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Studio e sviluppo di tecniche avanzate di imaging per il posizionamento del paziente in protonterapia

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

1 La Protonterapia

1.1 Vantaggi dall’uso dei fasci di protoni 1.2 Interazione Dei Protoni Con La Materia

1.2.1 Lo Stopping Power 1.2.2 Il Range

1.2.3 La Penombra laterale

1.2.4 Il Picco di Bragg Allargato (SOBP) 1.3 Caratteristiche Radiobiologiche

1.4 Centri Di Protonterapia In Italia E Nel Mondo

2 Gli Acceleratori di Protoni per uso Medicale

2.1 Ciclotroni 2.2 Sincrotroni

2.3 Acceleratori Lineari

2.4 L’acceleratore lineare di ERHA 2.4.1 L’ Iniettore

2.4.2 I Linac SCDTL 2.4.3 I Linac SCL

2.4.4 Il sistema di controllo ECOS

2.4.5 Il software di sicurezza e controllo dell’acceleratore

3 Il Treatment Planning System e il Dose Delivery System

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3.1.2 Le tecniche attive

Lo spot scanning

Il raster scanning

3.2 Il Treatment Planning System 3.2.1 L’hardware

3.2.2 Il software

Caratteristiche delle immagini CT

Il database dei parametri fisici del TPS Metodi per il calcolo della dose assorbita 3.3 Il Dose Delivery System

3.3.1 I beam monitors

4 Gli Standard in Protonterapia: DICOM e IEC 61217

4.1 DICOM

4.1.1 Le origini di DICOM 4.1.2 I fondamenti di DICOM 4.1.3 I DICOM Data Set 4.1.4 Gli Oggetti di Dicom RT

Image CT IOD

RT Structure Set IOD

RT Plan IOD

4.2 I sistemi di coordinate

4.2.1 Il sistema DICOM Patient 4.2.2 Il sistema di coordinate IEC

5 Il Software 3D-VIPE (3D VIewer and Parser to Ecos)

5.1 Generalità di 3D-VIPE 5.2 Fase di inizializzazione

5.3 Fase di acquisizione e decodifica dei DICOM 5.4 Fase di riorganizzazione delle strutture

5.4.1 L’indicatore Structure Set 5.4.2 L’indicatore Ion Beam Sequence

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5.5 L’interfaccia di 3D-VIPE 5.5.1 La modalità RTPLAN 5.5.2 La modalità RTSTRUCT 5.5.3 La modalità CT

6 Conclusioni e Prospettive Future

Bibliografia

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Introduzione

Secondo le stime dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica, nel corso della vita circa un uomo su due e una donna su tre si ammala di tumore. Nono-stante questi numeri poco rassicuranti attualmente il numero di persone che guariscono dal cancro che si possono definire totalmente rimesse dopo 5 anni dal termine delle cure è in notevole aumento. Infatti di recente l’avanzamento tecnologico ha permesso di migliorare in maniera considerevole le tecniche tra-dizionali utilizzate nel trattamento della lesione tumorale tra cui la radioterapia.

L’obiettivo di una terapia curativa che sfrutta radiazioni ionizzanti è quello di irradiare al 100% e in maniera uniforme l’intero volume tumorale, lasciando indenni le regioni circostanti, grazie ad un acceleratore di particelle.

Ad oggi è possibile avvicinarsi a questi risultati ideali utilizzando fasci cura-tivi di particelle cariche, gli adroni. In questa tesi si considera la radioterapia con fasci di protoni definita protonterapia. Il grande vantaggio clinico di un tale trat-tamento, rispetto alla radioterapia tradizionale, risiede nel singolare andamento del profilo di dose depositata all’interno di un tessuto, in funzione della profon-dità. Quest’andamento prende il nome di curva di Bragg, che è caratterizzata dall’avere un picco di dose rilasciata, prossimo al termine del percorso della par-ticella nel mezzo. Grazie a quest’andamento del profilo di dose si riesce a colpire

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selettivamente il volume bersaglio, inviando la dose minima ai tessuti circo-stanti.

La pianificazione di un trattamento protonterapico necessita di alcuni im-portanti strumenti di calcolo per la valutazione della distribuzione di dose nel tessuto che si vuole irraggiare, attraverso la tecnica del Pencil Beam. Il software Treatment Planning System (TPS) partendo da informazioni diagnostiche quali le immagini CT e ponendo dei vincoli anatomici, elabora delle informazioni in formato Dicom per il sistema di controllo dell'acceleratore in termini di energia del fascio e posizione del paziente da trattare.

È proprio in questo panorama che si inserisce il presente lavoro di tesi: l’obiettivo è quello di trasferire le informazioni generate del TPS al sistema di controllo dell’acceleratore, decodificandole e rielaborandole per renderle facil-mente interpretabili. Questa facilità di lettura deve passare anche da una elabo-razione grafica, laddove possibile, per produrre mappe di punti 2D e immagini 2D e 3D utilizzate dai vari sottosistemi dell’acceleratore per effettuare il tratta-mento pianificato. Per raggiungere questo scopo si è sviluppato il software 3D-VIPE.

La tesi si è svolta nel periodo compreso tra ottobre 2016 e maggio 2017, presso la ITEL Telecomunicazioni di Ruvo di Puglia (BA). La ITEL è un’azienda impe-gnata nella ricerca applicata, sviluppo sperimentale ed engineering, per uso in-terno e per conto terzi, di tecnologie elettromagnetiche e meccatroniche per il settore medicale, in particolare nel campo dell’imaging diagnostico e intraope-ratorio, della radioterapia tradizionale e della protonterapia, e di tecnologie per l’utilizzo industriale dell’energia elettromagnetica.

Questo lavoro di tesi si inserisce in ERHA (Enhanced Radiotherapy with HA-drons) che è il primo innovativo impianto di protonterapia, brevettato ITEL, che integra un acceleratore lineare, un sistema robotizzato di posizionamento pa-ziente e un software per la valutazione dei piani di trattamento.

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mo-circolare di tipo “Ciclotrone” o di tipo “Sincrotrone”. Il LINAC produce un fascio con caratteristiche ottiche migliori rispetto agli acceleratori circolari, e garanti-sce radiazioni ambientali disperse notevolmente inferiori.

Le caratteristiche innovative del progetto sono:

- radioterapia con protoni a modulazione di intensità (IMPT);

- scanning attivo 3D (fasci modulati in energia e posizione dal sistema acceleratore e magneti) che minimizza la radiazione ai tessuti sani; - sistema robotizzato di movimentazione e posizionamento del

pa-ziente che garantisce precisione e ripetibilità integrato con tecnologie di imaging 3D stereoscopiche.

- software Treatment Planning System (TPS) per l’elaborazione di piani di trattamento protonterapici con valutazione radiobiologica dei fasci di protoni su cellule e tessuti attraversati dal fascio di protoni. Il soft-ware con approccio full Monte Carlo ha il supporto per cloud compu-ting e calcolo parallelo.

Nel primo capitolo della tesi verrà introdotta la protonterapia, con riferi-mento ai vantaggi che derivano dalla sua applicazione a causa delle interazioni fisiche e biologiche dei protoni con la materia. Si darà inoltre una panoramica sullo stato di questa pratica nel Mondo e in Italia.

Nel secondo capitolo verranno descritti gli acceleratori di protoni focalizzan-dosi su quelli lineari e sulla soluzione proposta dalla ITEL, riguardante anche il sistema di controllo sviluppato.

Nel terzo capitolo si descriveranno le tecniche per il rilascio della dose da parte dell’acceleratore, il sistema di TPS che fornisce i dati in ingresso a 3D-VIPE, e il DDS che utilizza invece i dati e elaborati dallo stesso software.

Nel quarto capitolo si illustrerà lo standard DICOM, utile per decodificare le informazioni che il software deve gestire e i vari sistemi di riferimento per indi-viduare il paziente e i macchinari in un processo di terapia, definiti in maniera rigorosa secondo DICOM e IEC 61217, un altro standard per la radioterapia.

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Nel quinto capitolo verrà presentato il software 3D-VIPE, soffermandosi sul codice operativo, passando in rassegna l’algoritmo che utilizza per il rendering 3D a partire da punti organizzati in contour. Verrà inoltre presentata l’interfac-cia utente interattiva e con contenuti altamente figurativi.

Nel sesto ed ultimo capitolo si analizzeranno i risultati ottenuti e le prospet-tive future.

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Capitolo 1

La Protonterapia

La radioterapia a fasci esterni prevede il trattamento di tumori mediante l’uti-lizzo di radiazioni ionizzanti ad elevata energia. Queste sono in grado di deposi-tare all’interno dei tessuti un’energia sufficiente a distruggere o danneggiare il materiale genetico contenuto nelle cellule neoplasiche, rendendo quest’ultime incapaci di crescere e di proliferare.

Il fascio di radiazioni è generalmente prodotto da un acceleratore di parti-celle e viene indirizzato sul volume bersaglio da trattare. L’obiettivo principale della radioterapia è quello di provocare il maggior danno possibile al tessuto le-sionato risparmiando i tessuti sani circostanti, specialmente nei casi in cui questi tessuti rappresentino organi vitali. È dunque necessario garantire che il fascio radiante depositi la dose richiesta nel target con la maggior accuratezza possibile. Tuttavia è impossibile conoscere l’esatta posizione del volume tumorale. Per es-sere certi che la terapia abbia i suoi effetti si dovrà per forza irradiare una por-zione di tessuto superiore a quella deputata al trattamento; sarà sempre presente un margine d’incertezza.

L’ICRU (International Commission of Radiation Units) definisce quali sono i margini dei volumi da considerare in fase di pianificazione del trattamento, attraverso il report 50 successivamente integrato dal report 62 [Fig. 1].

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- Il GTV (Gross Tumor Volume) rappresenta l’estensione visibile, evi-dente o dimostrabiledell’accrescimento maligno;

- il CTV (Clinical Target Volume), concetto anatomico, è il volume di tessuto che contiene il GTV e/o metastasi che devono essere elimi-nate. Deve essere trattato adeguatamente per raggiungere gli scopi della terapia, e va definito prima della scelta riguardo la modalità di trattamento;

- l’IM (Internal Margin) è costituito dai margini che è necessario ag-giungere al CTV per compensare i movimenti fisiologici e le varia-zioni in misura, forma e posizione del CTV durante la terapia. I mo-vimenti sono causati dalla respirazione e dalla presenza degli organi digestivi e dal movimento di altri organi; l’ITV (Internal Target Vo-lume) è il CTV+IM;

- il SM (Set-up Margin) considera le incertezze nel posizionamento del paziente e nell’allineamento dei fasci terapeutici in fase di pianifica-zione del trattamento. È legato dunque a parametri tecnici e geome-trici della strumentazione;

- il PTV (Planning Target Volume), concetto geometrico, è definito per conformare l’arrangiamento e la dimensione del fascio e considera l’effetto di tutte le possibili variazioni geometriche ed inaccuratezze, per garantire che la dose prescritta sia assorbita dal CTV. PTV=CTV+IM+SM;

- il TV (Treated Volume), indica ilvolume delimitato da una superficie isodose ritenuta appropriata per raggiungere gli scopi del trattamento (es. 95%);

- l’IV (Irradiated Volume) che è il volume che riceve una dose signifi-cativa rispetto alla tolleranza dei tessuti sani;

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- L’OAR (Organ At Risk) è costituito da tutti quei tessuti non affetti da tumore ma che sono suscettibili di subire una dose di radiazione si-gnificativa. La regione PRV (Planning organ at Risk Volume) è l’ana-logo del PTV per OAR; PRV = OAR + IM + SM.

Metodiche radioterapiche avanzate come la radioterapia ad intensità modu-lata (IMRT), la BNCT (Boron Neutron Capture Therapy) e l’adroterapia, che uti-lizza protoni e ioni leggeri (He, C, O, Ne), rappresentano gli strumenti attual-mente disponibili per il miglioramento dei risultati ottenuti con la radioterapia tradizionale nella lotta contro il cancro. Tutto ciò è possibile grazie alla peculia-rità di queste tecniche che focalizzano con precisione la dose nei volumi di in-teresse, mantenendo al tempo stesso la dose ai tessuti sani circostanti ed agli or-gani critici sotto i livelli di tollerabilità.

L'adroterapia con protoni (protonterapia), dopo i primi risultati incoraggianti resi possibili anche grazie alle crescenti possibilità offerte da acceleratori sempre più innovativi quali il ciclotrone o il sincrotrone, iniziò a suscitare l'interesse scientifico di molti centri di ricerca. A questa tecnica, ad oggi ampiamente im-piegata in numerosi centri dedicati, venne successivamente affiancata l'adrote-rapia con ioni pesanti.

1.1 Vantaggi dall’uso dei fasci di Protoni

La radioterapia convenzionale viene eseguita con fasci di elettroni o raggi X. Questo trattamento è caratterizzato da un profilo di dose rilasciato nei tessuti, in

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funzione della distanza dalla superficie di ingresso, che raggiunge il picco mas-simo dopo pochi centimetri di penetrazione nel mezzo irradiato, per poi deca-dere esponenzialmente; risulta chiaro che la radioterapia convenzionale non è ideale per curare tumori profondi. Per depositare la quantità di energia richiesta nel volume da trattare sarebbe necessaria una deposizione di dose eccessiva per i tessuti a monte, danneggiandoli in maniera importante.

Per questo, nel corso degli anni, si sono sviluppate una serie di tecniche ra-dioterapiche come la IMRT (Intensity Modulated Radiation Therapy), che con-siste nel bombardare il volume bersaglio con più fasci da molteplici angolazioni rispetto al paziente, o la IGRT (Image Guided Radiation Therapy), nella quale prima di ogni trattamento viene controllata la posizione precisa del volume tu-morale (GTV), tramite esami di imaging. Entrambe queste tecniche terapiche sono state sviluppate per diminuire al massimo la dose depositata nei tessuti sani. Il trattamento che maggiormente riesce a colpire selettivamente il target, in-viando la doseminima ai tessuti circostanti, è quello adroterapico, nel quale i tessuti tumorali vengono irradiati confasci di particelle cariche pesanti, tipica-mente protoni o ioni carbonio.

Il grande vantaggio clinico dell’uso degli adroni risiede nella selettività spa-ziale dovuta alla presenza del picco di Bragg (picco di dose rilasciata) al termine del percorso nel tessuto, e alla modesta diffusione laterale. Grazie a questo an-damentodel profilo di dose, possono essere trattati anche tumori profondi, senza che venga depositata una dose eccessiva nei tessuti circostanti e precedenti l’obiettivo.

Per meglio apprezzare la capacità balistica dei protoni, si riporta un con-fronto tra un piano sviluppato usando 7 campi con intensità modulata con fotoni [Fig 2.a], un piano 3D-CRT con due fasci di protoni [Fig 2.b] e la differenza di dose tra i due piani [Fig 2.c] in cui si evidenzia in giallo la dose rilasciata indebi-tamente ai tessuti sani nel tentativo di ottimizzare la dose al tumore.

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I fasci di protoni presentano dunque una eccezionale capacità di discrimina-zione del volume in cui si concentra la dose rilasciata, come è evidente dalla caratteristica forma della curva dose-profondità: una regione di ingresso prati-camente piatta (plateau) è seguita da un picco di dose molto stretto (picco di Bragg), di ampiezza pari a circa 3-4 volte il valore del plateau d’ingresso, che viene rilasciata in profondità in corrispondenza della fine del percorso (end-point).

I tessuti che si trovano prima del bersaglio, collocato in corrispondenza del picco, ricevono dunque un basso rateo di dose, mentre quelli situati ad una pro-fondità maggiore non ne ricevono, vista la ripida caduta a zero della curva.

Figura 2. Confronto tra diversi piani di trattamento

Figura 3. Curva Dose-Profondità per fotoni (di una sorgente di Cobalto e di un acceleratore da 8 MV), neu-troni e protoni da 200 MeV. Per ogni fascio viene inoltre riportata la distanza sorgente-pelle (SSD).

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Diversamente, i fasci di fotoni, ed in maniera analoga i fasci di neutroni pro-dotti dalla collisione di protoni su particolari bersagli (in fig. 3 è mostrato il caso di un fascio di protoni di 66 MeV incidenti su una targhetta di Berillio), presen-tano un andamento esponenziale decrescente della dose in funzione della pro-fondità, con il picco energetico nella regione prossimale rispetto alla superficie (massimo a 2 cm per fotoni d’energia pari a 8 MeV).

Gli elettroni, invece, sono caratterizzati dal fatto che la dose massima è rila-sciata a pochi centimetri dalla superficie e che il valore di penetrazione massima (calcolato nel punto in cui la dose relativa è pari a circa il 5 % della dose massima) espresso in cm è pari a circa la metà del valore numerico della loro energia ini-ziale (in MeV), con una coda che si degrada verso basse intensità.

L’importanza dell’evidente superiorità dei fasci protonici nella localizzazione della dose rilasciata al bersaglio tumorale, la cui identificazione accurata è oggi ottenibile grazie a diverse tecniche di diagnostica per immagini quali la CT (To-mografia Computerizzata), la NMR (Risonanza Magnetica Nucleare) e la PET (Tomografia a Emissione di Positroni), risulta più chiara quando si valuta sia la probabilità

di ottenere un controllo locale del tumore che quella dell’induzione di compli-canze, attraverso l’analisi delle cosiddette “curve dose-effetto”. [fig. 4]

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Queste rappresentano:

- per i tessuti tumorali, la possibilità di ottenere l’effetto desiderato in funzione della dose assorbita;

- per i tessuti sani, la probabilità di provocare danni gravi o irreversibili, in funzione della dose assorbita.

Nella figura 4, la linea continua (A) rappresenta una ipotetica curva effetto per un tessuto tumorale, mentre la linea tratteggiata (B) una curva dose-danni per un tessuto sano. Nei trattamenti convenzionali, ad una probabilità prossima al 100% di avere il controllo locale del tumore, corrisponde una dose assorbita dai tessuti sani circostanti troppo elevata per considerare accettabile il trattamento.

Nella pratica clinica, il radioterapista si trova dunque obbligato a definire un compromesso fra il controllo locale del tumore e l’insorgenza di complicazioni, che può essere quantitativamente espresso attraverso il “rapporto terapeutico”. È definito come il rapporto 𝐷2/𝐷1 fra la dose corrispondente alla probabilità del

50% di produrre danni e quella corrispondente alla stessa probabilità di ottenere il controllo locale del tumore.

A fronte di queste considerazioni, risulta lampante che la probabilità di cu-rare il tumore senza indurre effetti collaterali indesiderati aumenta linearmente in funzione della “selettività balistica” o “conformità” dell’irradiazione, che è de-finita come la differenza tra la dose al bersaglio e quella ai tessuti sani circostanti coinvolti nell’irradiazione.

La particolare capacità di selezione balistica dei fasci protonici, e di altri adroni carichi, permette dunque, grazie all’elevata concentrazione di dose, di aumentare notevolmente le probabilità di cura e di ottimizzare il risultato tera-peutico del trattamento di tumori prossimi ad organi vitali, attraverso due mec-canismi:

- consentendo la somministrazione al focolaio tumorale di una dose più elevata senza aumento di dose per i tessuti sani adiacenti (il vantaggio

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atteso è un miglioramento del controllo tumorale senza incremento di effetti collaterali);

- riducendo la dose ai tessuti sani per un’uguale dose al focolaio (il van-taggio atteso è una minore incidenza di effetti collaterali e/o serie complicazioni a parità di controllo tumorale).

L’effetto globale si traduce dunque, nella curva dose-effetto calcolata nel caso di radioterapia con fasci di protoni, in uno spostamento verso destra della curva B rappresentante la probabilità di insorgenza di danni collaterali ed in un con-seguente aumento del “rapporto terapeutico”.

Le differenti proprietà balistiche delle diverse particelle utilizzate in radio-terapia devono dunque essere considerate nell’elaborazione del piano di tratta-mento di un tumore, la cui definizione è inoltre influenzata da numerosi para-metri, quali la radio-sensibilità delle cellule, lo schema designato per il fraziona-mento della dose, e inoltre l’ottimizzazione tridimensionale della dose assorbita dal bersaglio irradiato, che verranno analizzati con maggiore attenzione nel se-guito.

1.2 Interazione dei protoni con la materia

Comunemente, quando un fascio di particelle cariche attraversa un mezzo materiale subisce una perdita di energia che può essere dovuta o all’interazione della radiazione incidente con gli elementi subatomici del mezzo o all’emissione di un fotone per Bremsstrahlung1. La perdita di energia radiativa comunque

ri-sulta trascurabile per particelle che hanno una massa sensibilmente superiore a quella dell’elettrone e un’energia che non supera le centinaia di GeV.

In ambito clinico i protoni vengono accelerati in un range di energia che va dai 70 ai 230 MeV e hanno una massa di circa 2000 volte maggiore di quella dell’elet-trone. Per quanto detto è ragionevole affermare che i protoni non vanno incon-tro a processi radiativi e nell’attraversare la materia subiscono principalmente

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tre tipi di processi: lo stopping, lo scattering e le interazioni nucleari. I primi due processi sono di natura elettromagnetica e coinvolgono rispettivamente gli elet-troni e i nuclei atomici; il terzo è invece di natura nucleare. Andiamo a conside-rare il primo di questi tre processi, dal momento che l’interazione con gli elet-troni è molto più probabile rispetto a quellacon i nuclei. Essendo gli elettroni molto più leggeri dei nuclei, le particelle incidenti trasferiscono energia negli urti elettronici senza deviare la loro traiettoria: l’energia trasferita in ogni urto è molto piccola e una perdita osservabile di energia, in percorsi anche brevi nel mezzo, è dovuta al numero enorme di collisioni.

1.2.1 Lo Stopping Power

Per stopping si intende quel processo che avviene quando i protoni pene-trando nella materia interagiscono con gli elettroni legati agli atomi del mezzo cedendo loro energia mediante due possibili meccanismi: l’eccitazione e la io-nizzazione. L’energia persa, per unità di lunghezza del percorso nel materiale, prende il nome di stopping power ed è definita come:

𝑆𝑝(𝐸) = −

𝑑𝐸

𝑑𝑥 [𝑀𝑒𝑉/𝑚] similmente, il potere frenante massico

𝑆𝑝(𝐸) = −

𝑑𝐸

𝜌 ∙ 𝑑𝑥 [𝑀𝑒𝑉 ∙ 𝑐𝑚

2/𝑔]

si ottiene dividendo lo stopping power per la densità del materiale attraversato. Man mano che i protoni, interagendo con gli elettroni, rallentano la loro corsa, perdono un’energia sempre maggiore. Ciò avviene poichè in una data col-lisione protone-elettrone, il momento trasferito all’elettrone è tanto maggiore quanto più il protone rimane nelle vicinanze di quest’ultimo. Questo principio è alla base della protonterapia, dal momento che è possibile modulare l’energia di un fascio monoenergetico di protoni al fine di controllare e stabilire con una precisione submillimetrica a che profondità il fascio si arresterà e rilascerà dun-que la massima energia.

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Per energie della particella incidente elevate, rispetto alle energie di ionizza-zione richieste, lostopping power è dato dalla formula di Bethe-Bloch:

−𝑑𝐸 𝑑𝑥 = 𝐾𝑧𝑒𝑓𝑓 2 𝑍 𝐴 1 𝛽2[ 1 2ln 2𝑚𝑒𝑐2𝛽2𝛾2𝑇𝑚𝑎𝑥 𝐼2 − 𝛽2− 𝛿 2]

in cui β è il termine relativistico noto (β=v/c), zeff è la carica effettiva della

particella incidente, A è la massa atomica del mezzo, Z è il numero atomico del mezzo, K/A è un termine costante che vale 0.307075 MeV∙cm2/g,I è il potenziale

medio di ionizzazione del mezzo,Tmax è la massima energia cinetica trasferita in

una singola collisione ad un elettrone libero,δ è la correzione di densità dovuta alla ionizzazione.

La dipendenza dal mezzo attraversato è espressa del rapporto Z/A, che a sua volta varia assai lentamente da un atomo all’altro: si può dire che lo stopping power dipende più dalle caratteristiche dellaparticella incidente che dal mezzo attraversato. I fattori che maggiormente influenzano lo stopping power sono quindi z2effe v2, ossia il quadrato della carica effettiva e la velocità dei protoni.

Dato che l’energia della particella è direttamente proporzionale alla velocità al quadrato della stessa, vale:

𝑆𝑝(𝐸) ∝𝑧𝑒𝑓𝑓

2

𝑣2 =

𝑧𝑒𝑓𝑓2 𝐸 In fig. 5 si possono osservare due cose:

- la proporzionalità inversa tra stopping power ed energia del fascio di pro-toni incidente. Si osserva, infatti, che all’aumentare dell’energia il valore del potere frenante diminuisce fino ad un punto di minimo, superato il quale il termine logaritmico comincia a dare un contributo non più tra-scurabile ed il potere frenante aumenta. Alle basse energie, quando la velocità della particella incidente è paragonabile a quella di rivoluzione degli elettroni attorno ai nuclei, la formula di Bethe-Bloch cessa di valere; per i protoni ciò accade sotto gli 0.5 MeV.

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- La diminuzione dello stopping power di protoni in materiali ad alto Z. normalizzando lo stopping power rispetto alla densità, si nota che a parità di energia cinetica e di impulso, la perdita di energia che si ottiene se si considerano materiali a più alto Z è maggiore, come descritto dalla Bethe-Bloch.

Graficando l’andamento dello stopping power dei protoni in funzione dello spessore di materialeattraversato [fig. 6], si ottiene la nota curva di Bragg. Questa presenta un andamento con plateau iniziale,dove l’energia ceduta al mezzo è minima e pressochè costante mentre alla fine si trova un picco di energia ceduta

Figura 5. Rappresentazione grafica della formula di Bethe Bloch per protoni in tre diversi materiali

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seguito da un crollo repentino che sta ad indicare che la particella si è fermata. Laddove l’energia cinetica delle particelle (e dunque la velocità v) tende a zero, il termine dE/dx aumenta notevolmente.

1.2.2 Il Range

Nell’ambito della protonterapia una grandezza di notevole rilievo è il range che in generale si può definire come la distanza percorsa nel materiale, da una particella, prima di fermarsi in seguito al rilascio di tutta la sua energia.

In figura 7 viene riportato l’andamento della trasmissione di particelle in fun-zione dello spessoredi materiale attraversato.

La curva di trasmissione non è rappresentata da una funzione a gradino (idealmente si avrebbe un salto netto in corrispondenza del valore di range), in-fatti la perdita di energia è un processo statistico. Particelle diverse del fascio subisconomicroscopicamente effetti diversi, dando luogo ad una distribuzione statistica del loro rangeindividuale, detta straggling. In prima approssimazione questa è una distribuzione gaussiana.

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Le particelle subiscono effetti diversi nell’attraversare la materia a causa di difformità nella struttura microscopica del materiale, variazione della carica du-rante il percorso, differenze del numero di collisioni e deflessioni per le intera-zioni con i nuclei che danno vita al fenomeno delloscatteringmultiplo.

Per questi motivi si parla di range medio, identificando la distanza a cui la metàesatta delle particelle è stata intercettata. In generale però quello che inte-ressa è la distanza allaquale tutte le particelle sono state arrestate; questa di-stanza è però impossibile da rilevare. Questo problema si risolve calcolando il range estrapolato ossia l’intersezione tra la tangentealla curva nel punto di range medio e l’asse degli spessori.

Il range medio per una particella carica di energia cinetica iniziale E0 è

l’in-tegrale del reciproco dello stopping power:

𝑅 = ∫ 𝑑𝑥

𝑑𝐸

0 𝐸0

𝑑𝐸 [𝑐𝑚].

Questa relazione mette in evidenza la proporzionalità inversa tra stopping po-wer ed energia, dunque risulta:

𝑅 ∝ ∫ 𝐸

𝐸0 0

𝑑𝐸 ⟹ 𝑅 ∝ 𝐸02

cioè il range è proporzionale al quadrato dell’energia del fascio incidente.

1.2.3 La Penombra Laterale

La penombra laterale si può definire come l’allargamento della sezione tra-sversa del fascio rispetto alla sua direzione di propagazione ed è un parametro fondamentale per tener conto degli effetti di una radiazione ionizzante sugli or-gani sani che precedono e circondano il bersaglio tumorale. Man mano che i protoni penetrano nei tessuti o nei dispositivi preposti al controllo e all’adatta-mento della forma del fascio al bersaglio tumorale, spazialmente collocati da-vanti al paziente, questa espansione aumenta sempre di più a causa di tre processi principali. Il primo `e lo scattering multiplo coulombiano che porta ad un allar-gamento del fascio in maniera gaussiana, quando i protoni vengono deflessi ad

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angoli piccoli e aggiunge una coda a tale profilo laterale, quando i protoni invece vengono deflessi a grandi angoli, anche se questo avviene più raramente. Il se-condo processo `e quello di interazione nucleare che porta alla produzione di varie particelle secondarie quali protoni, neutroni e frammenti di ioni. Questi ultimi non contribuiscono alla penombra laterale perché si fermano in prossi-mità del punto di interazione. I protoni secondari invece vengono emessi ad energie vicine a quelle dei protoni primari perciò influiscono sul profilo laterale,

in maniera analoga a questi, provocando un alone gaussiano che va ad allargare ulteriormente la coda della penombra. Infine si ha un alone di neutroni che si allarga rapidamente senza ulteriori interazioni e che porta ad un rilascio di dose neutronica indesiderato nei tessuti sani.

1.2.4 Il Picco di Bragg Allargato (SOBP)

Nella maggior parte dei casi clinici, le masse tumorali da irraggiare sono estese e spesso irregolari, in particolare la loro estensione in profondità può ar-rivare a svariati centimetri. Di conseguenza, è essenziale riuscire a conformare longitudinalmente e lateralmente il fascio alla forma del tumore. La modifica longitudinale è ottenibile grazie all’allargamento del picco di Bragg che, come si è potuto vedere in precedenza, è molto selettivo. Ciò si ottiene variando l’energia dei protoni durante l’irradiazione in modo controllato e tale da sovrapporre vari

Figura 8. Rappresentazione dei principali contributi gaussiani che partecipano alla formazione della penombra laterale

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picchi di Bragg per ottenere un picco di Bragg allargato (Spread Out Bragg Peak, o SOBP) [Fig. 9].

Il peso dei picchi aumenta sempre di più spostandosi verso valori di profon-dità maggiore della zona target, in quanto ogni curva di Bragg, per via del carat-teristico plateau iniziale, rilascia una certa quantità di dose anche nelle regioni interessate dai picchi precedenti. Pertanto il peso di ogni picco aumenta man mano che sempre meno fasci di energia superiore contribuiscono al rilascio di dose nella zona considerata. Infatti l’ultimo picco che regola il profilo distale della dose rilasciata dal SOBP ha il peso maggiore in quanto nella regione in cui viene a formarsi nessun altro fascio contribuisce alla deposizione di dose.

Osservando il confronto tra il picco di Bragg allargato ottenuto con fasci di protoni e la dose rilasciata da un fascio di fotoni, in funzione della profondità, emerge uno dei vantaggi principali associati ai trattamenti protonterapici, infatti si può notare che la dose rilasciata dai protoni oltre il bersaglio tumorale è net-tamente inferiore a quella rilasciata dai fotoni. Nella zona prossimale invece la differenza di dose depositata dai due tipi di radiazione non è molto marcata

Figura 9. Spread Out Bragg Peak realizzato sovrapponendo più picchi di Bragg (blu). Viene mostrata la curva di dose rilasciata da un fascio di fotoni (rosso).

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quindi per preservare al meglio i tessuti sani, il tumore viene irradiato da più angolazioni.

1.3 Caratteristiche Radiobiologiche

Come si è visto nei paragrafi precedenti è importante irradiare in maniera efficace e accurata il focolaio tumorale, depositando una dose minima nei tessuti circostanti. Questo obiettivo è ottenibile non solo ottimizzando il trattamento, ma anche in termini di efficacia biologica della radiazione, ovvero dalla capacità della radiazione di danneggiare il tessuto neoplasico.

Il trasferimento di energia dalle particelle ionizzanti ad un qualsiasi organi-smo vivente comporta la manifestazione di un effetto biologico, che nel caso dell’adroterapia è volutamente provocato a fini terapeutici. Poiché tutti gli ef-fetti fisici, chimici e di conseguenza biologici, si manifestano solamente nel mo-mento in cui avviene una cessione di energia alla materia, è stata introdotta una nuova grandezza: la Dose Assorbita D, definita come l’energia E depositata in una massa m:

𝐷 = 𝑑𝐸

𝑑𝑚

Tale grandezza si misura in Gray (Gy), dove un 1 Gy equivale a 1 J/kg. Biso-gna puntualizzare che per energia depositata si intende l’energia rilasciata nel volume da tutte le particelle cariche e neutre che compongono e che vengono prodotte dalla radiazione incidente. La quantità di dose che viene rilasciata nei tessuti in un trattamento di protonterapia va dai 60 agli 80 Gy e dipende dal tipo di tumore da trattare e dal suo stato di avanzamento. Questa quantità non viene somministrata al paziente in una sola seduta ma attraverso vari trattamenti. Dunque il frazionamento della dose è importante perché le cellule sane hanno il tempo di ripararsi in seguito alla singola irradiazione, con una velocità di rige-nerazione che è maggiore rispetto a quelle malate; per di più le cellule tumorali hanno il tempo di riossigenarsi così che diventano più sensibili alle radiazioni rispetto a quelle con carenza di ossigeno, come vedremo in seguito. Solitamente

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per gli adulti il trattamento frazionato consiste in cinque sedute settimanali in cui vengono somministrati in media 2Gy a seduta, per i bambini la dose si riduce a 1.5 Gy in quanto il tessuto sano è molto più sensibile e ancora soggetto a svi-luppo.

Un’ altra grandezza che misura il danno provocato dall’assorbimento di ra-diazioni è la Dose Equivalente H che si ottiene moltiplicando la dose assorbita per un fattore di peso WR adimensionale che tiene conto del tipo di radiazione,

ed è pari a 1 per fotoni ed elettroni, e a 2 per i protoni; 𝐻 = ∑ 𝑊𝑅∙ 𝐷𝑅

𝑅

La dose equivalente si misura in Sievert (Sv), dove 1 Sv = 1 J/Kg e a differenza del Gy, produce gli stessi effetti biologici indipendentemente dal tipo di radia-zione considerata.

Una stessa quantità di energia assorbita da un organismo produce danni bio-logici differenti a seconda del tipo di radiazione a cui questo è stato esposto. Una grandezza fisica più utile a confrontare il danno biologico causato da due radia-zioni di tipo diverso è il Relative Biological Effectiveness (RBE). Per poter com-prendere come è definito questo parametro, dobbiamo dapprima introdurre il concetto di curva di sopravvivenza. Questa rappresenta la percentuale di cellule sopravvissute in funzione della dose assorbita ed è funzione sia del tipo di cellule esposte che del tipo di radiazione utilizzata. L’andamento della curva di soprav-vivenza può essere approssimato da una funzione lineare-quadratica, descritto dalla relazione:

𝑆 = 𝑆0∙ 𝑒−(𝛼𝐷+𝛽𝐷2)

dove S/S0 indica la sopravvivenza, D è la dose assorbita e α e β sono

rispetti-vamente il parametro lineare e quadratico che caratterizzano la risposta del tes-suto. Detto questo, l’RBE si può definire come il rapporto tra la dose rilasciata da una radiazione presa come riferimento (fotoni a 220 keV) e la dose rilasciata dalla radiazione protonica, o in generale dalla radiazione che si sta utilizzando,

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necessaria a produrre lo stesso effetto biologico, quando la curva di sopravvi-venza delle cellule irradiate scende sotto al 10% [fig. 10]

𝑅𝐵𝐸 =𝐷𝛾

𝐷

Se il valore di RBE risulta maggiore di 1, allora la radiazione in oggetto sarà più efficace rispetto a quella di riferimento, in quanto per ottenere lo stesso ef-fetto è necessaria una dose minore.

Con l’RBE si tiene conto quindi della qualità della radiazione, ossia l’insieme delle caratteristiche come energia, carica elettrica e massa, che determinano la distribuzione spaziale dell’energia rilasciata.

Un altro indicatore della qualità di una radiazione è il Linear Energy Transfer (LET) che è dato dal rapporto fra la quantità d’energia ΔE rilasciata da una par-ticella carica e lo spessore Δx del tessuto entro cui l’energia viene rilasciata:

𝐿= ∆𝐸∞

∆𝑥 [KeV/μm]

laddove il pedice ∞ indica che non è presente alcuna limitazione alla quantità d’energia rilasciata in ogni singola collisione della particella incidente con un atomo o molecola del mezzo colpito. Il LET di una particella determina la densità di ionizzazione lungo la traccia, perciò radiazioni a basso LET come raggi X e

(26)

raggi γ ionizzano più raramente e quindi il LET non varia lungo il percorso, par-ticelle ad alto LET come parpar-ticelle α e ioni carbonio producono, invece, ioniz-zazioni ravvicinate quindi il LET risulta maggiore alla fine del percorso.

Sin dai primi esperimenti è risultato chiaro che l’RBE dipende dal valore del LET.

In Figura 11 sono riassunti globalmente i dati raccolti per vari sistemi cellu-lari con diversi tipi di radiazione incidente, relativi ad un livello di sopravvi-venza del 10%.

Dalla Figura 11 si evince che le radiazioni ad alto LET sono più efficaci degli elettroni e dei fotoni, nel danneggiamento delle cellule colpite, di un fattore an-che tre volte superiore (corrispondente ad un valore di LET di circa 100 keV/m) ma che diviene più piccola dell’unità da un certo valore di LET in poi.

La diminuzione di RBE per grandi valori di LET può essere spiegata come effetto della sovrapproduzione di lesioni critiche che causa una perdita inutile di energia. In particolare possiamo affermare che i protoni sono altrettanto letali dei fotoni nella zona del plateau mentre mostrano una efficacia biologica molto superiore nella regione del picco di Bragg.

Figura 11. Dati sperimentali sulla dipendenza dell'RBE dal LET. Sono indicati gli intervalli di LET ottenibili con di-verse particelle ad energie di interesse per la radioterapia.

(27)

Bisogna osservare, inoltre, l’effetto legato al diverso livello di ossigenazione dei tessuti normali e dei tessuti tumorali. Il contenuto di ossigeno è general-mente basso nei tessuti tumorali perché scarsageneral-mente vascolarizzati. Gli effetti biologici invece solitamente diminuiscono quando si riduce il contenuto di ossi-geno. Il rapporto tra le dosi richieste per produrre un dato effetto in assenza ed in presenza di ossigeno è chiamato Oxigen Enhancement Ratio (OER):

𝑂𝐸𝑅 = 𝐷 𝐷0

dove D è la dose necessaria per produrre un effetto nel tessuto reale e D0 è la

dose che servirebbe se il tessuto fosse completamente ossigenato, in aria e a pres-sione normale. L’OER può essere considerato, in prima approssimazione, una funzione decrescente del LET: le radiazioni elettromagnetiche (a basso LET) hanno elevati valori di OER, nell’intervallo fra 2.5 e 3.2, mentre gli ioni pesanti (ad alto LET) hanno valori bassi, prossimi a 1. Questo significa che radiazioni altamente ionizzanti agiscono in maniera indifferente sia in eccesso che in di-fetto di ossigeno e, pertanto, sono più indicate rispetto a fotoni ed elettroni nella trattazione di cellule ipossiche come quelle tumorali nella zona della necrosi.

L’effetto negativo sulla sterilizzazione del tumore dovuto alla mancanza di ossigenazione, è dunque ridotto per le radiazioni ad alto LET in confronto a fasci convenzionali di fotoni ed elettroni a basso LET. Questo è dovuto al fatto che, nel caso di radiazioni altamente ionizzanti come gli adroni, gli effetti biologici più che essere mediati dai radicali liberi (azione indiretta) prodotti dalle mole-cole irradiate, sono dovuti alle più frequenti rotture del DNA delle cellule colpite con elevate cessioni locali di energia (azione diretta).

Possiamo dunque riassumere i vantaggi radiobiologici che può produrre l’adroterapia rispetto alla radioterapia convenzionale:

- elevato valore di LET che induce un maggiore tasso di “danno cellu-lare” a parità di dose rilasciata, ovvero una maggiore efficacia biolo-gica relativa;

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- minore dipendenza dell’RBE dalle condizioni d’ipossia delle cellule trattate;

Questi vantaggi sono solo parzialmente applicabili alla radioterapia con pro-toni che hanno un parametro medio di efficacia biologica relativa pari a 1.1, cioè di poco superiore alla radiazione fotonica tradizionale, mentre gli ioni pesanti hanno un RBE variabile fra 3 e 4.

Sono indiscutibili, invece, i vantaggi della protonterapia dovuti alla distribu-zione spaziale ottimale di dose al di là del picco (di Bragg o SOBP) rispetto sia a quella ottenibile con elettroni e fotoni, che a quella risultante dall’utilizzo di ioni più pesanti. Interagendo con la materia, questi ultimi danno origine a frammenti più leggeri che hanno un percorso (range) maggiore rispetto agli ioni progeni-tori, producendo dunque un aumento di dose assorbita oltre il picco.

L’incremento percentuale della dose in questa regione dipende dalla massa dello ione incidente: è dell’ordine del 15% per il carbonio e l’ossigeno, mentre può raggiungere il 30% per gli ioni di neon. Per questa ragione non è giustificato l’uso di ioni più pesanti dell’ossigeno per una terapia veramente conformazio-nale.

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1.4 Centri di Protonterapia in Italia e nel Mondo

Nel 1946 R. R. Wilson fu il primo a proporre l’utilizzo di fasci di protoni per il trattamento dei tumori (protonterapia), egli infatti riconobbe nella localizza-zione della cessione di energia delle particelle uno strumento importante per incrementare la dose sul bersaglio prestabilito minimizzando quella sui tessuti normali.

Due anni dopo, in seguito ad alcuni test sperimentali, alcuni ricercatori del Lawrence Berkeley Laboratory (LBL) confermarono le previsioni di Wilson. Il primo paziente che venne trattato con radioterapia da protoni era affetto da tu-more alla ghiandola pituitaria; la terapia ebbe esito positivo riuscendo a bloccare gli ormoni che permettevano alle cellule cancerose di progredire.

Negli anni ’50 i trattamenti vennero replicati con successo nei laboratori dell’Università di Uppsala in Svezia.

Negli anni ’60 sia il LBL che l’università svedese lavorarono duramente per aumentare i campi di applicazione della protonterapia anche ad altri tipi di tu-more.

Questa pratica ebbe in seguito un notevole sviluppo grazie alla nascita di nuove tecniche di diagnostica come l’MRI, la PET e la SPECT che garantirono una sempre maggiore precisione nell’individuazione delle cellule malate.

Negli anni ’80 si fece strada questo tipo di ricerca anche al Loma Linda Uni-versity Medical Center, dove Wilson divenne direttore. Ad oggi questa struttura ha trattato 12000 pazienti circa con protonterapia.

In quegli anni è stato istituito anche un “organo di controllo”, il cosiddetto Particle Therapy COoperative Group (PTCOG), grazie a cui gli scienziati pote-vano scambiarsi idee sugli sviluppi nel campo dell’adroterapia. Questo gruppo continua ad incontrarsi regolarmente ancora oggi per aggiornare la comunità internazionale sugli sviluppi di entrambi i rami della ricerca, clinica e scientifica. Nei centri di protonterapia, distribuiti negli Stati Uniti, in Giappone e in Eu-ropa si utilizzano, a seconda delle esigenze, ciclotroni, linac o sincrotroni che

(30)

producono fasci clinici con un’energia variabile nell’intervallo tra 60 e 250 MeV, corrispondenti a profondità di penetrazione nel tessuto comprese fra 3 e 38 cen-timetri come richiesto per il trattamento sia di tumori superficiali che di tumori profondi.

Visti i brillanti risultati ottenuti, la protonterapia è diventata rapidamente una pratica clinica largamente riconosciuta nell’ambito della medicina oncolo-gica. Ad oggi, più di 154000 pazienti in tutto il mondo sono stati sottoposti alla terapia con adroni, di cui la maggior parte, l’86%, trattati con protoni. In tabella 1 vengono riportati i centri adroterapici funzionanti aggiornati ad aprile 2017, senza contare che molte altre strutture sono in costruzione o in fase di progetta-zione.

Nazione Città Ente Particella Inizio Trattamenti

Austria Wiener Neustadt MedAustron p 2017 Austria Wiener Neustadt MedAustron C-ion 2017

Canada Vancouver TRIUMF p 1995

Czech Repu-blic

Prague PTC Czech r.s.o. p 2012

China Wanjie, Zi-Bo WPTC p 2004

China Lanzhou IMP-CAS C-ion 2006

China Shanghai SPHIC p 2014

China Shanghai SPHIC C-ion 2014

England Wirral Clatterbridge p 1989

France Nice CAL/IMPT p 1991, 2016

France Orsay CPO p 1991, 2014

Germany Berlin HZB p 1998

Germany Munich RPTC p 2009

Germany Heidelberg HIT p 2009, 2012

Germany Heidelberg HIT C-ion 2009, 2012

Germany Essen WPE p 2013

Germany Uniklinikum Dre-sden

PTC p 2014

Germany Marburg MIT p 2015

Germany Marburg MIT C-ion 2015

Italy Catania INFN-LNS p 2002

Italy Pavia CNAO p 2011

Italy Pavia CNAO C-ion 2012

Italy Trento APSS p 2014

Japan Chiba HIMAC C-ion 1994

Japan Kashiwa NCC p 1998

Japan Hyogo HIBMC p 2001

Japan Hyogo HIBMC C-ion 2002

Japan Tsukuba PMRC 2 p 2001

Japan Shizuoka Shizuoka Cancer Center p 2003

Japan Koriyama-City STPTC p 2008

Japan Gunma GHMC C-ion 2010

Japan Ibusuki MPTRC p 2011

Japan Fukui City Fukui Prefectural Hospital PTC p 2011 Japan Aichi Nagoya PTC, Nagoya City p 2013

Japan Tosu SAGA-HIMAT C-ion 2013

Japan Hokkaido Hokkaido Univ. Hospital PBTC p 2014

Japan Nagano Aizawa Hospital PTC p 2014

Japan Yokohama i-Rock Kanagawa Cancer Cen-ter

C-ion 2015 Japan Okayama Tsuyama Chuo Hospital p 2016

Poland Krakow IFJ PAN p 2011, 2016

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Russia St.Petersburg St.Petersburg p 1975

Russia Dubna JINR 2 p 1999

South Africa Cape Town NRF - iThemba Labs p 1993

South Korea IIsan KNCC p 2007

South Korea Seoul Samsung PTC p 2015

Sweden Uppsala The Skandion Clinic p 2015

Switzerland Villigen CPT, PSI p 1984, 1996, 2013 Taiwan Taipei Chang Gung Memorial Hospital p 2015

USA, CA. Loma Linda J. Slater PTC p 1990

USA, CA. San Francisco UCSF-CNL p 1994

USA, MA. Boston MGH Francis H. Burr PTC p 2001 USA, TX. Houston MD Anderson Cancer Center p 2006

USA, FL. Jacksonville UFHPTI p 2006

USA, OK. Oklahoma City ProCure PTC p 2009 USA, PA. Philadelphia Roberts PTC,UPenn p 2010 USA, IL. Warrenville Chicago Proton Center, p 2010

USA, VA. Hampton HUPTI p 2010

USA, NY. New Jersey ProCure Proton Therapy Center p 2012 USA, WA. Seattle SCCA ProCure Proton Therapy

Center

p 2013

USA, MO. St. Louis S. Lee Kling PTC, Barnes Jewish Hospital

p 2013

USA, TN. Knoxville Provision Center for Proton The-rapy,

p 2014

USA, CA. San Diego Scripps Proton Therapy Center, p 2014 USA, LA. Shreveport Willis Knighton Proton Therapy

Cancer Center

p 2014

USA, FL. Jacksonville Ackerman Cancer Center p 2015 USA, MN. Rochester Mayo Clinic Proton Beam

The-rapy Center

p 2015

USA, NJ. New Brunswick Laurie Proton Center of Robert Wood Johnson Univ. Hospital

p 2015

USA, TX. Irving Texas Center for Proton The-rapy,

p 2015

USA, TN. Memphis St. Jude Red Frog Events Pro-ton Therapy Center

p 2015

USA, AZ. Phoenix Mayo Clinic Proton Therapy Center

p 2016

USA, MD. Baltimore Maryland Proton Treatment Center

p 2016

USA, FL. Orlando Orlando Health PTC p 2016

USA, OH. Cleveland UH Sideman CC p 2016

USA, OH. Cincinnati Cincinnati Children's Proton Therapy Center

p 2016

Tabella 1. Centri di Adroterapia funzionanti nel mondo

Si nota che in alcuni centri non si eseguono terapie con protoni, bensì con ioni carbonio. La terapia con ioni carbonio rappresenta oggi la nuova frontiera in ambito oncologico, ed è oggetto di numerosi studi di ricerca, sia in ambito tecnologico che clinico, a causa della sua specificità e dei complessi modelli ra-diobiologici associati, indispensabili per la pianificazione del trattamento.

In Italia, terminata la fase dei decenni scorsi in cui la protonterapia era effet-tuata presso impianti di fisica nucleare in “parassitaggio” rispetto alle attività scientifiche, gli impianti di protonterapia si possono richiedere a ditte specializ-zate di alta competenza nel campo della realizzazione di acceleratori di medie dimensioni (IBA, ACCEL, Varian), come è orientato ad agire il centro ATreP di

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Trento. Al tempo stesso possono essere progettati da istituzioni di ricerca e rea-lizzati da associazioni o consorzi pubblico-privati opportunamente formati, come nel caso del centro CNAO di Pavia. Ciò avviene nel caso si voglia realizzare un impianto che abbia una complessità ancora maggiore, ed eventualmente an-che promuovere il coinvolgimento, nella realizzazione, delle industrie locali per indurre la crescita tecnologica nel tessuto industriale. Infine si menziona il primo centro dedicato per la cura del melanoma oculare con protoni, noto come CATANA, presso i Laboratori Nazionali del Sud (LNS) dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) di Catania che è attivo dal marzo del 2002.

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Capitolo 2

Gli Acceleratori di Protoni per uso

Medicale

2.1 Il Ciclotrone

Il primo ciclotrone, costruito nel 1932 da Lawrence, era capace di accelerare protoni fino a qualche MeV. Strutturalmente è caratterizzato da una zona di campo magnetico costante in cui le particelle cariche percorrono una traiettoria circolare, e da una zona contraddistinta da una differenza di potenziale che per-mette l’accelerazione delle particelle stesse. La Figura 14 riporta lo schema di questo acceleratore.

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Come si può notare da tale schema, la traiettoria delle cariche è confinata all’interno di due elettrodi cavi denominati Dee a causa della loro tipica forma di D, entro cui si trova il campo magnetico costante, mentre nel gap tra le due parti metalliche c’è una differenza di potenziale oscillante (a radiofrequenza).

Le particelle sono inizialmente iniettate nella zona centrale del ciclotrone in corrispondenza del gap di accelerazione. A causa dalla differenza di potenziale, vengono accelerate e acquistano una velocità v perpendicolare al campo magne-tico costante B; la forza centripeta risultante, porta la carica a curvare il suo per-corso e a tornare nella zona di gap tra i Dees, per effetto della forza di Lorentz. Ad ogni passaggio delle particelle in tale zona, esse vengono quindi accelerate descrivendo a velocità via via sempre più elevate, una semicirconferenza di rag-gio magrag-giore rispetto alla precedente mantenendo tuttavia il tempo di percor-renza di tale tratto costante.

Infatti tale periodo può essere calcolato come segue:

𝐹 = 𝑞𝑣𝐵 = 𝑚𝑣

2

𝑅

Espressione della forza di Lorentz, dove m è la massa della particella, q è la carica, v è la velocità e R è il raggio della traiettoria, da cui:

𝑚𝑣 = 𝑞𝐵𝑅 quindi:

𝑅 = 𝑚𝑣

𝑞𝐵 Il tempo di conseguenza è pari a:

𝑡 =𝜋𝑅

𝑣 =

𝜋𝑚 𝑞𝐵

cioè indipendente da velocità e raggio della traiettoria.

Il periodo di rivoluzione d’altra parte è uguale al doppio di t:

𝑇 =2𝜋𝑅

𝑣 =

2𝜋𝑚 𝑒𝐵

E quindi la frequenza, chiamata frequenza di ciclotrone è:

𝑓 = 𝑒𝐵

(35)

Per ottenere un’accelerazione ad ogni passaggio dal gap, le particelle devono presentarsi all’interfaccia tra i due Dees in fase con la differenza di potenziale applicata, ovvero il tempo impiegato dalle cariche per effettuare mezza circon-ferenza deve essere uguale a metà del periodo del segnale di potenziale. L’acce-lerazione, quindi, può essere ottenuta solo se la radiofrequenza applicata ai Dees ha lo stesso valore della frequenza di ciclotrone delle cariche in moto.

L’energia cinetica massima raggiungibile è limitata dal raggio del ciclotrone, che corrisponde alla traiettoria massima che le cariche possono percorrere:

𝑇𝑚𝑎𝑥 =𝑝𝑚𝑎𝑥

2

2𝑚 =

(𝑞𝐵𝑅𝑚𝑎𝑥)2

2𝑚

In genere il potenziale applicato varia tra i 200 ed i 400 kV ed il numero di rivoluzioni effettuate solitamente è dell’ordine del centinaio.

Una volta raggiunta la massima energia possibile, le particelle vengono dirot-tate sul bersaglio attraverso un campo elettrico diretto radialmente che bilancia la forza di Lorentz.

I ciclotroni per l’adroterapia hanno pochi parametri regolabili, e producono un fascio continuo. La possibilità di trattamento continuo, la stabilità dell’inten-sità del fascio, la relativa semplicità insieme al minor ingombro spaziale parago-nato al sincrotrone, sono tra i maggiori vantaggi del ciclotrone. D’altro canto, il fatto di fornire un’energia fissa per il trattamento, senza la possibilità di modu-larla attivamente, è il maggiore svantaggio.

In campo medico i ciclotroni vengono utilizzati soprattutto per la produzione dei radiofarmaci che richiede energie fino a poche decine di MeV. Per la produ-zione del F18 ad esempio i ciclotroni in commercio più diffusi in Italia producono

(36)

2.2 Il Sincrotrone

Il sincrotrone è una macchina acceleratrice di particelle cariche, ideata da E.M. McMillan e V. Veksler (1945), che sfrutta simultaneamente i principi di funzionamento del betatrone (campo magnetico variabile) e del sincrociclotrone (tensione acceleratrice alternata modulata in frequenza) e consente di raggiun-gere energie elevatissime.

Aumentando questi parametri in modo appropriato, così come le particelle guadagnano energia, il loro percorso può essere mantenuto costante mentre ven-gono accelerate. In figura 15 è mostrato uno schema semplice del sincrotrone.

Il fascio di protoni viene convogliato dall’esterno del sincrotrone attraverso, tipicamente, un LINAC con energia compresa tra i 3 e i 7 MeV. Per raggiungere l’accelerazione richiesta per le particelle, il campo magnetico e il campo elettrico accelerante devono essere incrementati in maniera sincrona. A causa del tempo richiesto per far compiere un ciclo completo ai magneti, i sincrotroni forniscono un’uscita pulsata. Infatti, la frequenza dell’oscillatore deve essere regolata in modo da aumentare in sincronia con la velocità, poiché la velocità delle parti-celle aumenta mentre la lunghezza del cammino è fissata. Quindi, per i sincro-troni, non è possibile avere un fascio continuo, come nel caso dei ciclosincro-troni, ma

(37)

le particelle vengono accelerate in pacchetti detti bunches. Dopo che un pac-chetto è stato portato fino all’energia voluta, prima che un altro gruppo di par-ticelle venga accettato ed accelerato, sia il campo magnetico sia la frequenza dell’oscillatore devono ritornare al loro valore iniziale e questo può richiedere anche qualche secondo. Tipicamente il ciclo di accelerazione del fascio impiega dai 200 ms a 1 s e l’estrazione del fascio si ripete in un periodo simile. Ciò signi-fica che tali macchine necessitano di raffinati sistemi di controllo che regolino al meglio la frequenza dell’oscillatore in relazione all’aumento del campo ma-gnetico.

Quando le particelle raggiungono l’energia desiderata, vengono estratte e portate alla sala di trattamento mediante un apposito sistema di trasporto.

Se il sincrotrone è in grado di accelerare ioni carbonio, allora potrà accelerare qualsiasi ione tra l’idrogeno o carbonio allo stesso modo. Per questo motivo molti macchinari, esistenti o realizzati appositamente per la terapia, sono progettati per accelerare sia i protoni che gli ioni carbonio. Questo permette ai medici di comparare i benefici delle due specie nelle stesse condizioni di trattamento.

I principali vantaggi dell’utilizzo di un sincrotrone per adroterapia sono i se-guenti:

- Non richiedono dissipatori passivi di energia in quanto le particelle sono accelerate al valore di energia utilizzato per il trattamento; - Forniscono adeguati ratei di dose per tutti i siti tumorali: 1∙1011

pro-toni per impulso con 30 impulsi al minuto, forniscono 2 Gy/(min∙l); - L’energia può essere variata in meno di 2 sec per scansione;

- La stabilità energetica per scansione è minore di 0.2 MeV;

- È possibile fare manutenzione subito dopo lo spegnimento (non è ri-chiesto alcun tempo di raffreddamento);

- Richiedono basse schermature e possono operare continuativamente a 70 MeV senza incrementare la schermatura o l’influenza sugli ac-cessi in caso di manutenzione;

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- Le intensità di sincrotrone sono intrinsecamente sicure e non richie-dono un'intensità variabile a seconda dello spessore del degradatore di energia.

Tra i principali svantaggi che comportano l’uso di questi sistemi, si ha che le particelle vengono accelerate in pacchetti discreti quindi l’intensità risulta abbastanza limitata. Inoltre in un sincrotrone il fascio è presente solo per circa la metà del tempo totale di esposizione del paziente, pertanto il sistema di scansione deve operare con velocità doppia se confrontata a quella di un ciclotrone. Bisogna precisare poi che in queste macchine il fascio prima di entrare nell’acceleratore deve passare per un sistema di pre-accelerazione, in genere costituito da un acceleratorelineare.

2.3 L’Acceleratore Lineare

I ciclotroni ed i sincrotroni, come si è appena visto, sono molto grandi e co-stosi e per poterli utilizzare in maniera ottimale, i centri odierni vengono realiz-zati con molteplici stanze di trattamento, solitamente da 2 a 5. Tutto questo rende un ciclo di protonterapia fino a 2,5 volte più costoso di un ciclo di IMRT, anche se tale rapporto si potrebbe ridurre a 2,1 grazie alle future innovazioni tecnologiche. Le grandi dimensioni di queste infrastrutture gravano anche sul costo dell’intera costruzione, che si aggira intorno ai 30 milioni di euro; dunque il costo totale può essere anche maggiore di 130 milioni di euro.

I due approcci più immediati per cercare di limitare i costi, mantenendo co-muque alte le performance dell’acceleratore in protonterapia, prevedono di trat-tare i pazienti senza gantries2 rotanti e di realizzare acceleratori pensati

apposi-tamente per centri con una sola stanza di trattamento.

2grossi apparati rotanti posti nella parte distale dell’acceleratore che consentono di ruotare il fascio di 360˚ senza alterarne

le dimensioni della regione trasversa (beam spot) e permettono di rilasciare la dose di radiazione necessaria sul bersaglio tumorale da diversi angoli, minimizzando quella assorbita dai tessuti sani.

(39)

Per soddisfare congiuntamente queste due richieste, una delle soluzioni pro-poste è quella rappresentata dalla realizzazione di acceleratori lineari ad alta fre-quenza.

Con il termine acceleratore lineare o LINAC si intende un acceleratore di particelle nel quale il fascio si muove lungo una traiettoria rettilinea ed è acce-lerato da campi elettromagnetici in generale dipendenti dal tempo.

Nel 1931 Sloan e Lawrence costruirono il primo LINAC costituito da trenta drift tubes che accelerò gli ioni Mercurio fino ad un’energia di 1.25 MeV. La lunghezza di questa macchina era all’incirca di due metri ed il β di pochi mille-simi. Tuttavia l’intensità e la qualità del fascio erano molto basse, la stabilità di fase non era ancora stata scoperta ed il focheggiamento non era assicurato.

In generale, i primi acceleratori di particelle erano di tipo elettrostatico ed il guadagno di energia del fascio era legato all’azione di un campo elettrico co-stante: ogni particella acquisiva un’energia uguale alla sua carica elettrica molti-plicata per la caduta di potenziale all’interno delle strutture acceleranti. Il limite principale di questi acceleratori stava proprio nel fatto che il massimo valore di energia ottenibile non poteva superare il suddetto prodotto tra la carica elettrica e la differenza di potenziale mantenuta, la quale inoltre subiva delle limitazioni dovute a fenomeni di breakdown. Questo ostacolo è stato successivamente su-perato grazie agli acceleratori a radiofrequenza, nei quali le particelle sono sog-gette ad un campo elettrico dipendente dal tempo che le sottopone a molteplici accelerazioni all’interno di opportune cavità risonanti formate da elettrodi tu-bolari che cambiano polarità ogni qualvolta le particelle passano tra di essi. Per poter essere accelerato il fascio di particelle deve trovarsi però in una relazione di fase opportuna con i campi elettromagnetici e per un guadagno di energia sostenuto deve mantenere il sincronismo con tali campi, da cui il nome di acce-leratori risonanti.

Vedremo nei paragrafi successivi alcuni particolari costruttivi dell'accelera-tore lineare del progetto ERHA.

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2.4 L’acceleratore lineare di ERHA

Il progetto Amiderha, ha portato allo sviluppo di ERHA (Enhanced Radio-therapy with HAdron), un sistema prototipale per protonterapia. Questo sistema comprende un acceleratore lineare di protoni (Linac) modulare e compatto, svi-luppato dall’azienda ITEL in collaborazione con ENEA e INFN; un software per i Piani di Trattamento e infine una piattaforma robotizzata per la movimenta-zione del paziente (RPSS).Il Linac è capace da un lato di aumentare l’efficienza di accelerazione dei protoni alle basse energie e dall’altro di migliorare il sistema di regolazione dell'energia del fascio estratto di protoni, per colpire la massa tu-morale in modo molto più selettivo preservando i tessuti sani. Molto più com-patto e più economico rispetto ai sistemi tradizionali, in primis il sincrotrone e il ciclotrone, consentirà l’installazione in ospedale senza impatto sulle strutture esistenti.

L’acceleratore utilizza la radiofrequenza per accelerare le particelle nelle ca-vità; questo comporta che le cavità sono dimensionate opportunamente per mantenere il sincronismo fra l'onda accelerante a radiofrequenza e le particelle. Al fine di utilizzare apparati tecnologici già presenti sul mercato e diffusi nel campo degli acceleratori per la radioterapia convenzionale, la frequenza RF è di 2997.92 MHz, corrispondente ad una lunghezza d’onda nel vuoto di esattamente

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10 cm. Le dimensioni trasversali delle cavità acceleranti sono dello stesso ordine di grandezza e dunque risultano particolarmente ridotte.

L’acceleratore è quindi costituito da vari sottosistemi: - Iniettore di protoni da 4 MeV;

- Cavità acceleranti a bassa energia tra 4 e 27 MeV; - Cavità acceleranti a media energia tra 27 e 50 MeV; - Cavità acceleranti ad alta energia tra 50 e 230 MeV;

Ciascuna linea di accelerazione si compone di 4 moduli ed ogni modulo si compone di differenti tank dimensionate opportunamente.

2.4.1 L'Iniettore

L'iniettore provvede alla produzione degli ioni e ad una prima fase di accele-razione delle particelle. Il primo stadio dell'acceleratore EHRA è un iniettore dell'AccSys-Hitachi, azienda californiana che produce vari sistemi di accelera-zione per scopi medicali ed industriali. Esso è costituito da una sorgente di pro-toni accelerati inizialmente fino a 25 KeV, da un canale di trasporto a bassa ener-gia e da uno stadio di accelerazione a radiofrequenza di tipo RFQ da 4 MeV.

La sorgente di protoni è alimentata con idrogeno la cui ionizzazione avviene grazie all'emissione termoionica di elettroni con frequenza di ripetizione di 200 Hz. Il quadrupolo a radiofrequenza (RFQ) ha la capacità di focheggiare,

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a radiofrequenza in cui è presente un campo quadrupolare. Il focheggiamento avviene grazie ad un campo a radiofrequenza mentre una lieve modulazione lon-gitudinale sulla superficie degli elettrodi, detti vanes, genera un campo elettrico assiale che provvede all'accelerazione e al raggruppamento delle particelle. Di seguito si riportano alcune caratteristiche dell'iniettore.

- Frequenza operativa: 428,27 MHz. - Energia di uscita dal RFQ: 4 MeV; - Energia di uscita dall'iniettore: 25 KeV; - Massima corrente pulsata: 1mA;

- Frequenza di ripetizione del fascio: 20-200 Hz;

- Uscita massima dell'amplificatore a radiofrequenza: 325 KW; - Larghezza massima dell'impulso a radiofrequenza: 20 µs; - Massimo duty factor: 0,2%.

2.4.2 I Linac SCDTL (Side Coupled Drift Tube

Li-nac)

Lo stadio successivo all'iniettore è composto da un acceleratore di tipo SCDTL. La sua struttura è costituita da un determinato numero di sezioni

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leratici di tipo DTL (Drift Tube Linac), denominate tank, accoppiate tra loro tra-mite cavità fuori asse. In corrispondenza delle cavità di accoppiamento allog-giano dei quadrupoli a magneti permanenti detti PMQ (Permanent Magnet Qua-drupole) lunghi circa 3 cm negli spazi tra le Tanks che hanno il compito di fo-cheggiare il fascio. I tubi di drift sono sorretti dagli stems, che provvedono a cortocircuitarli con la cavità e garantiscono il passaggio di liquido refrigerante. Le tank sono progettate in modo da avere una specifica frequenza di risonanza corrispondente alla radiofrequenza accelerante, mentre al loro interno le celle DTL sono tutte lunghe βλ. Lo spazio tra due tanks (dove sono presenti i magneti e lateralmente le cavità di accoppiamento) deve essere un numero semintero di βλ affinché le particelle che possiedono una velocità pari a v = βc si trovino sem-pre in corrispondenza di una fase accelerante del campo a radiofrequenza.

Per ottimizzare la struttura accelerante SCDTL nel suo complesso, è stato necessario variare il numero di celle per tank e il raggio del foro centrale per il passaggio del fascio di protoni. Sono previsti 4 moduli SCDTL che accelereranno i protoni nel seguente modo:

- modulo 0: da 4 a 7 MeV; - modulo 1: da 7 a 11 MeV; - modulo 2: da 11 a 18 MeV; - modulo 3: da 18 a 27 MeV.

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Altri quattro moduli SCL (modulo 4-7) provvederanno all'accelerazione dei protoni fino a 50 MeV. È prevista un’ulteriore fase di realizzazione in cui me-diante moduli SCL si giungerà ad energie intorno ai 150 MeV e successivamente a 230 MeV.

Il raffreddamento delle cavità è reso necessario per via della dipendenza della frequenza di risonanza dalla temperatura di lavoro che inevitabilmente tende ad aumentare a causa delle alte potenze utilizzate per accelerare il fascio. È dunque necessario mantenere la temperatura dell'intera struttura costante durante il funzionamento dell’acceleratore. La perdita dell'accoppiamento in fase fra le va-rie cavità pregiudicherebbe il sincronismo tra le particelle viaggianti e la fase accelerante della radiofrequenza. Sono stati studiati degli appositi strumenti fa-satori per modificare in maniera fine le frequenze di risonanza delle singole ca-vità.

2.4.3 I Linac SCL

La struttura SCL (Side Coupled Linac) è una struttura acceleratrice lineare a radiofrequenza (ad onda stazionaria) costituita da un certo numero di tank, cia-scuna delle quali contiene un numero limitato di celle acceleranti, tutte uguali tra di loro, e tra le quali sono presenti dei quadrupoli magnetici per focalizzare il fascio (Figura 20).

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L’SCL diventa efficiente dai 70 MeV in su. Bisogna scegliere il campo acce-lerante E0 facendo attenzione al fatto che valori alti di questa grandezza

consen-tono di progettare degli acceleratori più corti (necessari nelle strutture ospeda-liere), ma la potenza RF richiesta aumenta in proporzione a E02. Nelle strutture

SCL, a causa della loro geometria, si ottiene un valore ragionevole E0 di circa 15

MV/m.

Una volta stabilito il campo, un software dedicato determina la geometria delle celle del LINAC corrispondenti alla frequenza di 3 GHz e alle differenti velocità delle particelle. Le celle vengono raggruppate in tank attraverso un pro-gramma di progetto del LINAC, il quale valuta anche il guadagno di energia del fascio in ogni tank e la forza di focheggiamento dei quadrupoli utilizzati.

Infine un programma di simulazione del fascio permette di riprodurre la traiettoria di un centinaio di particelle attraverso l’acceleratore. Se il risultato non è soddisfacente, bisogna cominciare daccapo tutta la procedura ma con pa-rametri diversi.

La struttura è molto stabile rispetto ad errori meccanici e di tuning. Per poter focheggiare il fascio le celle sono raggruppate in tanks di lunghezza limitata e tra di esse, così come avviene per l'SCDTL, sono inseriti dei quadripoli a magneti permanenti PMQ; l'energia elettromagnetica fluisce da una tank alla successiva tramite un bridge coupler. Le cavità acceleranti e quelle accoppianti hanno la stessa lunghezza nell'ambito della medesima tank e la lunghezza aumenta lungo l'acceleratore in accordo con la crescita della velocità delle particelle. Le tank sono raggruppate in moduli ciascuno alimentato da un klystron che eroga la ra-diofrequenza a 3 GHz.

2.4.4 Il sistema di controllo ECOS (ERHA COntrol

System)

L'intero apparato è composto da diversi sottosistemi che non comprendono esclusivamente le strutture acceleranti ma anche i sistemi di amplificazione della

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radiofrequenza, di controllo del vuoto, i sistemi di raffreddamento, i sistemi di monitoraggio della sicurezza e della radiazione.

Il sistema di acquisizione, monitoraggio e controllo dell’acceleratore è strut-turato per operare in tempi finiti indipendentemente dalla complessità algorit-mica, grazie alla tecnologia FPGA (Field Programmable Gate Array) ed a pro-cessori Real-Time dedicati.

È necessario avvalersi di un’architettura di controllo sofisticata che si articola su vari livelli indicati di seguito e rappresentati in Fig. 21.

Il livello di presentazione, livello 1, ha il ruolo di fornire le interfacce di con-trollo dei vari apparati e consiste in pannelli operatore della National Instru-ment, funzionanti su piattaforma LabVIEW, integrati con quelli di tipo WinCC OA. Tali pannelli funzionano su sistema operativo Windows.

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