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IL TRAINING AUTOGENO COME TECNICA PREVENTIVA PER GLI INFORTUNI NEL CALCIO

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Academic year: 2021

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Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia ____________________________________________________________

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE E TECNICHE

DELLE ATTIVITA’ MOTORIE PREVENTIVE E ADATTATE

“IL TRAINING AUTOGENO COME TECNICA

PREVENTIVA PER GLI INFORTUNI NEL CALCIO”

RELATORE

CHIAR.MO PROF. FRANCO NOCCHI

____________________

CANDIDATO

SIG./DOTT. GERARDO GIGANTI

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RIASSUNTO ANALITICO

Questo lavoro di tesi si propone di analizzare l’aspetto psicologico ed emozionale dell’atleta, mettendo in relazione lo stress ed eventuali infortuni. L’obiettivo è quello di dimostrare che con la tecnica del training autogeno è possibile diminuire il livello di stress e quindi di prevenire gli infortuni. E’ stata presa in considerazione una squadra di calcio dilettantistico della Basilicata, che si è prestata all’analisi dei singoli atleti per mezzo di quattro questionari1, di cui due sottoposti ad inizio stagione che hanno valutato possibili somatizzazioni di stati di stress che portano ad alterazioni nello stato generale della salute della persona.

La rilevazione in follow up è stata effettuata mediante un terzo questionario settimanale (fattori di stress che possono incidere durante la settimana) sviluppato sul modello proposto da Holmes e da Rahe2. Attraverso un quarto questionario si è cercato di valutare l’esistenza di una relazione tra gli eventi di stress di vita dell’anno precedente con quello successivo. E’ stata infine valutata l’occorrenza di infortuni gravi nell’anno precedente.

1Psicologia del rischio d’infortunio nello sport: review e studio di una casistica di atleti

agonisti nel rugby

Stefano Tamorri1 Manuela Benzi1 Mario A. Reda

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PREFAZIONE

La causa prevalente di molti infortuni nello sport è di natura fisica (struttura corporea, attrezzature insufficienti, superfici di gioco inadeguate), ma dobbiamo tener presente che anche i fattori psicologici possono incidere.

Se prendiamo in considerazione lo sport dilettantistico la prevenzione degli infortuni è spesso sottovalutata, sia per la quantità di tempo minore dedicata agli allenamenti rispetto ai professionisti, sia perché si tende a privilegiare l’aspetto tecnico della disciplina.

La scoperta della tecnica del training autogeno nelle lezioni presso la nostra facoltà mi ha portato a prenderla in considerazione come metodo preventivo per evitare infortuni, migliorando lo stato di benessere mentale dell’atleta e di conseguenza lo stato di

benessere fisico. I benefici che questa tecnica può apportare sono quindi di natura mentale e fisica, ma anche economica, perché la diminuzione di infortuni farebbe diminuire per la società sportiva anche la spesa per eventuali terapie di recupero fisico. La scarsezza di fonti bibliografiche ha indotto Andersen e Williams3 a sviluppare un modello teorico multivariato. L’ipotesi centrale del modello stress-infortunio è che gli individui con una storia di stress, con particolari caratteristiche personali di risposta allo stress e con poche risorse per affrontarlo sono in una situazione di rischio maggiore. Valuteremo nei primi quattro mesi della stagione calcistica 2017/2018 la situazione iniziale, e l’evolversi di essa, tenendo in considerazione il rapporto tra stress e infortuni e con l’introduzione del training autogeno nei tre mesi successivi al primo osserveremo l’impatto di questa tecnica preventiva nello stato di salute degli atleti.

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SOMMARIO

INTRODUZIONE………pag. 6 CAPITOLO 1: LO STRESS………pag. 9 1.1 INTRODUZIONE……….……..pag. 9 1.2 FATTORI DI RISCHIO………pag. 10 1.3 LA RISPOSTA ALLO STRESS………...………pag. 12 1.4 GESTIONE DELLO STRESS………...………...pag. 14

CAPITOLO 2: INFORTUNI NEL CALCIO...……….pag. 17

2.1 INTRODUZIONE……….pag. 17 2.2 EPIDEMIOLOGIA……….. pag. 19 2.3 FATTORI DI RISCHIO……….. pag. 20 2.4 LOCALIZZAZIONE E TIPOLOGIA………pag. 21

CAPITOLO 3: RAPPORTO TRA STRESS E INFORTUNI………..pag. 25

3.1 INTRODUZIONE………..pag. 25 3.2 AFFATICAMENTO FISICO E MUSCOLARE……….pag. 26 3.3 CONTROLLO DELL’ATTENZIONE………....pag. 26 3.4 CONTROLLO DELLE ATTIVITA’ IMMAGINATIVE………..pag.28

CAPITOLO 4: IL TRAINING AUTOGENO………pag. 30

4.1 INTRODUZIONE………..pag. 30 4.2 BENEFICI………...pag. 30 4.3 LA SEDUTA………...pag. 31

CAPITOLO 5: STUDIO DI CASISTICA………..pag. 35

5.1 INTRODUZIONE………..pag. 35 5.2 METODI……….pag. 35

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5.3 RISULTATI………pag. 39

CONCLUSIONI………pag. 41 BIBLIOGRAFIA………...pag. 42

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INTRODUZIONE

Gli infortuni del calcio rappresentano circa il 60% di tutti gli infortuni sportivi. In letteratura ci sono molti studi che riguardano l’epidemiologia nel calcio. Dai dati presi in considerazione si evince che il 75%-85% dei calciatori subisce un infortunio almeno una volta nella stagione. L’incidenza degli infortuni viene comunemente calcolata con l’indice IFR che consiste nel numero di infortuni ogni 1000 ore di allenamento o partita. Questo indice varia in base a diversi fattori: al sesso, all’età, al livello agonistico ed al tipo di prestazione (partita amichevole, ufficiale, tipo di competizione o allenamento). Dal punto di vista degli infortuni di natura traumatica non c’è una grossa differenza tra atleti agonisti e dilettanti. I primi sono soggetti a infortuni a causa della pratica

continua, praticamente “a tempo pieno” dello sport di cui sono specialisti. I secondi, i dilettanti, corrono rischi dovuti al fatto di non essere del tutto allenati per cui

l’organismo non è a volte in grado di sopportare le sollecitazioni cui viene sottoposto. Nel caso di infortunio non traumatico ci sono invece differenze perché l’aspetto

dell’allenamento è preponderante. Questo tipo di infortunio, si parla ad esempio dello strappo muscolare, colpisce in genere con maggiore frequenza coloro che praticano sport a livello non agonistico, che curano con minore attenzione, rispetto agli sportivi professionisti, alcuni aspetti legati alla preparazione tendineo-muscolare. Le cause degli infortuni però possono essere anche di natura psicologica e diversi studi si sono

occupati della questione negli ultimi decenni; molte di queste ricerche si sono basate sullo “stress injury model” di Williams e Andersen (1998) (fig. 1), e sullo “stress-coping model” di Rogers e Landers (2005) (fig. 2).

Il modello di Williams e Andersen (1998) illustra che ci sono diversi fattori psicosociali che possono incrementare il rischio di infortuni. Questi fattori di rischio sono divisi in

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tre categorie principali: personalità, storia dei fattori di stress, risorse di risposta allo stress.

Figura 1. “Stress injury model” di Williams e Andersen (1998)

Lo studio di Rogers e Landers (2005) aveva come obiettivo l’analisi dell’influenza di fattori psicosociali sul rischio di infortuni, i risultati hanno mostrato che diversi fattori psicosociali possono far incrementare il rischio di infortuni nei calciatori. Inoltre un risultato importante che è emerso è che fattori come la capacità di risposta allo stress (ad esempio l’abilità di controllare lo stato di ansia) possono prevenire gli infortuni nello sport.

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Pertanto in questa tesi ci prefissiamo l’obiettivo di analizzare lo stato di stress di ogni atleta di una squadra di calcio dilettantistico (A.C.D. Oppido), verificare il rapporto con il numero di infortuni durante il periodo di preparazione pre-campionato e in seguito valutare l’impatto della tecnica del training autogeno sullo stato psicologico e di conseguenza sul rischio di infortuni.

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CAPITOLO 1: LO STRESS

1.1 INTRODUZIONE

Lo stress è una risposta psicofisica a compiti anche molto diversi tra loro, di natura emotiva, cognitiva o sociale, che la persona percepisce come eccessivi. Fu Selye il primo a parlare di stress, definendolo come una risposta aspecifica dell’organismo ad

ogni richiesta effettuata su di esso (Selye, 1976)4.

Un punto di partenza nella ricerca sullo stress in ambito medico può essere individuato nei lavori di Hans Selye, un medico austriaco che, dalla metà degli anni Trenta del secolo scorso, iniziò a lavorare su questo tema presso l’Università di Montreal. Come riporta lo stesso Selye (1976) fu un esperimento condotto su alcuni topi alla ricerca di un nuovo ormone a indicare un’interessante linea di indagine. Indipendentemente dalla sostanza tossica iniettata, i topi mostravano tutti la stessa reazione: ispessimento della corteccia surrenale, riduzione del timo e ulcere sanguinanti nello stomaco e

nell’intestino.

Selye conosceva i lavori del fisiologo Walter Cannon, che dagli anni Venti aveva lavorato sul concetto di omeostasi e sulla risposta d’allarme presso l’Università di Harvard. Dinnanzi ad un pericolo l’organismo ha una reazione di allarme che ha la funzione di preparare il soggetto ad una rapida azione offensiva o difensiva,

fondamentale per la sopravvivenza. Cannon5 (1929) studiò e descrisse quella che è nota con il nome di flight or fight reaction: uno stato di sovraeccitazione innescato

dall’attivazione del sistema nervoso autonomo in seguito alla rilevazione di un pericolo

4 Selye, H. (1976). Stress in health and disease. Butterworth’s, reading, Massachusetts.

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nell’ambiente esterno. Questa reazione di allarme è comune a uomini e animali e ha un forte valore evolutivo, poiché permette al soggetto di attivare una serie di risorse che possono risultare vitali in situazioni di pericolo.

Studiando i suoi topi in laboratorio il medico descrisse un ciclo che è noto come ‘sindrome generale di adattamento’ (Selye, 1974). La prima risposta ad un evento esterno stressante (che chiamò stressor) costituisce quella che propriamente si indica come ‘reazione di allarme’. Se lo stressor non è sufficientemente potente da risultare incompatibile con la sopravvivenza dell’organismo, ma al tempo stesso è prolungato, si innesca una seconda fase che si definisce di ‘resistenza’ e che, a livello di attivazione dell’organismo, coincide con risposte diverse e per alcuni versi opposte rispetto alla reazione di allarme. Tuttavia questa fase non può essere protratta a lungo: se

lo stressor continua ad essere presente in modo intenso, si innesca la fase di esaurimento per cui le risorse a disposizione dell’organismo sono limitate e ad un certo punto si esauriscono (Selye, 1976). La sindrome generale di adattamento negli esseri umani è un fenomeno di gran lunga più complesso di quello osservabile negli animali. Se nel regno animale la reazione di allarme è innescata dalla presenza di un predatore o da qualche minaccia concreta per la vita o per lo status nel gruppo del singolo, gli uomini tendono a reagire in questo modo anche se nessun pericolo reale è presente. Tra gli esseri umani, lo stress rappresenta una questione importante, che non si esaurisce in una reazione naturale ad un pericolo concreto: soprattutto nelle società occidentali moderne, questo utile strumento può diventare un modo di vivere dannoso, portando con sé difficoltà non indifferenti.

1.2 FATTORI DI RISCHIO

Lo stress è una risposta psicofisica che l’organismo mette in atto in risposta a compiti che sono valutati dall’individuo come eccessivi: questo significa che un evento

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stressante per qualcuno potrebbe non esserlo per altri e che uno stesso evento in fasi di vita diverse può risultare più o meno stressante. È tuttavia utile individuare alcuni fattori che risultano tipicamente stressanti per la maggior parte delle persone. Molti dei grandi eventi della vita possono risultare stressanti, sia eventi piacevoli come il matrimonio, la nascita di un figlio o un nuovo lavoro, sia quelli spiacevoli come la morte di una

persona cara, una separazione o il pensionamento. Accanto a questi eventi possiamo identificare come fonti frequenti di stress alcuni fattori fisici: il freddo o il caldo intensi, l’abuso di alcol o il fumo, ma anche serie limitazioni nei movimenti. Esistono inoltre fattori ambientali che ci espongono al rischio di stress, pensiamo ad esempio alla mancanza di un’abitazione, agli ambienti molto rumorosi, a livelli di inquinamento elevati. Ricordiamo, infine, le malattie organiche e gli eventi straordinari quali i cataclismi.

Holmes e Rahe (1967) hanno studiato gli eventi stressanti nella vita attraverso la “Social

Readjustment Rating Scale” (SRRS), un questionario per la popolazione adulta che

individua in modo uniforme l’importanza di 40 eventi che cambiano la vita. La scala si basa sull’affermazione che i fattori stressogeni della vita inducono a un riadattamento comportando quindi, un incremento del rischio. Nella SRRS, ad ogni evento di vita è assegnato un punteggio basato sul presunto grado di adattamento richiesto ad ogni individuo della popolazione. Bramwell et al. (1975) hanno modificato la SRRS,

adattandola agli atleti, cancellando i fattori di stress meno appropriati e aggiungendone 20 più appropriati per atleti di college (difficoltà accademiche, problemi con il coach, cambiamento nel modo di giocare). Il risultato, con il questionario modificato a 57 item, mostra una relazione ancora più forte fra vita stressante e incidenti sportivi. Suddivisi in gruppi esposti a bassi, medi ed elevati stress di vita, rispettivamente il 30%, il 50% e il 73% dei giocatori di football del college riportavano infortuni atletici. Nel 1983 Passer e Seese hanno posto una distinzione tra gli eventi di vita positivi e negativi, esaminando le variabili della personalità che moderano l’influenza dello stress nella vita. Sarason, Johnson e Siegel (1978), sviluppando la scala LES (Life Experience Survey), affermano

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che gli effetti dell’adattamento ad eventi comportanti cambiamenti negativi sono diversi da quelli che comportano cambiamenti positivi, evidenziando che un cambiamento di vita positivo o non ha alcun effetto o ha un effetto meno nocivo sulle variabili correlate alla salute, paragonato agli effetti del cambiamento di vita negativo. Passer e Seese, usando una versione per lo sport del LES modificata a 70 punti, evidenziarono che c’era un rischio maggiore di infortunarsi solo per quei giocatori di football che riportavano livelli più alti di stress derivato da eventi di vita negativi. L’entità della relazione stress-infortunio, la determinazione di negatività (NLE) o positività dello stress (PLE) o la derivazione dagli eventi totali della vita (TLE) variano in modo considerevole nei diversi studi. Sebbene la maggior parte degli studi, che distinguono i diversi tipi di stress della vita, indichino che solo gli eventi negativi della vita (NLE) pongono gli atleti in condizioni di rischio di infortunio (Meyer, Horrigan e Lotz, 1995), altri studi evidenziarono, tuttavia, che i TLE e PLE aumentavano il rischio d’infortunio.

1.3 LA RISPOSTA ALLO STRESS

Gli studi stress-malattie identificano molte variabili personali per il loro ruolo nel moderare la relazione suddetta. Alcuni tratti di personalità fanno sì che alcuni individui percepiscano meno situazioni come stressanti o possono predisporre gli individui ad essere meno suscettibili agli effetti di fattori stressanti. La maggior parte delle variabili della personalità incluse nel modello iniziale, per esempio forza psicologica, controllo di sé, senso di coerenza, ansia competitiva, motivazione, sembrava che moderassero la relazione stress-malattia e, comunque, furono poi esaminate successivamente negli studi sugli infortuni sportivi. Il tratto della forza psicologica è formato da una costellazione di caratteristiche, come la curiosità, la volontà di impegnarsi, la considerazione del

cambiamento come una sfida e uno stimolo allo sviluppo e ad avere un senso di

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coerenza (Antonovsky, 1985) hanno la funzione di moderatori della relazione tra stress e malattia. Il senso di controllo deriva dal considerare l’ambiente e la propria vita come qualcosa che può essere controllato dal soggetto. La motivazione e l’ansia causata dalla competitività furono incluse poiché erano variabili che sembravano correlate allo stress. La motivazione al successo si riferisce sia al bisogno di avere successo che a quello di evitare il fallimento. L’ansia è descritta come una tendenza o una disposizione a

percepire le situazioni come minacciose e a reagire con ansia (Spielberger e Smith, 1966). Gli individui, che hanno un gran desiderio di evitare di fallire (ansia competitiva) o che sono generalmente ansiosi, considerano più situazioni come stressanti e di

conseguenza riportano un elevato stress rispetto agli individui che hanno il profilo opposto. Van Mechelen ed altri (1996) non evidenziarono alcuna relazione tra

motivazione e ricorrenza d’infortuni. I risultati che i ricercatori ottennero analizzando il senso di controllo e l’ansia erano diversi. Kolt e Kirkby (1996, 1999) non evidenziarono alcuna relazione tra ginnasti non agonisti, ma un maggiore senso di controllo prediceva in modo indicativo gli infortuni nei ginnasti agonisti. Ricercatori che hanno usato

misurazioni non specifiche per lo sport per valutare il senso di controllo (Passer e Seese, 1983) non hanno trovato alcuna relazione. Van Mechelen ed altri (1996) affermarono che le persone con sentimenti di depressione, malesseri, apatia e ansia, riportavano infortuni più di frequente. La loro ipotesi era che le persone in tali stati esaurissero le proprie risorse fisiche e mentali e non rispondessero adeguatamente allo stress mentale e fisico di una partecipazione sportiva. Inoltre, determinarono che le persone con un carattere più dominante correvano un rischio più alto di infortuni sportivi di quelle con un carattere meno dominante, poiché le persone che dominano tendono a giocare un ruolo più centrale e più intenso in situazioni sportive e ad assumere più rischi per

raggiungere i propri obiettivi personali delle persone con una dominanza minore. Young e Cohen (1979) trovarono risultati opposti analizzando una squadra di basket femminile del college, ma questa differenza potrebbe derivare dalle diverse età e dalla diversa educazione dei partecipanti.

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Williams ad Andersen furono i primi a determinare se, in condizioni di stress, gli atleti con un profilo ad alto rischio di infortuni presentino una maggiore distrazione nel campo centrale della visione. Le misurazioni dei deficit della visione centrale

includevano una risposta ritardata o mancante ad importanti segnali visivi, rispondendo a segnali irrilevanti e abbassando la sensibilità percettiva. Evidenziarono che la

performance in condizioni di alto stress, paragonata a quella in condizioni di stress minimo, portava ad un significativo deterioramento di tutte le variabili percettive, ma gli atleti con forti eventi negativi nella vita avevano un tempo di reazione nella visione centrale ancora più lenta e un maggiore restringimento periferico rispetto agli atleti con piccoli eventi stressanti nella vita. Inoltre i maschi con basso sostegno, paragonati a quelli con un alto sostegno, fallivano doppiamente a decifrare segnali centrali e i maschi con alti eventi negativi della vita, basso supporto sociale e minime risorse di gestione, avevano la minore sensibilità percettiva. Per le femmine, accadeva solo un deficit significativo nella visione centrale. Le femmine con alti eventi negativi avevano il doppio delle mancanze per individuare segnali centrali, ma un’interazione significativa indicava che questa mancanza accadeva solo per il gruppo di femmine che riportavano anche abilità di gestione psicologica più basse. Gli atleti con basso supporto sociale, con più eventi negativi nella vita e un maggiore restringimento periferico durante lo stress erano soggetti a più infortuni rispetto ad atleti con un basso supporto sociale e meno eventi negativi nella vita e un minore restringimento periferico durante lo stress.

1.4 GESTIONE DELLO STRESS

Le risorse di gestione comprendono un’ampia varietà di comportamenti e legami sociali che aiutano l’individuo ad affrontare i problemi, le gioie, le preoccupazioni e gli stress della vita. Le risorse possono derivare dall’ambiente, come sostegno sociale, o da risorse personali, come controllo emotivo. Queste risorse proteggono l’individuo da

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infortuni o attenuano gli effetti negativi di fattori stressanti o di tratti della personalità. Smith, Smoll e Ptacek (1990) evidenziarono che le risorse di gestione moderavano la relazione stress di vita/infortunio, ma non influenzavano direttamente il verificarsi di infortuni. Atleti con basso supporto sociale e poche abilità psicologiche di gestione esibivano la maggiore correlazione tra grandi eventi di vita negativi ed infortuni

seguenti. I risultati per atleti con alto stress-basse risorse di gestione suggeriscono che il supporto sociale e le qualità di gestione psicologica operano congiuntamente (c’è

bisogno di livelli bassi per entrambi per avere una massima vulnerabilità agli infortuni) per atleti con alti eventi di vita negativi. Al contrario, per atleti con supporto sociale o qualità psicologiche di gestione alti o moderati, si aveva una relazione non indicativa tra stress di vita ed infortuni: in altre parole, possedere una delle caratteristiche

psicologiche, ridurrebbe la vulnerabilità.

È molto importante analizzare le reazioni di un’atleta alle situazioni stressanti e soprattutto in relazione al suo sport; infatti, l’ansia nella pratica sportiva a volte può essere molto positiva ed aiutare uno sportivo ad avere la giusta eccitazione

nell’esecuzione del compito (in particolare in sport a rischio) ma a volte nella maggioranza dei casi può essere deleteria e negativa portando ad un possibile

decremento della stessa. L’allenamento per la gestione dello stress quindi è usato per rimuovere e controllare l’ansia che ostacola la performance sportiva. Quello che avviene normalmente negli atleti, in special modo quelli d’élite, è che imparano a gestirlo quasi spontaneamente senza aiuto esterno o lo tollerano molto bene e imparano a controllare le loro reazioni emotive. Gli atleti d’esperienza, infatti, con il tempo e quindi con l’esperienza, imparano da soli ad affrontare situazioni difficili nelle gare e mettono in atto per loro conto strategie comportamentali e cognitive per combattere queste

situazioni che si presentano in campo. La maggior parte delle procedure utilizzate si basa soprattutto nell’eliminare gli effetti debilitanti dell’ansia e dello stress, cercando di abbassare il livello di arousal dell’organismo tramite delle tecniche di rilassamento che hanno dato negli anni i risultati migliori e sulle quali oggi ci si basa.

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Non sempre, però le tecniche di rilassamento sono in grado da sole di determinare effetti positivi sull’organismo. Le risposte per quanto riguarda la gestione dello stress, infatti, dipendono dalle reazioni soggettive agli stimoli stressanti. Una persona può manifestare i segnali dello stress in diversi versanti come quello cognitivo,

comportamentale e fisiologico. L’instaurarsi di pensieri negativi tende a determinare specifiche risposte fisiologiche e comportamentali e viceversa, le risposte somatiche si riflettono nei contenuti dei pensieri e negli atteggiamenti. L’identificazione delle

modalità caratteristiche di risposta quindi è importante per determinare la procedura più appropriata. Se le reazioni si manifestano più a livello fisiologico o comportamentale, saranno più indicate tecniche somatiche, mentre se la reazione si riscontra nei contenuti dei pensieri sarà più appropriato un approccio cognitivo.

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CAPITOLO 2: INFORTUNI

2.1 INTRODUZIONE

È piuttosto difficile descrivere in cosa consista un infortunio sportivo perché, finora, la quantificazione degli infortuni sportivi ha risentito eccessivamente del punto di vista clinico: eziologia e diagnosi sono aspetti che hanno ancora un ruolo prioritario sia rispetto alla quantificazione della gravità di un infortunio, sia

rispetto all'analisi di eventuali correlazioni tra tipologia di mezzi allenanti selezionati e tipologia di trauma (Sannicandro et al., 2011, 2009).

In alcuni studi vengono definiti infortuni solo quegli eventi che necessitano di cure mediche (Schafle et al.,1990), mentre altri Autori mettono in evidenza che un infortunio per essere considerato tale, deve determinare un "intervento terapeutico e il riposo per almeno una settimana" (Ekstrand, Gillquist, 1983 a,b,c) o "periodo di inabilità alla pratica sportiva" (Lorentzon et al.1988; Albert 1983; Sullivan et al.1980). L'aspetto fondamentale della maggior parte degli infortuni è legato agli effetti che questi provocano sulla prestazione agonistica e sulle sessioni

d'allenamento. Di conseguenza viene definito infortunio quella lesione che

impedisce all'atleta la completa e piena partecipazione ad una seduta d'allenamento o ad un match (Fuller et al.,2006; McLennan,1990, Watson,1993; Ekstrand, 1982). Bisognerebbe considerare anche la gravità dell'infortunio (Van Mechelen et al., 1992) che viene solitamente misurata in base al numero di giorni di assenza dalla partecipazione sportiva (Arnason et al.,2004; Andersen et al.,2004; Hawkins et al.,2001; Junge et al.,2000; Hawkins, Fuller1999 Luthje et al.,1996; Engstrom et al.,1990; Nielsen, Yde, 1989; Ekstrand, Gillquist,1983).

Gli infortuni vengono classificati in base alla durata dell'assenza dalle sessioni di allenamento e dagli incontri in quattro categorie (Fuller et al.,2006):

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lievi (1/3giorni di assenza), minori (4/7 giorni di assenza), moderati (8/28 giorni di assenza), maggiori (>di 28 giorni di assenza) compreso il giorno dell'infortunio. La gravità degli infortuni, inoltre viene valutata considerando gli effetti di questi sull'atleta con i seguenti criteri: grado e natura dell'invalidità, implicazioni a lungo termine per la salute dell'atleta, complessità del trattamento necessario, costo del trattamento e del periodo di convalescenza e recupero.

Figura 3

23 giugno 1994, infortunio di Franco Baresi durante il mondiale USA 94’

Gli infortuni sportivi che non hanno comportato effetti a lungo termine vengono inoltre classificati in base a: giornate di degenza ospedaliera, giornate

di astensione dall'allenamento e dall'attività agonistica, giornate caratterizzate da limitazioni dell'attività fisica.

Le lesioni inoltre vengono classificate in base alla causa di lesione e ciò permette di studiare le misure preventive.

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A tale proposito sono state proposte le seguenti definizioni di causa di infortunio (Williams, 1980): estrinseche, dovute ad un evento di estrema violenza, e

intrinseche, dovute alle sollecitazioni a cui l'individuo è sottoposto; inoltre una lesione può essere considerata "acuta" o da "sovraccarico".

Viene definita acuta quando è il risultato di un singolo, improvviso evento traumatico che si realizza quando il muscolo viene disteso improvvisamente

mentre viene definita da sovraccarico funzionale quando si sviluppa gradualmente, nel corso di un periodo prolungato d'impiego del segmento corporeo che risulterà insultato (Sannicandro, 2009; Taimela et al., 1990).

2.2 EPIDEMIOLOGIA

Gli infortuni del calcio rappresentano circa il 60% di tutti gli infortuni sportivi, il 75%-85% dei calciatori si infortunano almeno una volta nella stagione. L’incidenza viene comunemente calcolata con l’indice IFR (Injury Frequency Rate = indice di

frequenza infortuni) che consiste nel numero di infortuni ogni 1000 ore di allenamento o partita. Questo indice varia in base al sesso, all’età, al livello agonistico ed al tipo di prestazione (partita amichevole, ufficiale, tipo di competizione o allenamento). Ad esempio nei professionisti si evidenziano circa 8,5 infortuni ogni 1000 ore di attività sportiva (25,9-34,8 partita/3,4-5,9 allenamento), con maggiore incidenza nelle

competizioni di alto livello (80,9 infortuni x 1000 ore di partita in Giappone 2002 e 68,7 in Germania 2006) e maggiore incidenza e severità degli infortuni nei campionati del Nord Europa (GB e Olanda) rispetto a quelli del Sud Europa (Spagna ed Italia)6. Minore incidenza si ha negli Under 18 (4,8 infortuni x 1000 ore di partita) e nei calciatori

amatoriali (11,9-16,9 x 1000 ore di partita). Inoltre, sempre in base alla letteratura, la

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maggior parte degli infortuni avviene nel 2°tempo rispetto al 1°tempo (60% vs 40%), in particolare negli ultimi 15 minuti. Per quanto riguarda l’entità degli stessi l’80-90% sono classificati lievi, minori o moderati (assenza dalla competizione < 4 sett.), mentre il 10-20% gravi (> 4 sett.). L’incidenza delle recidive è del 10-20%.

2.3 FATTORI DI RISCHIO

I fattori di rischio per quanto riguarda gli infortuni nel calcio sono molteplici: la

disposizione molto raccolta delle squadre in campo (corte), il ricorso sempre più diffuso a soluzioni tattiche, quali il pressing, il fuorigioco, i raddoppi delle marcature, effettuate alla massima intensità sia in allenamento come in gara, fasi di gioco in cui molti

giocatori si muovono in piccole zone del campo, eseguendo gesti tecnici rapidissimi ad elevata intensità, la necessità di migliorare la preparazione tattica attraverso

esercitazioni che riproducano costantemente ad uguale intensità le condizioni di gara e lo spingere le preparazioni fisico-atletiche ai massimi livelli.

Nella tabella sottostante (J.Ekstrand,2003), si possono distinguere alcuni esempi dei fattori di rischio che possono essere connessi con il pericolo d’infortunio nel

calcio.

INTERNI ESTERNI

Generali Sforzo/sovraccarico

Età Livello di gioco

Sesso Numero di allenamenti

Costituzione Numero di partite

Salute Tempi di recupero

Fattori connessi al calcio Periodi di ritiro

Abilità tecnica Combinazioni di più sport

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Fattori anatomo-funzionali Parastinchi

Difetti anatomici Scarpe

Stabilità delle articolazioni Superficie di gioco

Agilità Erba sintetica

Forza Fattori connessi al calcio

Coordinazione Tattica di gioco

Stato dopo precedenti infortuni Arbitro

FATTORI MENTALI Allenatore

Personalità Staff tecnico

Obiettivi

Suscettibilità ai rischi Tolleranza allo stress Motivazione

Autostima

2.4 LOCALIZZAZIONE E TIPOLOGIA

Dal punto di vista anatomico, gli infortuni colpiscono l’arto inferiore (80%), la testa ed il tronco (15%) e l’arto superiore (5%).

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Di conseguenza se ne possono avere di varie tipologie: muscolari (30%), contusioni (28%), distorsioni (20 – 25%), patologie da “overuse”, cioè tendiniti, borsiti, fratture da stress, patologie cartilaginee… (10 - 15%), fratture (3%).

Ci sono due tipi di infortuni sportivi: quelli accidentali e da sovraccarico. I primi sono più frequenti e sono causati dalla pressione che in una specifica occasione (tackle,

scatto) supera il livello massimo sopportabile da un tessuto come un legamento, un osso o un tendine. Il rischio d’infortunio accidentale è molto alto durante i contrasti tra i giocatori, dove vengono applicate forze considerevoli, ma nel calcio il corpo di un’atleta può essere sottoposto ad un alto grado di sforzo anche in situazioni che non

comprendono contatto con avversari. Invece quelli da sovraccarico sono causati da sollecitazione articolare abnorme o eccessivamente ripetuta; possono insorgere durante i pesanti allenamenti di preparazione precampionato o durante i ritiri; coinvolgono

innumerevoli fattori di rischio (cambio di superficie o il freddo, aumento della tensione muscolare con una scarsa tecnica di corsa, livello di durezza del terreno).

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localizzazione dei vari tipi di infortunio, divisi per grado di gravità:

DIFFERENTI TIPI DI INFORTUNIO NEL CALCIO

Totale (%) Leggero (%) Medio (%) Grave (%)

Infortuni legamentosi

29

16

7

5

Strappi muscolari

23

17

5

2

Contusioni

20

15

5

0

Infortuni muscolo/tendinei

18

/

7

2

Fratture

4

1

1

2

Lussazioni

2

0

2

0

Altri infortuni

4

4

0

0

Incidenza

100

62

27

11

LOCALIZZAZIONE DEGLI INFORTUNI NEL CALCIO

Totale (%) Leggero (%) Medio (%) Grave (%)

Piede

12

10

2

0

Caviglia

17

11

5

2

Gamba

12

6

4

2

Ginocchio

20

11

5

4

Coscia

14

6

5

2

Inguine

13

9

3

1

Schiena

5

4

1

0

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Altri infortuni

7

5

2

0

7

Incidenza

100

62

27

11

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CAPITOLO 3: RAPPORTO TRA STRESS E

INFORTUNI

3.1 INTRODUZIONE

Gli infortuni fanno parte della vita sportiva di un atleta. Osservando i dati possiamo comprendere come questo fenomeno sia pervasivo e tocchi una parte cospicua della popolazione sportiva. Ogni anno la metà degli atleti dilettanti sono costretti a rinunciare a prendere parte ad una competizione, perché infortunati (Garrick, Requa, 2003) e un quarto di questi infortuni richiede almeno una settimana di stop (Tamorri, Benzi, Reda, 2004). Una domanda che possiamo porci è: questi infortuni sono unicamente

riconducibili a fattori di natura fisica dell'atleta, a fattori legati al contesto in cui si pratica sport, a errori di programmazione, oppure esistono delle componenti

psicologiche che favoriscono questi spiacevoli fenomeni? In letteratura il modello teorico più riconosciuto è il modello stress-infortunio sviluppato da Andersen e Williams (1999). Questo modello evidenzia come il presentarsi di infortuni sia strettamente collegata allo stress vissuto durante la pratica sportiva/vita quotidiana, rapportato con le risorse personali dell'atleta nel fronteggiare questi stressor.

Secondo questo modello teorico un atleta sottoposto ad alto stress, ma dotato di basse risorse interne per fronteggiarlo, sarà molto più soggetto ad infortuni. Di contro un atleta sottoposto ad alto stress, ma con buone risorse interne, subirà un numero inferiore di infortuni. Uno studio che dimostra come i livelli di stress percepiti siano intimamente connessi con la frequenza degli infortuni è stato sviluppato da Bramwell (1975). I

risultati di tali studi connettono i livelli di stress alla probabilità di subire infortuni durante una stagione atletica. Gli atleti sottoposti ad alti livelli di stress subivano

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dei casi. Da quanto appena detto sembra quindi evidente come sia fondamentale evitare una vita sportiva ed extra sportiva ricca di stress e maturare delle buone competenze psicologiche per evitare l'occorrenza di infortuni.

Secondo Tamorri, Benzi, Reda (2004) le motivazioni principali per cui un alto livello di stress può favorire l’insorgenza di infortuni sono tre: affaticamento fisico e muscolare, difficoltà a focalizzare l’attenzione e riduzione del campo visivo.

3.2 AFFATICAMENTO FISICO E MUSCOLARE

Quando si genera un alto livello di stress il nostro organismo si attiva e si producono una serie di processi come: respirazione più frequente, battito cardiaco più veloce, contrazione muscolare. Questi processi sono utili per reagire ad una situazione di pericolo (es: scappare da una tigre), ma se vengono protratti nel tempo portano ad un affaticamento generalizzato del corpo e ad un'incapacità di recupero. Un atleta stressato avrà durante la giornata i battiti leggermente più alti, respirerà più velocemente e i suoi muscoli saranno generalmente più contratti. Quando tornerà da un allenamento sarà, inoltre, più difficile distendere i muscoli, far scendere il battito e rilassare la

respirazione, anche il sonno sarà meno ristoratore. Viene da sé che una situazione come questa sia il contesto in cui è più facile che si generi un infortunio.

3.3 CONTROLLO DELL’ATTENZIONE

Nella prestazione sportiva è riconosciuto come un importante fattore la capacità di concentrazione, in altre parole il riuscire a dirigere l’attenzione su un compito per una corretta esecuzione. La concentrazione può essere quindi definita come quella capacità che permette di focalizzare l’attenzione su un compito per un certo periodo di tempo, senza essere disturbati o influenzati da stimoli esterni o interni non pertinenti. Una gran

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differenza tra la pratica sportiva del passato e quella attuale sta proprio a livello cognitivo; infatti, soprattutto negli sport di situazione sono molto aumentate le

informazioni e gli stimoli che un atleta deve elaborare a livello cognitivo per venire a capo delle varie situazioni di gioco che si presentano. Un atleta, infatti, nelle diverse situazioni di gioco si trova a compiere in pochissimi istanti una serie di operazioni cognitive come: la raccolta delle informazioni esterne tramite gli analizzatori

(cenestesico, uditivo, visivo, vestibolare e tattile), l’elaborazione e quindi il confronto con le informazioni immagazzinate nella memoria ed infine l’esecuzione e il controllo della risposta. Gli atleti più esperti ed abili riescono meglio nell’isolare gli stimoli esterni irrilevanti, rispetto ai principianti che sono più suscettibili alle sollecitazioni esterne. Il controllo dell’attenzione varia molto sia tra individui sia nei vari sport; in ogni modo un adeguato stato di concentrazione si ottiene quando un atleta riesce a mantenere il giusto equilibrio tra le richieste del compito e le elaborazioni che riescono ad automatizzare e controllare. Quando i fattori di disturbo (interni ed esterni)

determinano un disequilibrio ci può essere un decadimento della prestazione sportiva. L’obiettivo da raggiungere quindi è l’allenamento alle abilità di attenzione per poter sviluppare nell’atleta la capacità di selezione di stimoli per lui rilevanti ignorando le altre informazioni di disturbo. Bisogna imparare a migliorare la concentrazione in modo differente secondo la disciplina praticata, infatti il focus dell’attenzione può essere diretto più verso stimoli interni, come le sensazioni corporee e della muscolatura, indirizzando così pensieri positivi che portano all’azione; oppure verso stimoli esterni, imparando cosi a concentrarsi verso quegli stimoli più importanti ai quali noi dobbiamo fare riferimento tralasciando gli altri. Per imparare a selezionare gli stimoli esterni bisogna allenarsi in situazioni che sono simili a quelle di gara: ad esempio con rumori, suoni, luci, comunemente presenti in partita, rimanendo lo stesso concentrati ai soli stimoli rilevanti per la prestazione dissociandosi dagli altri. Facendo allenare un atleta con situazioni stressanti di disturbo simili a quelle di gara, egli verrà aiutato a

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migliore capacità di gestione dello stress durante l’attività. È evidente, pertanto, che il miglioramento delle capacità di coping, imagery ed attenzione, come, d’altra parte, di tutte le abilità mentali (Tamorri, 1999), può dare un contributo significativo nella gestione della genesi, della prevenzione e della riabilitazione di un infortunio in quanto vanno ad incidere proprio su quelle componenti psicologiche (addirittura su alcuni tratti della personalità) dell’atleta che possono essere alla base dell’incidente.

3.4 CONTROLLO DELLE ATTIVITA’ IMMAGINATIVE

Tantissimi atleti di vari sport e categorie, in particolar modo quelli di successo, utilizzano come aiuto alla performance sportiva delle immagini mentali che

ripropongono esattamente il gesto tecnico o l’azione reale da svolgere in campo. Gli stessi atleti, che usano praticare quest’allenamento ideo-motorio o mental imagery, spesso dicono di riscontrare i miglioramenti nei risultati quando l’azione praticata coincide con quella mentale. Prima dell’esecuzione di un gesto atletico, infatti, un atleta può ripetere mentalmente la situazione, raffigurare le richieste del compito ed

eventualmente correggerle in quelle fasi in cui egli ritiene che ci siano errori, ripetendo così la sequenza esatta per poterla rafforzare ed imprimerla nella memoria a lungo termine. Le immagini possono essere di tre tipi: 1) riproduttive, quando evocano un atto già eseguito; 2) creative, quando rappresentano un comportamento non ancora

effettuato; 3) emotive, quando evocano sensazioni collegabili indirettamente con il movimento (Howe, 1991).

L’allenamento ideo-motorio secondo Frester (1984) comporta tutte quelle

rappresentazioni mentali nelle quali si ha una ripetizione cosciente dell’immagine dell’azione motoria da apprendere, da perfezionare e stabilizzare e della quale non si ha un’esecuzione reale e visibile esternamente. Frester divide le rappresentazioni mentali in: 1) programmatoria, per la scelta di un programma motorio attraverso l’anticipazione

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specifica e dettagliata dell’immagine ideale dell’azione; 2) allenante, per il

perfezionamento e la stabilizzazione del gesto; 3) regolatoria, nel controllo e nella correzione del gesto in fase di esecuzione qualora la durata lo consenta. In ogni caso si parla di pratica mentale ogni qual volta ci si riferisce ad un’attività simbolica e

rappresentativa mentale distinta dall’attività motoria reale. L’imagery però deve essere corretta, infatti una rappresentazione mentale diversa o distorta da quella che vogliamo raggiungere, porterà inevitabilmente all’acquisizione di un’abilità motoria sbagliata che può a sua volta ostacolare l’apprendimento dell’esatto compito. Questo problema è maggiormente sentito nei principianti rispetto agli esperti che riescono maggiormente ad avere una corrispondenza tra l’immagine e l’attività motoria da svolgere.

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CAPITOLO 4: IL TRAINING AUTOGENO

4.1 INTRODUZIONE

Un contributo fondamentale allo studio del rilassamento e alla sua pratica terapeutica fu apportato dal professor J. H.Schultz, il quale sviluppò un metodo chiamato training autogeno. Si tratta di uno stato di leggero trance autoindotto attraverso tecniche di autosuggestione, il quale porta ad uno stato di rilassamento fisico e mentale. Questa tecnica quindi si può eseguire da sé, una volta acquisita, senza necessità del terapeuta.

Schultz comprese nei suoi studi che i processi mentali potevano provocare non solo modificazioni patologiche dell’organismo (ad esempio malattie psicosomatiche), ma anche modificazioni positive che potevano riportare armonia in funzioni organiche e psicologiche alterate. Il training autogeno è oggi conosciuto e utilizzato in tutto il mondo ed applicato con numerosi benefici in vari ambiti, come ad esempio sportivo,

lavorativo, medico, artistico, individuale.

4.2 BENEFICI

Gli ambiti di applicazione sono molteplici: lo studio, il lavoro, la pratica sportiva, ecc.; può inoltre migliorare le nostre capacità di controllo e curare i disturbi più comuni su base psicosomatica. È molto seguito nella pratica clinica dove risulta particolarmente indicato per i seguenti disturbi: ansia, somatizzazione, insonnia, stress. In un’ottica preventiva e di promozione della salute, il training autogeno costituisce uno strumento molto utile per perseguire i seguenti obiettivi: controllo e gestione dello stress, controllo delle reazioni emotive eccessive, autoinduzione di calma, autodeterminazione,

introspezione, miglioramento delle prestazioni mentali e sportive, prevenzione di infortuni legati allo stress. Esistono anche delle controindicazioni all’utilizzo della

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tecnica, in caso di insufficienza cardiaca (scompenso cardiaco), infarti recenti, psicosi (soprattutto le forme schizoidi), depressione grave, nevrosi ossessiva grave.

4.3 LA SEDUTA

La seduta viene eseguita in un ambiente rilassato, sereno, lontano da stimoli audio-visivi, l’abbigliamento non necessita di particolari accortezze se non quella di evitare che sia costrittivo, vanno tolti orologi, occhiali e scarpe. La durata di un’esercitazione di Training Autogeno non supera solitamente i 10 minuti e va praticata sistematicamente, almeno nelle prime settimane, per due-tre volte al giorno. Inizialmente partendo solo con il primo esercizio, anche in maniera frazionata. Man mano che aumenta la

familiarità con il rilassamento si completa l’esercizio e si introduce il secondo e così via.

L’ induzione alla calma e al rilassamento è una sorta di introduzione, è utile rilassarsi per essere nella condizione ottimale per affrontare tutti gli esercizi.

Abbiamo tre diversi tipi di posture:

posizione supina: gambe leggermente divaricate con le punte rivolte verso l’esterno, braccia distanti dal corpo appena flesse ai gomiti con le dita delle mani rilassate che formano un piccolo arco. La testa può essere poggiata su un cuscino oppure sullo stesso piano del busto. Importante è che la posizione permetta il rilassamento del collo e

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delle spalle;

posizione seduto su una poltrona: schienale e braccioli devono essere tali da consentire l'appoggio della testa e gli avambracci. Le mani e le dita poggiano inerti sul bordo dei braccioli, facendo anche in modo che le gambe non tocchino tra loro e che i piedi siano poggiati comodamente a terra;

posizione del cocchiere: i piedi poggiano a terra mentre le ginocchia, flesse a circa 90°, vanno mantenute leggermente divaricate. La posizione corretta del busto è quella che si ottiene lasciando pendere le braccia lateralmente, lungo il corpo, inspirando

profondamente estendendo il torace e la nuca. Quindi lasciarsi ricadere su se stesso espirando profondamente in modo che la testa e le spalle cadano in avanti. Raggiunta

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questa posizione portare gli avambracci sulle cosce. Questa posizione, che esercita una pressione sull’addome e sulla gabbia toracica, è sconsigliata agli obesi, alle donne in stato di gravidanza e a chi soffre di disturbi alla respirazione e alle vertebre e cervicali.

Gli esercizi di training autogeno vengono generalmente distinti in due categorie:

• esercizi del training autogeno inferiore • esercizi del training autogeno superiore.

Fanno parte della prima categoria 6 esercizi di base (2 fondamentali e 4 complementari) da eseguirsi dopo l’esercizio introduttivo, ovvero l’esercizio della calma.

Gli esercizi del ciclo inferiore permettono di controllare l'emotività e la soglia di emozione, e rendono possibile la regressione di molti disturbi psichici, quali ansia, stress, stanchezza psicogena, varie fobie come l'ereutofobia o eritrofobia (la paura di arrossire), la claustrofobia (paura dei luoghi chiusi), l' agorafobia (paura dei luoghi aperti), ecc. La tecnica di rilassamento del ciclo inferiore è indicata inoltre in molti casi di patologie croniche di natura psicosomatica, come ipertensione, disturbi dell'apparato digerente, distonie neurovegetative ecc.

Gli esercizi fondamentali sono utili per raggiungere un livello di rilassamento elevato, gli esercizi complementari, invece, sono mirati in maniera specifica verso un organo. I primi due sono detti “fondamentali” e gli altri quattro “complementari”:

pesantezza, che agisce sul rilassamento dei muscoli;

calore, che agisce sulla dilatazione dei vasi sanguigni periferici; plesso solare, che agisce sugli organi dell’addome;

esercizio organi interni (facoltativo)

cuore, che agisce sulla funzionalità cardiaca; respiro, che agisce sull’apparato respiratorio;

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Una volta acquisita la tecnica del training autogeno con questi esercizi possiamo aggiungere le “formule intenzionali specifiche”, che consistono in formule brevi e concise, ritmate, evitando la negazione (no-non), da eseguire tra un esercizio e l’altro, ripetute 4-5 volte per circa un mese. (esempio: “sono pronto a dare il massimo di me stesso in questo impegno”).

Al termine della seduta è importante eseguire dei piccoli movimenti detti “esercizi di ripresa” che consistono in movimenti di flessione ed estensione dei piedi e delle mani fino al coinvolgimento delle braccia e delle gambe, prima piccoli e via via sempre più energici, quindi respirare profondamente e aprire gli occhi.

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CAPITOLO 5: STUDIO DI CASISTICA

5.1 INTRODUZIONE

Abbiamo preso in considerazione l’A.C.D. Oppido, squadra di calcio dilettantistica della Basilicata, e sullo schema proposto da Andersen e Williams (1998) abbiamo sottoposto a 20 atleti quattro tipi di questionari, di cui tre ad inizio stagione (che hanno valutato possibili somatizzazioni di stati di stress che portano ad alterazioni nello stato generale della salute della persona, e l’esistenza di una relazione tra gli eventi di stress di vita dell’anno precedente con quello successivo) ed uno settimanalmente, che valuta i fattori di stress che possono incidere durante la settimana.

Durante il primo mese di preparazione fisica abbiamo raccolto i dati riguardanti gli stati di stress ed eventuali infortuni, dal secondo mese abbiamo introdotto il training

autogeno e valutato le differenze grazie al questionario settimanale.

Per tutti i calciatori si tratta di una nuova esperienza, in quanto nessuno aveva mai praticato la tecnica del training autogeno, e anche grazie alla collaborazione

dell’allenatore il gruppo si è dimostrato partecipe e motivato.

5.2 METODI

Il questionario numero 1 analizza possibili somatizzazioni di stati di stress che portano ad alterazioni nello stato generale della salute della persona, ed è composto da 11 domande ed un punteggio possibile che va da 11 a 44 (Figura 5). Il secondo

questionario prende in considerazione gli stati d’animo del soggetto e con 15 domande il punteggio può variare da 15 a 60 punti (Figura 6). Entrambi sono stati posti alla squadra all’inizio della preparazione atletica, il 4 agosto 2017, e sono stati compilati da 20 atleti.

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Figura 5

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Un terzo questionario prende in considerazione i fattori di stress che possono incidere durante la settimana, ed è stato sottoposto quindi ogni 7 giorni. E’ sviluppato sul modello proposto da Holmes e da Rahe ed è composto da 21 domande (Figura 7).

Figura 7

Con il questionario numero 4 ci si propone di valutare un’eventuale relazione tra gli eventi di stress di vita dell’anno precedente con quello successivo, attraverso un modello proposto da Holmes e da Rahe, composto da 40 domande (Figura 8). Un punteggio complessivo del terzo e quarto questionario compreso tra 150 e 300 è

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indicatore di stress eccessivo: un punteggio superiore a 300 è considerato indicatore di alto rischio di infortunio.

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Dal primo settembre abbiamo introdotto due sedute settimanali (martedì e venerdì) di training autogeno alle quali hanno partecipato tutti gli atleti. Nelle prime tre settimane durante le sedute sono stati eseguiti soltanto gli esercizi fondamentali, in seguito sono stati introdotti gli esercizi complementari. La raccolta dati è proseguita fino al 17 novembre.

5.3 RISULTATI

Durante le prime quattro settimane di allenamento senza training autogeno abbiamo riscontrato 7 infortuni, con una media di 1,75 infortuni a settimana, da segnalare che 5 di questi 7 atleti infortunati avevano subito un infortunio grave nei 12 mesi precedenti e che per quanto riguarda il questionario 1 hanno riportato come punteggio tra 19 e 31 con una media di 23 (mentre la media degli altri atleti che non hanno subito infortuni in questo mese è di 19). I dati del questionario 2 ci dicono che la media del punteggi degli infortunati (27) è la stessa degli atleti non infortunati. Per quanto riguarda il

questionario 3 nella settimana precedente all’infortunio in 6 casi su 7 il punteggio supera i 96 punti (l’atleta infortunato con punteggio 28 ha subito un infortunio di tipo traumatico), in generale 9 atleti in questo periodo hanno superato il punteggio di 96 e 6 di questi hanno subito un infortunio. Il questionario 4 riporta una media punteggio di 186 per i “sani” e 258 per gli infortunati, inoltre i 4 atleti che superano 300 hanno subito tutti un infortunio.

La raccolta dati è proseguita nelle settimane successive mediante il questionario 3, con l’aggiunta delle sedute di training autogeno. Nelle 10 settimane prese in considerazione si sono verificati 6 infortuni (0,6 a settimana), in quattro casi il punteggio del

questionario supera 103 (e gli atleti avevano subito un infortunio grave nei 12 mesi precedenti), negli altri due casi l’infortunio è di tipo traumatico. Dai dati si evidenzia un notevole calo del punteggio medio tra gli atleti nel periodo con il training autogeno:

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da una media totale tra gli atleti di 62,5 nel mese di agosto a medie decisamente inferiori e stabili nei mesi successivi: 42 a settembre, 39 ad ottobre e 40 a novembre;

questo calo del punteggio relativo al questionario 3 segue il calo del numero degli

infortuni, inoltre 16 atleti su 20 hanno registrato un calo del punteggio dall’introduzione del training autogeno.

0 10 20 30 40 50 60 70

agosto settembre ottobre novembre

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CONCLUSIONI

Grazie ai dati rilevati in questo studio possiamo affermare che il training autogeno può essere una tecnica preventiva importante per quanto riguarda gli infortuni sportivi, studi precedenti hanno dimostrato la correlazione tra lo stress e gli infortuni, pertanto

diminuire lo stress può essere determinante per la prevenzione.

L’introduzione del training autogeno nella squadra di calcio dell’A.C.D. Oppido ha portato ad una diminuzione del numero di infortuni, ad un miglioramento dello stato psico-fisico degli atleti, ad una diminuzione dello stress e ad una maggiore coesione di gruppo.

Utilizzando i questionari possiamo valutare e prevedere dei possibili stati di malessere fisico e quindi intervenire per evitare che si manifestino, insegnando agli atleti a

prestare maggiore attenzione quando si trovano in condizioni di stress. Nello stesso modo in cui gli allenatori e il personale sportivo tentano di ridurre il rischio di infortuni tramite mezzi come programmi, insegnamento di tecniche adeguate, bisogna anche cercare di intervenire sullo stesso fenomeno alla luce di una lettura psicologica. Gli psicologi dello sport e gli scienziati motori, dovrebbero iniziare ad educare gli allenatori e il personale sportivo per far capire che questi fattori possono avere un impatto rilevante sugli infortuni. Ciò accrescerebbe la consapevolezza dell’importanza degli aspetti non sportivi della vita di un atleta che possono causare stress.

Gli atleti stessi hanno manifestato dopo un primo periodo di prova il desiderio di approfondire la tecnica in questione per i miglioramenti rilevati.

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