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Valore prognostico della Componente Intraduttale (IDC-P) nel carcinoma prostatico in pazienti sottoposti a radioterapia post-operatoria: analisi retrospettiva dei pazienti trattati dal 2011 al 2016 con radioterapia volumetrica ad intensità modulata presso

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Facoltà di Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Specialistica in Radioterapia

Prof.ssa Fabiola Paiar

Tesi di Laurea Specialistica

Valore prognostico della Componente Intraduttale (IDC-P) nel carcinoma

prostatico in pazienti sottoposti a radioterapia post-operatoria: analisi

retrospettiva dei pazienti trattati dal 2011 al 2016 con radioterapia

volumetrica ad intensità modulata presso l'Università di Pisa

Relatore

Dott. Marco Panichi

Candidato

Dott. Ezio Lombardo

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INDICE

1. INTRODUZIONE 1

2. IL CARCINOMA PROSTATICO 2

2.1 ASPETTI EPIDEMIOLOGICI 2

2.2 ANATOMIA PATOLOGICA 4

2.2.1 IL CARCINOMA INTRADUTTALE (IDC-P) 6

2.3 TERAPIA DEL TUMORE PROSTATICO 8

2.3.1 Approcci Chirurgici 9

2.3.2 Radioterapia Esclusiva 9

2.3.3 Sorveglianza Attiva e Watchful waiting 10

2.3.4 Terapia Ormonale 11

2.3.5 Terapie di nuova generazione e chemioterapia 12

2.4 RADIOTERAPIA POST-OPERATORIA 13 3. MATERIALI E METODI 16 3.1 RADIOTERAPIA ADIUVANTE 17 3.2 RADIOTERAPIA DI SALVATAGGIO 18 4. RISULTATI 21 5. DISCUSSIONE 26 6. CONCLUSIONI 27 7. BIBLIOGRAFIA 28

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INTRODUZIONE

L’analisi della letteratura attuale evidenzia chiaramente come la presenza della componente intraduttale (IDC-P) nel contesto dell’adenocarcinoma prostatico infiltrante, identificata nei preparati di agobiopsia o nel pezzo operatorio dei soggetti sottoposti a prostatectomia, sia da considerarsi un fattore prognostico sfavorevole. Nonostante ciò ad oggi tale aspetto non riveste particolare importanza nella scelta del percorso terapeutico del paziente ed è per tale motivo che sono attualmente in corso numerosi studi volti a chiarire se il risconto di tale reperto sia da considerasi elemento sul quale definire un “tailored treatment”.

Alla luce di quanto sopra, l’obiettivo che il presente lavoro si è proposto è stato quello di effettuare una analisi retrospettiva di un piccolo campione di pazienti affetti da tumore prostatico sottoposti a chirurgia e successiva radioterapia adiuvante o di salvataggio per valutare se l’outcome di questi pazienti risente o meno della presenza della componente intraduttale nel controllo di malattia. La disponibilità di un numero limitato di dati anatomo-patologici specifici ha comportato la necessità di ridurre notevolmente il campione che pertanto non presenta un “potere statistico” sufficiente, tuttavia i dati emersi sembrano promettenti e lasciano ipotizzare che questo tipo di valutazione potrebbe rappresentare il punto di partenza per ulteriori protocolli di ricerca nei quali definire se questa classe di pazienti risulti meritevole di terapie aggiuntive rispetto a quanto canonicamente proposto fino ad oggi.

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Il CARCINOMA PROSTATICO

ASPETTI EPIDEMIOLOGICI

Il carcinoma prostatico rappresenta la neoplasia più frequente nel sesso maschile dove costituisce la terza causa di morte (8% del totale dei decessi oncologici). Ogni anno in Italia si registrano più di 36.000 nuovi casi e circa 7.000 decessi risultano ad esso correlati. Negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo aumento delle diagnosi ed attualmente si stima che la presenza di tumore prostatico, in forma latente, sia del 15-30% nei soggetti di oltre i 50 anni e di circa il 70% sopra gli 80 anni. La diffusione del dosaggio dell’antigene prostatico specifico (PSA) ha infatti modificato l’epidemiologia di questa neoplasia, determinando un aumento delle diagnosi con un incremento di forme clinicamente silenti e biologicamente meno aggressive. E’ per tale motivo che, in considerazione della diversa classe di rischio con la quale la malattia può presentarsi, pur trovandosi al primo posto per incidenza, il dato relativo alla mortalità risulta in costante moderata diminuzione (–1,8% per anno) da oltre un ventennio. La sopravvivenza si attesta oggi intorno al 91% a 5 anni dalla diagnosi ed appare in costante e sensibile crescita (1, 2, 3).

Nella fase iniziale il carcinoma della prostata è in genere asintomatico e per tale motivo la maggior parte delle diagnosi avviene con il dosaggio del PSA, l’esame digito-rettale ed il successivo mapping bioptico sotto guida ecografia che fornisce le informazioni biologiche necessarie per un corretto inquadramento. E’ solo in una fase avanzata che si assiste alla comparsa di sintomi, più frequentemente rappresentati da diminuzione della potenza del getto urinario, pollachiuria, ematuria, disuria e dolore perineale. La presenza di lesioni a distanza trova più frequentemente un corrispettivo clinico nella comparsa di dolore osseo sostenuto da lesioni scheletriche secondarie.

Nonostante il ruolo cardine nella diagnosi di carcinoma prostatico del dosaggio del PSA non dobbiamo tuttavia dimenticare che una corretta interpretazione di tale dato risulta essenziale anche per la scelta delle forme meritevoli di un trattamento attivo; in relazione alla natura indolente ed al lento accrescimento di molti tumori, una terapia specifica infatti non sempre è indicata in quanto porta con se un rischio di “over-treatment” ed un’esposizione ad effetti collaterali non giustificati. A tale riguardo due importati trials randomizzati per lo screening del carcinoma della prostata con PSA sono

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stati recentemente pubblicati. Il primo di essi è rappresentato dallo studio Nord-Americano (PLCO) che non ha evidenziato alcun beneficio sulla mortalità cancro specifica (4); diverse sono le conclusioni invece dello studio europeo (ERSPC) (5) che documenta una riduzione del 20% del rischio di morte per carcinoma della prostata tra gli uomini invitati a sottoporsi allo screening, anche se a prezzo di un’eccessiva sovra-diagnosi. Quest’ultimo risultato è stato confermato da una recente revisione (6) che riferisce le differenze osservate tra i due trials ad una diversa metodologia di esecuzione degli studi. Le conoscenze attuali rimangono comunque insufficienti per raccomandare l’impiego dello screening del PSA nella pratica clinica quotidiana.

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ANATOMIA PATOLOGICA

CLASSIFICAZIONE ISTOLOGICA DEL TUMORE PROSTATICO

Nonostante che la maggioranza delle neoplasie prostatiche sia rappresentata dall’Adenocarcinoma acinare, analogamente ad altri distretti anche nell’ambito della ghiandola prostatica è possibile rilevare varianti istologiche più rare che talvolta necessitano di approcci terapeutici differenti. La classificazione di riferimento per individuare gli istotipi più comunemente utilizzata è quella indicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) nel 2016 e riportata nella tabella sottostante (tabella 1).

Tabella 1: Classificazione Istologica WHO 2016 delle Neoplasie Prostatiche.

Ghiandolari Squamose Neuroendocrine A cellule transizionali

Mesenchimali

Adenocarcinoma acinare Squamoso Adenoca con differenziazione Neuroendocrina Atrofico Adenosquamoso

Pseduoiperplastico

Microcistico Tumore neuroendocrino ben differenziato A cellule schiumose

Mucinoso (colloide) Ca neuroendocrino a piccole cellule A cellule ad anello con castone

Pleomorfo a cellule giganti

Sarcomatoide Ca neuroendocrino a grandi cellule PIN alto grado

Carcinoma intraduttale Carcinoma duttale

(cribriforme, papillare, solido)

La stadiazione TNM deve essere applicata solo agli istotipi ghiandolari e squamosi

Solo nell’ultima revisione del 2016, rispetto alle precedenti classificazioni, viene introdotta una nuova entità costituita dal Carcinoma Intraduttale, definita come proliferazione epiteliale neoplastica intra-acinare/intra-tubulare” con gli stessi aspetti della neoplasia prostatica intraepiteliale di alto grado (HG-PIN) ma che mostra una atipia citologica/architetturale maggiore e tipicamente associata all’adenocarcinoma di alto grado e di alto stadio. Tale aspetto rappresenterebbe l’evento ultimo dell’evoluzione del carcinoma della prostata di alto grado che dalla sola componente intraduttale andrebbe interessando progressivamente dotti ed acini. Per tale motivo la diagnosi differenziale con la HG-PIN appare molto importante e a tale scopo risulta essere d’aiuto l’utilizzo di indagini immunoistochimiche volte a valutare l’espressione

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dei geni PTEN ed ERG. La presenza del solo gene ERG risulta infatti caratteristica del carcinoma intraduttale, mentre la mancanza di PTEN è rara nell’ HG-PIN e anche l’espressione di ERG non è comune. E’ importante ricordare che al carcinoma intraduttale non deve essere assegnato un grado di Gleason. Relativamente a quest’ultimo non va tuttavia dimenticato che la recente revisione ISUP 2016 ha in parte modificato anche i criteri classificativi del gleason score permettendo di riqualificare alcuni Gleason Score 7 come Gleason Score 6 o 8 e identificare con maggiore precisione pazienti meritevoli di sorveglianza attiva/vigile attesa o di trattamento con finalità radicale (figura 1,2).

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IL CARCINOMA INTRADUTTALE

Il carcinoma intraduttale della prostata (IDC-P) è definito come una proliferazione di cellule ghiandolari prostatiche atipiche che si allontanano e attraversano il lume di dotti ed acini preesistenti, con almeno la conservazione focale delle cellule basali. Raramente può presentarsi in forma isolata, ma nella maggior parte dei casi risulta essere associato all’Adenocarcinoma prostatico tipico con una componente variabile diffusa. Gli studi disponibili in letteratura dimostrano che l'IDC-P è fortemente associato a tumori prostatici invasivi, di grande volume, di alto grado istologico (Gleason 4/5), presenza di margini di resezione positivi; analogamente recenti studi genetici indicano che l’IDC-P rappresenta la diffusione intraduttale di un carcinoma invasivo piuttosto che di una lesione preneoplastica (56,58)

Alcuni dei modelli architettonici di IDC-P presentano una sovrapposizione con le neoplasie intraepiteliali prostatiche di alto grado (HGPIN). In questi casi, i criteri diagnostici che permettono di distinguere IDC-P sono: il pleomorfismo nucleare marcato, la comedonecrosi, la presenza di dotti ed acini normalmente distinti, la colorazione nucleare positiva per ERG e la perdita citoplasmatica di PTEN mediante immunoistochimica. Questa distinzione tra IDC-P e HGPIN è di importanza fondamentale perché l'IDC-P ha un'associazione quasi costante con il carcinoma invasivo e presenta implicazioni cliniche negative, tra cui una più breve sopravvivenza, una ricaduta biochimica precoce ed un tasso di insuccesso metastatico dopo la radioterapia (57). In considerazione di ciò risulterebbe pertanto sempre indicato ricercare l’IDC-P nelle biopsie prostatiche e nei campioni di prostatectomie radicali, indipendentemente dalla presenza di una componente invasiva. Analogamente la decisione di procedere con un trattamento definitivo o una rebiopsia immediata in caso di riscontro di IDC-P dovrebbe essere pesata in un contesto multidisciplinare su base individuale. In passato, il carcinoma intraduttale della prostata è stato considerato come un'entità controversa, tuttavia una moltitudine di studi nel corso degli anni hanno chiarito la sua definizione e il suo significato clinico. Uno di essi in particolare ha esaminato il significato prognostico di IDC-P nelle biopsie e nelle prostatectomie radicali dei pazienti prima di una radioterapia da sola o associata ad ormonoterapia. L’analisi ha confermato che l’IDC-P è un fattore prognostico fortemente correlato con la ripresa biochimica precoce (<36 mesi) nonché con il tasso di insuccesso metastatico.

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Nonostante quanto sopra la recente letteratura riporta una incidenza di IDC-P piuttosto bassa; uno studio prospettico di 1176 mapping bioptici ha rilevato un tasso di circa il 2.8%. Non va tuttavia dimenticato che i dati di tali pubblicazioni si riferiscono al “modus operandi” di alcuni anni fa, quando la ricerca della componente intraduttale non rappresentava la routine clinica.

Fig.3 (A-E) Representative IDC-P morphologies characterized by solid (with or without comedonecrosis), dense cribriform, or loose cribriform patterns (with comedonecrosis) (H&E, 200×); (F-J) corresponding figures of IHC with the P63/CK34β12/AMACR cocktail for each case shown in A-E, respectively, demonstrating preservation of basal cells in IDC-P. The basal cells are stained either in red or brown, depending on the kit used. (Courtesy of Chinese Journal of Cancer Research)

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TERAPIA DEL TUMORE PROSTATICO

La scelta di un corretto approccio terapeutico del paziente affetto da carcinoma prostatico non può prescindere dalla identificazione dello stadio e dell’aggressività della malattia in esame. La letteratura riporta chiara evidenza che la prognosi del carcinoma prostatico risulta direttamente correlata a fattori come il valore assoluto del PSA, il Gleason Score e dallo stadio di malattia. Per tale motivo nel corso degli anni sono state introdotte nella pratica clinica classificazioni che tengano conto di tali parametri permettendo di identificare la modalità di approccio più idonea al singolo paziente. La stratificazione in classi di rischio sviluppata da D'Amico nel 1998 rappresenta una delle tappe fondamentali in tal senso e ad oggi continua ad essere di primaria importanza per inquadrare un paziente con una nuova diagnosi di carcinoma prostatico non metastatico. Basata sulla valutazione di alcuni parametri (stadio del T, Gleason Score e PSA) identifica tre classi di rischio clinico alle quali corrispondono differenti modalità di cura (7). Appartengono alla classe a basso rischio quei pazienti con Gleason Score ≤ 6, PSA ≤10ng/ml e malattia limitata a meno della metà di un lobo prostatico (T2a). Rientrano in una classe di rischio intermedio invece i pazienti con uno o più dei seguenti parametri: Gleason Score 7; PSA compreso tra 10 ng/ml e 20 ng/ml; malattia estesa a più della metà di un lobo, ma senza superare la capsula prostatica (T2b,T2c). Qualora la malattia superi la capsula prostatica (T3a) oppure sia dimostrato un GS >7 od un PSA >20ng/ml, il paziente è ascrivibile alla classe ad alto rischio. Recentemente tale classificazione è stata aggiornata ed i pazienti con stadio T3b/T4 o GS con pattern primario 5 vengono classificati separatamente come in classe a rischio molto elevato. Non va tuttavia dimenticato che nonostante tale tipo d’inquadramento costituisca la base di una corretta scelta terapeutica, un’adeguata valutazione dell'aspettativa di vita del paziente resta un elemento imprescindibile.

Ad oggi sulla base dei livelli d’evidenza gli approcci al paziente affetto da carcinoma prostatico sono rappresentati da chirurgia e radioterapia. In casi selezionati la sorveglianza attiva/vigile attesa o la terapia ormonale costituiscono adeguata valida alternativa.

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Approcci Chirurgici

Esistono tre approcci chirurgici principali: la prostatectomia radicale retropubica (si tratta del tradizionale approccio chirurgico “open”) e due approcci mini-invasivi, la prostatectomia radicale laparoscopica e la prostatectomia laparoscopica robot-assistita. Le moderne applicazioni sia della procedura “open” sia delle mininvasive prevedono l’utilizzo delle tecniche “nerve-sparing”, nel tentativo di preservare la funzione erettile. L’impiego delle procedure laparoscopiche e, soprattutto, di quelle robot-assistite, ha subito un incremento drammatico negli ultimi anni: con tali metodiche si può infatti ottenere un minor sanguinamento durante la procedura, con tempi minori d’ospedalizzazione e quindi di recupero rispetto alla prostatectomia tradizionale (8). Il ruolo della linfoadenectomia è ancora discusso; sicuramente dovrebbe essere considerata nel sottogruppo di pazienti candidati ad un trattamento chirurgico che, in base a determinati parametri (PSA, GS, stadio clinico), siano considerati a rischio intermedio o alto. Pertanto in un paziente con PSA <10, GS <6, malattia intracapsulare (T2), non è indicata la linfoadenectomia visto il bassissimo rischio di metastasi linfonodali; è per tale motivo che tali pazienti costituiscono i candidati ideali per l’approccio mininvasivo che permette solo in alcuni casi la rimozione di un numero significativo di linfonodi. Nel caso invece di pazienti a rischio intermedio o alto la linfoadenectomia permette di individuare soggetti con interessamento linfonodali e pertanto candidabili a terapie adiuvanti. Secondo alcuni autori la linfoadenectomia estesa, nonostante il rischio superiore di complicanze, sarebbe da preferire in quanto in grado di studiare in maniera più accurata il paziente e sembra potenzialmente in grado anche di migliorare la sopravvivenza (18).

Radioterapia esclusiva

La radioterapia a fasci esterni (EBRT) è da tempo uno dei trattamenti cardine per il tumore prostatico localizzato e costituisce la terapia di prima scelta per circa il 25% dei pazienti (9). L’EBRT non essendo invasiva e non prevedendo i comuni rischi di tipo chirurgico può essere proposta ai pazienti che per età, condizioni generali o comorbidità non siano in grado di sottoporsi ad una prostatectomia senza gravi rischi. Nei casi con malattia localizzata candidabili sia ad intervento chirurgico che a trattamento

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radioterapico è buona regola generale, ormai accettata in tutti i centri, che i pazienti vengano adeguatamente informati sui “pro” e sui “contro” relativi alle varie opzioni terapeutiche e che la scelta del trattamento sia effettuata in accordo con il gruppo multidisciplinare specialistico. I risultati clinici di chirurgia e radioterapia relativi al periodo libero da ricaduta biochimica, in studi monoistituzionali retrospettivi, sono del tutto analoghi tra loro e pari al 70-82% a 5 anni (10,11). Attualmente le modalità disponibili prevedono, sulla base della classe di rischio, oltre che un trattamento con fasci esterni anche l’impiego di radioisotopi mediante tecniche di brachi-curieterapia ad alto o basso rateo di dose. Paziente con classe di rischio alta o molto alta possono inoltre trovare vantaggio dalla associazione delle due metodiche che grazie alle specifiche fisiche che le caratterizzano permettono di erogare dosi molto elevate garantendo una possibilità di controllo loco-regionale superiore rispetto ai singoli approcci.

Sorveglianza attiva e Watchful Waiting

La sorveglianza attiva rappresenta una modalità di monitoraggio clinico del tumore della prostata che ha l’obiettivo di evitare un trattamento non necessario in uomini con tumori poco aggressivi. Il tumore della prostata spesso progredisce lentamente e, per molti uomini, potrebbe non progredire mai né provocare sintomi. Attraverso la sorveglianza attiva è possibile pertanto evitare o ritardare gli effetti collaterali di un trattamento chirurgico o radiante. Nella pratica tale approccio consiste nel monitorare il tumore ripetendo regolarmente alcuni esami, piuttosto che trattarlo da subito. Lo scopo degli esami è di individuare eventuali cambiamenti che ne segnalino la progressione. Qualora emergessero sostanziali cambiamenti sarebbe quindi possibile trattare il tumore in una fase precoce, con terapie in grado di curarlo in maniera definitiva. Lo schema di monitoraggio clinico può variare da centro a centro, ma gli esami che si eseguono sono per tutti: PSA (ripetuto ogni 3-6 mesi), esplorazione rettale, (ogni 3-6 mesi per i primi 2 anni), biopsie prostatiche con intervalli variabili (1-2 anni). In alcuni casi si esegue la cosiddetta biopsia di saturazione, che consiste in prelievi più numerosi rispetto alla biopsia standard, anche fino a 30. La biopsia di saturazione ha maggiori probabilità di trovare cellule tumorali perché maggiormente rappresentativa di tutte le aree della prostata. La sorveglianza attiva trova indicazione in uomini con tumore della prostata a basso rischio e basso stadio, cioè confinato alla ghiandola prostatica (chiamato tumore prostatico localizzato) ed aspettativa di vita di almeno 10 anni. Nei casi di tumori a

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rischio intermedio e alto la sorveglianza attiva non è mai indicata. Vengono di solito considerati anche il numero di prelievi bioptici contenenti cellule tumorali (devono essere 1 o al massimo 2) e la percentuale di cellule tumorali presenti in ogni singolo prelievo (deve essere inferiore al 50% del prelievo). Gli studi hanno mostrato che tra i pazienti in sorveglianza attiva una percentuale che varia tra il 14% e il 41% con il passare del tempo viene sottoposta a trattamento, sia in seguito ai risultati degli esami sia perché alcuni uomini manifestano preoccupazione e preferiscono una terapia attiva. L’avvento delle nuove modalità di classificazione del Gleason Score ha permesso una più accurata selezione dei pazienti candidati a sorveglianza attiva ed è pertanto raccomandabile che la stratificazione in classi di rischio venga sempre effettuata secondo tali specifiche.

Pazienti con malattia a basso rischio, aspettativa di vita inferiore ai 10 anni o con controindicazioni ad una qualunque approccio terapeutico medico o chirurgico costituiscono invece i candidati alla vigile attesa (watchful waiting) il cui unico obiettivo è trattare il tumore se dà origine a sintomi o problemi clinici. Il trattamento ha l’obiettivo di controllare il tumore piuttosto che curarlo definitivamente e per tale motivo gli esami di controllo sono meno invasivi e vengono eseguiti con minore frequenza rispetto alla sorveglianza attiva.

Terapia Ormonale

La terapia ormonale (OT), oltre ad essere impiegata frequentemente in associazione alle metodiche di chirurgia e radioterapia (intento neoadiuvante, concomitante o adiuvante), rappresenta in una piccola percentuale di pazienti l’unico approccio proponibile. La soppressione della produzione degli androgeni viene attuata attraverso inibizione della sintesi o del rilascio di gonadotropine ipofisarie (utilizzando analoghi LHRH) e antiandrogeni non-steroidei. Il blocco androgenico totale può essere ottenuto attraverso un trattamento di combinazione con agonisti dell’LHRH e anti-androgeni non steroidei. Non va tuttavia dimenticato che tale tipo di approccio non può essere considerato alla stregua di un trattamento curativo. La presenza di cloni ormono resistenti costituisce infatti la principale causa di fallimento della OT dopo un periodo medio di terapia che si aggira intorno ai 2 anni.

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Terapie di nuova generazione e chemioterapia

Abiraterone acetato ed Enzalutamide costituiscono molecole di recente impiego nella pratica clinica che sono normalmente impiegate in pazienti non candidabili a terapie locali ed in stato di documentata ormonoresistenza. Entrambe offrono un buon controllo clinico di malattia e permettono di ritardare l’impiego di farmaci antiblastici che in questo setting di pazienti talora possono, per età e condizioni generali, gravare in modo significativo sulla qualità di vita. Recentemente sono stati presentati dati di associazione tra radioterapia, ormonoterapia ed Abiraterone acetato in pazienti in classe ad alto rischio (Studio STAMPEDE) e di sola ormonoterapia e Abiraterone acetato (Studio LATITUDE) dove viene riportato un controllo di malattia del 20-35% circa superiore rispetto alla sola radio-ormonoterapia o ormonoterapia.

Docetaxel e Cabazitaxel costituiscono invece i due chemioterapici dotati della maggiore efficacia per la malattia in fase avanzata.

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RADIOTERAPIA POST-OPERATORIA

Nei pazienti sottoposti a chirurgia radicale, indipendentemente dal tipo d’intervento effettuato, il controllo locale di malattia è generalmente ottimale. Nei pazienti con residuo microscopico di malattia (R1) e/o con malattia extraprostatica tuttavia si può arrivare ad osservare un tasso di recidiva del 15-40%. I fattori di rischio che maggiormente correlano con la recidiva locale dopo chirurgia sono costituiti dallo stadio patologico (≥T3 ovvero extracapsularità di malattia), dal Gleason Score (8-10), dal PSA iniziale e da quello a 30 giorni dall'intervento ma soprattutto dalla presenza di una positività dei margini di resezione (R1). Altri fattori di rischio "minori" sono: età > 50 anni; razza nera; invasione perineurale; volume tumorale > 25% della ghiandola; PSA density (PSA/volume ghiandolare) > 0.7 ng/ml/cc; numero e percentuale d’interessamento dei frustoli positivi alla biopsia preoperatoria; densità microvascolare e ploidia. Pazienti che presentano un significativo rischio di recidiva/persistenza secondo quanto sopra riportato sono pertanto candidabili ad una radioterapia post-operatoria adiuvante o di salvataggio (21). La definizione di radioterapia adiuvante, associata o meno a deprivazione androgenica, fa riferimento ad un trattamento radioterapico effettuato a scopo profilattico entro 6 mesi dall'intervento chirurgico in assenza di documentata malattia. Con il termine di radioterapia di salvataggio è consuetudine invece indicare un trattamento prescritto a seguito di una ripresa/persistenza di malattia documentata con il dosaggio del PSA (riscontro di almeno due valori consecutivi di PSA totale > 0.2ng/ml eseguiti a distanza di almeno 15 giorni l’uno dall’altro) e/o con indagini strumentali (RM multiparametrica, PET-colina, PET-68Ga-PSMA).

I volumi e le schedule di trattamento che la letteratura riporta sono variabili, tuttavia allo stato attuale le linee guida americane (21) suggeriscono di limitare il trattamento alla sola loggia prostatica nei casi di malattia a rischio basso-intermedio. In caso di rischio elevato di coinvolgimento linfonodale, soprattutto in assenza di una documentata adeguata linfoadenectomia, o di riscontro di linfonodi metastatici all’esame istologico viene suggerita anche l’irradiazione dei drenaggi pelvici. Quest’ultimo concetto tuttavia ad oggi rappresenta terreno di acceso dibattito in quanto non esistono studi randomizzati che riportino un vantaggio significativo nel controllo locale o nella sopravvivenza cancro specifica. Gli unici dati disponibili si riferiscono a trattamenti ormai datati dal

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punto di vista di tecnica e dosi e sembrano riportare solo un trend verso un miglior controllo biochimico (38, 50). Grazie alla scarsa tossicità attesa con le metodiche di radioterapia attuali questo ultimo concetto costituisce comunque elemento sufficiente per suggerire un’irradiazione linfonodale in questi pazienti, trattamento che rimane comunque da effettuare in associazione alla terapia ormonale come suggerito dallo studio di Bollà. Vista l’impossibilità di erogare dosi elevate per la presenza di organi sani limitrofi, l’impiego della terapia medica sarebbe infatti in grado di potenziare l’effetto delle radiazioni incrementando il processo apoptotico.

Nonostante le indicazioni ad un trattamento postoperatorio siano state validate da studi prospettici la tempistica ideale del trattamento radiante postoperatorio è ancora oggetto di studio: non vi sono evidenze sufficienti per chiarire se nei pazienti con rischio di ripresa di malattia locale elevato sia da preferire un trattamento adiuvante (ART) con tutti i relativi effetti collaterali o se convenga monitorare strettamente il quadro (“Wait and See”, WS) riservandosi di intervenire con una radioterapia di salvataggio (SRT) a dimostrazione di ripresa di malattia.

In letteratura vi sono 3 studi randomizzati di fase 3 (13, 14, 15) che confrontano la ART con WS e molti studi retrospettivi che comparano ART vs SRT. Ad oggi non vi sono dati di studi randomizzati che confrontino ART vs SRT.

Lo studio EORTC 22911 di Bollà et al. ha valutato 1005 pazienti sottoposti a chirurgia radicale, in stadio pT2pN0 e pT3a-b pN0 ± R1. I pazienti nel braccio WS erano 486, mentre nel braccio ART erano 482. Il braccio ART si è dimostrato superiore nel controllo biochimico di malattia a 5 e 10 anni e nel controllo locale a 5 anni. Non sono state rilevate differenze significative nel controllo locale a 10 anni, nella sopravvivenza globale e nella sopravvivenza libera da metastasi. Stratificando l'analisi in base alla presenza di margini positivi (R1) ed all'età dei pazienti, gli autori concludono che la presenza di margini positivi è il più importante fattore prognostico per la comparsa di recidiva biochimica, nei pazienti con margini negativi (R0) la radioterapia deve probabilmente essere rimandata sino all'aumento del PSA; nei pazienti R1 la ART incrementa in modo significativo la sopravvivenza libera da ripresa biochimica e può migliorare la sopravvivenza libera da recidiva clinica dei pazienti con meno di 70 anni (13). Lo studio SWOG 8794 ha arruolato pazienti in stadio pT3a-b pN0 ±R1 e confrontato 211 pazienti sottoposti a WS e 214 che hanno effettuato ART. I risultati di questo studio sono stati a favore della ART in termini di sopravvivenza libera da

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progressione biochimica e clinica, locale e a distanza ed anche in termini di sopravvivenza globale a 10 anni. Questo studio ha inoltre evidenziato l'impatto del PSA al momento del trattamento radiante sulla sopravvivenza libera da metastasi a 10 anni, evidenziando come pazienti trattati con PSA <0.2ng/ml abbiano una minor probabilità di sviluppare lesioni secondarie (14).

Nello studio ARO sono stati analizzati 268 pazienti in stadio pT2pN0 r1, pT3-4, PSA <0.2ng/ml; di questi 114 hanno effettuato WS e 114 sono stati sottoposti ad ART. L’analisi ha confermato la presenza di un maggior beneficio della ART nei pazienti con r1, aggiungendo inoltre il dato di un beneficio del trattamento adiuvante anche nei pazienti r0 con malattia extracapsulare (15).

Nonostante che ancora non disponiamo di dati sufficienti per chiarire quale dei due approcci sia da preferire, non sembra esserci alcun dubbio che una SRT eseguita con bassi valori di PSA garantisca un miglior risultato in termini di controllo locale. Sebbene la definizione di recidiva biochimica di malattia sia soddisfatta quando il PSA raggiunge valori ≥ 0.2ng/ml, molti autori concordano sull'importanza di effettuare il trattamento con valori di PSA inferiori, ovvero al primo riscontro di un incremento significativo in 2 prelievi successivi (16, 17). Questo potrebbe portare con se un overtreatment di quei pazienti nei quali esiste un residuo ghiandolare sano non identificabile per le esigue dimensioni e responsabile del lieve incremento del marcatore.

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MATERIALI E METODI

Dal Giugno 2011 al Febbraio 2016, 230 pazienti affetti da Carcinoma prostatico sono stati sottoposti, presso l’Unità Operativa di Radioterapia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, a trattamento radioterapico post-operatorio con intento adiuvante o di salvataggio. Dell’intera casistica 24 casi sono stati sottoposti a revisione anatomo-patologica per verificare la presenza della Componente Intraduttale. L'età media del campione in esame al momento della diagnosi era di 63,5 anni (range 49-76); il valore medio del PSA iniziale risultava essere 10,48 ng/ml (range 3,19-24 ng/ml). Una analisi dei dati relativi al mapping bioptico iniziale dimostrava che il numero medio di prelievi totali effettuati era 10 (range 8-12) con un numero medio di campioni positivi di 3.5 (range 1-11). In 8 pazienti è stata riscontrata malattia bilaterale; il Gleason Score più frequentemente rappresentato era 3+3, presente nel 55% dei soggetti.

Sulla base dei parametri sopra riportati, in accordo con la definizione di classi di rischio secondo D’Amico, la stratificazione del campione complessivo risultava la seguente: 10 pazienti appartenevano alla classe a basso rischio, 11 erano ascrivibili alla classe a rischio intermedio, i restanti 3 pazienti presentavano invece caratteristiche riconducibili ad una classe di rischio elevata. Successivamente la nuova stratificazione della classe di rischio basata sull’esame anatomo-patologico post-operatorio ha confermato in 10 pazienti la classe di rischio bassa, in 7 la classe di rischio intermedia, ed in 5 la classe di rischio elevata. L’analisi istologica definitiva ha individuato nel 50% del campione (12 pazienti) la presenza della Componente Intraduttale associata in maniera diffusa all’Adenocarcinoma infiltrante. L’extracapsularità di malattia era presente in 6 pazienti e di questi solo uno presentava la componente intraduttale.

La tecnica chirurgica utilizzata è stata di tipo tradizionale “open" per 8 pazienti, mentre per gli altri 16 è stata effettuata una prostatectomia laparoscopica robot-assistita. La presenza di almeno un margine di resezione positivo è stata riscontrata in 15 pazienti (10 con presenza di componente intraduttale).

In relazione al dato anatomo-patologico ed al valore del PSA dopo l’intervento chirurgico ciascun paziente è stato avviato ad un trattamento radioterapico con intento adiuvante o di salvataggio, se il valore del PSA a 30 giorni dalla chirurgia risultava ≥0.2 ng/ml. In entrambi i casi, la radioterapia è stata effettuata mediante acceleratore

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lineare con Fotoni X ad energia 6 MeV (piattaforma TRUE BEAM STx o Varian DHX) e tecnica volumetrica ad intensità modulata (VMAT). La pianificazione del piano di cura in ciascun trattamento radioterapico è stata condotta impiegando il TPS (Treatment Planning System) Varian Eclipse, (rispettivamente versione 10.6 e 8.6) con algoritmo di calcolo AAA. Solo piani con conformity index (CI) compreso tra 0.95 ed 1.1 sono stati ritenuti idonei. Il trattamento ha previsto l'utilizzo di un solo arco di rotazione del gantry di 360 gradi in 9 pazienti, mentre nei restanti 15 sono stati utilizzati due archi completi. Il volume target risultava essere la sola loggia prostatica in 20 pazienti, in 3 casi la loggia prostatica ed i drenaggi linfonodali sono stati bersaglio di un trattamento adiuvante, mentre 1 paziente ha ricevuto radioterapia di salvataggio su loggia prostatica e linfonodi pelvici con sovradosaggio su una adenopatia documentata all’esame PET Colina. Prima dell’erogazione ciascun piano di cura è stato sottoposto a controllo di qualità eseguito con sistema di verifica “Arc-check 4D” e “Map-Check 2D”; il piano di trattamento è stato ritenuto valido per l’erogazione quando l’indice gamma era di almeno il 90% .

RADIOTERAPIA ADIUVANTE

Nove dei 24 pazienti sottoposti ad analisi al momento della chirurgia (37.5%) presentavano caratteristiche anatomo-patologiche tali da rendere indicato un trattamento con intento adiuvante; in particolare requisito essenziale per la prescrizione del trattamento è stata la positività di uno o più margini di resezione chirurgica in presenza di un valore di PSA postoperatorio azzerato. Di questo gruppo 6 pazienti presentavano solo tale fattore di rischio, 1 soggetto presentava malattia extracapsulare associata ad uno stadio R1, mentre in 3 pazienti l’esame anatomo-patologico documentava solo uno sconfinamento della neoplasia nei tessuti extraprostatici, La ricerca della componente intraduttale ha dato esito positivo in 5 casi (55.5%). Il tempo medio intercorso tra la chirurgia e la radioterapia è stato di 4.8 mesi (range 2.5 - 6.2). Il volume bersaglio era rappresentato nella totalità dei casi dalla sola loggia prostatica. La schedula radioterapica impiegata in regime moderatamente ipofrazionato ha previsto l’erogazione di 63 Gy in 28 frazioni da 2.25 Gy (EQD2= 68.5Gy). In tutti i casi la radioterapia è stata portata a termine senza interruzioni imputabili a tossicità attinica. Quest’ultima è

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risultata essere la seguente: G1-G2 genito-urinaria 35%, G1-G2 gastro-intestinale 32%. Non sono stati documentati episodi di tossicità di grado 3 o superiore.

RADIOTERAPIA DI SALVATAGGIO

Il trattamento radioterapico di salvataggio è stato effettuato in 15 pazienti (62.5%). Dell’intero gruppo 12 soggetti presentavano uno stadio patologico di malattia intracapsulare al momento della chirurgia, mentre nei restanti 3 la malattia sconfinava oltre la ghiandola. La totalità dei pazienti è stata avviata al trattamento di salvataggio dopo un intervallo medio di30 mesi dall’intervento; nessun paziente è stato trattato per persistenza di valori postchirurgici elevati di PSA. Una revisione del dato anatomo-patologico ha evidenziato che in 8 casi esistevano elementi sufficienti per proporre un trattamento adiuvante postoperatorio immediato che tuttavia non è mai stato effettuato (5 pazienti con margini positivi R1, 3 pazienti con stadio ≥pT3a, pN0-1). La ricerca della componente intraduttale nell’analisi istologica post-operatoria ha dato esito positivo in 7 pazienti (46%). La ripresa di malattia è stata di tipo biochimico in 10 pazienti (66.6%) e di tipo clinico (RMN/PET positiva) in 5 casi (33.3%). Il PSA medio al momento del trattamento radiante è risultato essere 1.11 ng/ml (range 0.22 ng/ml -7.85 ng/ml). In 11 pazienti il volume target è stata la sola loggia prostatica, 4 pazienti sono stati invece irradiati anche sui drenaggi linfatici pelvici; in uno di questi ultimi il trattamento ha previsto anche un sovradosaggio con tecnica SIB (Simultaneous Integrated Boost) su una lesione linfonodale ripetitiva rilevata alla PET colina. Un frazionamento di tipo convenzionale con frazioni da 2 Gy è stato utilizzato in 4 pazienti (16.6%) raggiungendo in 2 casi la dose totale di 72 Gy (13.3%) e nei restanti 2 la dose di 74 Gy (13.3%). In 11 pazienti (73.4%) è stato utilizzato un regime di moderato ipofrazionamento: 28 frazioni da 2.25 Gy (DT 63 Gy, in 10 pazienti) o da 2.30 Gy (DT 64.4 Gy, in un solo paziente). Nei 4 pazienti trattati anche sui drenaggi linfonodali la schedula di somministrazione ha previsto l’erogazione di una dose complessiva di 50.4Gy in frazioni da 180cGy erogati con tecnica SIB nei regimi di ipofrazionamento moderato. La dose raggiunta con tecnica SIB sulla sede positiva per malattia alla PET colina per il singolo paziente con metastasi linfonodale unica è stata di 65.8 Gy con frazioni di 2.35 Gy. La terapia ormonale è stata somministrata in concomitanza al

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trattamento radiante in 5 pazienti ed in tutti i 5 casi la somministrazione è stata iniziata prima della terapia radiante.

Relativamente alla tossicità attinica, anche in questo gruppo non è stata osservata tossicità di grado 3-4 , mentre le tossicità G1-G2 genito-urinaria e gastro-intestinale sono risultate essere rispettivamente il 33% ed il 30%.

Dose per Frazione Dose Totale (28frazioni) EQD2

2.25 Gy 63.0 Gy 68.5 Gy

2.30 Gy 64.4 Gy 70.0 Gy

2.35 Gy 65.8 Gy 72.5 Gy

Tabella 2. Schemi di ipofrazionamento moderato utilizzati.

Fig.4. Immagini di un piano di trattamento sulla loggia prostatica con tecnica VMAT e relativo

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Ad un follow-up medio di 28.3 mesi (range 5-67) eseguito con controlli trimestrali del PSA il risultato clinico dei 24 pazienti sottoposti a trattamento radioterapico post-operatorio adiuvante o di salvataggio è stato quello di seguito riportato:

Undici pazienti (45,8%) con nessuna evidenza di malattia (2 con presenza di IDC-P), cinque pazienti (20.8%) in risposta ma con un follow-up troppo precoce (3 con presenza di IDC-P), otto pazienti (33,3%) con ripresa biochimica di malattia (PSA ≥ 0.20 ng/ml) tutti portatori della componente intraduttale eccetto uno.

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RISULTATI

Al fine di poter valorare con una certezza superiore un’analisi statistica condotta su un campione di pazienti così piccolo, in primo luogo la nostra attenzione è stata rivolta alla valutazione di alcuni dati ormai considerati certi negli studi pubblicati in letteratura. Abbiamo quindi cercato di confermare come la stadiazione clinica condotta con le comuni metodiche di staging in uso solitamente sottostima l’entità della malattia. In particolare, significativamente più alto risulta essere il numero di pazienti con malattia extracapsulare, potenziali candidati ad un trattamento adiuvante, all’esame anatomo-patologico. Altresì, i nostri dati confermano che il numero di prelievi postivi e la percentuale di interessamento di ciascun prelievo sono fattori predittivi per l’extracapsularità. Non sembra invece che il valore del PSA iniziale influenzi lo stadio di malattia, verosimilmente per la coesistenza di una ipertrofia prostatica, almeno in parte responsabile della elevazione del marcatore. La concordanza di Gleason Score bioptico e anatomo-patologico è risultata del 54%, valore compatibile con quanto riportato in letteratura. Sulla scorta di quanto sopra abbiamo potuto confermare che nonostante il numero limitato di casi in esame, i nostri dati appaiono in linea con la letteratura e ci siamo pertanto indirizzati verso un analisi volta a valutare l’influenza della Componente Intraduttale (assenza o presenza) su alcuni fattori clinici quantitativi e categoriali. La normalità della distribuzione dei dati quantitativi è stata valutata con il test di Kolmogorov-Smirnov. Successivamente le variabili quantitative (classe di rischio clinica e patologica) sono state analizzate con il test di Mann-Whitney (a due code), mentre quelle categoriali (extracapsularità, margini positivi, outcome post-RT) con il test esatto di Fisher. La significatività è stata fissata a 0,05. Tutte le analisi, descrittive e inferenziali, sono state effettuate con la tecnologia SPSS v.24.

Da un confronto effettuato con le caratteristiche cliniche impiegate per definire la classe di rischio è risultato che la componente intraduttale non mostra alcun tipo di correlazione. Nello specifico pazienti in classe di rischio elevata non risultano necessariamente portatori di IDC-P. In particolare non sembra che una extracpasularità documentata all’esame anatomo-patologico abbia alcuna correlazione con la presenza della componente intraduttale. Se tuttavia analizziamo i pazienti con margini di resezione positivi alla chirurgia, pur non raggiungendo una significatività, risulta essere

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presente un trend verso una maggior frequenza di R1 quando coesiste l’IDC-P. La causa di ciò potrebbe essere riferibile alle caratteristiche di crescita oppure alla pressoché ubiquitarietà della lesione che pertanto più frequentemente si può localizzare alla periferia della ghiandola. Quello che invece l’analisi ha rilevato chiaramente è che l’outcome in termini di controllo biochimico di malattia è peggiore nei soggetti portatori di IDC-P (p=0.089) sia che siano stati trattati con intento adiuvante sia che abbiano effettuato una radioterapia di salvataggio per ripresa biochimica/clinica di malattia. L’esiguità della casistica non ha invece permesso di capire se l’outcome dopo radioterapia è altresì influenzato dalla dose somministrata. Sarebbe infatti interessante capire se aumentando la dose il controllo dei pazienti con componente intraduttale torna ad essere lo stesso degli altri oppure no; questo ultimo scenario potrebbe trovare un razionale in ciò che la letteratura riporta relativamente ai pazienti con IDC-P dove sembra che le metastasi linfonodali siano più frequenti e che possano, almeno in alcuni casi, rappresentare la unica causa di ricaduta biochimica.

Di seguito sono riportate le rappresentazioni grafiche dei concetti sopra esposti e dei risultati delle analisi statistiche condotte.

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Tabella 3. Confronto tra fattori clinici e Componente Intraduttale.

Fig. 5. Rappresentazione grafica (box plots) del confronto tra classe di rischio (clinica o patologica) e

Componente Intraduttale

Variabile clinica Sì No

frequenza/mediana (range) frequenza/mediana (range) p-value

Classe Rischio Clinica 1 (0-1) 0 (0-2) 0,726

Classe Rischio Patologica 1 (1-3) 2 (1-3) 0,710 Extracapsularità 0,346 Sì 2 4 No 10 8 Outcome post RT 0,027 NED 5 11 Ripresa biochimica 7 1 Margini R+ 0,089 Sì 9 5 No 2 7

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Fig. 6 Rappresentazione grafica (barre affiancate) dell’associazione tra extracapsularità e Componente

Intraduttale.

Fig. 7. Rappresentazione grafica (barre affiancate) dell’associazione tra margini (negativi o positivi) e

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Fig. 8. Rappresentazione grafica (barre affiancate) dell’associazione tra Outcome post-RT (ripresa di

malattia biochimica o NED) e Componente Intraduttale.

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DISCUSSIONE

Nonostante il piccolo numero di pazienti l’analisi condotta apre uno scenario molto interessante perché introduce una nuova entità che almeno potenzialmente risulta in grado di influenzare la prognosi di malattia e che potrebbe costituire elemento da considerare nella scelta del percorso terapeutico ottimale. Ad oggi infatti uno degli aspetti altamente condizionanti l’outcome di malattia rimane l’impossibilità di definire con esattezza lo stadio locale e soprattutto il rischio di diffusione locoregionale di malattia. Nonostante negli anni la concezione sia cambiata e che oggi questi pazienti, contrariamente a quanto si pensava, possano continuare ad essere target di una chirurgia, quantificare il grado di rischio in maniera più accurata potrebbe essere un elemento aggiuntivo per suffragare l’impiego di una radioterapia in alternativa. Le metodiche di imaging di ultima generazione hanno permesso un netto miglioramento in questo senso tuttavia le caratteristiche biologiche che influenzano il decorso della malattia costituiscono un elemento del tutto indipendente e non quantificabile se non in modo indiretto con queste indagini.

In passato il carcinoma intraduttale della prostata è stato considerato come un'entità controversa, tuttavia una moltitudine di studi nel corso degli anni hanno chiarito la sua definizione e il suo significato clinico attribuendogli un valore prognostico sfavorevole. Quanto emerge dai nostri dati sembra suggerire che la comprensione del ruolo dell’IDC-P nella storia naturale della patologia oncologica prostatica sia un elemento di fondamentale importanza non solo per la scelta di un trattamento loco-regionale ottimale (chirurgia versus radioterapia versus chirurgia+radioterapia) ma anche per la scelta di eventuali trattamenti sistemici con farmaci di ultima generazione.

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CONCLUSIONI

I dati ricavati da questa piccola analisi retrospettiva in accordo a quanto presente in letteratura confermano chiaramente come la presenza della componente intraduttale (IDC-P) nel contesto dell’adenocarcinoma prostatico infiltrante, sia da considerarsi un fattore prognostico sfavorevole. Attualmente la ricerca della presenza di IDC-P nelle agobiopsie e nei campioni di prostatectomie non è una metodica uniformemente diffusa probabilmente per problemi relativi a costi o per mancanza di risorse, anche se oggi tale aspetto non riveste un’importanza determinante nella scelta del percorso terapeutico del paziente, sono in corso diversi studi volti a chiarire se il riscontro di tale componente sia da considerarsi elemento sul quale definire una terapia personalizzata. Quello tuttavia che è certo è che, come in molte altre neoplasie, anche nel carcinoma prostatico una adeguata ed accurata valutazione dei parametri bioptici e degli esami studiativi è indispensabile per individuare quei pazienti che dopo un’eventuale chirurgia potrebbero necessitare di un trattamento radiante postoperatorio.

Nell’attesa di ulteriori conferme i risultati da noi ottenuti possono per il momento considerarsi elemento sufficiente per giustificare ulteriori studi volti a confermare o smentire l’importanza prognostica di questo fattore.

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