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I DISTURBI DEL SONNO COME CAUSA O SINTOMO DELL'AD: INDICAZIONI TERAPEUTICHE EMERGENTI

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

Tesi di Laurea:

“I DISTURBI DEL SONNO COME CAUSA O SINTOMO DELL’AD: INDICAZIONI TERAPEUTICHE EMERGENTI”

Relatore:

Dr.ssa Chiara Giacomelli

Correlatore: Candidata:

Prof.ssa Eleonora Da Pozzo Federica Massei

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1

Alla mia mamma e

a mio fratello

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INDICE

Riassunto

……….4

1. Morbo di Alzheimer

………5 1.1 Introduzione………5 1.2 Eziologia……….………..……….……..7 1.3 Patogenesi………8 1.3.1 Placche amiloidi………8 1.3.2 Proteina Tau ………11 1.4 Quadro clinico……….11

2. Alzheimer e sonno: una relazione

bidirezionale

……….14

2.1 Introduzione……….14

2.2 L’interruzione del sonno aggrava l’AD……….16

2.2.1 Sistema Glinfatico……….20

2.2.2 Attività neuronale……….22

2.2.3 Orexine……….23

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3

2.2.5 Stress ossidativo………25

2.2.6 Disturbi respiratori………..28

2.3 Il morbo di Alzheimer interrompe il sonno………29

3. Indicazioni terapeutiche emergenti

………...32

3.1 Trattamento farmacologico per i disturbi del sonno……….….. 32

3.2 BDZ: fattore di rischio o fattore di protezione?... 35

3.2.1 Benzodiazepine come fattore di rischio………..…….…35

3.2.2 Benzodiazepine come fattore di protezione……… 39

3.3 Trattamento non farmacologico dei cambiamenti del sonno……….42

3.3.1 Stile di vita……….………43

3.3.2 Terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia………. 48

4. Concluzioni

………...51

5. Ringraziamenti

……….………...53

(5)

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RIASSUNTO:

Il morbo di Alzheimer o AD (Alzheimer Disease) è una delle forme di demenza più diffuse in tutto il mondo caratterizzata dalla formazione di placche amiloidi e grovigli neurofibrillari. Nonostante da tempo sia nota l’esistenza di una stretta relazione tra il ciclo sonno-veglia e l’AD, sono stati fatti molti studi per comprendere se i disturbi del sonno rappresentano una causa o una conseguenza della malattia stessa. Nel presente lavoro di tesi saranno trattati i diversi meccanismi in grado di spiegare come l’alterazione del sonno può aggravare la malattia di Alzheimer e a seguire anche i meccanismi attraverso i quali la deposizione di placche amiloidi può causare la frammentazione della veglia. Successivamente verranno presentati i possibili trattamenti adiuvanti per controllare i disturbi del sonno. I disturbi del sonno sono trattati principalmente con farmaci sedativo-ipnotici, utilizzati in caso di insonnia, ponendo l’attenzione sulle benzodiazepine e sul loro possibile ruolo come fattore di rischio o come fattore di protezione nei confronti dell’AD. Verrà poi discussa l’importanza di una terapia non farmacologica in grado di intervenire sullo stile di vita per poter promuovere il riposo. Infine verrà descritto in cosa consiste la terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia, la CBT-I, con uno sguardo al futuro per una sua possibile applicazione nel morbo di Alzheimer per ridurre l’accumulo di Aβ.

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1. MORBO DI ALZHEIMER

1.1 Introduzione

La malattia di Alzheimer o AD (Alzheimer Disease) rappresenta la più comune forma di demenza ed è una patologia neurodegenerativa, progressiva ed irreversibile che colpisce il cervello. L’alterazione dell’attività fisiologica del sistema nervoso, che si manifesta con un progressivo deterioramento delle funzioni cognitive, rende gradualmente gli individui affetti incapaci di svolgere le normali attività quotidiane, ossia quelle deputate alla comprensione e all’elaborazione degli stimoli quali memoria, linguaggio, attenzione e apprendimento (Izzicupo F. et al. 2009). La prevalenza della patologia è molto elevata e si stima che il numero dei malati sia destinato a crescere:nel 2006 in tutto il mondo vi erano 26,6 milioni di malati (circa 0,4%) e si calcola che nel 2050 almeno una persona su ottantacinque ne sarà affetta (circa 1,2%) (Brookmeyer R. et al. 2007).

Il morbo di Alzheimer fu riconosciuto e categorizzato agli inizi del 1900. Nel 1901, lo psichiatra tedesco Alois Alzheimer incontrò per la prima volta una sua paziente, la signora Auguste Deter, di 51 anni, affetta da una insolita malattia mentale. Auguste Deter presentava disorientamento, amnesie, difficoltà di espressione e di scrittura, allucinazioni, ossessioni di gelosia verso il marito, aggressività fisica e verbale, insonnia. Dopo essersi reso conto che poteva rappresentare una nuova patologia, Alzheimer decise di interrogare la sua paziente mostrandole molti oggetti e chiedendole, senza successo, di ricordarli. La descrizione di Alzheimer dei sintomi riscontrati nella paziente è considerata la

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prima caratterizzazione neuropsicologica del disturbo (Bondi M. W. et al. 2017):

“La sua memoria è seriamente compromessa. Se le vengono mostrati degli oggetti, li nomina correttamente, ma immediatamente dopo dimentica tutto. Nel leggere un testo, salta da una riga all’altra, legge facendo lo spelling delle singole parole o rende le parole prive di significato attraverso la sua pronuncia. Nello scrivere ripete molte volte alcune sillabe separate oppure ne omette delle altre. Nel parlare usa espressioni parafrasate; qualche volta è evidente che non riesca ad andare avanti. Non capisce alcune domande e non ricorda l’uso di alcuni oggetti”.

Nel 1906, alla morte della sua paziente, il dottor Alzheimer, all’esame autoptico ed istologico, notò tutta una serie di caratteristiche, oggi associate con il disturbo, quali una riduzione delle cellule nervose, la presenza di agglomerati, poi denominati placche amiloidi, e di fasci di fibre aggrovigliate, i cosiddetti grovigli neurofibrillari. Pertanto Auguste Deter fu la prima paziente a cui venne diagnosticata quella che in tempi successivi è stata identificata come malattia di Alzheimer.

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1.2 Eziologia

Il morbo di Alzheimer ha una molteplicità di fattori di rischio, alcuni dei quali sono genetici, altri biologici, altri ambientali, altri ancora legati allo stile di vita e alla casualità. In genere viene classificato in due sottotipi in base all’età di insorgenza: Alzheimer precoce e Alzheimer tardivo o sporadico.

Nel morbo di Alzheimer tardivo (late-onset AD, LOAD) l’età di insorgenza è superiore ai 65 anni. In questo caso sembra essere coinvolto il gene che codifica per l’apolipoproteina E (ApoE), che si trova a livello del cromosoma 19 (Mahley R. W. et al. 2006). Si tratta di una lipoproteina a bassa densità deputata al trasporto del colesterolo di cui ne esistono tre sottotipi codificati da tre diversi alleli, E2, E2, E4. Di queste, una in particolare, l’apolipoproteina E4 (ApoE4), rende più possibile il verificarsi della malattia. L’Alzheimer sporadico è la forma più comune con oltre 15 milioni di persone colpite in tutto il mondo e la probabilità di ammalarsi raddoppia quasi ogni 5 anni dopo i 65 anni.

Il morbo di Alzheimer ad esordio precoce (early-onset AD, EOAD) rappresenta una piccola percentuale di tutti i casi di malattia di Alzheimer, circa il 6%. L’età a cui sopraggiunge varia tra i 30 e i 65 anni. La causa dell’insorgenza di questa forma di demenza di Alzheimer sembra legata alla mutazione di tre geni: APP (Proteina Precursore dell’Amiloide), che si trova sul cromosoma 21, Presenilina 1 (P-SEN1), che si trova sul cromosoma 14 e Presenilina 2 (P-SEN2), che si trova sul cromosoma 1 (Waring, Rosemberg, 2008). La maggior parte delle mutazioni a carico di questi geni determinano un aumento nella produzione di una proteina denominata β-amiloide 42 (Aβ42), che è la principale componente delle pacche amiloidi senili.

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1.3 Patogenesi

La malattia di Alzheimer è caratterizzata principalmente da due lesioni tipiche (Fig.1): l’accumulo di placche senili costituite soprattutto dalla proteina β-amiloide (Aβ) e ammassi neurofibrillari intraneuronali, formati da proteina tau iperfosforilata (Blennow K. et al. 2006). Entrambe queste proteine iniziano ad accumularsi nel cervello diversi anni prima della comparsa dei sintomi clinici.

Figura 1: Cambiamenti cerebrali nella malattia di Alzheimer

Jin J., Alzheimer Disease, Jama, vol. 313, n° 4, aprile 2015, pp. 1488

1.3.1 Pacche amiloidi

Le placche amiloidi o placche senili si sviluppano nell’ippocampo (struttura profonda del cervello che aiuta a codificare i ricordi) e in

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altre aree della corteccia cerebrale, che stanno alla base del pensiero e del prendere decisioni. Queste placche sono dei depositi insolubili di Aβ di forma approssimativamente sferica e dimensioni molto variabili. La proteina Aβ deriva dal taglio proteolitico di una grande glicoproteina di membrana, l’APP (Proteina Precursore dell’Amiloide), costituita da circa 770 amminoacidi. APP può essere scissa dagli enzimi proteolici α-secretasi, β-secretasi (Fig.2).

Figura 2: Metabolismo della proteina precursore dell’Amiloide (APP)

Querfurth H.W. et LaFerla F.M., Alzheimer’s disease, New Engl. J. Med., 2010

L’α-secretasi taglia APP a livello dell’amminoacido 687 generando sAPPα (frammento solubile α), rilasciato nello spazio extracellulare e un frammento C-terminale di 83 amminoacidi (C83). Questo può essere ulteriormente scisso dalla γ-secretasi con conseguente formazione del peptide innocuo p3 e del peptide AICD (APP IntraCellular Domain). Questa è una delle due vie proteolitiche dell’APP che viene definita “via non amilodogenica”.

La β-secretasi scinde l’APP eseguendo un taglio a livello dell’amminoacido 671. Così facendo si formano due frammenti: sAPPβ (frammento solubile β) e il frammento C-terminale di 99

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amminoacidi (C99) che, in seguito all’azione proteolitica della γ-secretasi, può essere ulteriormente scomposto con formazione del peptide AICD e del peptide β-amiloide. Quest’ultimo è formato da 40 amminoacidi (Aβ40) se la γ-secretasi taglia in posizione 711, mentre è formato da 42 amminoacidi (Aβ42) se taglia in posizione 713. Questa è l’altra via proteolitica dell’APP che si chiama “via amilodogenica”. La forma Aβ40 è la più comune delle due, ma Aβ42 è la più incline a formare fibrille amiloidi ed è quindi associata a stati patologici.

Mutazioni a livello dell’APP (raggruppate vicino ai siti di scissione della β-secretasi e della γ-secretasi), così come mutazioni nella Presenilina (uno dei 4 componenti costituenti il complesso proteico γ-secretasi), determinano un aumento nella produzione di Aβ40 e Aβ42 (Kametani F. et Hasegawa M. 2018). Per la sua elevata tendenza ad aggregare, il peptide Aβ forma oligomeri e fibrille insolubili che, accumulandosi a livello extracellulare, formano le placche senili.

Una delle ipotesi di patogenesi descritte nel corso degli anni sostiene che nella sovrapproduzione e accumulo di Aβ risiedano le cause dell’AD (Tanzi R. et Hasegawa M. 2005). I depositi a livello extracellulare di Aβ, infatti, provocano l’attivazione di una risposta infiammatoria (tramite attivazione di microglia e astrociti che sostengono il processo infiammatorio liberando i mediatori dell’infiammazione) e il progressivo danno sinaptico. Secondo questa ipotesi lo stato infiammatorio provocherebbe anche una condizione di stress ossidativo, responsabile di una alterazione a livello delle attività fosforilative con conseguente iperfosforilazione della proteina tau e successiva formazione di ammassi neurofibrillari.

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11 1.3.2 Proteina Tau

La proteina Tau appartiene alla famiglia delle proteine associate ai microtubuli (MAP, Microtubule Associated Proteins) ed è abbondante nei neuroni del sistema nervoso centrale (SNC), soprattutto a livello dell’assone. Nell’uomo il gene MAPT (tau proteico associato ai microtubuli) che codifica per la proteina tau si trova sul cromosoma 17. Esistono 6 isoforme tau con un numero compreso tra 352 (isoforma più corta) e 441 (isoforma più lunga) amminoacidi. Queste differiscono per il numero di inserti (zero, uno o due) di 29 amminoacidi nella parte N-terminale e per il numero (tre o quattro) di sequenze ripetute di 31 amminoacidi nella parte C-terminale. I domini di legame per il microtubulo, che è caricato negativamente, sono tutti di carica positiva.

Tau è una proteina che si lega ai microtubuli garantendo e promuovendo la stabilizzazione e il corretto assemblaggio dei microtubuli citoscheletrici. L’affinità della proteina per i microtubuli è principalmente controllata da suo stato di fosforilazione. La fosforilazione della tau è regolata da una chinasi, la PKN (Taniguchi T. et al. 2001). Nel morbo di Alzheimer l’eccessiva attivazione della chinasi determina la iperfosforilazione di tau, che di conseguenza si stacca dai microtubuli e determina la formazione di aggregati intracellulari insolubili o ammassi neurofibrillari. Le conseguenze patologiche sono quindi compromissione del trasporto assonale, disfunzione sinaptica e morte neuronale (Ward S.M. et al. 2012).

1.4 Quadro clinico

Il morbo di Alzheimer è caratterizzato dalla comparsa di deficit di memoria a carattere ingravescente, a cui, successivamente, si

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aggiungono deficit di altri domini cognitivi. Il decorso clinico della malattia, che è unico per ogni individuo, è di natura progressiva e può essere suddiviso in tre fasi, generalmente anticipate dal

cosiddetto “mild cognitive impairment” (MCI) ossia

deterioramento cognitivo lieve che copre la transizione fra l’invecchiamento normale ed una demenza molto precoce (Peterson R. C. et al. 1999). In questa fase pre-clinica i sintomi sono solitamente piccoli disturbi della memoria, che spesso vengono erroneamente scambiati per invecchiamento, oppure vengono associati a sintomi di tipo depressivo e ansioso (Waldemar G. et al. 2007).

Nella prima fase o demenza lieve, della durata di 2-4 anni, i soggetti si dimostrano incapaci di acquisire nuovi concetti e nuove tecniche e soprattutto è sempre più evidente la loro difficoltà nel ricordare i fatti appresi (Arnáiz E., Almkvist O. 2003). In questa fase si aggiungono anche difficoltà nell’esprimersi ossia nel trovare la parola o il nome giusto, diminuzione delle capacità visuo-spaziali nonché di disorientamento e problematiche nei rapporti con il mondo esterno. La perdita progressiva di queste abilità cognitive interferisce con il normale svolgimento delle attività quotidiane. La persona malata è consapevole delle proprie difficoltà e dei propri fallimenti e il suo umore potrebbe diventare più depresso, tanto che potrebbe ritirarsi dalle attività sociali oppure reagire con manifestazioni aggressive e ansiose.

La seconda fase, o demenza intermedia, della durata di 2-10 anni, è la fase più duratura. Le lacune nella memoria e nel pensare diventano sempre più evidenti e si manifestano con l’incapacità di ricordare i nomi dei familiari, degli oggetti. In questa fase le persone affette cominciano ad avere bisogno di aiuto per svolgere le attività quotidiane. Con il passare del tempo si ha anche una

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diminuzione nella coordinazione motoria con rischio di cadute per cui aumenta anche la necessità di supervisione.

La terza fase o demenza grave, della durata di 3 anni, è caratterizzata da una completa dipendenza dagli altri. Le funzioni intellettive sono gravemente compromesse così come i movimenti; compaiono rigidità degli arti e difficoltà nel camminare che spesso riducono il malato all’immobilità. Dal punto di vista della comunicazione le espressioni verbali sono ridotte a ripetizioni di parole dette da altri, ripetizione continua di suoni o gemiti o persino mutismo.

La suddivisione in fasi ha lo scopo prevalentemente di orientare chi si occupa del malato rispetto alle caratteristiche evolutive della patologia al fine di consentirgli una maggiore consapevolezza di quanto potrà accadere e soprattutto per permettergli un’adeguata pianificazione dell’assistenza. La durata di ogni fase può variare da persona a persona e in molti casi una può sovrapporsi all’altra. Lungo tutto il decorso della malattia, della durata media di 8-15 anni, possono essere presenti, con diverso grado di gravità, anche sintomi non cognitivi come aggressività, depressione, irrequietezza e soprattutto disturbi del sonno.

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2. ALZHEIMER E SONNO: UNA RELAZIONE

BIDIREZIONALE

2.1 Introduzione

Il sonno (dal latino “somnus”) è definito come stato di riposo contrapposto alla veglia ed è un processo fisiologico attivo, che origina dall’interazione di numerosi centri del sistema nervoso centrale e autonomo. Nell’uomo inizia con un periodo di sonno NREM (non-rapid eye movement) per poi passare al fase di sonno REM (rapid eye movement). Queste due fasi si alternano più volte nel corso della notte con cicli della durata di circa 90-100 minuti (Fig. 3).

Figura 3: Ipnogramma rappresentativo delle differenti fasi del sonno

https://medicinaonline.co/2017/01/07/differenze-tra-fase-rem-e-non-rem-del-sonno/

Dopo essersi addormentato il soggetto passa progressivamente dallo stadio 1 del sonno NREM allo stadio 2 di sonno leggero, per

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poi continuare con lo stadio 3 e lo stadio 4 di sonno profondo. Tra i 70 e i 90 minuti dopo l’addormentamento si verifica la prima fase di sonno REM che dura circa 15 minuti. Al termine di questa si conclude il primo ciclo, dopo il quale se ne susseguono altri di durata simile in cui però il sonno REM tende ad aumentare in durata a scapito del sonno NREM. In particolare gli stadi 3 e 4 (sonno profondo) tendono a diminuire nelle ultime ore della notte ed è possibile inoltre che tra i vari cicli vi siano momenti di veglia. Complessivamente il sonno REM costituisce circa il 25% della durata totale del sonno.

Il sonno NREM si caratterizza per una ridotta attività cerebrale. Oggi la divisione del sonno NREM più accreditata è quella in 3 fasi (N1 o sonnolenza, N2 e N3) rispetto a quella in 4 stadi. Nella nuova nomenclatura in tre fasi che è stata adottata sulla base dell’aspetto e delle frequenze delle oscillazioni dell’elettroencefalogramma (EEG), la fase N3 riunisce gli stadi 3 e 4. La prima fase è quella in cui inizia il sonno nell’uomo, durante la quale è elevata la possibilità di svegliarsi poiché il sonno rimane molto leggero. Durante la seconda fase i soggetti si trovano in uno stato di sonno vero e proprio, che però raggiunge la sua massima profondità durante la terza fase (detta anche sonno ad onde lente ossia slow-wave sleep, SWS). Da tempo è nota l’esistenza di una stretta relazione tra il ciclo sonno-veglia e la concentrazione di alcune proteine (Aβ e tau), coinvolte nella malattia di Alzheimer, nel liquido cerebrospinale (CSF). Nonostante l'alta percentuale di pazienti affetti dal morbo di Alzheimer che lamenta disturbi del sonno lungo l'intero decorso della malattia, aumentando di gravità con il progredire della stessa, non è ancora del tutto chiaro se l’alterazione del ritmo sonno-veglia rappresenti una causa o una conseguenza della malattia stessa (Fig. 4).

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Figura 4: Relazione bidirezionale tra sonno e malattia di Alzheimer

Yo-El S. Ju et al., Sleep and Alzheimer disease pathology – a bidirectional relationship, Nature reviews neurology, vol. 10, 2015, pp-115-119

2.2 L’alterazione del ciclo sonno-veglia aggrava l’AD

Le interruzioni croniche del ciclo sonno-veglia possono aumentare il rischio di AD negli esseri umani? Un numero crescente di studi ha cercato di rispondere a questa domanda e soprattutto è riuscito a dimostrare che le persone che soffrono di insonnia o disturbi del sonno sono soggetti ad alto rischio di sviluppare disturbi neuro-degenerativi, come la malattia di Alzheimer (Cedernaes J. et al. 2016).

In uno studio effettuato su più di 700 soggetti, attraverso il monitoraggio per 10 giorni consecutivi con un actigrafo della qualità del sonno, Lim A.S. e alcuni collaboratori hanno dimostrato che i partecipanti con una maggiore frammentazione del sonno (risvegli notturni) hanno un rischio di sviluppare sintomi di AD nei successivi 3 anni; tale rischio è 1.5 volte più alto rispetto a quello

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dei partecipanti che hanno una migliore qualità del sonno indicata da una minore frammentazione del riposo notturno (Lim A.S. et al. 2013).

Vari studi hanno messo in luce la possibile correlazione del sonno con i livelli e l’accumulo della proteina Aβ. Uno studio di Huang e collaboratori ha dimostrato come nell’uomo indipendentemente dall’età e dalla presenza di placche amiloidi già formate si abbiano differenze significative nei livelli di Aβ nel CSF misurati durante la veglia e durante il sonno. In particolare durante la veglia le concentrazioni risultano massime, viceversa i livelli misurati durante il sonno coincidono con la concentrazione minima (Fig. 5; Huang Y. et al. 2012).

Figura 5: Relazione tra sonno e livelli di Aβ nel CSF

Huang Y. et al., Effects of age and amyloid deposition on Aβ

dynamics in the human central nervous system, Arch. Neurol. Vol. 69, 2012, pp. 51-58

I cambiamenti riguardanti il ciclo sonno-veglia, che sembrano precedere l’insorgenza dei sintomi cognitivi nei pazienti con AD, includono non solo la frammentazione notturna del sonno, ma anche un aumento della veglia e una compromissione funzionale dell’attività diurna tramite uno o più brevi riposi diurni. Addirittura, alcuni studi recenti hanno indicato che la mancanza di sonno, anche per una sola notte, può aumentare significativamente i livelli

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di β-amiloide nel cervello, in particolare in quelle aree cerebrali, come l’ippocampo ed il talamo, strettamente connesse con la patologia di Alzheimer sin dai primi stadi della malattia (Shokri-Kojori E. et al. 2018).

L’altra proteine implicata nell’AD è la proteina Tau che subisce, come l’Aβ, una variazione circadiana dei livelli circolanti. La Tau viene rilasciata durante le ore di veglia come conseguenza della normale attività mentale e fisica, mentre diminuisce durante il sonno. Analogamente a quanto visto precedentemente per la proteina Aβ, in un modello murino, la privazione del sonno interrompe questo ciclo e determina un aumento dei livelli di tau di circa il 50% che tende ad accumularsi, rendendo più probabile che la proteina inizi a creare grovigli proteici nocivi (Holth JK. et al. 2019).

Brendan Lucey e colleghi hanno effettuato uno studio, monitorando per sei giorni consecutivi, il sonno di 119 persone di età superiore a 60 anni. Di questi l’80% non presentava deficit di tipo cognitivo, mentre negli altri le abilità cognitive erano solo lievemente compromesse. Ai partecipanti è stato fornito un dispositivo portatile per EEG da posizionare sulla fronte durante il sonno per misurare le onde cerebrali. Inoltre i ricercatori hanno dosato in 104 partecipanti i livelli di Aβ e di proteina tau nel fluido cerebrospinale, mentre 38 partecipanti sono stati sottoposti a scansioni cerebrali mediante tomografia ad emissione di positroni (PET) per mappare la presenza delle due proteine nel cervello. Incrociando tutti i dati raccolti è emerso che una diminuzione della quantità di sonno profondo ad onde lente, o SWS (soprattutto alle frequenze più basse da 1 a 2 Hz), durante la fase del sonno NREM, è correlata con un aumento dei livelli delle proteine tau e Aβ (Fig. 6) in diverse regioni cerebrali (Lucey B. et al. 2019). Da qui si

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deduce quindi che la diminuzione del SWS porta ad un aumento dei livelli di Aβ e tau solubili, che portano ad un aumentato rischio dell’insorgenza di placche amiloidi, di ammassi neurofibrillari e del successivo sviluppo della malattia di Alzheimer sintomatica.

Figura 6: Relazione tra la peggiore qualità del sonno a casa per sei notti e aumento di tau e Aβ

Oomd SJ. et al. Slow wave sleep increases cerebrospinal fluid amyloid-β levels. Brain, vol. 140, 2017

L’importante novità che lo studio appena descritto ha apportato è il fatto che non è la quantità di sonno totale ad essere legata alle variazione delle quantità di proteine coinvolte nell’insorgenza dell’AD, ma quella del sonno ad onde lente, che meglio riflette la qualità del sonno. È infatti noto che le persone affette dal morbo di Alzheimer hanno non solo una riduzione del sonno totale, ma soprattutto una cattiva qualità del sonno con la tendenza a svegliarsi spesso durante la notte e a non godere di un sonno notturno realmente ristoratore.

Nell’ultimo decennio, sono stati postulati diversi possibili meccanismi in grado di spiegare come l’alterazione del sonno possa aggravare le patologie neurodegenerative (Fig. 7).

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Figura 7: Relazione tra i vari meccanismi che legano l’alterazione del sonno e le patologie

neurodegenerative. Jessen Musiek E.S. et al., Mechanisms linking circadian clocks, sleep, and neurodegeneration, Science, vol. 354, 2016, pp. 1004-1008.

2.2.1 Sistema Glinfatico

Il sistema glinfatico è un sistema di rimozione di sostanze di scarto la cui esistenza è stata recentemente dimostrata nel SNC. Il nome di “sistema glinfatico” è stato coniato dalla neuroscienziata danese Maiken Nedergaard come riconoscimento della dipendenza di questo dalle cellule gliali e lo svolgimento di mansioni tipiche del sistema linfatico, ma nel SNC. Il sistema glinfatico, costituito da canali para-vascolari situati intorno ai vasi sanguigni del cervello, promuove la clearance dei metaboliti solubili dal cervello (Fig. 8). Le cellule cerebrali sono circondate da liquido interstiziale (ISF) che contiene, tra le altre cose, anche molecole di scarto extracellulare, che, se non eliminate correttamente, possono essere neurotossiche, come la proteina Aβ e la proteina tau. Il liquido cerebrospinale scorre lungo lo spazio para-arterioso, penetra nel parenchima cerebrale dove si scambia con il liquido interstiziale e dopo aver raccolto i rifiuti metabolici viene spostato nello spazio para-venoso per essere eliminato (Iliff J.J. et al. 2012). Il malfunzionamento di questo sistema di smaltimento delle proteine

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tossiche è stato correlato all’insorgenza di patologie

neurodegenerative come l’AD. In particolare, l’accumulo di proteine misfolded è stato correlato ad una modificazione dell’espressione dell’acquaporina 4 (AQP4). Questo è un canale dell’acqua appartenente alla classe delle acquaporine; media il passaggio secondo gradiente osmotico dell’acqua e gioca un ruolo chiave per il mantenimento della sua omeostasi nel sistema nervoso centrale. Nell’invecchiamento si assiste ad un’alterazione dell’espressione dell’AQ4, o meglio si assiste ad una mancata polarizzazione del flusso di soluti regolata da questo canale. Infatti, la diminuzione dell’espressione dell’AQ4 nelle cellule perivascolari è stata correlata all’accumulo di Aβ e all’insorgenza di AD (Zeppenfeld D.M. et al. 2017)

Figura 8: Effetto del malfunzionamento del sistema glinfatico nell’insorgenza dell’AD

Jessen N.A. et al.,The Glymphatic system: a beginner's Guide, Neurochem. Res., vol. 40, 2015, pp. 2583-99.

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Il sistema glinfatico funziona diversamente durante il sonno e durante la veglia. Durante il sonno c’è un marcato aumento dello spazio interstiziale del cervello rispetto alla veglia per cui il liquido cerebrospinale fluisce più abbondantemente e l’eliminazione delle sostanze tossiche aumenta. Quando invece il sonno è limitato o interrotto il sistema glinfatico non ha abbastanza tempo per adempiere alla sua funzione. Ne consegue che le proteine si accumulano e possono determinare malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. I disturbi del sonno sono quindi stati fortemente legati ad una diminuzione della funzionalità del sistema glinfatico. Lo squilibrio tra produzione di Aβ e clearance di Aβ determina un accumulo di Aβ che comporta l’insorgenza dell’AD (Iliff J.J. et al. 2012).

2.2.2 Attività neuronale

Il sonno SWS, in condizioni normali, è caratterizzato da una ridotta attività neuronale. L’attività neuronale porta ad un aumento dei livelli di Aβ e tau. In particolare, è stato visto che i livelli di queste proteine nel fluido interstiziale è aumentato in seguito all’aumento dell’attività sinaptica, probabilmente legato al rilascio di vescicole per esocitosi (Cirrito J.R. et al. 2005). Durante il sonno SWS i neuroni si trovano spesso in uno stato iperpolarizzato e silente e quindi presentano una ridotta attività neuronale. La presenza di un sonno disturbato ridurrà i periodi di tempo nella fase SWS portando ad un aumento del rilascio di Aβ e tau, con conseguente maggiore deposizione di placca amiloide e groviglio tau e insorgenza dell’AD (Lim M. et al. 2014).

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23 2.2.3 Oressine

Le oressine, o ipocretine, sono una coppia di ormoni neuropeptidici eccitanti che vanno a legarsi a due recettori accoppiati a proteina G, OXR-1 e OXR-2. L’oressina-A è formata da 33 residui

amminoacidici e si lega ad entrambi i recettori

approssimativamente con la stessa affinità. L’oressina-B è costituita da 28 amminoacidi e si lega prevalentemente con OXR-2 in quanto il legame con OXR-1 è 5 volte meno affine. Nonostante questi peptidi siano prodotti da specifici neuroni nell’ipotalamo laterale e posteriore, inviano proiezioni a tutte le parti del cervello.

L’oressina è una molecola che regola la veglia ed è fortemente implicata nella narcolessia e nei disturbi del sonno. Ciò è dimostrato dal fatto che la somministrazione centrare di oressina promuove fortemente la veglia mentre la somministrazione di un antagonista dei recettori dell’oressina come l’almorexant ha ridotto notevolmente la quantità totale di veglia.

I meccanismi proposti alla base di questa correlazione sono vari tra questi troviamo la capacità dell’oressina di inibire la fusione degli autofagosomi con i lisosomi portando ad una diminuzione della clearence dell’Aβ (An H. et al. 2017). Inoltre, poiché i livelli di amiloide β, il peptide che forma le placche di Alzheimer, sono più alti durante le ore di veglia, l’infusione di oressina promuove l’aumento di Aβ, mentre l’iniezione dell’almorexant ne fa diminuire i livelli. Infatti, l’oressina regola i geni del ritmo circadiano (clock genes) nell’ippocampo, questi a loro volta regolano l’espressione di geni come Bace1 and Bace2 che sono strettamente correlati alla produzione di Aβ (Ma Z. et al. 2016). Per questa osservazione è stata suggerita una relazione causale tra modificazioni dei livelli di oressina e morbo di Alzheimer (Kang J.E. et al. 2009).

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24 2.2.4 Apolipoproteina E

Dei 3 sottotipi di apolipoproteina E, quello che rappresenta il fattore di rischio più forte per l’AD in quanto costantemente legato ad un’aggregazione anormale di Aβ è l’apolipoproteina E4. Infatti i portatori omozigoti dell’ApoE4 mostrano tassi più rapidi di accumulo di Aβ rispetto ai portatori eterozigoti e omozigoti dell’ApoE2 ed ApoE3 (Liu C.C. et al. 2013).

I meccanismi alla base del ruolo di ApoE4 nei disturbi neurologici e nel morbo di Alzheimer non sono ancora perfettamente conosciuti. Tramite studi recenti su modelli animali sembra che ApoE4 aumenti la deposizione di amiloide β, compromettendone la clearance. In questo modo si ha una maggiore formazione di placche amiloidi. Indipendentemente dal peptide Aβ, ApoE4 può agire anche attraverso la disregolazione della fosforilazione di tau e modificazioni della struttura citoscheletrica (Mahley R.W. et al. 2006).

In un recente studio è stato dimostrata l’esistenza di un legame tra l’apolipoproteina E ed il ciclo sonno-veglia. Coloro che sono portatori dell’allele ApoE4 subiscono una riduzione della qualità del sonno rispetto agli individui che sono privi dell’allele E4. Da questo studio (Fig. 9) sono emerse differenze significative nei parametri oggettivi del sonno rilevati usando actigrafia e polisonnografia (PSG), mentre non sono emerse differenze nei disturbi del sonno auto-riportati valutati attraverso il Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI). Quest’ultimo fornisce una stima di alcuni parametri del sonno nell’ultimo mese come la qualità del sonno, il tempo di sonno totale, la sonnolenza diurna, l’efficienza del sonno, ecc.

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Figura 9: misura oggettiva (A) e soggettiva (B) dell’efficienza del sonno in soggetti con o senza

l’allele ApoE4. Drogos L.L. et al., Evidence of association between sleep quality and APOE ε4 in healthy older adults, Neurology, vol. 87, ottobre 2016, pp. 1836-1842

In particolare l’analisi con PSG e actigrafia ha mostrato un sonno significativamente peggiore nei soggetti con il genotipo ApoE4 ad alto rischio (ε4+) rispetto a quelli che non l’avevano. Sorprendentemente, i soggetti a rischio, che presentavano un’alterazione del ciclo sonno-veglia, non sono risultati coscienti della cattiva qualità del proprio sonno (Fig. 9B) dimostrando come i soggetti con genotipo ApoE4 mostrino un’oggettiva variazione del ritmo del sonno che precede di molto la percezione soggettiva. I dati emersi da questo studio suggeriscono che un aumento dei disturbi del sonno può essere un meccanismo di base che contribuisce al crescente rischio per la demenza (in particolar modo per l’AD) legato alla presenza dell’apolipoproteina E4 (Drogos L.L. et al. 2016).

2.2.5 Stress ossidativo

Lo stress ossidativo è alla base di diverse patologie tra le quali rientrano anche quelle neurodegenerative come l’AD. “Stress

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ossidativo” significa squilibrio tra produzione di specie chimiche altamente reattive e livello delle capacità di difesa fisiologiche (antiossidanti).

Le specie reattive vengono prodotte continuamente nell’organismo tramite numerosi processi biochimici. Se sono in equilibrio con i sistemi antiossidanti svolgono ruoli utili all’organismo in quanto sono fondamentali per il corretto funzionamento cellulare. Se sono in eccesso, invece, per un’aumentata produzione o per una riduzione delle difese antiossidanti, vanno a danneggiare nelle cellule i lipidi, le proteine e il DNA, contribuendo così alla nascita e all’aggravarsi di diverse patologie (Sompol P. et al. 2008).

Le specie chimiche reattive possono essere di natura radicalica o non radicalica, e possono essere classificate in base all’atomo responsabile della loro reattività in ROS (specie reattive dell’ossigeno), RNS (specie reattive dell’azoto) e RCS (specie reattive del carbonio). Tra le più studiate troviamo l’anione superossido (O2-), il perossido di idrogeno (H2O2), il radicale idrossilico (HO˙·), l’ossido nitrico (NO·), il perossinitrito (ONOO-) ecc. Le specie chimiche reattive di natura radicalica, o radicali liberi, sono molecole che presentano un elettrone spaiato. Questo elettrone le rende molecole altamente instabili, costantemente alla ricerca di altre molecole con cui interagire.

Gli antiossidanti, enzimatici e non enzimatici, sono molecole in grado di stabilizzare o disattivare i radicali liberi, prima che possano danneggiare le cellule. Quelli di natura enzimatica comprendono le catalasi, le superossido dismutasi e la glutatione perossidasi, mentre importanti antiossidanti non enzimatici sono la vitamina E, la vitamina C, i tioli, che possono essere facilmente assunte con la dieta (Rahman K. 2007).

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Il sonno sembra capace di modulare i livelli di antiossidanti endogeni in grado di inattivare i ROS. Quindi si può dire che il sonno svolga un’azione antiossidante, ossia è in grado di eliminare i radicali liberi prodotti durante lo stato di veglia. Tuttavia ad oggi i meccanismi molecolari alla base di quest’azione sono poco chiari. La principale conseguenza di una notte di deprivazione di sonno causa l’aumento dei livelli di specie reattive soprattutto dell’ossigeno (ROS).

Il ruolo chiave giocato dallo stress ossidativo nell’insorgenza dell’AD è ben noto (Butterfield D.A. et al. 2019). L’incremento dei ROS è stato correlato a vari meccanismi patologici che vanno dalla disfunzione mitocondriale, alla diminuzione dei processi autofagici, all’aumentata produzione di Aβ e all’aumento della fosforilazione della tau (Fig. 10). Inoltre i pazienti affetti da Alzheimer mostrano una riduzione dei sistemi antiossidanti enzimatici e non enzimatici.

Figura 10: Meccanismi di correlazione tra lo stress ossidativo e la neurodegenerazione. Chen Z,

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La diminuzione della qualità del sonno porta quindi ad un aumento dei danni indotti da radicali liberi e possano quindi diventare un ulteriore fattore di aggravamento nell’insorgenza del morbo di Alzheimer (Perry G. et al. 2002).

2.2.6 Disturbi respiratori

Uno dei disturbi respiratori, che colpisce dal 30 all’80% degli anziani, è la sindrome delle apnee ostruttive del sonno (Obstructive Sleep Apnea Syndrome, OSAS). È una malattia fino a poco tempo fa sconosciuta, ma che negli ultimi anni ha ottenuto una maggiore attenzione nella diagnosi per i problemi ed i rischi che comporta. Si tratta di un disturbo respiratorio del sonno in cui si hanno ripetuti episodi di totale o parziale ostruzione delle vie aeree superiori. Nello specifico si parla di ipopnea quando l’ostruzione si manifesta come una riduzione del flusso di aria, mentre si parla di apnea quando l’ostruzione si manifesta come una cessazione completa del flusso di aria che di solito si prolunga per almeno 10 o più secondi e che si ripete per molte volte durante il sonno.

Affinché il passaggio dell’aria possa riprendere e l’apnea interrompersi è necessario che il cervello si riattivi anche se per pochi secondi e solitamente in modo inconsapevole. Ecco perché l’apnea del sonno è una condizione che priva i malati di sonno profondo causando loro, inconsciamente, dei risvegli continui. Le persone malate di apnea del sonno, che spesso non sono consapevoli di esserlo, possono svegliarsi fino a più di 35 volte ogni ora.

La sindrome delle apnee ostruttive del sonno comporta, soprattutto nelle persone anziane, un maggiore rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer. Infatti, negli anziani, i livelli di Aβ

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aumentano maggiormente nel tempo nei soggetti affetti da OSAS rispetto ai malati che non presentano apnee; inoltre l’aumento di questa proteina patologica è proporzionalmente alla gravità dell’OSAS stessa. Ciò significa che gli individui con più apnee all’ora sono caratterizzati da un accumulo maggiore di amiloide nel cervello (Daulatzai M.A. et al. 2015).

2.3 Il morbo di Alzheimer influenza la qualità del sonno

Per oltre 25 anni i disturbi del sonno sono stati associati al morbo di Alzheimer e sembra che la deposizione di amiloide possa causare la frammentazione della veglia attraverso diversi meccanismi. In tal senso soprattutto studi su modelli animali sono stati utili per provare la relazione causale diretta che esiste tra la deposizione della placca amiloide e i disturbi del ritmo sonno-veglia. Ad esempio in uno studio su topi transgenici che sovraesprimono i geni APP e P-SEN1 e che quindi sviluppano placche Aβ in tutto il cervello, il ciclo sonno-veglia diventa anomalo con un aumento del tempo di veglia e una diminuzione del sonno. Queste alterazioni procedono parallelamente alla deposizione delle placche e peggiora sempre di più man mano che le placche si diffondono. Solo quando le placche amiloidi sono state eliminate utilizzando l'immunizzazione attiva con un anticorpo diretto verso l’Aβ42, il ciclo sonno-veglia è tornato alla normalità (Roh J.H. et al. 2012). Successivamente sono stati effettuati anche diversi studi sull’uomo che suggeriscono che la patologia cerebrale dell’Alzheimer colpisca soprattutto i circuiti importanti per il normale ciclo sonno-veglia, determinandone l’interruzione. A tal proposito nella patogenesi dell’AD, soprattutto nella fase iniziale, è stata descritta la degenerazione del locus coeruleus che è la principale fonte di

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noradrenalina e una regione critica per il mantenimento della normale veglia (Weinshenker D. 2008).

L’accumulo di β-amiloide porta anche ad una deregolazione della segnalazione neuronale di Ca2+. I cambiamenti nella segnalazione di Ca2+ sembrano anch’essi coinvolti nel peggioramento del ciclo sonno-veglia nella malattia di Alzheimer con un aumento della veglia (Roh J.H. et al. 2012).

Infine ci sono anche dei fattori indiretti che possono determinare l'interruzione del sonno durante l'AD, ossia che contribuiscono a dormire male nei pazienti affetti da morbo di Alzheimer, creando un ciclo vizioso tra la patologia e i disturbi del sonno-veglia. Il primo tra questi è l’invecchiamento, con l’aumentare dell’età le ore di sonno tendono fisiologicamente a diminuire. Esistono poi fattori sociali che possono influenzare negativamente l’andamento del sonno aggravando la patologia, tra questi troviamo la pensione dal lavoro, che ad esempio può contribuire all’attività irregolare del sonno con ritmi circadiani più frammentati, periodi più frequenti di veglia notturna e inattività durante il giorno (Luik AI. et al. 2013). Un altro fattore sociale che può influenzare il sonno è l’esposizione insufficiente alla luce e una diminuzione dell’attività, soprattutto in contesti istituzionali; questi fattori possono essere associati ad un ulteriore deterioramento dei ritmi sonno-veglia. Infine, anche l’assunzione di farmaci usati per trattare l’agitazione o altre comorbidità, come la depressione, nei soggetti con AD, può portare ad una ridotta sincronia dei ritmi circadiani e dei periodi di sonno (Ancoli-Israel S. et al. 1997).

Il periodo che precede la comparsa dei sintomi cognitivi rappresenta una finestra temporale clinicamente rilevante per poter intervenire da un punto di vista terapeutico. L’obiettivo

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principale è riconoscere i sintomi precoci della malattia prima che le capacità cognitive vengano compromesse irrimediabilmente. Nel futuro, proprio il sonno, forse, potrà essere un modo semplice e conveniente per lo screening precoce della malattia di Alzheimer in quanto l’inizio di un cambiamento a livello delle abitudini del sonno potrebbero rappresentare un importante segnale d’allarme.

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3. INDICAZIONI TERAPEUTICHE EMERGENTI

La demenza attualmente è la principale causa di assistenza necessaria agli anziani e sta diventando una problematica per la salute pubblica in quanto il numero di pazienti affetti da demenza, e in particolar modo da morbo di Alzheimer, sta rapidamente crescendo in tutto il mondo (Sosa-Ortiz A.L. et al. 2012). Allo stato delle attuali conoscenze per la terapia farmacologica della malattia di Alzheimer non è ancora disponibile un trattamento “causale” che permetta di rimuovere completamente la causa della malattia bensì esistono farmaci, cosiddetti “sintomatici”, che sono finalizzati all’attenuazione delle manifestazioni cliniche della malattia, tra cui troviamo appunto l’ansia e i disturbi del sonno.

3.1 Trattamento farmacologico per i disturbi del sonno

I farmaci sedativo-ipnotici, comunemente impiegati nella terapia dell’ansia, della depressione e dell’insonnia, sonno oggetto di molti studi finalizzati a valutare l’esistenza di una relazione tra il loro utilizzo e il morbo di Alzheimer. I farmaci sedativo-ipnotici comprendono le benzodiazepine e i nuovi farmaci cosiddetti “Z-drugs”.

Le benzodiazepine, spesso abbreviate BDZ, comprendono una vasta gamma di composti come alprazolam, triazolam, lormetazepam, diazepam, ecc. Sono una classe di psicofarmaci costituiti da un anello aromatico (A) e da un anello diazepinico (B) formato da 7 atomi di cui 5 di carbonio e 2 di azoto (Fig.11).

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Figura 11: Struttura chimica delle benzodiazepine

Bossini L. et al., Journal of psycopathology, vol. 19, 2013, pp.272-286

In posizione 1 è presente un atomo di azoto R1 portante vari sostituenti, in posizione 2 generalmente si ha un carbonio carbonilico, in posizione 3 un sostituente R3, in posizione 5 un anello aromatico orto-sostituito (anello C) e in posizione 7 un sostituente R7.

Le benzodiazepine aumentano l’effetto del principale

neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale, l’acido gamma-amminobutirrico (GABA), a livello del recettore GABAA. Il recettore ionotropico GABAA è uno dei due recettori per il GABA, presente a livello del sistema nervoso, assieme al recettore GABAB. Si tratta di un canale per il cloro presente a livello postsinaptico in molti neuroni. Il canale è formato da 5 subunità (2 subunità α, 2 subunità β e 1 subunità γ) disposte intorno ad un poro centrale. Il GABA è l’agonista endogeno del recettore che si lega prevalentemente ad un sito posto tra le subunità α e β, mediando una modificazione allosterica che fa aprire il canale per il cloro. Le benzodiazepine si legano ad un sito recettoriale diverso rispetto al GABA, all’interfaccia tra la subunità α e la subunità γ (Fig. 12).

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Figura 12: Rappresentazione schematica in sezione trasversale del recettore GABAA

Bossini L. et al., Journal of psycopathology, vol. 19, 2013, pp.272-286

Il legame del GABA determina l’apertura del canale del Cl- con conseguente ingresso, nelle cellule nervose, dello ione che provoca un’iperpolarizzazione e dunque una riduzione dell’eccitabilità delle cellule stesse. Le benzodiazepine legandosi al recettore GABAA determinano un aumento dell’affinità del ligando endogeno al suo sito di legame che comporta una maggiore iperpolarizzazione della membrana neuronale e un ritardo nell’insorgenza del nuovo potenziale d’azione. Così facendo le benzodiazepine potenziano l’effetto inibitorio del GABA portando ad effetti sedativi e ansiolitici (Hanson S.M. et Czajkowski C. 2008).

I cosiddetti farmaci Z, che comprendono zopiclone, eszopiclone, zaleplon e zolpidem, sono stati introdotti sul mercato negli anni ’90 e approvati per l’insonnia. Sono agenti ipnotici non benzodiazepinici, appartenenti alla famiglia delle imidazopiridine, che però potenziano l’attività del GABA, in maniera analoga a quando precedentemente visto per le BDZ (Brandt J. et Leong C. 2017). Mentre le benzodiazepine sono attive e si legano in modo non selettivo sia al sottotipo recettoriale omega-1 (BDZ-1) sia a quello omega-2 (BDZ-2) del complesso recettoriale GABAA, i

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farmaci Z hanno una spiccata affinità soprattutto per BDZ-1, che è quello maggiormente implicato nell’azione ansiolitica ed ipnotica.

3.2 BDZ: fattore di rischio o fattore di protezione?

La relazione tra l’uso delle benzodiazepine e lo sviluppo di demenza è controversa. Attualmente esistono opinioni divergenti sul loro uso in quanto esistono studi che indicano che le benzodiazepine potrebbero essere un fattore di rischio e altri che indicano le BDZ come fattore di protezione.

3.2.1 Benzodiazepine come fattore di rischio

Nonostante sia noto da tempo che le benzodiazepine sono in grado di causare, in molti pazienti, disfunzione cognitiva acuta e reversibile (linguaggio confuso, amnesia transitoria, ecc.) solo recentemente tramite meta-analisi di casi-controllo, studi prospettici di coorte e studi osservazionali è emerso che l’uso di BDZ negli anziani è associato ad un aumentato rischio di declino cognitivo incidente o demenza (Lee J. et al. 2018, Zhong G.C. et al. 2015, Islam M.M. et al. 2016, Gray S.L et al. 2016, Takada M. et al. 2016, Billioti de Gage S. et al. 2012, Lucchetta R.C. et al. 2018).

Nello specifico è stato stimato un aumento del rischio di demenza da 1,5 a 2 volte nei consumatori di benzodiazpine a lungo termine rispetto a coloro che non hanno mai fatto uso di BDZ (Billioti de Gage S. et al. 2015).

Uno studio in particolare, condotto da Tan S. e colleghi, ha posto l’attenzione sull’associazione tra l’uso a lungo termine di BDZ e l’insorgenza di possibili effetti avversi tra cui deficit di tipo motorio,

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accumulo di Aβ e cambiamenti nei livelli di espressione di varie proteine nel cervelletto. Tramite questo esperimento sono riusciti a scoprire come l’uso continuo di BDZ possa essere collegato ad una aumentata insorgenza dell’AD. In particolare hanno trovato un collegamento diretto tra l’assunzione di questi farmaci e la variazione di vari meccanismi che portano all’aggravamento dei deficit cognitivi: diminuzione dell’espressione della proteina traslocatrice TSPO, accumulo di Aβ, aumento dell’espressione di PSEN-1, e diminuzione della neprilisina (Tan S. et al. 2018).

In questo studio Tan S. e collaboratori hanno somministrato intraperitonealmente con BDZ, e in particolar modo con lorazepam, una volta al giorno per 20 giorni alcuni vecchi topi. Al termine di questo periodo, dopo aver valutato le capacità di movimento ed equilibrio, i topi sono stati usati per il prelievo del cervelletto per misurare i livelli di varie proteine.

Per quanto riguarda la proteina TSPO i topi trattati con BDZ hanno mostrato livelli significativamente diminuiti (Fig. 13). Le benzodiazepine oltre ad avere affinità per il complesso recettoriale inibitore del GABA (attraverso il quale esercitano il loro effetto terapeutico), si legano anche alla proteina TSPO che precedentemente era nota come recettore periferico delle benzodiazepine (PBR) per la sua proprietà di legare il diazepam (Batarseh A. et Papadopoulos V. 2010). Il TSPO, delle dimensioni di 18kDa, è situata prevalentemente sulle membrane esterne dei mitocondri e tra le varie funzioni biologiche è stata dimostrata avere anche un effetto neuroprotettivo, ossia cerca di far fronte al danno cellulare in conseguenza a vari danni cerebrali, invecchiamento e neuroinfiammazione (Da Pozzo et al. 2015). L’assunzione di BZD sembra essere collegata ad una diminuzione

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dell’espressione del TSPO nel cervelletto, portando ad una mancata protezione dei danni cellulari (Tan S. et al. 2018).

Figura 13: Livelli di proteina TSPO con e senza trattamento con BDZ a confronto

Tan S. et al., Chronic benzodiazepine suppresses translocator protein and elevates amyloid β in mice, Pharmacology, Biochemistry and Behavior, vol. 172, 2018, pp. 59-67

Nel caso della proteina Aβ è emerso che sia Aβ40 che Aβ42 erano significativamente aumentati nei topi trattati con BDZ (Fig. 14). Un aumento nella quantità e nella produzione di Aβ porta al suo accumulo e aggregazione nel cervello per cui l’uso di BDZ è associato ad un aumentato rischio di AD.

Figura 14: Livelli di proteina Aβ40 (A) e Aβ42 (B) con e senza trattamento con BDZ a confronto

Tan S. et al., Chronic benzodiazepine suppresses translocator protein and elevates amyloid β in mice, Pharmacology, Biochemistry and Behavior, vol. 172, 2018, pp. 59-67

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Tan S. ha dimostrato anche la correlazione dell’assunzione delle BDZ con fattori predisponenti l’AD tra cui l’aumento dell’espressione di PSEN-1 (Fig. 15) e la diminuzione dell’espressione della neprilisina (Fig. 16). Infatti, la proteina Aβ è prodotta dal complesso enzimatico γ-secretasi di cui la PSEN-1 rappresenta un importante componente, inoltre, l’Aβ è soggetta a degradazione proteolica mediata da metalloproteasi come la neprilisina (aiuta nell’eliminazione dell’Aβ). Ne consegue che l’eccessiva PSEN-1 e l’insufficiente neprilisina sono associate ad accumulo di Aβ e dunque indirettamente all’insorgenza dell’AD.

Figura 15: Livelli di proteina PSEN-1 con e senza trattamento con BDZ a confronto

Tan S. et al., Chronic benzodiazepine suppresses translocator protein and elevates amyloid β in mice, Pharmacology, Biochemistry and Behavior, vol. 172, 2018, pp. 59-67

Figura 16: Livelli di proteina neprisilina con e senza trattamento con BDZ a confronto

Tan S. et al., Chronic benzodiazepine suppresses translocator protein and elevates amyloid β in mice, Pharmacology, Biochemistry and Behavior, vol. 172, 2018, pp. 59-67

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Come si può dedurre anche dallo studio appena descritto è plausibile l’esistenza di una stretta relazione tra l’uso di BDZ e il conseguente rischio di sviluppare Alzheimer. Sebbene il meccanismo biologico per questo fenomeno sia tutt’oggi non perfettamente conosciuto e definito, la scoperta del rischio di demenza associato all’uso di benzodiazepine è stata fondamentale nella pratica clinica. Infatti i pazienti che usano questa tipologia di farmaci devono essere attentamente monitorati per lo sviluppo di demenza durante l’intero periodo di utilizzo. Inoltre anche se le benzodiazepine sono strumenti, senza dubbio, utili per la gestione dei disturbi d’ansia e dell’insonnia transitoria, i trattamenti, come indicano le linee guida internazionali, dovrebbero essere di breve durata e non superare i tre mesi.

Alla luce di quanto appena descritto, diventa fondamentale che i medici bilancino attentamente i benefici e i rischi quando decidono di iniziare o rinnovare un trattamento con benzodiazepine e prodotti correlati nei pazienti più anziani così come nei giovani adulti. Infatti nonostante la mancanza di dati per i pazienti più giovani, il principio di precauzione sosterrebbe l’estensione di tale raccomandazione anche a loro.

3.2.2 Benzodiazpeine come fattore di protezione

Sebbene molti studi abbiano messo in evidenza una correlazione tra l’uso di BZD e l’insorgenza dell’AD, negli ultimi anni alcuni studiosi hanno messo in discussione i loro effetti, sottolineando come questi farmaci possano rappresentare un fattore di protezione nei confronti della demenza piuttosto che un fattore di rischio.

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In particolare Arbo B.D. e colleghi in un loro studio del 2017 hanno dimostrato come l’attivazione di TSPO tramite il ligando 4’-clordiazepam (4’-CD) abbia un potenziale neuroprotettivo nei confronti degli effetti citotossici indotti dalla proteina Aβ. Non solo, dallo studio è emerso che gli effetti neuroprotettivi di 4’-CD sono associati ad una maggiore espressione di superossido dismutasi (SOD) che gioca un ruolo chiave nel morbo di Alzheimer. Infatti l’AD è una malattia correlata allo stress ossidativo e l’accumulo di Aβ è associato ad un aumento dei livelli di specie reattive dell’ossigeno e alla riduzione dei livelli e delle attività degli enzimi antiossidanti, tra cui appunto la superossido dismutasi (Butterfield D.A. et al. 2013). Lo studio è stato effettuato su delle sezioni di ippocampo ottenute da cervelli estratti da otto ratti. Sono state scelte delle colture di ippocampi in quanto preservano le connessioni tra neuroni e cellule gliali. Quest’ultime sono importanti poiché sono le cellule dove l’espressione di TSPO è generalmente più elevata (Chen M.K. et al. 2008). Dopo aver osservato la neurotossicità della proteina Aβ la cui somministrazione per 72 ore ha indotto una riduzione della vitalità delle colture ippocampali, è stato valutato il potenziale neuroprotettivo di 4’-CD (Fig. 17).

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Figura 17: Diminuzione della citotossicità indotta da proteina Aβ in seguito a trattamento con

4’-CD. Arbo B.D. et al., 4′-Chlorodiazepam is neuroprotective against amyloid-beta in organotypic hippocampal culture, Journal of Steroid Biochemistry and Molecular Biology, vol. 171, 2017, pp.

281-287

Come si evince dal grafico, nello studio in questione è emerso che il trattamento con concentrazioni crescenti di 4’-CD ha permesso di ridurre significativamente gli effetti tossici indotti dall’Aβ. Inoltre è stato osservato che la somministrazione di 4’-CD ha aumentato significativamente l’espressione di SOD dopo la somministrazione di Aβ (Fig. 18).

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Figura 18: Aumento dei livelli di SOD in seguito a trattamento con 4’-CD

Arbo B.D. et al., 4′-Chlorodiazepam is neuroprotective against amyloid-beta in organotypic hippocampal culture, Journal of Steroid Biochemistry and Molecular Biology, vol. 171, 2017, pp.

281-287

Così facendo è stato individuato un possibile meccanismo di neuroprotezione della benzodiazepine. Sebbene gli effetti neuroprotettivi di 4’-CD nei confronti dell’Aβ sembrano essere correlati alla modulazione dell’espressione proteica di SOD piuttosto che alla modulazione diretta del TSPO.

3.3 Trattamento non farmacologico dei cambiamenti del

sonno

La necessità di riuscire a mantenere una quantità e una qualità sufficiente di sonno sembra essere fondamentale per il trattamento e la cura dell’AD. La maggior parte delle persone affette da morbo di Alzheimer, infatti, soffre di disturbi del sonno le cui cause possono essere di diversa natura. Di giorno i malati di AD non svolgono grandi attività e di conseguenza di notte non sono stanchi; i pisolini frequenti e lunghi durante il giorno fanno in modo che i malati abbiano già dormito abbastanza prima che faccia notte; spesso verso sera diventano più attivi e irrequieti per cui addormentarsi diventa più difficoltoso. Infine il ritmo circadiano con la malattia viene alterano e quindi i malati non riescono a distinguere il giorno dalla notte.

I trattamenti non farmacologici volti alla promozione del riposo cercano soprattutto di intervenire sullo stile di vita e sui comportamenti delle persone che soffrono di disturbi del sonno.

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43 3.3.1 Stile di vita

Gli interventi sullo stile di vita per aumentare l'esercizio fisico e migliorare la dieta sono stati al centro di recenti studi clinici per prevenire i disturbi del sonno e quindi indirettamente la malattia di Alzheimer.

Recentemente, è emersa in maniera sempre più preponderante la necessità di intervenire sulle abitudini quotidiane per promuovere il riposo di una persona con Alzheimer. Si consiglia infatti di mantenere orari regolari sia per i pasti, che per l’orario di andare a letto e del risveglio, di cercare l’esposizione alla luce solare del mattino, di evitare l’alcol, la caffeina e la nicotina, di assicurarsi che la temperatura della camera da letto sia confortevole, di fornire luci notturne, di scoraggiare la visione della televisione durante i periodi di veglia e di incoraggiare l’esercizio fisico regolare, possibilmente non oltre quattro ore prima di coricarsi.

Un corretto stile di vita, infatti, nonostante i meccanismi siano ancora in via di definizione, è in grado di agire considerevolmente nella promozione di un corretto ritmo circadiano. In base ad alcune statistiche è stato riscontrato che nei soggetti ad alto rischio genetico, l’abitudine a seguire uno stile di vita sano, ha ridotto del 32% la possibilità di sviluppare il morbo di Alzheimer. In questo contesto ricoprono un ruolo fondamentale un’adeguata dieta ed un’adeguata attività fisica (Fratiglioni L. et al. 2004).

Per quanto riguarda l’esercizio fisico, tramite alcuni studi è emerso che un esercizio fisico moderato è importante in quanto può migliorare la mobilità e aiutare a mantenere l’indipendenza. In modo particolare, nelle persone affette da Alzheimer, è stato dimostrato che l’esercizio fisico leggero e la camminata possono

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ridurre il vagare, l’aggressività e l’agitazione, che possono portare ad insonnia (Heyn P. et al 2004).

L’altro aspetto importante per mantenere uno stile di vita sano e una buona qualità del sonno è la dieta, e più in generale le abitudini alimentari. È stato infatti dimostrato come l’assunzione di alcune sostanze possa migliorare il sonno (Peuhkuri et al. 2012). Una tra le sostanze più importante è il triptofano, amminoacido necessario per produrre la serotonina e la melatonina.

Il triptofano è classificato tra gli amminoacidi essenziali ossia quelli che l’organismo umano non è in grado di sintetizzare ma devono essere ricavati attraverso l’alimentazione (Yao K. et al. 2011). È un elemento che si trova nella grande maggioranza delle sostanze proteiche e in particolare si trova nelle carni, nei formaggi, nel pesce, nei legumi, nei latticini, nel cioccolato, nelle arachidi, nelle uova e nei semi di sesamo.

Il triptofano è fondamentale per l’organismo umano in quanto contribuisce alla sintesi (Fig. 19) della serotonina, che svolge un ruolo essenziale nella regolazione dell’umore e favorisce il sonno profondo, e della melatonina, noto anche come “ormone del sonno” per la sua capacità di regolare i ritmi circadiani (Kaluzna-Czaplinska J. et al. 2019).

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Figura 19: Sintesi di serotonina e melatonina a partire dal triptofano

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f0/Biosintesi_della_melatonina.JPG

La serotonina o 5-idrossitriptamina (5-HT) viene prodotta da un gruppo relativamente piccolo di cellule, principalmente contenute in strutture chiamate nuclei del rafe, le cui connessioni si estendono per tutto il sistema nervoso centrale, fino alla spina dorsale. Come precursore della melatonina, alti livelli di serotonina ci permettono di riposare bene, mentre bassi livelli possono essere causa di insonnia e altri disturbi del sonno.

La melatonina è un ormone prodotto dalla epifisi, posta alla base del cervello che agisce sull’ipotalamo e tra le varie funzioni ha quella di regolare il ciclo sonno-veglia. Viene sintetizzata in assenza di luce e le sue concentrazioni nel sangue aumentano rapidamente dopo la comparsa dell’oscurità, fino a raggiungere il massimo tra le 2 e le 4 di notte per poi ridursi gradualmente all’approssimarsi del mattino (Bubenik G.A. et al. 2011).

Nel 2013 uno studio effettuato da Bravo R. e colleghi ha dimostrato l’efficacia dell’assunzione del triptofano sulla qualità del sonno, e sui livelli di serotonina e melatonina. Nel suddetto studio i partecipanti erano 45 volontari con età compresa tra 55 e 75 anni, che soffrivano di disturbi nell’insorgenza e nella frammentazione del sonno. Lo studio è stato svolto in tre settimane: la prima settimana di controllo prevedeva l’assunzione di 30g di cereali contenenti 22,5 mg di triptofano; la seconda settimana di trattamento prevedeva l’assunzione di 30g di cereali arricchiti con triptofano per un totale di 60mg di amminoacido; la terza settimana di post-trattamento non prevedeva l’assunzione di cereali e dunque di triptofano e i volontari dovevano consumare la loro dieta abituale.

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Per valutare come il triptofano influisse anche sui livelli di serotonina e di melatonina sono stati misurati nelle urine i rispettivi metaboliti di escrezione: l’acido 5-idrossindoleacetico (5-HIAA) e 6-solfatoxymelatonin (aMT6s). In questo caso i risultati hanno evidenziato un aumento di entrambi i metaboliti al termine della seconda settimana di trattamento rispetto alla prima e alla terza settimana e ciò conferma l’importanza dell’amminoacido nella sintesi dei due ormoni.

Tramite actimetri da polso, invece, sono stati raccolti i dati per valutare alcuni parametri, come il tempo di sonno effettivo, la latenza del sonno, l’efficienza del sonno, il tempo immobile, il numero di risvegli, l’attività totale e l’indice di frammentazione (Fig. 20 e Fig. 21).

Figura 20: Diagrammi dei livelli del tempo effettivo di sonno, dell’efficienza del sonno e del tempo

immobile. Bravo R. et al., Tryptophan-enriched cereal intake improves nocturnal sleep, melatonin, serotonin, and total antioxidant capacity levels and mood in elderly humans, Age, vol. 35, agosto

2013, pp. 1277-1285

Come si evince dai grafici (Fig. 20) il tempo di sonno effettivo, l’efficienza del sonno e il tempo immobile erano significativamente aumentati nella settimana di trattamento (in cui si aveva il maggior

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quantitativo di triptofano) rispetto alla settimana di controllo e alla settimana di post-trattamento (i cui valori erano simili tra loro).

Figura 21: Diagrammi dei livelli di latenza del sonno, del numero di risvegli, dell’attività totale e

dell’indice di frammentazione. Bravo R. et al., Tryptophan-enriched cereal intake improves nocturnal sleep, melatonin, serotonin, and total antioxidant capacity levels and mood in elderly

humans, Age, vol. 35, agosto 2013, pp. 1277-1285

I valori di latenza del sonno, del numero di risvegli, di attività totale e dell’indice di frammentazione, invece, sono risultati significativamente inferiori ai valori di controllo e di post-trattamento (Fig. 21).

Tramite questo studio, quindi, è stato dimostrato che la giusta assunzione di triptofano può avere effetti benefici sul ciclo sonno-veglia, in questo caso specifico, nelle persone anziane (Bravo R. et al. 2013), per cui una dieta ricca di alimenti contenenti triptofano può essere utile per migliorare i problemi di insonnia e di consolidamento del sonno.

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48 3.3.2 Terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia

Un ulteriore trattamento per i disturbi del sonno che non prevede l’utilizzo di farmaci è la terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia, talvolta denominata anche CBT-I. Si tratta di un programma volto sia ad identificare e sostituire i pensieri che stanno alla base del peggioramento dei problemi del sonno sia a promuovere i comportamenti che, al contrario, ne facilitano la risoluzione (Alessi C. et Vitiello M.V. 2015).

Rispetto all’utilizzo di medicinali, la CBT-I si focalizza sulle cause profonde dei problemi di sonno piuttosto che sugli effetti evidenti. Inoltre può essere il trattamento migliore per la cura dell’insonnia nel lungo periodo soprattutto in relazione alla possibile insorgenza di reazioni collaterali da parte dei farmaci.

La terapia cognitivo comportamentale per il trattamento dell’insonnia fornisce al paziente gli strumenti necessari per sviluppare delle corrette abitudini al fine di raggiungere lo stato di sonno impedendo che sorgano i comportamenti responsabili del cattivo riposo. In base alle necessità del singolo, che emergono tramite la compilazione di un diario del sonno in un periodo di una o due settimane, viene scelta una delle diverse tecniche di terapia: - Terapia del controllo degli stimoli: mira ad associare il letto al

sonno e a limitare la sua associazione a comportamenti stimolanti. Ad esempio il paziente potrebbe imparare ad andare a letto solo quando è stanco, ad impostare il corretto orario di sonno e di risveglio e a spostarsi in un’altra stanza se non riesce a dormire entro 15 minuti.

- Educazione sul sonno: permette di comprendere i concetti chiave del sonno come il ritmo circadiano, per mettere in atto dei cambiamenti efficaci.

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