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Regia teatrale e immagini in movimento: il live cinema di Katie Mitchell

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Academic year: 2021

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LA VALLE DELL’EDEN

semestrale di cinema e audiovisivi

n. 36

2020

scalpendi

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Direttore responsabile

Grazia Paganelli (Museo Nazionale del Cinema). Direttori

Giaime Alonge (Università di Torino), Giulia Carluccio (Univer-sità di Torino), Luca Malavasi (Univer(Univer-sità di Genova), Federica Villa (Università di Pavia).

Comitato scientifico

Paolo Bertetto (Università di Roma La Sapienza), Francesco Casetti (Yale University), Richard Dyer (King’s College London), Ruggero Eugeni (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), Tom Gunning (University of Chicago), Giacomo Manzoli (Università di Bologna), Enrico Menduni (Università di Roma 3), Catherine O’Rawe (University of Bristol), Peppino Ortoleva (Università di Torino), Guglielmo Pescatore (Università di Bologna), Francesco Pitassio (Università di Udine), Jacqueline Reich (Fordham University), Rosa Maria Salvatore (Università di Padova), Antonio Somaini (Université Sorbonne Nouvelle Paris III), Pierre Sorlin (Université Sorbonne Nouvelle Paris III), Veronica Pravadelli (Univeristà di Roma 3). Comitato direttivo

Silvio Alovisio (Università di Torino), Alessandro Amaducci (Università di Torino), Luca Barra, (Università di Bologna), Claudio Bisoni (Università di Bologna), Gabriele D’Autilia (Università di Teramo), Raffaele De Berti (Università di Mi-lano), Ilaria De Pascalis (Università di Bologna), Damiano Garofalo (Università di Roma La Sapienza), Michele Guerra (Università di Parma), Ilario Meandri (Università di Torino), Andrea Minuz (Università di Roma La Sapienza), Emiliano Morreale (Università di Roma La Sapienza), Mariapaola Pieri-ni (UPieri-niversità di Torino), Franco Prono (UPieri-niversità di Torino), Chiara Simonigh (Università di Torino), Andrea Valle (Univer-sità di Torino).

Redazione

Teresa Biondi (Università di Torino), Lorenzo Donghi (Univer-sità di Pavia), Riccardo Fassone (Univer(Univer-sità di Torino), Giuliana Galvagno (Università di Torino), Ismaela Goss (Università di Ge-nova), Andrea Mattacheo (Università di Torino), Matteo Pollone (Università di Torino), Gabriele Rigola (Università di Torino), Hamilton Santià (Università di Torino), Bruno Surace (Università di Torino), Jacopo Tomatis (Università di Torino), Sara Tongiani (Università di Genova), Deborah Toschi (Università di Pavia). Coordinamento redazione

Cristina Colet (Università di Torino), Giulia Muggeo (Univer-sità di Torino).

Stampato con il contributo di

Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Torino; Dipar-timento di Studi Umanistici, Università di Pavia.

In copertina

Particolare dal fotodocumentario Narrare la Lucania, testi di Ernesto de Martino, immagini di Benedetto Benedetti In quarta di copertina

Particolare dal fotodocumentario Roma Proibita, testo di Roberto Manetti, immagini di Marisa Mastellini La Valle dell’Eden

Semestrale di cinema e audiovisivi © 2020, Scalpendi editore, Milano ISBN: 979-12-5955-049-1 ISSN: 1970-6391 Progetto grafico e copertina © Solchi graphic design, Milano Montaggio e post produzione Roberta Russo Caporedattore Simone Amerigo Redazione Manuela Beretta Adam Ferrari Referenze fotografiche © Gianmarco Bresadola, p. 17 © Stephen Cummiskey, pp. 16, 21 © Alain Martin, p. 20

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elet-tronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scrit-ta dei propriescrit-tari dei diritti e dell’editore. Tutti i diritti riservati. L’editore è a disposizione per eventuali diritti non riconosciuti

Prima edizione: giugno 2020 Scalpendi editore S.r.l. Sede legale e sede operativa Piazza Antonio Gramsci, 8 20154 Milano

www.scalpendi.eu

Registrazione presso il Tribunale di Torino n. 5179 del 04/08/1998

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Una macchina per stampare il sogno… Giambattista Basile va al cinema

Stefania Rimini 7

Regia teatrale e immagini in movimento: il live cinema di Katie Mitchell

Federica Mazzocchi 15

Alta pressione e febbre gialla.

La cultura giovanile nell’Italia degli anni sessanta tra televisione, radio e cinema

Giulia Muggeo 25

Immagini, testimonianze, autorappresentazione nazionale. Il neorealismo di carta di “Cinema Nuovo”

Angelo Pietro Desole, Francesco Pitassio 33 «Nous sommes tous des “Voleurs de bicyclette”».

Il “culto” di De Sica e Zavattini presso la critica cattolica francese

Livio Lepratto 49

Dalla carta allo sceneggiato.

Pratiche di adattamento e censura nei copioni Rai. Il caso de Il giornalino di Gian Burrasca

Giuliana C. Galvagno, Anna Rita Buono 61 Il “Fondo Memè Perlini”: gli inediti dell’artista marchigiano

Antonio Valerio Spera 71

L’invisibile in prima linea.

Pratiche e strumenti della radiologia di emergenza nella Grande Guerra

Simone Dotto, Greta Plaitano 79

Marcello Mastroianni, Elio Petri e L’Assassino: inquietudine della modernità italiana

Fabio Pezzetti Tonion 91

Medical dramas: forme di riciclo narrativo nella produzione audiovisiva seriale

Marta Rocchi 99

Abstracts 107

sommario

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15 il live cinema di katie mitchell

Mettere in scena il cinema

Il dialogo ormai centenario tra la scena di prosa e il cinema continua ad arricchirsi di nuove voci creative. Forzando un po’ i termini del discorso, due sono le modalità principali del rapporto tra teatro e settima arte. La prima, relativamente recente, usa i grandi film come copioni, al pari dei classici di Shakespeare o di Pirandello. È il caso per esempio di

Osses-sione di Ivo Van Hove da Luchino Visconti (2017), o di La classe operaia va in paradiso

di Claudio Longhi da Elio Petri (2018), o ancora di I soliti ignoti di Vinicio Marchioni da Mario Monicelli (2019). In questa linea si inscrivono anche quegli spettacoli che partono dalle suggestioni visivo-narrative del film per raccontare altro (fra gli esempi, Quasi niente di Deflorian e Tagliarini del 2018, ispirato a Deserto rosso di Antonioni).

La seconda modalità si colloca invece nell’enorme campo d’interazioni tra il teatro e le arti tecnologiche – cinema, audiovisivi, media digitali – e riguarda la creazione di spettacoli mul-timediali che portano in scena non storie o citazioni cinematografiche, ma il linguaggio stesso del film1. In breve, si tratta di spettacoli ibridi: il palcoscenico diventa un vero e proprio set in

cui agiscono gli attori e gli operatori delle riprese, mentre le immagini prodotte in scena sono proiettate su uno o più schermi (fig. 1). Lo spettatore assiste a entrambi i processi, contigui ma non fusi, secondo quella «poetica dell’ambivalenza», scrive Monteverdi, in cui i linguaggi, «pur relazionandosi tra loro, mantengono la loro specificità e anche la loro memoria d’origine»2.

Mi occuperò di questa seconda modalità attraverso Katie Mitchell, grande nome della regia teatrale inglese contemporanea, che pur non essendo certo l’unica a usare questa forma (da ricordare almeno Wooster Group, Lepage, Fura dels Baus, Castorf, Motus, il citato van Hove3), con i suoi spettacoli pone alcune questioni significative di ordine estetico e teorico.

In particolare, l’analisi riguarda La maladie de la mort (2018), liberamente tratto dal rac-conto omonimo di Marguerite Duras, prodotto dal Théâtre des Bouffes du Nord, l’unico suo spettacolo che recentemente abbia fatto tournée in Italia4.

1 Per un orientamento generale, cfr. Lo schermo e la scena, a cura di F. Deriu, Marsilio, Venezia 1999; B. Picon-Val-lin, La scène et les images, “Les voies de la création théâtrale”, CNRS Éditions, Paris 2001; A. Pizzo, Teatro e mondo

di-gitale, Marsilio, Venezia 2003; A. Monteverdi, Leggere uno spettacolo multimediale, Dino Audino Editore, Roma 2020.

2 A. Monteverdi, Leggere uno spettacolo multimediale, cit. (vedi nota 1), p. 43.

3 Van Hove compartecipa dei due ambiti di teatro-cinema, quello dei copioni e quello del linguaggio. 4 La maladie de la mort, liberamente tratto dal racconto omonimo di Marguerite Duras; adattamento di

regia teatrale e immagini in movimento:

il live cinema di katie mitchell

Federica Mazzocchi

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16 federica mazzocchi

Accanto a regie progetta-te senza progetta-tecnologia multi-mediale, fra cui si contano alcuni capolavori (uno è

Cleansed di Sarah Kane del

20165), negli anni Mitchell

ha perfezionato un siste-ma d’interazioni tra scena e schermo che ha chiamato «live cinema»6. Occorre

pre-cisare che l’espressione può indicare pratiche creative diverse. Francis Ford Coppo-la, per esempio, definisce un esperimento di live cinema il suo Distant vision (2015), film girato in studio senza pubblico e proiettato real time in alcune sale cinematografiche7. Parimenti live cinema sono considerate

quelle forme di experiential cinema che includono proiezioni aumentate con performance dal vivo e a partecipazione diretta, e proiezioni immersive site-specific8.

L’interesse del live cinema di Mitchell non sta tout court nella creazione di immagini in movimento su un palcoscenico (cosa non nuova, come detto), ma nella qualità espressiva della proposta. Autrice politica e femminista militante, Mitchell scompone l’atto della scrit-tura registica, racconta una storia (il film sullo schermo) e mostra le azioni per costruirla (il set in palcoscenico). I suoi spettacoli si confrontano con alcuni snodi fondamentali tra teoria e prassi, soprattutto Stanislavskij, Brecht, la Feminist Film Theory. Parallelamente, rimettono in questione nozioni quali presenza dal vivo e presenza mediata, specifico teatrale, verosimiglianza, realismo, contribuendo a una loro dilatazione e ridefinizione.

Mitchell comincia a sperimentare le potenzialità del film in palcoscenico nel 2006 con l’adattamento multimediale di The Waves (in collaborazione con il video designer Leo War-Alice Birch; regia di Katie Mitchell; video design di Grant Gee; scene e costumi di Alex Eales; musica di Paul Clark; suono di Donato Wharton; video di Ingi Bekk; disegno luci di Anthony Doran; interpreti: Laetitia Dosch (La Donna), Nick Fletcher (L’Uomo), Irène Jacob (La Narratrice). In Italia la narratrice è stata interpretata da Jasmine Trinca. Operatori video: Nadja Krüger, Sebastian Pircher, Christin Wilke; coordinatore video in scena: Matthew Evans; microfonista: Joshua Trepte. Durata: 75 minuti. Sconsigliato ai minori di 18 anni. Debutto: Parigi, Théâtre des Bouffes du Nord, 16 gennaio 2018. Fra i produttori dello spettacolo anche alcuni teatri nazionali italiani (Teatro Stabile di Torino, ERT, Teatro di Roma, Stabile della Toscana).

5 Mi permetto di rimandare al mio God Save the Queen. Katie Mitchell e Sarah Kane al National Theatre, “Mimesis Journal”, V, 2, dicembre 2016, pp. 95-102.

6 P. Oltermann, Katie Mitchell, British theatre’s true auteur, on being embraced by Europe, “The Guardian”, 9 july 2014, e The Theatre of Katie Mitchell, edited by B. Fowler, Digital Theatre + and Routledge, London-New York 2019, versione ebook, pp. 1-2. In altri casi, Mitchell ha usato le espressioni «cinéma-live-théâtre» e «perfor-mance cinématographique en direct», rispettivamente in S. Delesalle-Stolper, Katie Mitchell: «Le texte est un point

de départ, pas une fin en soi», “Libération”, 11 janvier 2018, e in M. Piolat Soleymat, La maladie de la mort, “La

Terrasse”, n. 261, 20 décembre 2017, p.n.n.

7 Cfr. F. F. Coppola, Live cinema and its techniques, Liveright, New York 2017.

8 Cfr. Live Cinema. Cultures, Economies, Aesthetics, edited by S. Atkinson, H. Kennedy, Bloomsbury, New York-London 2018.

1. La maladie de la mort, regia di Katie Mitchell. Nella cabina insonoriz-zata la narratrice (Irène Jacob), sul letto la Donna (Laetitia Dosch), nasco-sto da una quinta e visibile solo sullo schermo l’Uomo (Nick Fletcher). I tecnici in palcoscenico girano in diretta

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17 il live cinema di katie mitchell ner, produzione del

Natio-nal Theatre di Londra). La regista cercava una forma scenicamente congrua alla pluralità di punti di vista e ai monologhi interiori del romanzo di Virginia Woolf. Negli anni succes-sivi, prodotta soprattutto dalla Schaubühne di Berli-no, ha continuato a servir-si di questo disposervir-sitivo per storie centrate sulle figure femminili. Si ricordano in

particolare gli spettacoli: Fraulein Julie (2010) dal dramma di August Strindberg, ancora con Warner; Die Gelbe Tapete (2013), dal romanzo La carta da parati gialla di Charlotte Perkins Gilman; The Forbidden Zone (2014) di Duncan Macmillan, sulla Prima Guerra Mondiale; Schatten (Eurydike sagt) (2016) di Elfride Jelinek; Orlando (2019) ancora da Virginia Woolf 9.

Il copione di La maladie de la mort

Autrice dell’adattamento è la giovane drammaturga inglese Alice Birch, affermatasi con

Revolt. She said. Revolt again (2014, il titolo richiama Détruir, dit-elle di Duras) e con Anatomy of a Suicide, diretto da Mitchell nel 2017. Aveva già lavorato con la regista per Ophelias Zimmer (2015), in cui la vicenda di Amleto era rinarrata dal punto di vista di

Ofelia, fanciulla oggetto reclusa nella propria stanza. La focale drammaturgica era analoga alla versione di Mitchell di Fraulein Julie, che portava in primo piano il personaggio secon-dario della cuoca Kristin (qui la drammaturgia era di Maja Zade). Birch è autrice anche dell’adattamento del citato Orlando, grande romanzo sulle fluidità temporali, sessuali, di genere, e del monologo di Elfride Jelinek Schatten (Eurydike sagt), riscrittura del mito in cui Euridice sceglie di tornare nell’Ade per liberarsi di Orfeo (fig. 2).

Racconto breve del 1982, La maladie de la mort «potrebbe essere rappresentato a tea-tro»10 ha scritto Duras nella didascalia in fondo al testo (aveva lei stessa tentato più volte di

9 Per l’analisi di alcuni fra questi spettacoli, cfr. E. Magris, Entre dissection et empathie: le cinéma en direct de

Katie Mitchell, “Revista Brasileira de Estudos da Presença”, VI, 2, mai-août 2016, pp. 186-205, disponibile on line;

A. J. Ledger, ‘The Thrill of Doing it Live’: Devising and Performing Katie Mitchell’s International ‘Live Cinema’

Pro-ductions, in Contemporary approaches to adaptation in theatre, edited by K. Reilly, Palgrave Macmillan, London 2018,

pp. 69-90; B. Fowler, (Re)Mediating the Modernist Novel: Katie Mitchell’s Live Cinema Work, in Ivi, pp. 97-119. 10 M. Duras, La malattia della morte, in Ead., Testi segreti, Feltrinelli, Milano 1989, p. 69.

2. Shatten (Eurydike sagt) di Elfride Jelinek, regia di Katie Mitchell, Shau-bühne di Berlino, 2016. Euridice (Jule Böwe) scappa da Orfeo e torna al mondo dei morti

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18 federica mazzocchi

adattarlo, anche come film)11. C’è una giovane donna nuda su un letto «fra bianche

lenzuo-la», che parla con voce bassa, «quasi dimessa»12. Il protagonista maschile invece, cioè

l’uo-mo colpito dalla “malattia della l’uo-morte”, non si vede mai, un narratore legge la parte per lui.

Solo la donna direbbe la sua parte a memoria. L’uomo mai. L’uomo leggerebbe il testo, sia stando fermo, sia camminando intorno alla giovane donna. Il protagonista della storia non sarebbe mai rappresentato direttamente. Anche quando si rivolgerebbe alla donna, lo farebbe attraverso l’uomo che legge la storia. […]. I due attori dovrebbero dunque parlare come se stessero scrivendo il testo in camere separate, divisi l’uno dall’altra13.

Riassumere la trama del più famoso dei tre Testi segreti è necessario, ma «ci delude» ha scritto Blanchot, perché i «dati spiegabili» in realtà non spiegano questo testo «irriducibi-le»14. Un uomo chiede a una donna di restare con lui per diverse sere di seguito, di piegarsi

a ogni sua richiesta nella camera di un albergo isolato sul mare. Lo scopo è una sorta di cura omeopatica: abituarsi a lei e riuscire finalmente ad aprirsi all’amore. Il punto di vista è quello del personaggio maschile, eppure il «voi» con cui lo interpella il narratore è ambiguo («voi» alla fine sta per i lettori/spettatori?). Per Duras, molti elementi restano pure ipotesi, semplici fantasticherie. Si parla di «notti pagate», ma la donna nega di essere una prostitu-ta. L’uomo immagina più volte di ucciderla, senza poi fare nulla. La malattia della morte è l’impossibilità di una vera fusione fisica ed emotiva. Ma mentre lei appare serena, ironica e sapiente come una divinità, in contatto con l’energia vitale e il piacere sessuale, l’uomo è assorbito dal dolore del proprio mondo interno, condizione che la donna identifica con l’ «opacità», l’ «apatia» della malattia della morte15. Il testo descrive lo scacco di questo

incontro. Lui piange spesso e passa il tempo a guardarla, lei dorme quasi sempre. Quando apre bocca, è laconica e oracolare come una sacerdotessa:

Voi domandate come il sentimento d’amore potrebbe sopravvenire. Lei vi risponde: Forse da una frattura improvvisa nella logica dell’universo. Dice: Per esempio da un errore. E dice: Mai dalla volontà. Vi chiedete: Da che cosa ancora potrebbe nascere il sentimento d’amore? La supplicate di rispondere. E lei dice: Da tutto, da un volo d’uccello notturno, da un sonno, da un sognar di dormire, dall’avvicinarsi della morte, da una parola, da un delitto, da sé, da se stessi, spesso senza sapere come16.

11 Ringrazio Edda Melon, fra le massime esperte di Marguerite Duras, per i preziosi orientamenti critici e bibliografici. Melon precisa che il lavoro di ricerca fatto da Duras per adattare La maladie de la mort prese poi una forma narrativa con Les yeux bleus cheveux noirs, pubblicato nel 1986.

12 M. Duras, La malattia della morte, cit. (vedi nota 10), p. 69. 13 Ibidem.

14 M. Blanchot, La comunità degli amanti, in Ead., La comunità inconfessabile, Edizioni SE, Milano 2002, p. 74. 15 M. Duras, La malattia della morte, cit. (vedi nota 10), p. 63.

16 Ivi, pp. 66.

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19 il live cinema di katie mitchell Mitchell ha definito il testo «un punto di partenza»17. La regia non è un fatto di fedeltà o

infedeltà, è una riscrittura con altri mezzi. La stessa Duras è tornata spesso sulle proprie storie, cambiandole e rinarrandole, ora in forma letteraria ora come film o opere teatrali. La dramaturg e la regista hanno lavorato a stretto contatto, in modo che tra copione e spettacolo ci fosse un legame generativo e organico, che l’uno fosse già la forma dell’altro18.

Le “coreografie” dei tecnici intorno agli attori e la narratrice chiusa nella sua teca richiamano l’antirealismo metalinguistico di Duras, le distanziazioni che la scrittrice usa nel racconto. Invece, il plot cambia rispetto al testo originario. Il copione, infatti, punta a un deciso chiarimento logico della materia reticente e onirica del racconto, e ne elimina l’ironia percepibile sottotraccia. Probabilmente ispirandosi a Sarah Kane e alla violenza del cosiddetto In-Yer-Face Theatre19, Birch ambienta la storia nel mondo del sesso a pagamento.

Se in Duras la donna era un’alterità vicina al sacro (così la vedeva l’uomo), qui è riportata al mondo umano, è una persona, una sex worker (e una giovane madre single) alle prese con un cliente sempre più squilibrato e temibile.

I termini del contratto le richiedono totale sottomissione e silenzio. I presentimenti di pericolo diventano gli ingredienti di un thriller psicologico. Ciò che era mistero, è tradotto in suspense. La struttura labirintica del racconto (trenta pagine scarse, eppure è facile perdersi) è sostituita da una ‘sceneggiatura di ferro’ di settantacinque scene, ambientate tra il 13 e il 20 novembre, tutte con titolo, data, ora d’inizio, luogo, inquadrature numerate e descritte20.

Il film che ne emerge si rivolge, da un lato, alla lezione di Hitchcock (la concatenazione del plot, le atmosfere notturne, le patologie sessuali), dall’altro lato, incorpora alcune marche stilistiche del cinema della modernità di cui Duras è stata una figura preminente (i tempi sospesi, le attese, i silenzi, le ripetizioni).

Il copione rende più attiva la donna, perché la sua statica enigmaticità nell’originale rischiava di diventare passività in scena21. Anche lo sfondo ideologico è ripensato:

La maladie de la mort non cerca mai di rimettere in causa lo status quo politico fondato sul

sistema patriarcale tradizionale. Viceversa, l’adattamento di Alice Birch solleva qualche que-stione circa le motivazioni del personaggio femminile – questioni che aiuteranno a far risuonare questo testo per un pubblico di oggi22.

Mettere in questione lo status quo significa restituire alla donna il suo sguardo. Se nel racconto l’uomo non fa che scrutarla, ora anche lei esplora il corpo nudo di lui, lo osserva, lo filma con

17 S. Delesalle-Stolper, Katie Mitchell, cit. (vedi nota 6).

18 Cfr. M. Fisher, A desire for Duras: Katie Mitchell e Alice Birch on the writer’s erotic, existential mystery, “The Guardian”, 1 august 2018.

19 È la drammaturgia esplicita e aggressiva appunto come ‘un pugno in faccia’ che caratterizza il teatro ingle-se degli anni Novanta. Cfr. A. Sierz, In-Yer-Face Theatre. Teatro britannico contemporaneo, Editoria & Spettacolo, Roma 2006.

20 Il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino conserva il copione-sceneggiatura dello spettacolo con le parti della narratrice in italiano.

21 Cfr. M. Fischer, A desire for Duras, cit. (vedi nota 18).

22 M. Piolat Soleymat, La maladie de la mort, cit. (vedi nota 6), traduzione mia.

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20 federica mazzocchi

lo smartphone (le camere mostrano le soggettive). La donna assume un ruolo protagonistico, perché Birch immagina ciò che sta prima e oltre quella stanza d’albergo. Alla trama principale girata in diretta (in albergo), si intrecciano due sub-plot di immagini registrate relative al passato traumatico di lei (i flash back di lei bambina che scopre il padre impiccato) e al suo presente (in ascensore, fuori dall’hotel, in spiaggia mentre gioca con il figlio). Provenen-do da una formazione stanislavskiana, per Mitchell è essenziale tratteggiare un quadro biografico che faccia luce sulle motivazioni del personaggio nel presente del testo – ne scrive con chiarezza nel suo libro Il mestiere della regia23. La sua realtà di madre e il ricordo

del padre suicida fanno intuire il senso delle sue scelte da adulta.

La biografia dell’uomo non è messa altrettanto a fuoco, la sua crisi non ha origini preci-sate, e quindi non scattano le reazioni empatiche che valgono per lei. È un anonimo agente di violenza, come il personaggio di Tinker in Cleansed. Freddo e depresso, manifesta la malattia della morte attraverso il voyerismo, il sesso degradante, il consumo compulsivo di pornografia24. Le fantasie omicide del testo originario diventano tentativi reali. Nella scena

di climax intitolata appunto «Fight» (scena 59) cerca di strangolarla. La donna si difende e riesce a portare a termine il contratto, ottenendo i soldi che le spettano e lasciandolo alla sua malattia. Il finale descrive i due diversi destini. Chiuso nella propria coazione a ripetere, l’uomo è nella camera con una nuova prostituta. Una sequenza registrata, invece, mostra la donna con il figlio, emblema della vita di cui è portatrice, degli affetti che sa provare. «Lei è viva» è la battuta della narratrice che chiude lo spettacolo.

«Una terza cosa». La macchina del live cinema

La maladie de la mort è progettato per rendere consapevoli gli spettatori dell’atto del

pro-prio guardare, dei regimi di costruzione dello sguardo (la regia) e per metterli in contatto, grazie ai piani ravvicinati, con le dimensioni più segrete e intime dei personaggi. Ha detto Mitchell:

23 K. Mitchell, Il mestiere della regia, traduzione e cura di F. Mazzocchi, Dino Audino Editore, Roma 2017. 24 «L’uomo è dipendente dalla pornografia come lo sono un sacco di giovani, così drogati che quando si trovano di fronte al sesso reale sono incapaci di farlo», in A. Bandettini, Katie Mitchell: «E ora metto in scena la

vittoria della donna», “La Repubblica”, 1 novembre 2018. È un punto di vista da cui resta escluso il contributo

per esempio del Feminist Porn Cinema. Sul tema, cfr. Porn After Porn. Contemporary Alternatives Pornographies, edited by E. Biasin, G. Maina, F. Zecca, Mimesis, Milano 2014.

3 L’impianto scenico di La maladie de la mort, Parigi, Théâtre des Bouffes du Nord

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21 il live cinema di katie mitchell

Per me la forma è una sintesi di teatro e film che crea una terza cosa, una sorta di cubismo a teatro […]. Ciò che fanno le telecamere è permetterci di vedere, mentre guardiamo l’oggetto costruito, tutti i lati del modo in cui è costruito, come i primi ritratti tridimensiona-li di Picasso, le teste di donna, in cui tutti i piani sono visibili nello stesso momento. Non è teatro, non è cinema; è una strana altra cosa, che si serve di entrambe le forze, quella del film e quella del teatro25.

L’impianto scenico è organizzato in tre zone operative. Palcoscenico, schermo e cabina insonorizzata sono gli elementi fissi della forma live cinema di Mitchell.

In palcoscenico, attori e tecnici (cameramen, microfonisti, attrezzisti) girano le immagini in diretta all’interno di una scenografia fissa: una stanza d’albergo con bagno e una porzione di corridoio su cui si affacciano le porte delle altre camere (fig. 3). Un praticabile non visi-bile permette di girare i controcampi degli attori affacciati alla porta finestra della stanza. Nella cabina, la narratrice dotata di cuffie e microfono recita alcune parti del testo. Infine, nella parte alta del palcoscenico un grande schermo mostra ora le immagini in diretta ora alcune sequenze registrate. Queste ultime servono al racconto e danno il tempo agli attori di mettersi in posizione e ai tecnici di preparare lo shooting successivo (fig. 4).

In breve, scorrono in parallelo linee diverse di lavoro scenico: la traccia verbale detta dalla narratrice; la recitazione degli attori, fatta di azioni, sguardi, manipolazione di oggetti e di dialoghi diretti, oltre ai loro movimenti nei cambi scena; i percorsi dei tecnici, coreo-grafati dalla regia e provati prima di ogni recita; il risultato, sullo schermo, del montaggio in diretta delle immagini, della musica e dei suoni.

Attore, presenza, sguardo

Le messinscene multimediali di Mitchell mirano a creare un effetto d’intimità tra attore e spettatore grazie soprattutto ai primi piani (un effetto che ha interessato da sempre i teorici del cinema, da Balazs a Morin, Bonitzer, Aumont)26. Per gli spettacoli senza dispositivi, la

regista si serve dell’ottica in “campo totale” del teatro e del montaggio fra i diversi piani 25 J. Pearson, Not Theatre, not Film: Katie Mitchell’s Third Art in the «Shadow», 26 settembre 2016, www. schaubuehne.de, traduzione mia.

26 Cfr. G. Carluccio, Verso il primo piano. Attrazioni e racconto nel cinema americano. 1908-1909: il caso

Griffith-Biograph, Clueb, Bologna 1999; F. Mazzocchi, Il primo piano cinematografico. Teorie: 1921-1992, Tip.

le.co, Piacenza 1996.

4. Esempio di inquadratura registrata. Il mare fuori dalla finestra. I tecnici si preparano per girare

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22 federica mazzocchi

che l’attore sa fare con il proprio corpo27. Nel live cinema invece la richiesta all’attore è di

lavorare per micromovimenti, per dettagli mimici. I primi piani catturano la sottigliezza delle espressioni. Ha detto Mitchell:

Penso che il teatro abbia dei limiti circa la possibilità di spingersi dentro la coscienza o la soggettività dei personaggi che rappresenta. […]. Il film, invece, può davvero entrare in questo territorio più soggettivo e catturare il modo di guardare il mondo dalla prospettiva interna di una persona […].

Per me, l’uso delle camere riguarda il dettaglio e la soggettività. Serve a portarti vicino. […]. È una forma d’arte limitata [il teatro], perché se sei interessato alla psicologia, ai comportamenti e alla soggettività – e io sono molto interessata a queste tre cose – puoi arrivare solo fino a un certo punto in teatro. Tuttavia, se facessi solo film, non avrei la dimensione live. Può essere terrorizzante e pericoloso vedere un film, ma in ogni caso non sei minimamente vicino alla realtà girata. Invece qui sei a pochi metri dal lavoro di una compagnia che dal nulla fa apparire questo film per te28.

Il live cinema di Mitchell intercetta un’attitudine dello spettatore contemporaneo, la cui esperienza è influenzata dal rapporto con i media tecnologici, a vedere-di-più, più da vici-no, più in dettaglio. L’attore opera mediante micro gestualità, recita per le camere non per il pubblico, con tecniche più da Actor’s Studio che da accademia di teatro. Il suo corpo è dislocato, frammentato, mentre lo sguardo dello spettatore oscilla tra scena e schermo. I numerosi microfoni nascosti in ogni angolo del set generano un ambiente acustico marca-tamente realistico e unitario.

Il dibattito sulla nozione di presenza e di liveness ha affermato che l’uso del video e dei media digitali in scena e «la conseguente apparizione mediata di corpi e oggetti, non neghi il concetto di presenza, bensì ne declini ulteriormente le possibilità»29. In sostanza, i media

tecnologici avrebbero cambiato il modo in cui percepiamo l’idea di presenza dal vivo (è la tesi di Philip Auslander, Liveness 1999), così che la dialettica non è tra corpi reali e corpi riprodotti, «tra materiale e immateriale, ma tra diversi modi di essere presente, diversi livelli di realtà»30. Mitchell scompone il processo produttivo e mostra diversi modi del qui e ora

dell’attore, in scena e sullo schermo. Ha parlato in proposito di una «tecnica cubista», che ritiene più vicina alla complessità dell’esperienza percettiva reale rispetto alle consuete forme di rappresentazione. Passare alla regia cinematografica non le basterebbe, perché significherebbe rinunciare all’esperienza live del processo scenico – la dimensione che Erika 27 In una pagina famosa, Dario Fo scrive che lo spettatore ha «una macchina da presa nel cranio» e che l’at-tore è in grado di controllarla, facendolo guardare in primo piano, in campo totale ecc. mediante il movimento, la mimica, il gioco di tensione e rilassamento di parti del proprio corpo. D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Einaudi, Torino 1987, p. 64.

28 J. Pearson, Not Theatre, not Film, cit. (vedi nota 25), traduzione mia.

29 A. Pizzo, Neodrammatico digitale. Scena multimediale e racconto interattivo, Accademia University Press, Torino 2013, p. 24. Si veda anche On Presence, numero monografico di “Culture Teatrali”, a cura di E. Pitozzi, 21, 2011.

30 A. Pizzo, Neodrammatico digitale, cit. (vedi nota 29), p. 25.

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23 il live cinema di katie mitchell Fischer-Licthe, in Estetica del performativo, ha chiamato «la co-presenza corporea di attori e spettatori», che non è un corollario, ma la base stessa dell’accadere teatrale.

Tuttavia, da questo punto di vista, La maladie de la mort ha messo a dura prova il legame di co-presenza corporea. L’illuminazione spesso fioca del palcoscenico, talora anche chiuso con quinte mobili, gli attori poco percepibili, spesso impallati dai tecnici, la scarsa omogeneità tra schermo e scena data dal bianco e nero, spingevano gli spettatori ad aggan-ciarsi al film perdendo facilmente il contatto con il set. Il dispositivo insomma finiva per creare un diaframma, una quarta parete non facilmente permeabile. S’intravedevano le pantomime furtive di attori e tecnici in palcoscenico (cioè il tracciato operativo della regia), però il corpo era di fatto negato al rapporto diretto31.

È senz’altro uno degli aspetti più radicali di questa regia. Mitchell non ha agito certo per minimizzare nudità, sesso e violenza (il citato Cleansed li mostrava in termini ancora più espliciti), né solo per richiamare lo stile del thriller. Il dispositivo voleva spingere ai limiti le possibilità dello sguardo, estremizzare l’esperienza spettatoriale a costo di spezzare, ostaco-lando il contatto visivo, il legame di co-presenza corporea e di generare quella che ancora Fischer-Licthe ha chiamato «la nostalgia del corpo “reale”»32. Si creava così una dialettica

sofferta tra visioni in primo piano e corpi concreti resi fugaci come fantasmi (e la narratrice era più una voice over per le immagini, che un ponte tra scena e pubblico). Il racconto di Duras però non parla proprio di questo? Di ostacoli, distanze, impossibilità di autentico contatto, della difficoltà di vedersi davvero?

Il teatro di Mitchell si collega agli studi femministi sulla spettatorialità, sia di ambito cinematografico sia teatrale, che discutono la nozione di «gaze» (sguardo), il voyerismo, la scopofilia e le posizioni ideologiche, di potere e di genere alla base delle immagini33.

Scom-ponendo e ricomScom-ponendo la rappresentazione, la regista mette al centro l’atto del guarda-re: come guardiamo, che cosa guardiamo, quali stereotipi condizionano la nostra visione? L’ossessione per lo sguardo di Duras, scrittrice, sceneggiatrice e regista, è filtrata attraverso i temi ricorrenti di Mitchell: identità, violenza, potere, sesso, genere.

Eredità

In La maladie de la mort, letteralmente una sopra l’altra, scorrono differenti linee storiche. La prima, che si osserva in palcoscenico, si collega all’alveo delle avanguardie e alla ricer-ca di forme non imitative. I procedimenti del cubismo richiamati da Mitchell sono messi in rapporto con i processi metalinguistici di Duras e con l’uso delle tecnologie del teatro

31 In Schatten (Eurydike sagt) questa dinamica non si creava grazie alla piena visibilità del corpo in scena e alla continuità palco/schermo data dalle immagini a colori.

32 E. Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Carocci, Roma 2014, p. 130. 33 Cfr. K. Solga, Theatre & Feminism, Palgrave, London 2016; Immagini allo schermo. La spettatrice e il

cinema, a cura di G.Bruno, M. Nadotti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; M. Fanchi, Spettatore, Il Castoro,

Mi-lano 2005; V. Pravadelli, Femminist Film Theory e Gender Studies, in Metodologie di analisi del film, a cura di P. Bertetto, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 59-102.

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24 federica mazzocchi

postdrammatico contemporaneo. Mitchell non lo nomina, ma in tale orizzonte riaffiora la lezione di Brecht. Agli effetti di straniamento prodotti dalle tecniche del live cinema, che portano allo scoperto la scrittura registica, le strutture comunicative e di funzionamento dello spettacolo, si associa un tipo di adattamento del testo che opera per passaggi logici rifiutando gli enigmi dell’originale di Duras. Anche la crudezza del racconto, associabile ai modelli di Kane, Edward Bond, Caryl Churchill, sviluppa una serie di temi che Brecht poneva al centro dello spazio politico del teatro, fra i quali lo sfruttamento reciproco, il degrado, la centralità del denaro, la figura della prostituta proletaria e madre. Mitchell dichiara la liberazione finale della donna34, ma lo spettacolo è in realtà più duro e ambiguo,

perché il lieto fine non cancella l’evidenza delle logiche mercantili nei rapporti, la pervasiva normalità del vendersi.

La seconda linea riguarda il lavoro dell’attore per lo schermo e fa capo a Stanislavskij, cui Mitchell invece si collega esplicitamente. Se qualche tempo fa gli studi teatrali femministi erano più in sintonia con i processi brechtiani di rottura dell’imitazione, oggi si assiste a un deciso recupero del verosimile recitativo di cui Mitchell è un’autorità35. Da queste

premes-se, cioè dalla possibilità di tornare alle sorgenti del realismo e del naturalismo come forme radicali, nasce il lavoro di Mitchell con gli attori, basato su un’analisi scientifica dei com-portanti in situazione e su un reenactment millimetrico degli effetti corporei dell’emozione. L’obiettivo è modellare personaggi prismatici che, grazie alla precisione di azioni e mimica, mostrino la complessità delle reazioni, delle motivazioni interiori, dei condizionamenti che li muovono. In Il mestiere della regia Mitchell lega tale prassi, oltre che alla ricerca dell’ultimo Stanislavskij, relativa alle azioni fisiche, e dei suoi più geniali continuatori (soprattutto Lev Dodin), alle neuroscienze (in particolare gli scritti di Antonio Damasio) e all’indagine dei filosofi (William James, Che cos’è un’emozione?)36. L’insieme delle istanze fin qui ricordate

costituisce l’ambito teorico e operativo di Mitchell, che chiede all’attore massima esattezza e allo spettatore massima apertura.

34 «A vincere alla fine è lei, la donna. È lei che dice che quello che l’uomo fa è inaccettabile. Lei che si libera». A. Bandettini, Katie Mitchell: «E ora metto in scena la vittoria della donna», cit. (vedi nota 24).

35 Cfr. K. Solga, Theatre & Feminism, cit. (vedi nota 33), in particolare il capitolo Reconsidering realism, che esamina le posizioni teoriche di Cima, Diamond, Baker, pp. 42-48; e D. Rebellato, K. Solga, Katie Mitchell

and the politcs of naturalist theatre, in B. Fowler (edited by), The Theatre of Katie Mitchell, cit. (vedi nota 6), in

particolare pp. 48-53.

36 K. Mitchell, Il mestiere della regia, cit. (vedi nota 23), in particolare pp. 183-190.

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