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RECLUTAMENTO E CARATTERIZZAZIONE PRELIMINARE DI UN CAMPIONE DI SOGGETTI PER LO STUDIO DELL'INTERAZIONE GENI E AMBIENTE NEL COMPORTAMENTO PROSOCIALE.

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Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica

Direttore Prof. Riccardo Zucchi

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute Tesi di Laurea

RECLUTAMENTO E CARATTERIZZAZIONE PRELIMINARE DI

UN CAMPIONE DI SOGGETTI PER LO STUDIO

DELL’INTERAZIONE GENI E AMBIENTE NEL

COMPORTAMENTO PROSOCIALE.

Relatore: Candidato:

Prof.ssa Silvia Pellegrini Giulia Cardinali

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Indice.

Riassunto………... pag. 1

Capitolo 1. Introduzione………. pag. 2

1.1. Prospettiva evoluzionistica del comportamento prosociale……… pag. 2

1.1.1. Appartenenza al gruppo e distinzione in-group / out-group……….. pag. 3

1.1.2. La teoria dell'istinto tribale………. pag. 5

1.2. Prospettive teoriche del comportamento prosociale……… pag. 7

1.2.1. Prospettiva psico-sociale………. pag. 7

1.2.2. Prospettiva motivazionale……… pag. 8

1.2.2.1 La motivazione egoistica (self-focused)………..… pag. 8 1.2.2.2 La motivazione altruistica (other-focused)………... pag.10

1.3. Correlati neurali dell'altruismo………. pag.11

1.3.1. Regioni cerebrali associate all'altruismo………... pag.11

1.3.2. Principali paradigmi di ricerca per lo studio del comportamento

altruistico………..……… pag.12

1.3.2.1. Carità/ donazione altruistica……… pag.13 1.3.2.2. Aiuto altruistico /Punizione altruistica……….……… pag.13

1.4. Le basi genetiche del comportamento………. pag.14

1.4.1 La genetica comportamentale……….. pag.14

1.4.2 Polimorfismi genetici……… pag.14

1.4.3 I correlati genetici del comportamento altruistico……… pag.16

1.5. Scopo della tesi……… pag.19

Capitolo 2. Materiali e metodi……… pag.20 2.1. Il paradigma sperimentale……….... pag.20

(3)

2.2. Reclutamento dei partecipanti allo studio……… pag 20

2.3. Valutazione anamnestica e somministrazione di scale psicometriche…… pag.21

2.3.1 Hare Psychopathy Checklist - Revised (PCL-R)………..…………... pag.21 2.3.2 Historical Clinical Risk Management - 20 (HCR-20)…………..….. pag.22 2.3.3 Traumatic Experience Checklist (TEC)………...….. pag.23 2.3.4 Altruistic Personality Scale (APS)……….. pag.24

2.4. Raccolta di un campione di saliva da ciascun partecipante allo studio….. pag.25

2.5. Analisi statistica dei dati comportamentali……….. pag.27

Capitolo 3. Risultati……… pag.28

3.1. Punteggi ottenuti al questionario APS………... pag.28

3.2. Punteggi ottenuti alla scala TEC………. pag.29

3.2.1. Numero di eventi traumatici subiti……….……… pag.29 3.2.2. Gravità degli eventi traumatici subiti……….………... pag.29 3.2.3. Supporto ricevuto in seguito a eventi traumatici………... pag.30

3.3. Analisi di correlazione tra i punteggi ottenuti al questionario APS e quelli

ottenuti al TEC………... pag.31

3.3.1. Correlazione tra punteggi APS e numero di eventi traumatici

subiti………... pag.31 3.3.2. Correlazione tra punteggi APS e gravità degli eventi traumatici

subiti………... pag.31 3.3.3. Correlazione tra punteggi APS e supporto ricevuto in seguito a eventi traumatici……….. pag.31 Capitolo 4. Discussione e conclusioni………. pag.32

4.1. Discussione dei risultati………. pag.32

4.2. Conclusioni e prospettive future……….. pag.34

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APPENDICE A……….. pag.54 APPENDICE B ………..………. pag.56

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Riassunto

Il lavoro di questa tesi fa parte di un progetto più ampio volto a studiare il ruolo dei geni e dell’ambiente (formazione, stile di vita, traumi subiti, ecc.) nel predisporre al comportamento prosociale. Nello specifico, il mio lavoro è consistito nella selezione di un gruppo di soggetti che operano all’interno di associazioni di volontariato ufficialmente riconosciute e di un gruppo di soggetti di controllo, senza alcuna esperienza di volontariato. L’attività di volontariato rappresenta, infatti, una forma specifica di comportamento prosociale che presuppone un impegno individuale a lungo termine.

Poiché l’essere altruisti è considerato uno dei motivi che favoriscono la scelta di far parte di associazioni di volontariato e l’altruismo è stato correlato positivamente con numerosi altri fattori che motivano al volontariato stesso, ho verificato, somministrando a tutti i soggetti il questionario self-report Altruistic Personality Scale (APS), che i volontari, rispetto ai controlli, avessero livelli maggiori di altruismo e che, quindi, costituissero un campione valido per il successivo studio genetico. Ho, inoltre, valutato la presenza di differenze tra i due gruppi in merito alle esperienze traumatiche subite nel corso della vita, per vedere se l’aver subito traumi potesse predisporre alla scelta di aderire ad associazioni di volontariato e quindi al comportamento prosociale. Per valutare il numero delle esperienze traumatiche subite, la loro gravità e l’eventuale supporto emotivo ricevuto ho somministrato ai partecipanti il reattivo psicometrico

Traumatic Experience Checklist (TEC).

I risultati ottenuti dimostrano che effettivamente i volontari sono più altruisti dei controlli, confermando la validità del campione selezionato, mentre non è stata trovata alcuna associazione significativa tra traumi subiti e comportamento prosociale, tranne un trend nel gruppo dei volontari, che però scompare dopo correzione per confronti multipli.

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Capitolo 1

Introduzione

1.1 Prospettiva evoluzionistica del comportamento prosociale

Il comportamento prosociale si manifesta come “una vasta categoria di atti,

definiti da una porzione significativa della società e/o del proprio gruppo sociale come generalmente vantaggiosi per gli altri” (Penner et al., 2005). Un’importante espressione

del comportamento prosociale è l’altruismo, il cui concetto è stato trascurato per lungo tempo da gran parte dei ricercatori evoluzionistici, poiché in contrasto con la teoria di Charles Darwin sull'evoluzione della specie (Darley e Latanè, 1968; Rushton e Sorrentino, 1981). L’introduzione dei concetti di altruismo reciproco (Trivers, 1971) e di selezione in

consanguineità (Hoffman, 1981) ha permesso di risolvere questo impasse:

▪ L’altruismo reciproco è definito come la tendenza ad aiutare o condividere risorse con individui non consanguinei. È stato ipotizzato che questo aspetto dell’altruismo abbia come fine quello di ricevere una ricompensa in futuro e d’incrementare le proprie possibilità di sopravvivenza, nonché il successo riproduttivo (Trivers, 1971).

▪ La selezione in consanguineità è definita come la parzialità verso coloro che condividono il patrimonio genetico. Secondo questa teoria, l’altruismo verso i propri consanguinei è privilegiato allo scopo d’incrementare la conservazione del patrimonio genetico reciprocamente condiviso (Segal, 1984). Esperti di psicologia evoluzionistica sottolineano come la selezione in consanguineità predisponga al favoritismo etnico all’interno dei gruppi, il quale, a sua volta, avrebbe dato origine a innumerevoli conflitti della storia passata e contemporanea (Rushton, 1991; Wilson, Kayatani, 1968).

Diversi autori ritengono che l’altruismo di consanguineità e l’altruismo reciproco siano sostenuti da sistemi motivazionali differenti. Forti componenti emotive sembrano giocare un ruolo importante nel promuovere il comportamento altruistico verso i consanguinei

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(Krebs, 1987; Maner e Gailliot, 2007), mentre un calcolo razionale dei costi e benefici sembra predominare nel comportamento altruistico reciproco (Cosmides e Tooby, 1992; Stone, Cosmides, Tooby, Kroll e Knight, 2002; Dugatkin, 1997).

Altri autori hanno ipotizzato che il bisogno di aiutare gli altri derivi dal fatto che gli interessi individuali sono allineati agli interessi collettivi del gruppo al quale si appartiene (Tajfel, Turner, Brewer e Kramer, 1986; Turner et al., 1987; Van Vugt e De Cremer, 1999; Hardy e Van Vugt, 2006). Da questa ipotesi, ossia dell’esistenza di un legame tra comportamento altruistico e appartenenza al gruppo, deriva la distinzione tra “in-group” e “out-group” e la “teoria dell’istinto tribale”, descritti nei seguenti paragrafi.

1.1.1 Appartenenza al gruppo e distinzione in-group / out-group

Nell’ambito del comportamento prosociale, l’appartenenza ad un gruppo

(in-group) gioca un ruolo cruciale nel favorire il comportamento altruistico (Flippen

et al., 1996; Levine et al., 2005). Le relazioni sociali positive all’interno del gruppo al quale si appartiene (ad esempio un’associazione di volontariato) costituiscono una delle “variabili fondamentali che meglio predicono la felicità e la

soddisfazione per la vita, aumentando la predisposizione individuale a comportamenti prosociali” (Compton, 2005). Per creare e mantenere un’identità

sociale positiva, gli individui possono adottare una delle seguenti strategie (Tajfel, 1982):

Concorrenza sociale: tendenza sistematica a valutare il proprio gruppo,

migliore rispetto ad altri gruppi;

Creatività sociale: tendenza ad attribuire caratteristiche positive, piuttosto

che negative, al proprio gruppo;

Mobilità individuale: tendenza a scappare, evitare o negare di appartenere

ad un gruppo di scarso valore.

Il tipo di strategia impiegata varia a seconda di come sono percepite le differenze e i confini del gruppo di appartenenza (Tajfel e Turner, 1979). La creazione di un’identità comune nell’in-group porta ad un incremento dei comportamenti

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prosociali (Nier et al., 2001) e a dinamiche intra-gruppo più cooperative (Beaton et al., 2008), con conseguenti fenomeni sociali:

- “Identificazione al gruppo” di appartenenza o ad un altro gruppo con cui si condividono obiettivi comuni.

- “Favoritismo nei confronti dell’in-group” (Tajfel, Billig, Bundy e Flament, 1971), ossia la tendenza ad avere comportamenti maggiormente prosociali verso i membri del proprio gruppo rispetto a quelli di altri gruppi

(out-group) (Everett, Nadira, Faber, Crockett, 2015). Ciò implica lo sviluppo del senso

di non appartenenza a gruppi esterni, che può sfociare in atteggiamenti discriminatori verso i membri appartenenti all’out-group (Tajfel, Billig, Bundy e Flament, 1971). Su questo argomento i dati di letteratura sono, tuttavia, contrastanti. Alcuni studi, infatti, hanno dimostrato che la tendenza ad avere comportamenti prosociali è maggiore verso i membri dell’in-group e minore verso quelli dell’out-group (Benson, Karabenick e Lerner, 1976; Gaertner e Bickman, 1971); altri studi hanno osservato esattamente l’opposto, ossia la tendenza ad aiutare maggiormente i membri dell’out-group rispetto a quelli dell’in-group, fenomeno denominato “discriminazione inversa” (Dovidio e Gaertner, 1981; Dutton e Lake, 1973). Infine, altri studi ancora non hanno osservato alcuna associazione tra lo status di appartenenza in/out-group e la quantità di aiuto fornito (Bickman e Kamzan, 1973; Wispé e Freshley, 1971).

- “Effetto di discontinuità interindividuale-inter-gruppale”, ossia l’esistenza di un’interazione estremamente competitiva tra gruppi diversi (Wildschur et al., 2003; Insko et al., 1994). Alla base di tale comportamento sembrano esserci il pregiudizio, la paura e il sospetto nei confronti dell'out-group (Snyder, 1984; Insko, Schopler, Hoyle, Dardis, e Graetz, 1990; Johnson et al., 2006).

1.1.2 Teoria dell’istinto tribale

Secondo la teoria dell’istinto tribale, gli esseri umani hanno evoluto una psicologia inter-gruppo specifica (psicologia tribale), che è emersa nell’uomo come

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conseguenza di processi di adattamento per affrontare le pressioni della complessa vita di gruppo in ambienti ancestrali, caratterizzati da coalizioni di conflitto e cooperazione (Van Vugt e Park; 2008). Un’attenta analisi evolutiva del rapporto costi-benefici suggerisce, infatti, che nel corso del tempo, condizioni di costante paura e diffidenza nei confronti dell’altro, abbiano portato alla comparsa di risposte psicologiche e comportamentali specifiche per permettere agli individui di raggiungere una flessibilità funzionale (Schaller, Park e Faulkner, 2003). Il concetto di flessibilità funzionale si riferisce alla capacità dell’individuo di modificare il proprio comportamento per adattarsi alle molteplici situazioni interpersonali (Leary, 1957).

I contesti in/out-group sono innumerevoli (uomo-donna, anziano-giovane, ricco-povero, biondo-bruno, ecc.), ma il forte legame di attaccamento all’in-group e l’ostilità verso l’out-group sono stati osservati solamente in alcuni sottogruppi, quali i gruppi etnici, le nazioni e le squadre sportive. Quindi, solamente gli

out-group con una sorta di “status tribale”, i cui membri formano coalizioni,

competono e/o cooperano con altri gruppi in base alla valutazione dei costi e dei benefici (Hardy e Van Vugt, 2006; Nadler e Halabi, 2006; Van Leeuwen, 2007), sono oggetto di risposte psicologiche e comportamentali come il favoritismo

in-group e l’ostilità verso l’out-in-group (Schaller, Park e Faulkner, 2003).

In generale, si possono distinguere tre teorie evolutive sulle origini degli istinti tribali che governano i rapporti inter-gruppo (Kurzban e Neuberg, 2005):

1. I meccanismi d’interazione tra i gruppi originano dalla tendenza a interpretare e categorizzare il mondo (Tajfel e Turner, 1986; Turner et al., 1987). 2. La tendenza innata ad aiutare i membri dell’in-group potrebbe produrre indirettamente situazioni di conflitto con membri dell’out-group a causa della disparità di trattamento (Brewer, 1979; Brewer e Caporael, 2006). La tendenza a comportamenti altruistici verso i membri del proprio gruppo fa riferimento a un codice morale universalmente implicito nell’essere umano, chiamato regola di

reciprocità (Trivers, 1971), secondo la quale è necessario “restituire assistenza a

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3. La psicologia tribale origina da una lunga e pregressa storia, caratterizzata da intense rivalità e concorrenze tra i gruppi. Gli esseri umani si sono evoluti con un adattamento specifico per la gestione dei rapporti inter-gruppo, sviluppando la tendenza a formare alleanze allo scopo di sfruttare e dominare gli altri individui o gruppi (Kurzban e Leary, 2001; Sidanius e Pratto, 1999; van Vugt, De Cremer e Janssen, 2007). Il conflitto tra gruppi, in effetti, sembra essere stato molto comune in ambienti ancestrali (Alexander, 1987; Tooby e Cosmides, 1988).

In conclusione, l’evoluzione insegna che le relazioni inter-gruppo non sono statiche: “Il tuo nemico oggi, può essere tuo amico domani” (Keegan, 1994). Per far fronte a tale instabilità l’uomo ha sviluppato una psicologia tribale flessibile, che gli ha permesso di formare coalizioni di alleanza o competizione nei confronti di altri gruppi. Questi meccanismi potrebbero aver svolto un’azione promotrice delle attuali espressioni di prosocialità volte a stabilire e mantenere rapporti di aiuto reciproco tra gruppi (Hardy e Van Vugt, 2006; Nadler e Halabi, 2006; Van Leeuwen, 2007).

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1.2 Prospettive teoriche del comportamento prosociale

Per spiegare l’origine del comportamento prosociale, in relazione ai contesti in-group e

out-group, sono state sviluppate due prospettive teoriche, denominate prospettive psicosociale e motivazionale.

1.2.1 La prospettiva psicosociale

Secondo la prospettiva psicosociale che si rifà alla Teoria dell’Identità Sociale (Social Identity Theory, SIT, Tajfel et al., 1971) e alla Teoria dell’Auto-Categorizzazione (Self-Categorization Theory, SCT, Turner et al., 1987), gli individui possono sviluppare due identità principali:

Sé personale (o identità personale) che fa riferimento ad una definizione

di sé come individuo unico, a seguito del confronto con altri individui;

Sé collettivo (o identità sociale) che corrisponde ad una definizione di sé come membro di un gruppo e deriva dal confronto tra in-group e out-group (Tajfel, 1972). L’identità sociale, quindi, si sviluppa quando l’individuo si sente parte di un determinato gruppo col quale condivide lo status e le caratteristiche, quali ad esempio il background culturale e l’etnia (Tajfel e Turner, 1986).

Secondo questa teoria, quindi, il concetto di sé è concepito come flessibile e variabile, in linea con una realtà, in cui individui e gruppi sono in interazione continua e dinamica. Quando un individuo definisce sé stesso come membro di una categoria sociale, attua un processo chiamato “ridefinizione cognitiva del sé”, che presuppone il passaggio da attributi unici, all’appartenenza ad una categoria sociale e agli stereotipi ad essa associati. Tale ridefinizione ha lo scopo di armonizzare il comportamento dell’intero gruppo (Turner, 1984), favorendo il comportamento altruistico e prosociale (Brewer, 1979), poiché incrementa fenomeni di cooperazione (Stephan e Stephan, 1985), fiducia (Kramer, 1999) e generosità (Tajfel, Billig, Bundy, e Flament, 1971). Il confronto tra membri

in/out-group potrebbe far emergere, inoltre, dissimilitudini percepite dall’individuo sotto

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come ansia, insicurezza o senso di minaccia (Stephan e Stephan, 1985; Dijker, 1987; Jackson e Sullivan, 1989).

1.2.2 La prospettiva motivazionale

Secondo la prospettiva motivazionale, il comportamento prosociale deriva da due differenti tipologie di motivazione personale: la motivazione egoistica

(self-focused) e la motivazione altruistica (other-(self-focused).

1.2.2.1 La motivazione egoistica (self-focused)

La motivazione egoistica ha come obiettivo quello di preservare, mantenere o migliorare il proprio benessere (Batson, 1991; Batson e Shaw, 1991; Penner, Dovidio, Piliavin, e Schroeder, 2005). Alla base di questo tipo di motivazione c’é la ricerca di ricompense e la necessità di ridurre il disagio personale (Batson e Shaw, 1991; Dovidio, Piliavin, Schroeder e Penner, 2006):

- La ricerca di ricompense

Le ricompense che motivano il comportamento altruistico possono essere interne o esterne. Le ricompense interne hanno effetti positivi sullo stato emotivo di chi aiuta. Ecco perché gli stati emotivi positivi e il comportamento altruistico sono, solitamente, correlati (Cialdini, Kenrick e Baumann, 1982; Williamson e Clark, 1989). A questo proposito, Andersen (1998) e Piliavin (2003) hanno riportato numerosi studi che mostrano come i giovani, impegnati in attività di volontariato nelle scuole superiori e nelle università e in progetti a favore della comunità, sviluppano abilità e valori sociali positivi. Tali attività si associano a un miglioramento dell’umore e dell’autostima (Gleason et al., 2003).

Si parla, invece, di ricompense esterne quando gli effetti positivi del comportamento altruistico consistono in gratificazioni esterne, come ad esempio gli incentivi di natura monetaria o l’approvazione sociale. Si ritiene che questi ultimi aspetti svolgano un ruolo di particolare rilevanza

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nella motivazione all’aiuto di persone che si apprezzano e dalle quali si desidera avere l’approvazione (Krebs, 1970; Unger, 1979).

- Riduzione del disagio personale

La vista di una persona in difficoltà generalmente stimola, nell’osservatore, sensazioni negative come stress, ansia o disagio (Eisenberg e Fabes, 1991, Hoffman, 1981). Queste sensazioni sono dettate dalla capacità di provare empatia verso la persona in difficoltà. L’empatia è un fenomeno multiforme, generalmente definito come la capacità di comprendere e condividere gli stati emotivi altrui. Essa può essere classificata in:

. Empatia cognitiva, ossia la capacità di assumere la prospettiva altrui,

capirne pensieri, sentimenti e azioni (Rogers, Kimberley, Isabel Dziobek, Hassenstab, Wolf, Convit, 2007);

. Empatia affettiva, ossia la capacità di avere delle reazioni emotive nei

confronti di esperienze difficili vissute dal prossimo (ad esempio, provare uno stato di disagio personale) o di esprimere emozioni verso il prossimo (ad esempio, provare preoccupazione empatica, cioè apprensione e compassione) (Batson, 2009, Davis, 1994, Decety e Lamm, 2006).

L’empatia affettiva, in particolare quella forma di empatia affettiva che determina uno stato di disagio personale, promuove il bisogno egoistico di placare i propri stati di disagio e/o di ansia, innescando a sua volta la necessità di aiutare il prossimo (Batson, Fultz, e Schoenrade, 1987). Lenire il disagio altrui attenua, sino a neutralizzare, i sentimenti sgradevoli indotti dal disagio personale, migliorando, di riflesso, lo stato emotivo dell’osservatore (Cialdini, Kenrick e Baumann, 1882; Williamson e Clarck, 1989; Dovidio, Piliavin, Gaertner, Schroeder e Clark, 1991).

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1.2.2.2 La motivazione altruistica (other-focused)

La motivazione altruistica ha come obiettivo quello di preservare, mantenere o migliorare il benessere altrui (Batson, 1991; Batson e Shaw, 1991; Penner, Dovidio, Piliavin, e Schroeder, 2005). Alcuni studi suggeriscono che la preoccupazione empatica, ossia quella forma di empatia affettiva che consente di provare emozioni verso il prossimo, sia il movente principale della motivazione altruistica pura, che persegue il mero obiettivo di incrementare il benessere altrui senza secondi fini (Batson, Fultz, e Schoenrade, 1987). Secondo Batson e collaboratori (1991), la capacità di percepire le necessità dell’altro, unita ad un tipo particolare di relazione interpersonale con quella stessa persona (basata, ad esempio, su una somiglianza reciproca o sulla vicinanza affettiva), evoca un sentimento di empatia, che a sua volta amplifica la motivazione altruistica. È stato, inoltre, osservato che provare empatia nei confronti di un individuo che versa in situazioni di difficoltà promuove il comportamento altruistico, perfino in situazioni che mettono addirittura a rischio la propria incolumità (Batson, 1991; Davis, 1994; Dovidio et al. 1991).

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11 1.3 Correlati neuronali dell’altruismo

1.3.1 Regioni cerebrali associate all'altruismo

L’altruismo è un’importante manifestazione del comportamento prosociale legato alle relazioni umane. I recenti progressi della ricerca nel settore delle neuroscienze sociali hanno mostrato come l’altruismo si associ a specifici pattern di attività cerebrale. Le aree cerebrali coinvolte nel processo decisionale altruistico includono regioni che sono implicate nella risposta alla ricompensa, poiché è stato osservato che l’attesa di potenziali vantaggi favorisce le decisioni altruistiche. In particolare, sembrano giocare un ruolo chiave l’area ventrale tegmentale (VTA), lo striato, il nucleus accumbens (NaCC) e la corteccia cingolata anteriore (ACC) (Liu, Hairston, Schrier, Fan, 2011) (Sescousse, Caldú, Segura, Dreher, 2013) (Figura 1).

Figura 1. Rappresentazione schematica delle aree cerebrali associate alla ricompensa (verde), che sembrano essere coinvolte nel comportamento altruistico. Abbreviazioni: ACC, corteccia cingolata anteriore; NaCC, nucleus accumbens; VTA, area tegmentale ventrale.

Fonte: Filkowski, Cochran, Haas, Altruistic behavior: mapping responses in the

brain.Neuroscience & Neuroeconomics, 2016

Anche le regioni coinvolte nel controllo cognitivo, come la corteccia prefrontale mediale (mPFC), e nelle risposte emotive, come l’amigdala e l’insula,

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sono state associate a comportamenti altruistici. In particolare, è stato osservato che l’amigdala si attiva in presenza di stimoli emotivi (Sander, Grafman, Zalla, 2003) e l’insula entra in gioco nell’elaborazione degli stimoli emotivi negativi (Cauda, Costa, Torta et al., 2012; Duerden, Arsalidou, Lee, Taylor, 2013). La mPFC ha collegamenti reciproci sia con l’amigdala che con l’insula per un controllo di tipo cognitivo e d’integrazione delle informazioni relative all’analisi costi-benefici dell’atto altruistico (Craig, 2003; Phillips, Drevets, Rauch, Lane, 2003; Lee, Siegle, 2009; Menon, Uddin, 2010; Cauda, D'Agata, Sacco, Duca, Geminiani, Vercelli, 2011; Mitchell e Greening, 2012). Inoltre, è stato osservato che la regione dorso laterale della PFC si attiva in modo particolare in associazione a sentimenti di preoccupazione empatica per il prossimo, piuttosto che a una riduzione del disagio personale (Megan, Filkowski, Cochran e Haas, 2016).

1.3.2 I principali paradigmi di ricerca per lo studio dei correlati neuronali del comportamento altruistico

I principali paradigmi di ricerca impiegati per lo studio del comportamento altruistico si basano sull’utilizzo di metodologie di visualizzazione in vivo dell’attività cerebrale che si associa alla vista d’immagini raffiguranti oggetti e/o situazioni ad alta valenza emotiva oppure alla presentazione di situazioni di rilevanza sociale. Il paradigma più comunemente impiegato è il Dictator Game (Bolton, Katok, Zwick, 1998; Camerer, Fehr, 2002). Il Dictator Game è un gioco economico che si propone di mettere in discussione l'assunzione economica standard, ossia che gli individui agiscano esclusivamente per motivi di interesse. Gli individui coinvolti sono due. Ad uno dei partecipanti, noto nell'esperimento come “il dittatore”, viene dato del denaro, mentre al secondo non viene dato nulla. Al dittatore viene comunicato che deve offrire una qualsiasi somma di quel denaro al secondo partecipante che la deve accettare a prescindere dall’importo. Il secondo partecipante ha un ruolo esclusivamente passivo dal momento che, anche nel caso in cui si trovi a ricevere un importo insoddisfacente, non può punire il dittatore in alcun modo (Hoffman, Elizabeth, McCabe, Smith; 2008). Questo modello è stato successivamente modificato per studiare due aspetti fondamentali del

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comportamento altruistico: “carità/donazione altruistica” e “aiuto altruistico/punizione altruistica” (Filkowski, Cochran, Haas, 2016).

1.3.2.1 Carità/ donazione altruistica

La donazione altruista consiste nell’assegnazione di denaro come atto di carità (Filkowski, Cochran, Haas, 2016). Da uno studio del 2006 (Moll, Krueger, Zahn, Pardini, de Oliveira-Souza, Grafman, 2006) è emerso che nelle decisioni altruistiche che implicano la donazione di cospicue somme di denaro, si attiva la corteccia cingolata anteriore sub-genuale (SgACC), oltre alle regioni legate alle ricompense (ACC, VTA e striato) e al ragionamento (mPFC). Inoltre, è stato ipotizzato che la porzione orbito-frontale della corteccia possa essere implicata nel processamento delle decisioni che prevedono un’assegnazione altruistica equa (Zaki e Mitchell, 2011).

1.3.2.2 Aiuto altruistico /Punizione altruistica

L’aiuto altruistico consiste nell’aiutare persone che hanno commesso delle azioni sbagliate, mentre la punizione altruistica consiste nel punire gli individui che violano le norme sociali (Filkowski, Cochran, Haas, 2016). Entrambe sono considerate manifestazioni di altruismo. Da uno studio del 2015 è emerso che l’aiuto e la punizione altruistica attivano zone cerebrali implicate nei meccanismi della ricompensa, tramite due network distinti (Hu, Strang, Weber, 2015). Nello specifico, nell’aiuto altruistico si attiva maggiormente lo striato e aumentano le connessioni tra quest’area e la PFC laterale destra. Nella punizione altruistica, invece, aumentano le connessioni tra striato e PFC laterale sinistra.

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1.4 Le basi genetiche del comportamento altruistico

1.4.1 La genetica comportamentale

“Che ruolo gioca il patrimonio genetico nel modulare il comportamento?”. Mentre la genetica classica studia fondamentalmente i

cosiddetti tratti mendeliani semplici, ossia quei fenotipi direttamente prodotti dall’attività di specifici geni, la genetica del comportamento si occupa di studiare i cosiddetti tratti complessi, per i quali un determinato fenotipo deriva dall’interazione di più fattori genetici e ambientali. Evidenze scientifiche hanno, infatti, mostrato che molti aspetti del comportamento e della personalità, quali introversione, estroversione, intelligenza, ricerca continua di nuove sensazioni, aggressività, antisocialità, ecc, derivano dall’interazione dell’assetto genetico dell’individuo con l’ambiente (Pellegrini, 2009). Ad oggi, inoltre, è noto che l’ambiente è in grado di influenzare un determinato tratto fenotipico attraverso modifiche epigenetiche, che influenzano l’espressione genica senza modificare la sequenza del DNA (Gottesman e Gould, 2003).

La genetica comportamentale cerca, quindi, di individuare i geni che possano giocare un ruolo nel determinare l’espressione di tali tratti comportamentali e personologici (Pellegrini, 2009).

1.4.2 Polimorfismi genetici

Il codice genetico è composto da basi appaiate (bp) organizzate in geni, ossia segmenti del genoma che contengono l’informazione per la sintesi di proteine. Molti geni sono polimorfici, poiché la loro sequenza varia tra gli individui con una frequenza maggiore dell’1%. Ogni polimorfismo può essere presente con più varianti di sequenza, ciascuna delle quali costituisce un “allele” (Pellegrini e Pietrini, 2013).

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1. Polimorfismi a singolo nucleotide (SNP, Single Nucleotide Polymorphism), ossia variazioni di una singola base nella sequenza di DNA. Gli

SNP rappresentano la fonte principale della variabilità genetica tra gli individui. 2. Ripetizioni in tandem di tratti di sequenza. Appartengono a questa

categoria le VNTR (Variable Number of Tandem Repeats) e le STR (Short

Tandem Repeat), ossia tratti di sequenza lunghi rispettivamente 11-100 nucleotidi

e 2-10 nucleotidi, ripetuti in tandem un numero variabile di volte.

3. Variazioni del numero di copie (CNV, Copy Number Variation),

ossia delezioni o duplicazioni di tratti di sequenza che portano ad un cambiamento del numero di copie di una specifica regione cromosomica.

I polimorfismi sono definiti fattori di suscettibilità, poiché il possedere una

variante allelica piuttosto che un’altra può predisporre ad un maggior rischio di sviluppare un determinato fenotipo, ma da sola non è né necessaria, né sufficiente a causare il fenotipo stesso. Per identificare le varianti alleliche che potrebbero influenzare un determinato tratto fenotipico si utilizzano gli studi di associazione

casi-controlli, che consentono di confrontare la frequenza di una o più varianti

genetiche in due gruppi di soggetti:

- il gruppo dei “casi” costituito da soggetti che presentano il fenotipo

oggetto di studio (ad esempio, un tratto comportamentale);

- il gruppo dei “controlli” costituito da soggetti privi di tale caratteristica,

il più possibile simili (in termini, ad esempio, di sesso, età, etnia) ai “casi”, ma non geneticamente imparentati con quest’ultimi.

Tali studi possono essere eseguiti con un approccio esplorativo (sequenziando l’intero genoma) o con l’approccio dei geni candidati, in cui sono studiati geni che, in base ai dati presenti in letteratura scientifica, possiedono buone probabilità di essere implicati nel fenotipo oggetto dello studio.

(20)

16

1.4.3 I correlati genetici del comportamento altruistico

Diversi studi sui gemelli hanno dimostrato che il comportamento altruistico è in parte ereditabile (Rushton, Fulker, Neale, Nias, Eysenck, 1986; Cesarini, Dawes, Johannesson, Lichtenstein, Wallace, 2009). Lo studio di Rushton e colleghi, ad esempio, mostra come le risposte altruistiche a questionari personologici, che permettono di valutare il grado di altruismo, sono ereditabili per circa il 50%. Le ricerche condotte da Cesarini e colleghi mostrano, invece, un’ereditarietà del comportamento altruistico pari al 31%, valutato come propensione a compiere donazioni a organizzazioni di beneficenza (Cesarini, Dawes, Johannesson, Lichtenstein, Wallace; 2009). Studi recenti, utilizzando sia reattivi psicometrici, come questionari (Bachner-Melman, Gritsenko, Nemanov, Zohar, Dina, et al.; 2005), che una serie di giochi economici comportamentali progettati per lo studio dei meccanismi che influenzano il processo decisionale altruistico (ad esempio, il Dictator Game) (Knafo, Israel, Darvasi, Bachner-Melman, Uzefovsky, et al, 2008; Reuter, Frenzel, Walter, Markett, Montag, 2010), hanno fornito evidenze di un’associazione tra specifici polimorfismi genetici e comportamento altruistico. In particolare, è stata osservata un’associazione tra altruismo e polimorfismi del gene che codifica per il recettore dell’ossitocina (OXTR), del gene del recettore della vasopressina 1a (AVPR1A) e di alcuni geni che regolano la neurotrasmissione dopaminergica (Prichard et al., 2007; Israel et al., 2008, 2009; Lerer et al. 2008; Meyer-Lindenberg et al., 2009; Levin et al., 2009).

Nel gene OXTR i polimorfismi che sono stati associati ad alcuni tratti altruistici, come generosità e allocazione di fondi/carità, appartengono alla categoria degli SNP e sono tre: rs1042778 (cambio G/T), rs2268490 (cambio C/T) e rs237887 (cambio G/A) (Israel, Lerer, Shalev et al; 2009).

Nella regione del promotore del gene AVPR1A, la cui espressione è stata associata alla regolazione dei comportamenti prosociali, come quelli affiliativi e altruistici (Donaldson, Young; 2008; Ebstein, Israele, Chew, Zhong, Knafo; 2010), il polimorfismo del tipo STR, noto come AVPR1A RS3, sembra modulare il controllo delle pulsioni (Levin, Heresco-Levy, Bachner-Melman, Israele, Shalev, et al. 2009) e una gamma di abilità sociali (Kim, Young, Gonen,

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Veenstra-17

Vander Weele, Courchesne, et al 2002; Meyer-Lindenberg, Kolachana, Gold, Olsh, Nicodemus, et al.; 2009; Walum, Westberg, Henningsson, Neiderhiser, Reiss, et al. 2008), compreso il comportamento altruistico (Knafo, Israele, Darvasi, Bachner-Melman, Uzefovsky, et al.; 2009; Avinun, Israel, Shalev, Gritsenko, Bornstein, Ebstein, Knafo, 2011).

Per quanto riguarda la neurotrasmissione dopaminergica, un’associazione con il comportamento altruistico è stata individuata per lo SNP rs4680 del gene che codifica per la catecol-O-metiltransferasi (COMT, enzima metabolizzante la dopamina) e la VNTR, costituita da 2 a 11 ripetizioni di 48 nucleotidi, nell’esone III del gene che codifica per il recettore D4 della dopamina (DRD4).

Lo SNP rs4680 consiste in un cambio nucleotidico G/A che comporta la sostituzione aminoacidica Valina/Metionina e conseguente effetto sull’attività enzimatica del COMT (Reuter, Frenzel, Walter, Markett, Montag; 2011). L’allele G è stato associato al comportamento altruistico (come la donazione di denaro), mentre l’allele A è stato associato al comportamento antisociale (Weinberger et al., 1996; Bechara et al., 2000; Reuter et al., 2011; Qayyum, Zai, Hirata, Tiwari, Cheema, Nowrouzi, Beitchman e Kennedy, 2015).

La VNTR di 48 pb è in grado di modulare l’espressione del gene DRD4 e di influenzare le risposte altruistiche valutate mediante diversi questionari (Selflessness Scores e Inventory NEOPI-R) (Anacker, Enge, Reif, Lesch e Strobel, 2013). I soggetti non portatori dell’allele con 7 ripetizioni mostrano, infatti, maggiori punteggi di altruismo, mentre i portatori dell’allele con 7 ripetizioni mostrano una maggior tendenza al comportamento antisociale (Kirley et al., 2004; Bachner-Melman et al., 2005) e un’insensibilità all’equità reciproca (Zhong et al., 2010).

Queste varianti non sono causative, ossia possedere una variante piuttosto che un’altra non determina lo sviluppo di un comportamento altruistico. Sono state definite, infatti, “varianti di suscettibilità” (Bakermans-Kranenburg e Van Ijzendoorn, 2006, 2007, 2011; Belsky et al., 2007, 2009; Obradovic-Boyce, 2009; Way, Taylor; 2010), il cui effetto sul fenotipo dipende dall’interazione con numerosi altri fattori, sia genetici che ambientali. Proprio per la loro capacità di interagire con l’ambiente, esse sono state definite ulteriormente come “varianti

(22)

18

maggiormente suscettibili a determinate influenze ambientali” (Blair, 2002; Klein Velderman, et al., 2006; Bakermans-Kranemburg et al., 2008). Alla luce di ciò, negli studi di associazione tra geni e comportamento, è importante collezionare le informazioni relative a ciascun soggetto e all’ambiente in cui è vissuto, come, ad esempio, le sue esperienze di vita e la formazione scolastica.

In sintesi, i fattori genetici non hanno un ruolo deterministico verso lo sviluppo di condotte comportamentali. Un approccio integrato comprendente variabili genetiche, neurologiche, psicologiche e sociali appare il più appropriato per l’indagine del comportamento prosociale umano, anche se il rispettivo contributo dei citati fattori e la metodologia più appropriata per la loro indagine sono tutt’oggi oggetto di dibattito.

(23)

19 1.5 Scopo della tesi

Il presente lavoro di tesi si colloca all’interno di uno studio più ampio volto ad approfondire l’influenza dei geni e dell’ambiente sul comportamento prosociale. In particolare, il mio lavoro è stato quello di selezionare un gruppo di soggetti che nella vita si trovano, per scelta, a mettere costantemente in atto comportamenti altruistici e scelte umanitarie a favore del prossimo, i volontari. Il volontario, infatti, dedica parte del suo tempo e delle sue energie ad una causa, in modo spontaneo e gratuito, rendendosi disponibile a collaborare, con tempi e modalità diverse, ma definite e concordate con l’organizzazione di appartenenza. I volontari adottano comportamenti volti al benessere dell’intera comunità e ciò fa presupporre che abbiano una particolare predisposizione all’altruismo e uno spiccato senso di solidarietà e cooperazione civile. Parallelamente mi sono occupata anche del reclutamento di un gruppo di soggetti di controllo, caratterizzati dal non aver mai fatto volontariato.

L’obiettivo principale della presente tesi è stato quello di caratterizzare da un punto di vista anamnestico e comportamentale i soggetti reclutati. Nello specifico, è stato indagato se effettivamente i volontari mostrassero una maggior tendenza all’altruismo rispetto ai soggetti di controllo e se l’aver subito traumi nel corso della vita potesse influenzare il loro comportamento prosociale. I risultati di questo lavoro di tesi sono preliminari ad una successiva analisi genetica su questi stessi soggetti, volta a valutare la possibile interazione tra esperienze vissute e corredo genetico nello sviluppo del comportamento prosociale.

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20

Capitolo 2

Materiali e metodi

2.1 Il paradigma sperimentale

Il presente lavoro di tesi si è articolato in quattro fasi: 1. Reclutamento dei partecipanti allo studio,

2. Valutazione anamnestica e somministrazione di scale psicometriche, 3. Raccolta di un campione di saliva da ciascun partecipante allo studio, 4. Analisi statistica dei dati comportamentali.

2.2 Reclutamento dei partecipanti allo studio

Per il presente lavoro di tesi sono stati reclutati 120 soggetti attivamente coinvolti nel volontariato (“prosociali”: 45 uomini e 75 donne) e 104 soggetti di controllo che, invece, non avevano mai svolto alcuna attività come volontari (“controlli”: 50 uomini e 54 donne). Tra i due gruppi di soggetti non sono state rilevate differenze significative nella distribuzione dei sessi (Fisher’s exact test: p= 0,136), nell’età (U di Mann-Whitney test: p= 0,940) e negli anni di istruzione (U di Mann-Whitney test: p= 0,353). Per ciascun soggetto è stata esclusa la presenza di psicopatia e di pericolosità sociale mediante la somministrazione delle scale psicometriche Hare Psychopathy Checklist - Revised (PCL-R) e Traumatic Experience Checklist (HCR-20) (vedi paragrafi 2.3.1 e 2.3.2)

Le caratteristiche demografiche del campione sono riportate in tabella 2.1. L’elenco completo delle associazioni di volontariato in cui operano i soggetti reclutati nel gruppo dei prosociali è consultabile in appendice A.

La ricerca è stata condotta in conformità con un protocollo approvato dal Comitato Etico locale dell’Università di Pisa. Ciascun soggetto reclutato ha firmato un consenso

(25)

21

informato scritto di adesione allo studio, dopo aver ricevuto una dettagliata illustrazione verbale e scritta del progetto stesso.

Campione Numerosità Età media

Media degli anni di istruzione Controlli Totale 104 31,15±1,092 15,44±0,309 Uomini 50 33,26±1,749 15,14±0,536 Donne 54 29,20±1,301 15,72±0,431 Prosociali Totale 120 33,06±1,348 15,06±0,283 Uomini 45 38,58±2,556 14,27±0,536 Donne 75 29,75±1,397 15,53±0,308 Tabella 2.1. Caratteristiche demografiche del gruppo di controllo e del gruppo

sperimentale sia globalmente (Totale) che suddiviso nei due sessi. I valori dell’età e degli anni di istruzione rappresentano le medie ± l’errore standard (SEM).

2.3 Valutazione anamnestica e somministrazione di scale psicometriche

Ciascun soggetto reclutato nello studio è stato sottoposto ad un’indagine anamnestica e ad una valutazione psicometrica utilizzando le seguenti scale:

2.3.1 Hare Psychopathy Checklist - Revised (PCL-R)

La PCL-R (Hare, 1991, 2003) è un un’intervista semi-strutturata impiegata in contesti forensi, clinici e di ricerca per la valutazione della psicopatia e del rischio di commettere atti violenti in futuro. Dalla letteratura, infatti, emerge l’esistenza di una causalità diretta tra psicopatia e condotte aggressivo-violente. In particolare è stato osservato che i soggetti psicopatici possono adottare condotte criminose in misura due volte superiore rispetto a soggetti non psicopatici (Porter, Birt e Boer, 2001).

Nell’ambito del presente studio, la PCL-R è stata utilizzata per escludere che, tra i soggetti reclutati, fossero presenti individui psicopatici e a rischio di

(26)

22

manifestare comportamenti violenti. La PCL-R consente di raccogliere dati ufficiali (sesso, età, stato sociale ecc.) e informazioni collaterali relative al soggetto (storia scolastica, situazione finanziaria, salute, relazioni intime, abuso di sostanze ecc.). Consente, inoltre, di identificare eventuali tratti di personalità psicopatica tramite 20 item che valutano due fattori (Hare RD. 2003):

- Fattore 1 – Interpersonale (5 item) /Affettivo (5 item) - Fattore 2 - Stile di vita (5 item) /Antisocialità (5 item)

Di seguito sono riportati alcuni esempi di domande utilizzate per ciascuna sottoscala dei due fattori (per un elenco dettagliato consultare l’appendice B):

- “Ha mai avuto problemi comportamentali e/o relazionali?” (Interpersonale); - “Quante relazioni affettive importanti ha avuto e in che rapporto è rimasto

con i/le sue partner precedenti?” (Affettivo);

- “Quanti e quali lavori ha svolto? è mai stato licenziato/a?” (Stile di vita); - “Ha mai avuto problemi con la giustizia? Prova rimorso per le sue azioni?”

(Antisocialità).

Per ognuno dei 20 item, al soggetto è chiesto di elaborare una risposta aperta. L’esaminatore attribuisce a tale risposta un punteggio a tre punti, da 0 a 2:

- Punteggio 0= l’item non si applica al soggetto;

- Punteggio 1= l’item si applica parzialmente al soggetto; - Punteggio 2= l’item si applica completamente al soggetto.

II punteggio totale può, quindi, variare da 0 a 40 e riflette il grado con cui l'individuo rispecchia il “profilo tipo” della persona psicopatica. I soggetti reclutati nel presente progetto hanno mostrato tutti punteggi bassi al questionario PCL-R, compresi tra 0 e 7.

2.3.2 Historical Clinical Risk Management-20 (HCR-20)

L’HCR-20 è un questionario creato nel 1995 e da allora è divenuto uno strumento ampiamente diffuso per valutare il rischio di sviluppare comportamenti violenti. In questo studio è stata utilizzata la versione 3 del questionario HCR-20 che consiste di 20 item, suddivisi in 3 sottoscale (per un

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23

elenco dettagliato consultare l’appendice B) (Douglas, Hart, Webster, and Belfrage, 2013):

1) “Fattori storici (Historical)”: 10 item riguardanti la violenza pregressa

giovanile, l’età al primo episodio di violenza, l’abuso di sostanze, i disturbi di personalità e il fallimento dei trattamenti di recupero.

2) “Fattori clinici (Clinical)”: 5 item riguardanti la mancanza di consapevolezza,

l’attitudine negativa, i sintomi di malattie mentali gravi, l’impulsività e la resistenza ai trattamenti farmacologici in riferimento ai 6 mesi antecedenti la valutazione.

3) “Fattori di gestione del rischio (Risk Management)”: 5 item riguardanti la

pianificazione priva di fattibilità, l’esposizione a fattori destabilizzanti, la mancanza di supporto interpersonale e l’inosservanza dei trattamenti di recupero. Questi fattori suggeriscono quanto il soggetto sarà in grado di adattarsi alle circostanze future.

Per ciascun item, al soggetto viene chiesto d’indicare il grado di certezza sulla presenza del fattore di rischio, mediante una scala a tre punti, da 0 a 2:

- Punteggio 0 = il fattore è assente;

- Punteggio 1 = il fattore è possibilmente o parzialmente presente; - Punteggio 2 = il fattore è presente con assoluta certezza.

Il punteggio complessivo può variare, quindi, da 0 a 40. Nella presente analisi è stato considerato un cut-off di 27 per la predisposizione al rischio di violenza, come suggerito da Fujii e colleghi nel 2004 (Fujii D., Lichton A., & Tokioka A., 2004). I soggetti reclutati nel presente studio hanno mostrato tutti punteggi bassi al questionario HCR-20, compresi tra 0 e 9.

2.3.3 Traumatic Experience Checklist (TEC)

Il TEC (Nijenhuis, e coll. 2002) è un questionario autosomministrato che permette di valutare la storia delle esperienze traumatiche subite. Il TEC indaga 29 tipologie diverse di trauma (item) tra cui la trascuratezza di carattere emotivo

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24

(emotional neglect), gli abusi di carattere psicologico-emotivo (emotional

abuse), gli abusi sessuali e i maltrattamenti fisici (Nijenhuis E. R. S, Van der Hart

O, Kruger K. 2002).

Di seguito sono riportati alcuni esempi di item utilizzati (per un elenco dettagliato consultare l’appendice B):

- “Trascuratezza emotiva da parte di parenti meno stretti (ad esempio zii, nipoti, nonni)” (emotional neglet);

- “Abuso emotivo da parte di persone non appartenenti alla famiglia”

(emotional abuse);

- “Atti sessuali indesiderati che comportano il contatto fisico da parte dei genitori o dei fratelli” (abusi sessuali);

- “Abuso fisico (ad esempio essere colpito, torturato o ferito) da parte dei genitori o dei fratelli” (maltrattamenti fisici).

Per ciascun item, al soggetto viene richiesto di rispondere alle seguenti domande: 1. “Le è accaduto?" (Sì/No);

2. “A quale età le è accaduto?";

3. “Quale impatto ha avuto questo evento su di lei?”: indicando l’impatto mediante una scala a cinque punti, da 1 (nessuno) a 5 (moltissimo); 4. “Qual è stato il grado di supporto ricevuto a seguito dell’evento

traumatico?”: indicando il grado mediante una scala a tre punti, da 0 (nessuno) a 2 (molto).

Dal TEC sono state ricavate le seguenti variabili: - Il numero di eventi traumatici subiti; - La gravità dei traumi subiti;

- Il supporto emotivo ricevuto in seguito al trauma subito.

2.3.4 Altruistic Personality Scale (APS)

L’APS è una scala autosomministrata che consente di valutare la tendenza all’altruismo di un soggetto, misurando la frequenza con la quale si impegna in atti altruistici (principalmente verso estranei) (Krueger, RF, Hicks, BM e McGue, M., 2001). L’APS consta di 20 affermazioni (item). Di seguito sono riportati

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25

alcuni esempi di item utilizzati (per un elenco dettagliato consultare l’appendice B):

- “Ho aiutato a spingere la macchina di uno sconosciuto che si era rotta o

era rimasta senza benzina”;

- “Ho cambiato dei soldi a uno sconosciuto che aveva bisogno di monete”; - “Ho dato soldi in beneficienza”.

Al soggetto viene chiesto di rispondere ad ogni affermazione mediante una scala a 5 punti, che va da 1 (evento mai accaduto) a 5 (evento accaduto molto spesso). Per ciascun soggetto, è stata calcolata la somma dei punteggi ottenuti.

2.4 Raccolta di un campione di saliva da ciascun partecipante allo studio

Da ciascun partecipante allo studio, è stato raccolto un campione di saliva, mediante un

kit di autoprelievo (ORAGENE•DNA Self-Collection kit OG-500; DNA Genotek Inc, Ottawa, Canada; Figura 2.1) da cui estrarre il DNA per il futuro studio di associazione tra polimorfismi genetici e dati comportamentali.

Figura 2.1. DNA Self-Collection Kit ORAGENE•DNA® OG-500.

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26

1. Espellere la saliva nell’imbuto fino a quando la quantità di saliva liquida, priva di bolle, raggiunge la linea di riempimento che corrisponde a 2 ml.

2. Chiudere il coperchio dell’imbuto ermeticamente assicurandosi di tenere sempre l’imbuto in posizione verticale; la chiusura del coperchio determina il rilascio di un liquido di conservazione che andrà a mescolarsi con la saliva, permettendo al campione di essere conservato a temperatura ambiente per lunghi periodi.

3. Svitare l’imbuto dalla provetta.

4. Chiudere ermeticamente la provetta utilizzando il tappo ed agitare, tramite inversione, per 5 secondi.

Figura 2.2. Protocollo di raccolta dei campioni di saliva utilizzando DNA Self-Collection Kit ORAGENE•DNA® OG-500.

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27

2.5 Analisi statistica dei dati comportamentali

La preelaborazione e l'analisi statistica dei dati è stata effettuata tramite il software SPSS V21 (IBM Corporation, Armonk, NY, US).

Per il confronto delle distribuzioni dei sessi tra i controlli e i prosociali è stato utilizzato il test esatto di Fisher, mentre per il confronto dell’età e degli anni di istruzione è stato utilizzato il test non parametrico U di Mann-Whitney a campioni indipendenti. La distribuzione dei punteggi ottenuti per ciascuna scala psicometrica è stata valutata tramite il test di Kolmogorov-Smirnov e sono stati individuati ed eliminati i valori anomali al di sotto del 5° e al di sopra del 95° percentile per ottenere distribuzioni dei dati quanto più normalizzate.

I punteggi ottenuti alle sottoscale del TEC (numero, gravità degli eventi traumatici subiti e supporto ricevuto in seguito al trauma) non superavano il test di normalità (p< 0,05). Per valutare le differenze, tra controlli e prosociali, dei punteggi ottenuti al TEC, è stato utilizzato il test non parametrico U di Mann-Whitney.

Per quanto riguarda il questionario APS, i punteggi ottenuti mostravano distribuzione normale sia nel gruppo dei controlli (p= 0,2) sia nel gruppo dei prosociali (p= 0,18). Per il confronto, tra controlli e prosociali, dei punteggi ottenuti al questionario APS, abbiamo eseguito l’analisi della covarianza (ANCOVA). Quest’analisi è stata corretta per l’età, poiché è stata rilevata una correlazione positiva tra l’età e i punteggi APS nel campione totale (ρ di Spearman=0,190, p=0,004) e nei due gruppi separatamente (controlli: ρ si Spearman=0,253, p=0,009; prosociali: ρ di Spearman=0,188, p=0,0421). I p value derivati dal confronto dei punteggi ottenuti con le scale psicometriche dai prosociali e dai controlli sono stati corretti con Bonferroni (N= 4, ossia il numero di confronti effettuato tra controlli e prosociali: APS e TEC in termini di numero e gravità degli eventi traumatici subiti e supporto ricevuto).

Inoltre, è stata valutata la correlazione tra i punteggi ottenuti al questionario APS e i punteggi ottenuti al TEC (numero e gravità) utilizzando l’indice di correlazione non parametrico ρ per ranghi di Spearman. I p value di questa analisi sono stati corretti con Bonferroni (N=2).

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Capitolo 3

Risultati

3.1. Punteggi ottenuti al questionario APS

Il gruppo dei prosociali ha mostrato punteggi di APS significativamente maggiori rispetto

al gruppo dei controlli (F= 47.552, df= 1, p< 1x10-6; p Bonferroni corretto< 0.001; Figura

3.1).

Figura 3.1. Punteggi ottenuti al questionario APS nel gruppo dei controlli e nel gruppo dei prosociali. Le barre rappresentano la media ± la deviazione standard (DS).

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29 3.2. Punteggi ottenuti alla scala TEC

3.2.1. Numero di eventi traumatici subiti

Il confronto tra il numero di eventi traumatici subiti dal gruppo dei prosociali e dal

gruppo dei controlli non ha mostrato differenze statisticamente significative (p>

0.05; Figura 3.2a).

3.2.2. Gravità degli eventi traumatici subiti

Il confronto tra la gravità degli eventi traumatici subiti dal gruppo dei prosociali e dal

gruppo dei controlli non ha mostrato differenze statisticamente significative (p> 0.05;

Figura 3.2b).

Figura 3.2. Punteggi ottenuti al TEC nel gruppo dei controlli e nel gruppo dei

prosociali. a) Numero medio di eventi traumatici e b) Punteggio di gravità degli eventi traumatici. Le barre rappresentano la media ± DS.

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3.2.3. Supporto ricevuto in seguito a eventi traumatici

Il confronto tra il grado di supporto ricevuto in seguito a eventi traumatici dai controlli e

dai prosociali non ha mostrato differenze statisticamente significative (p> 0.05; Figura

3.3).

Figura 3.3. Grado di supporto ricevuto in seguito a eventi traumatici nel gruppo dei controlli e nel gruppo dei prosociali. Le barre rappresentano la media ± DS.

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3.3. Analisi di correlazione tra i punteggi ottenuti al questionario APS e quelli ottenuti al TEC

3.3.1. Correlazione tra punteggi APS e numero di eventi traumatici subiti

Nel campione globale (controlli + prosociali) è stata rilevata una correlazione positiva tra

i punteggi ottenuti al questionario APS e il numero degli eventi traumatici subiti (ρ di Sperman= 0.155, p= 0.027). In particolare, è stato osservato che tale correlazione era

presente solo nel campione dei prosociali (ρ di Sperman = 0.206, p= 0.034), ma non in quello dei controlli (ρ di Sperman = 0.178, p= 0.08). Tale correlazione, tuttavia, non sopravviveva alla correzione per confronti multipli di Bonferroni (p = 0.068).

3.3.2. Correlazione tra punteggi APS e gravità degli eventi traumatici subiti

Non è stata trovata alcuna correlazione statisticamente significativa tra i punteggi ottenuti

alla scala APS e la gravità degli eventi traumatici subiti (p> 0.05).

3.3.3. Correlazione tra punteggi APS e supporto ricevuto in seguito a eventi traumatici

Non è stata trovata alcuna correlazione statisticamente significativa tra i punteggi ottenuti

(36)

32

Discussione e Conclusioni

4.1 Discussione dei risultati

Il volontariato è un aspetto importante del comportamento prosociale poiché rappresenta un’attività a lungo termine e organizzata, volta a promuovere il benessere altrui.

Un tratto della personalità umana strettamente legato al volontariato è l’altruismo:

“Non ogni atto di volontariato è altruistico e non ogni atto altruistico si definisce volontariato”, ma il collegamento tra i due concetti è così forte che non si può parlare

dell’uno senza l’altro (Hoffman 1979). Gli studi condotti negli ultimi anni hanno dimostrato che il comportamento altruistico è influenzato da numerosi fattori quali istruzione, esperienze di vita, sesso e corredo genetico (Oliner, 2002; Smolenska e Reykowski, 1992; Carlo, Okun, Knight e de Guzman, 2005; Darlington 1978, Wilson e Kniffin 2003; Batson 1991; Oliner e Oliner 1988; Rushton et al., 1981).

Scopo di questa tesi, è stato selezionare un gruppo di soggetti che operano come volontari in associazioni ufficialmente riconosciute (vedi appendice A) e di un gruppo di soggetti di controllo, costituito da individui simili ai volontari per sesso, etnia, età e livello di istruzione, ma che non avevano mai svolto alcuna attività di volontariato. La tesi costituisce, infatti, la fase iniziale di un progetto di ricerca più ampio volto ad indagare il ruolo della genetica e dell’ambiente nel predisporre al comportamento prosociale.

Il primo obiettivo del lavoro di tesi è stato verificare che il gruppo dei volontari reclutato costituisse un campione valido per il successivo studio genetico, confrontando i livelli di altruismo di questi soggetti rispetto ai controlli. A tutti i soggetti è stato, perciò, chiesto di completare il questionario self-report APS (Altruistic Personality Scale).

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33

Dal confronto statistico dei punteggi ottenuti al questionario APS nei due gruppi di soggetti (prosociali e controlli) è emerso che, effettivamente, i prosociali da noi reclutati mostravano una maggiore tendenza ad essere altruisti rispetto ai controlli. Questa osservazione è in linea con l’ipotesi che altruismo e volontariato siano aspetti strettamente connessi (Hoffman, 1979). L’essere altruisti, infatti, è considerato uno dei motivi chiave per cui si sceglie di entrare a far parte di associazioni di volontariato. L’altruismo, inoltre, è stato correlato positivamente a numerosi altri fattori che motivano al volontariato stesso, come generosità e carità (Carpenter e Meyer, 2007). Il secondo obiettivo della tesi è stato valutare la presenza di differenze tra i due gruppi di soggetti, in relazione alle esperienze traumatiche subite nel corso della vita. A tal fine è stato somministrato ai partecipanti allo studio il reattivo psicometrico TEC (Traumatic Experience Checklist) per valutare il numero di esperienze traumatiche eventualmente subite, la loro gravità e il supporto emotivo ricevuto.

Nessuna differenza significativa è emersa tra i due gruppi rispetto al numero di traumi subiti. Tra i prosociali, però, coloro che avevano subito un numero maggiore di traumi mostravano punteggi più alti alla scala APS, mostrando una maggior tendenza all’altruismo. Il p value relativo a quest’ultima analisi (p= 0.034), tuttavia, non è sopravvissuto alla correzione per confronti multipli (x2) (p corretto Bonferroni= 0.068). Per verificare la validità di questo dato sarà, pertanto, necessario aumentare la potenza statistica del campione reclutando un maggior numero di soggetti.

Che la tendenza ad essere altruisti possa aumentare parallelamente al numero degli eventi traumatici subiti nel corso della propria vita, infatti, sarebbe in linea con il concetto introdotto da Vollhardt nel 2009 -“altruism born of suffering” - secondo il quale il comportamento altruistico può essere incentivato da esperienze traumatiche, nel tentativo di alleviare sensazioni negative legate ad una sofferenza personale (Vollhardt, 2009; Frazier et al., 2012; Frazier et al., 2013; Lin e Desteno, 2015). A tale proposito, alcuni autori sostengono che le esperienze traumatiche possano portare a provare maggiore empatia, che rappresenta di per sé un’ulteriore spinta al comportamento altruistico (Tedeschi, Calhoun e Lawrence, 2004). Tuttavia, quello osservato nel campione oggetto di studio di questa tesi è solo un trend di associazione, che necessita di essere confermato in un campione più ampio.

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Riguardo alla gravità delle esperienze traumatiche subite nel corso della vita, dati di letteratura mostrano che essa può essere correlata ad un incremento della tendenza ad aiutare il prossimo (Lin e Desteno, 2015). Anche ricevere sostegno sociale, in seguito ad esperienze traumatiche, sembra favorire il comportamento prosociale (Interamerican Journal of Psychology, 2012).

Tuttavia, nel campione da noi studiato, non è emersa alcuna differenza significativa tra i due gruppi, né riguardo alla gravità degli eventi traumatici subiti né in relazione al sostegno ricevuto. Ugualmente, nessuna correlazione significativa è emersa tra i livelli di altruismo e la gravità degli eventi traumatici, o il supporto ricevuto in seguito a tali eventi.

L’utilizzo delle scale PCL-R e HCR-20 ha permesso, infine, di escludere, in entrambi i gruppi, la presenza di caratteristiche di personalità, che potessero rappresentare fattori di confondimento, quali la pericolosità sociale, la psicopatia e il rischio di commettere atti violenti in futuro. Tutti questi fattori giocano, infatti, un ruolo importante nell’influenzare i comportamenti prosociali di natura controversa (Lawrence, Ferguson e Maltby, 2013).

4.2 Conclusioni e prospettive future

I risultati di questo lavoro di tesi, in particolare quelli relativi al maggior livello di altruismo dei volontari rispetto ai controlli, dimostrano che il campionamento dei soggetti è stato eseguito correttamente e che il gruppo dei volontari costituisce un campione valido per la successiva analisi genetica. Il progetto di ricerca, infatti, sarà volto a verificare l’ipotesi che alcune varianti genetiche, note in letteratura scientifica come fattori di rischio di comportamento violento e antisociale se in associazione con un ambiente di crescita particolarmente traumatico (Caspi et al, 2002; Iofrida et al, 2014; Cicchetti et al, 2012), siano in realtà degli alleli di plasticità cerebrale che predispongono al comportamento prosociale in presenza di un ambiente particolarmente positivo (Belsky et al, 2009; Simon et al, 2011).

I risultati sin qui ottenuti suggeriscono che l’aver subito traumi non rappresenta un fattore che di per sé predispone al volontariato, sebbene un trend è stato osservato tra

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numero di traumi subiti e altruismo nei prosociali e non nei controlli, la cui veridicità dovrà essere confermata studiando un numero maggiore di soggetti.

Il passo successivo sarà genotipizzare tutti i soggetti in relazione ad alcune varianti genetiche di rischio antisociale, allo scopo di verificare se esse siano in realtà degli alleli di plasticità, in grado di rendere i soggetti portatori più ricettivi agli eventi esterni, non solo negativi ma anche positivi.

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