercati sono soggetti a forti oscillazioni, e quindi tali valori, a mio avviso possono anche perdere la loro valenza informativa.

Prosegue attraverso le così dette “tecniche di valutazione”. Tali tecniche tuttavia a mio avviso non risultano idonei metodi per effettuare una valutazione; esse sono piuttosto tecniche di “supporto alla valutazione”. La valutazione in effetti si basa non solo su aspetti quantificabili oggettivamente. Esistono aspetti soggettivi assolutamente non trascurabili.

Un altro importante aspetto riguarda la così detta distribuibilità degli utili derivanti da rivalutazioni al fair value. In particolare sappiamo che la valutazione al fair value permette, in alcuni casi, la distribuzione di utili solo presunti e pertanto non ancora certi.

In particolare l’art. 6 del D.Lgs 28 febbraio 2005, n. 38 ha disposto che le imprese che redigono il bilancio in conformità ai principi contabili internazionali non possono distribuire399:

- Utili d’esercizio in misura corrispondente alle plusvalenze iscritte nel conto economico, al netto del relativo onere fiscale e diverse da quelle riferibili agli strumenti finanziari di negoziazione ed all’operatività in cambi e di copertura, che discendono dall’applicazione del criterio del fair value o del patrimonio netto;

- Riserve del patrimonio netto costituite e movimentate in contropartita diretta della valutazione in fair value di strumenti finanziari e attività.

Tralasciando l’aspetto che riguarda il trattamento delle riserve, che andrebbe decisamente oltre questo lavoro, è possibile affermare come in effetti sia possibile per alcuni strumenti la distribuzione di utili non ancora distribuiti.

In particolare l’OIC, nella guida operativa n. 4 indica come utili distribuibili: - Quelli relativi a strumenti finanziari di negoziazione;

- Quelli derivanti dall’operatività in cambi; - Quelli derivanti da operazioni di copertura;

- Quelli derivanti dall’applicazione del metodo del patrimonio netto;

Per quanto riguarda in particolare i primi due aspetti, occorre rilevare che lo IASB giustifica tale comportamento in quanto si ritiene che tali utili, seppur effettivamente non ancora realizzati, si prestano ad essere realizzati nel breve periodo.

399

Sul punto: Pellino, “La distribuzione degli utili di esercizio: tassazione e certificazione”, Maggioli Editore, Rimini, 2009. Tuttavia per un esame più approfondito sugli effetti della rivalutazione al fair value sul bilancio d’esercizio, e soprattutto sull’impatto della rivalutazione anche a riserva (aspetto che ho volutamente trascurato) rimando a : Bauer, “Disciplina della

distribuzione di utili e riserve da fair value: come e quando usarli?”, in “Amministrazione e finanza”, volume 24, fascicolo 2,

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Il ragionamento in questione a tutti gli effetti è solo parzialmente criticabile; tali strumenti si prestano, per loro natura, alla negoziazione di breve periodo.

Tuttavia è da riscontrare che il principio della prudenza nel sistema ragionieristico italiano sottendeva a tutta una serie di aspetti difficilmente non trascurabili e che vanno parzialmente oltre alla semplice negoziabilità dei titoli.

In particolare, a mio avviso, esso permetteva attraverso la tanto contestata asimmetria del trattamento di costi e ricavi solo presunti, di “riservare valori” all’interno dell’azienda, garantendone in un certo senso un continuo auto potenziamento.

Tali considerazioni, tuttavia, sono del tutto personali, e forse a ben vedere, vanno ben oltre il contenuto di questa tesi, e poco si prestano ad essere sintetizzate in poche righe.

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