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Obesità materna e rischio cardio-metabolico nella prole: marcatori genetici e biochimici.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

FACOLTA’ di SCIENZE MM.FF.NN.

CORSO di LAUREA MAGISTRALE in

BIOLOGIA APPLICATA ALLA BIOMEDICINA

Curriculum FISIOPATOLOGICO

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

“Obesità materna e rischio cardio-metabolico nella prole:

marcatori genetici e biochimici.”

Candidata: Relatori:

Rossella Petrolini Dott.ssa Patricia Iozzo

Dott.ssa Maria Angela Guzzardi

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RIASSUNTO

La diffusione di obesità e diabete nel mondo occidentale sta raggiungendo dimensioni epidemiche. Infatti, più di un miliardo di individui adulti sono sovrappeso e circa 500 milioni di questi sono obesi. Inoltre, circa 382 milioni di persone sono affette da diabete secondo i dati della Organizzazione Mondiale della Sanità. Obesità e diabete sono per di più tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari, che a loro volta costituiscono la prevalente causa di mortalità a livello mondiale. L’identificazione dei meccanismi che regolano l’insorgenza di obesità e diabete è dunque necessaria per prevenire la diffusione epidemica di tali patologie e lo sviluppo delle complicanze cardiovascolari ad esse connesse.

Sovrappeso e obesità materni sono stati associati allo sviluppo di malattie metaboliche e cardiovascolari nella prole. È stata ipotizzata dunque un’origine fetale e perinatale di tali patologie, nota con il nome di “fetal programming”. Secondo questa ipotesi, in seguito ad uno stimolo transitorio durante il periodo gestazionale in utero, l’organismo in fase di differenziamento cellulare opera modifiche metaboliche e trascrizionali che si ripercuotono in modo permanente sull’individuo adulto. Tra queste ultime, un maggiore accorciamento dei telomeri, verosimilmente correlato ad un aumento dello stress ossidativo e infiammatorio, potrebbe essere associato ad un aumentato rischio di cardiopatie, sindrome metabolica, invecchiamento e anche obesità infantile, così come suggerito da recenti studi.

Scopo di questo progetto è quello di capire se alterazioni metaboliche e cardiovascolari siano presenti fin dal primo anno di vita nella prole di madri obese o affette da diabete gestazionale e identificare i meccanismi molecolari che potrebbero esserne responsabili.

A tale scopo, coppie di genitori e i rispettivi neonati sono stati reclutati all’inizio della gravidanza. Dati antropometrici, quali indice di massa corporea e misura della circonferenza di vita e fianchi, analisi biochimico-cliniche di routine e dati ecografici di accrescimento fetale sono stati raccolti al momento del reclutamento e durante il corso della gravidanza. Tra le 26-28 settimane di gestazione, il test orale di tolleranza al glucosio è stato eseguito per diagnosi di diabete gestazionale secondo le correnti linee guida e campioni ematici di entrambi i genitori sono stati raccolti per la misura di resistenza insulinica, profilo lipidico, enzimi epatici, creatinina e marcatori genetici (lunghezza dei telomeri). Entrambi i genitori sono inoltre stati sottoposti ad ecocardiografia transtoracica per valutare le dimensioni e la funzione cardiaca. Al momento del parto, sono stati raccolti il sangue cordonale e campioni di cordone, placenta e membrane per analisi biochimiche e molecolari. I dati antropometrici ed eventuali annotazioni pediatriche sono stati raccolti durante tutto il primo anno di vita dei neonati. Inoltre,

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un’ecocardiografia transtoracica è stata effettuata alla nascita e all’età di 3, 6 e 12 mesi per misurare e monitorare i parametri di dimensione e funzione cardiaca.

Dall’osservazione dei dati è emerso che l’obesità in gravidanza si associa ad insulino-resistenza, ad ipertrofia cardiaca, e all’alterazione di alcuni parametri funzionali che potrebbero indicare una fase precoce di disfunzione del ventricolo sinistro. Inoltre nella popolazione esaminata, l’obesità, per quanto costituisca un importante fattore di rischio, non è necessariamente legata allo sviluppo di diabete gestazionale, che è invece presente anche in soggetti normopeso.

I figli di madri obese non mostrano significative differenze antropometriche o metaboliche alla nascita rispetto ai figli di madri sane, sovrappeso o con diabete gestazionale. Tuttavia, nella prole di donne obese durante la gravidanza sono stati osservati parametri cardiaci alterati che indicano una tendenza complessiva del cuore verso l’ipertrofia. Considerando l’accorciamento dei telomeri quale possibile meccanismo e marcatore di danno cellulare, abbiamo osservato che i bambini caratterizzati da una minore lunghezza dei telomeri alla nascita hanno anche valori di glicemia e trigliceridemia tendenzialmente più elevati rispetto a quelli con telomeri più lunghi. Inoltre, sia le madri che le placente di questi bambini sono caratterizzate da più alti livelli di trigliceridi. La presenza di telomeri più corti alla nascita si associa inoltre a spessori e massa cardiaca tendenzialmente più elevati fino ai 6 mesi di follow-up.

L’analisi dei dati preliminari suggerisce che elevati livelli di trigliceridi e colesterolo durante la gravidanza possono condurre a cambiamenti metabolici dell’ambiente uterino tali da predisporre allo sviluppo di ipertrofia cardiaca nelle prime fasi di vita. Inoltre il maggiore carico emodinamico a cui è sottoposto il cuore di figli di individui obesi, potrebbe predisporre il bambino a sviluppare malattie cardiovascolari nella vita adulta.

Il progetto prevede un sostanziale aumento della numerosità del campione e ulteriori analisi biochimiche e molecolari al fine di confermare tali ipotesi e di individuare i meccanismi che sarebbero alla base di un’origine fetale delle malattie cardio-metaboliche.

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1. INTRODUZIONE

1.1 OBESITÀ

Sovrappeso e obesità sono definiti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come condizioni di anormale o eccessivo peso corporeo per accumulo di tessuto adiposo, in misura tale da influire negativamente sullo stato di salute. L’obesità è una vera e propria malattia metabolica cronica caratterizzata dalla compromissione dei meccanismi che regolano l’appetito ed il metabolismo energetico. Sovrappeso e obesità sono inoltre tra i maggiori fattori correlati all’aumento di morbidità e mortalità causando 2.8 milioni di morti all’anno.

L’obesità è causata da fattori biologici (per almeno un 30% genetici), psicologici e socio-ambientali [Figura 1] che, in maniera sinergica, determinano uno squilibrio fra assunzione calorica e spesa energetica e, di conseguenza, un aumento ponderale .

Figura 1: Possibili cause di obesità.

1.1.1 Epidemiologia

La crescente diffusione di sovrappeso e obesità a livello mondiale, e per la quale è stato coniato il nome di “globesity”, sta diventando rapidamente uno dei maggior pericoli per la salute. Dal 1980 ad oggi l’obesità è quasi raddoppiata a livello mondiale, tanto da essere

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formalmente definita come un’ “epidemia” nel 1997 dall’OMS [2]. Nel 2008 un miliardo e 400 milioni di individui adulti (35% della popolazione mondiale sopra i 20 anni) erano in sovrappeso, di cui obesi più di 300 milioni di donne e circa 200 milioni di uomini [13]. La diffusione dell’obesità ha riguardato inizialmente soprattutto i paesi industrializzati, come Stati Uniti e Europa, dove la prevalenza dell’obesità ha iniziato progressivamente ad aumentare dalla prima metà del XX secolo ed è diventata negli ultimi anni un problema primario di sanità pubblica.

Più recentemente, i dati hanno indicato un incremento importante delle prevalenze di sovrappeso e obesità anche in Paesi in via di sviluppo, quali Nord Africa e America Latina che hanno quasi raggiunto la stessa percentuale di persone sovrappeso e obese dell’Europa [8], e dove, in maniera paradossale, sovrappeso, obesità e denutrizione coesistono [Figura 2] e negli ultimi anni, sembra che le prime due, causino più vittime della denutrizione.

Figura 2: Percentuale di adulti obesi o in sovrappeso nel 2008. Fonte: Stevens et al., 2012

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La prevalenza di obesità nel mondo negli adulti di entrambi i sessi raggiunge i valori più elevati in alcune isole dell’Oceania, (anche oltre il 60% della popolazione). Considerando separatamente i due generi, la prevalenza di obesità raggiunge valori più elevati nei maschi di Stati Uniti (44,2%) e Argentina (37,4%), mentre nelle femmine in alcune isole del Mar dei Caraibi e Giordania (oltre il 50%), Stati Uniti e Egitto (circa il 48%) [13].

In Europa la prevalenza dell’obesità è triplicata dagli anni Ottanta ad oggi [14]. Se consideriamo la diffusione dell’obesità negli adulti in base ai dati misurati dall’Oms, per quanto riguarda gli uomini, le prevalenze maggiori si rilevano in Albania (Tirana) e Regno Unito (rispettivamente, 22,8% e 22%); anche nelle donne, i valori più alti si registrano in Albania (Tirana 35,6%), seguita da Regno Unito (Scozia 26%). Sembra non esserci un pattern uniforme nella distribuzione dell’obesità nei due generi; globalmente, le prevalenze tendono ad essere più alte nelle donne, anche se questo non si verifica in tutti i Paesi [15].

Le ricerche indicano che nei Paesi a basso reddito vi è un’associazione positiva tra ricchezza e obesità; questo trend si appiattisce in quelli a medio reddito, per trasformarsi in una associazione negativa nei Paesi più ricchi, dove il rischio di obesità è maggiore nei gruppi socio-economici più svantaggiati. Inoltre, le evidenze suggeriscono che le differenze osservate nelle diverse classi socio-economiche stanno diventando sempre più ampie. All’interno dei soggetti di più basso livello socio-economico-culturale, la prevalenza di obesità tende ad essere più alta nelle donne rispetto agli uomini [16].

1.1.2 Prevalenza e costi in Italia

La rilevazione annuale Istat “Aspetti della vita quotidiana” [65], che raccoglie tra le altre informazioni le misure autoriferite di peso e altezza, ha indicato che dal 2001 al 2009 la prevalenza dell’obesità nei soggetti di età maggiore o uguale a 18 anni ha mostrato un trend temporale in aumento. Questo andamento si osserva in entrambi i generi, ma più marcatamente nei maschi. Nel 2009, l’obesità interessava l’11,1% dei maschi ed il 9,2% delle femmine. La prevalenza di obesità negli adulti cresce con l’età fino alla fascia 65-74 anni, in cui si hanno i valori più elevati (il 15,6%); successivamente, risulta sempre meno diffusa (l’11,7% negli ultraottantaquattrenni).

L’obesità è inoltre maggiormente diffusa nei soggetti con livello di istruzione familiare basso, con una percentuale del 15,5% (13,3% nei maschi e 17,2% nelle femmine). Al crescere del

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livello di istruzione familiare, la prevalenza di obesità progressivamente diminuisce, per arrivare al 7,3% nei soggetti che vivono in contesti con più alto grado di istruzione. Inoltre, secondo uno studio condotto dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, i circa 5 milioni di persone obese corrisponderebbero ad un costo sociale annuo di 8,3 miliardi, pari circa al 6,7% della spesa pubblica per farmaci e prestazioni mediche. Seguendo il trend di crescita, lo stesso studio ha previsto che nel 2025 la percentuale di obesità arriverà al 43%.

1.1.3 L’IMC: indice di massa corporea

L’indice antropometrico più comunemente utilizzato come parametro di riferimento clinico per definire le condizioni di sottopeso, normopeso, sovrappeso o obesità è il Body Mass Index (BMI) o Indice di Massa Corporea (IMC) che si ottiene dal rapporto tra peso (in kg) e statura (in metri quadri).

IMC (kg/m2) = massa corporea (kg)/ statura (m2)

L’IMC correla generalmente con la quantità di grasso corporeo, anche se non misura direttamente la massa grassa e magra del soggetto, né come queste si distribuiscano nel corpo. Negli adulti, sovrappeso e obesità vengono definiti in base ai valori IMC seguendo una specifica classificazione unificata per genere ed età [Tabella 1]. Valore di IMC uguali o maggiori di 25 e 30 identificano rispettivamente condizioni di sovrappeso e obesità. Nella tabella 1 sono riportati i range dei valori di IMC che definiscono le condizioni di sottopeso, normopeso, sovrappeso e obesità secondo le linee guida OMS [13].

Classificazione IMC (kg/m²) Sottopeso <19,0 Normopeso 19,0 – 24,9 Sovrappeso 25,0 – 29,9 Obesità ≥30,0 I classe 30,0 – 34,9 II classe 35,0 – 39,9 III classe ≥40,0

Tabella 1: Classificazione internazionale del sottopeso, sovrappeso e obesità nell’adulto, secondo l’IMC.(OMS, [13].

Altri metodi per stimare la massa grassa e la distribuzione del tessuto adiposo nel corpo sono la misurazione delle pliche cutanee, quella della circonferenza della vita (utile per identificare l’obesità addominale), e il calcolo del rapporto tra la circonferenza della vita e dei fianchi. Infatti, insieme alla massa corporea, è fondamentale valutare anche la percentuale di grasso

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corporeo in un individuo, che si suddivide in grasso essenziale, indispensabile per svolgere funzioni energetiche, funzionali e meccaniche, e grasso secondario o di deposito, che si accumula nel tessuto adiposo in conseguenza di un eccessivo apporto di calorie. La percentuale di grasso corporeo considerata accettabile è compresa tra 10% e 18% per gli uomini e tra 26% e 28% per le donne. I livelli sono strettamente dipendenti oltre che dal sesso, anche dall’età. Con l’aumentare di quest’ultima, infatti, il grasso corporeo tende ad aumentare a causa di una riduzione dell’attività fisica, di un rallentamento del metabolismo basale e dunque di una minore richiesta calorica dell’organismo.

Esistono inoltre rilevanti differenze qualitative tra i depositi di grasso accumulati nei vari distretti corporei. Ad esempio il tessuto adiposo viscerale, prevalentemente localizzato a livello dell’addome (più diffuso nel genere maschile), risulta associato a un maggior rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e alterazioni metaboliche, quali iperinsulinemia e dislipidemia e diabete, rispetto al tessuto adiposo sottocutaneo, localizzato prevalentemente a livello i glutei e cosce (e più diffuso nelle donne) [17].

Una diversa distribuzione della massa adiposa, legata al rapporto tra ormoni sessuali maschili (androgeni) e femminili (estrogeni), caratterizza uomini e donne (nelle donne in età postmenopausale si assiste ad una redistribuzione del grasso corporeoa causa del calo dei livelli estrogenici). A seconda delle zone caratteristiche di distribuzione e accumulo del grasso corporeo, a cui sono associate particolari predisposizioni patologiche, l’obesità può essere quindi classificata in due Biotipi costituzionali [60]:

- Androide(tipica maschile) o obesità addominale detta anche viscerale: è caratterizzata da una distribuzione del grasso corporeo prevalentemente a livello addominale, è la forma comunemente definita “a mela”; l’obesità centrale è associata a disordini metabolici (quali diabete e dislipidemia) e malattie cardiovascolari (quali ipertensione, aterosclerosi e cardiopatie);

- Ginoide (tipica femminile) o obesità periferica detta anche sottocutanea: quando il grasso si

distribuisce prevalentemente a livello sottocutaneo in particolare nei glutei, nella regione posteriore del tronco, a livello delle anche e delle cosce, è la forma comunemente definita “a pera”.

Esistono inoltre forme di obesità, cosiddetta diffusa o mista, che costituiscono la forma più comune di obesità specie nelle classi a più alto indice di massa corporea e consistono in un incremento omogeneo del tessuto adiposo in tutto il corpo, sia in sede viscerale che sottocutanea.

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Per valutare il tipo di obesità che si sta osservando è possibile misurare la circonferenza di vita nel suo punto più stretto; nell’uomo, il rischio di malattia corrisponde ad una circonferenza di vita superiore a 101.6 cm, nella donna a 88.9 cm.

Un dato più obiettivo si ottiene calcolando il rapporto tra la circonferenza misurata a livello ombelicale (vita) e gluteo (fianchi). Tale rapporto, chiamato WHR (Waist to Hip Ratio), se maggiore di 0.85 indica una obesità androide, se inferiore a 0.79 si parla di obesità ginoide. In ogni caso il rapporto vita/fianchi dovrebbe essere inferiore a 0.95 per gli uomini e 0.8 per le donne. I pazienti che superano tali valori sono considerati ad alto rischio di problemi medici legati all'obesità [17]. All'origine dell'obesità androide vi sono sia fattori costituzionali (genetici, ormonali) che ambientali (abuso di alcol).

1.1.4 Sovrappeso e obesità nei bambini e negli adolescenti

Mentre fino a pochi anni fa sovrappeso e obesità sembravano riguardare solo il mondo degli adulti, è ormai sempre più allarmante l’evidenza che entrambe le condizioni patologiche si stanno velocemente diffondendo tra i bambini in età adolescenziale e pre-adolescenziale.

Infatti, negli ultimi 30 anni è stato osservato un incremento della prevalenza dell’obesità nei bambini e adolescenti in età scolare [21]. Tale condizione risulta particolarmente allarmante perché non solo è associata ad un maggiore rischio di sviluppare obesità in età adulta, ma anche a morte prematura e gravi disabilità. Inoltre, l’obesità nei bambini, sembra essere associata ad un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari [67, 151, 152], insulino-resistenza e diabete nell’età adulta [68], oltre che ad effetti psicologici negativi durante la crescita.

A livello mondiale il numero di bambini in sovrappeso e di età inferiore ai cinque anni è superiore a 42 milioni, di questi 35 vivono nei Paesi in via di sviluppo. Le stime del 2010 indicano che la prevalenza dell’obesità in bambini e adolescenti ha raggiunto valori compresi tra il 5,3% nella Regione Oms del Sud Est Asiatico e il 15,2% nella Regione Oms America [13]. Nei Paesi Europei, in base a dati misurati nei bambini di varie fasce d’età fino agli 11 anni, si osservano percentuali di obesità più elevate in entrambi i generi in Grecia (maschi: 11,2%; femmine: 11,4%), Spagna (maschi: 10,3%; femmine: 10,5%) e Portogallo (maschi: 10,3%; femmine 12,3%)[22].

In generale, la prevalenza di obesità nei più giovani tende ad essere più alta nei maschi [14]. I bambini con almeno un genitore obeso hanno una probabilità 3-4 volte maggiore di essere obesi. La causa è in parte genetica, ma anche fattori ambientali giocano un ruolo importante poiché i bambini tendono ad acquisire gli stili di vita dei genitori quali dieta poco salutare e vita

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sedentaria [23]. Nei Paesi meno ricchi risultano a rischio soprattutto i soggetti cresciuti in ambienti urbani e in grado di accedere a stili di vita occidentali [21].

In Italia, il Ministero della Salute, tramite il Centro nazionale di prevenzione e controllo delle malattie (CCM), ha promosso diversi progetti di indagine sul comportamento alimentare e sullo stile di vita di bambini dai 6 ai 17 anni, al fine di comprendere e prevenire la diffusione di sovrappeso e obesità tra i più giovani [22]. Uno dei progetti è stato il sistema di monitoraggio “Okkio alla Salute” [24] che ha rilevato nel 2008 e nel 2010, insieme ad altre informazioni su dieta, attività fisica e ambiente scolastico, lo stato nutrizionale di un campione di bambini di età 8-9 anni, attraverso la misurazione diretta dei dati antropometrici. L’indagine è stata condotta su circa 45.000 bambini nel 2008 e oltre 42.000 nel 2010. Secondo l’indagine, nel 2008 nel nostro Paese il 23,6% dei bambini era in sovrappeso e il 12,3% era obeso. Applicando la stima a tutta la popolazione italiana di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, il numero di bambini obesi in Italia sarebbe perciò circa 380.000. La prevalenza dell’obesità risulta, in accordo con quella europea, più alta nei maschi (13,3%) rispetto alle femmine (11,3%); inoltre aumenta al diminuire del livello di istruzione della madre, con una prevalenza del 7% nei bambini con madri laureate e del 15,8% nel caso di conseguimento di licenza media o un titolo di studio inferiore [24].

La diffusione dell’obesità nelle età 11, 13 e 15 anni in Italia è stata fotografata dall’indagine multicentrica internazionale Hbsc (Health Behaviour in School-aged Children) [25], a cui l’Italia ha aderito nel 2000 e nei sondaggi successivi (Hbsc-Italia). I dati antropometrici raccolti nell’indagine hanno indicato che la prevalenza dell’obesità nell’indagine 2005/06 è rimasta abbastanza stabile nelle tre età considerate e, così come il sovrappeso, tende ad essere maggiormente diffusa nei maschi rispetto alle femmine (a 15 anni, la prevalenza di obesità è 3,5% nei maschi e il 2,0% nelle femmine). Per ogni fascia di età è inoltre emerso che la prevalenza di sovrappeso e obesità aumenta con gradiente nord-sud.

1.1.5 Obesità e gravidanza (circolo vizioso?)

Nell’ultimo decennio è stato osservato che le cellule adipose non hanno solo una funzione di deposito ed immagazzinamento delle calorie in eccesso, ma anzi sono un tessuto attivo metabolicamente. Infatti alcune citochine di origine adiposa, come la leptina, hanno effetti sia paracrini che endocrini su molti tessuti bersaglio. Per quanto riguarda l’associazione tra citochine e insulino-resistenza, Tumor Necrosis Factor (TNF) è coinvolto nella modulazione del pathway di signaling dell’insulina tramite la fosforilazione della serina del substrato-1 del recettore per

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l’insulina [9]. Dati recenti suggeriscono che le citochine e in particolare il TNF-α, forse derivante dalla placenta, avrebbero un ruolo importante nel determinare l’insorgenza di resistenza all’ insulina durante la gravidanza, periodo in cui la diffusione dell’insulino-resistenza risulta aumentata del 40-50% rispetto alla condizione pre-gravidica [10].

In una condizione di obesità pregressa e caratterizzata da infiammazione cronica, la gravidanza potrebbe innescare un sensibile aumento del rilascio di citochine infiammatorie e sviluppo di insulino resistenza, così come suggerito dall’associazione tra i livelli plasmatici di proteina-C reattiva (CRP) e interleuchina 6 (IL-6), e l’IMC pregravidico [61].

È stato dimostrato che il sovrappeso e l’obesità neonatale possono costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di obesità nell’adolescente e nell’adulto (che spesso purtroppo è associato allo sviluppo concomitante di DM2) dando così luogo ad un circolo vizioso [11]. Si ipotizza inoltre che il meccanismo possa essere influenzato dalla componente ambientale costituita dallo stile di vita e abitudini alimentari [Figura 3].

Figura 3: Potenziali complicazioni a lungo termine delle condizioni metaboliche alterate durante la

gravidanza.

1.2 DIABETE E INSULINO-RESISTENZA

Il diabete mellito è una malattia metabolica caratterizzata da una alterata attività dell’insulina che è secondaria alla ridotta disponibilità di questo ormone,all’impedimento alla sua normale azione, o una combinazione dei due fattori.

Gravidanza/Obesità (ambiente metabolico alterato)

Obesità Infantile (? Insulino-sensibilità) Obesità nell’adulto

Diabete di tipo 2 (?)

Dieta/Esercizio

fisico Dieta/Esercizio fisico

Obesità Neonatale- Fetale

?

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1.2.1 Funzioni dell’insulina

L’insulina è un ormone peptidico prodotto dalle cellule beta delle Isole di Langherans del pancreas. La concentrazione ematica insulinica a digiuno oscilla tra 6 e 26 µU/mL.

La sua funzione principale è quella di regolare i livelli di glucosio ematico, agendo sul metabolismo dei carboidrati. L’insulina modula anche l’espressione di numerosi geni coinvolti nel metabolismo di lipidi (lipogenesi) e proteine (trasporto amminoacidi e sintesi proteica) e stimola la proliferazione cellulare. Questo ormone viene prodotto dal pancreas in risposta all’aumento della glicemia, come avviene dopo l’ingestione di un pasto (picco post-prandiale). L’insulina si comporta essenzialmente come un ormone anabolizzante e permette l’utilizzo del glucosio a livello di muscoli e tessuto adiposo facilitando il passaggio dal sangue alle cellule, ed il suo immagazzinamento a livello epatico e muscolare sotto forma di glicogeno stimolando la glicogenosintesi. L’aumento dell’insulinemia inibisce inoltre la glicogenolisi e il rilascio in circolo degli acidi grassi liberi per inibizione della lipolisi.

Il trasporto di glucosio nelle cellule muscolari e adipose avviene mediante diffusione facilitata tramite l’azione di trasportatori GLUT; nell’uomo ne esistono numerose isoforme: GLUT-4 è il trasportatore presente soprattutto nel muscolo scheletrico , nel cuore e nel tessuto adiposo bianco e bruno. In condizioni normali, GLUT-4 si trova in sede citoplasmatica e la sua traslocazione sulla membrana cellulare viene stimolata dal legame dell’insulina con il suo recettore di membrana.

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Questo processo favorisce il passaggio del glucosio dalla circolazione sistemica all’interno della cellula. Quando la concentrazione ematica di glucosio si normalizza e l’insulina viene eliminata, le molecole di GLUT-4 vengono rimosse dalla membrana plasmatica e sequestrate per endocitosi in vescicole intracellulari.

L’insulina è anche il principale ormone responsabile del fenomeno di lipogenesi, cioè lo stoccaggio di lipidi all’interno del tessuto adiposo. L’insulina stimola la trasformazione di glucosio in lipidi e l’immagazzinamento di questi ultimi nel tessuto adiposo, agendo su tre meccanismi: stimolando il trasporto di substrati dal sangue all’interno degli adipociti, attivando la piruvato-deidrogenasi (necessaria per la produzione di acetil-CoA) e inibendo la lipolisi. Nel digiuno il controllo glicemico viene quindi mantenuto attraverso una fine regolazione di due processi opposti che sono l’utilizzazione di glucosio – ossidazione e glicolisi anaerobia - e la produzione epatica di glucosio – glicogenolisi e gluconeogenesi.

Inoltre gli effetti dell'insulino-resistenza possono essere comportamentali. A livello ipotalamico, infatti, l’azione dell’insulina induce senso di sazietà e ha un effetto anoressizzante [83].

1.2.2 Diagnosi e tipi di Diabete

Questa patologia comprende un gruppo di disturbi metabolici accomunati dal fatto di presentare una persistente instabilità del livello glicemico del sangue, passando da condizioni di iperglicemia sistemica, più frequente, a condizioni di ipoglicemia. Inoltre si verifica insulino-resistenza a livello di tutto il corpo e in organi periferici, compreso il cuore, ed una relativa o assoluta compromissione della funzione delle cellule beta pancreatiche.

Per confermare un sospetto clinico di diabete mellito (DM), è necessario che sia soddisfatto uno dei seguenti criteri secondo le indicazioni dell'Oms [18]:

Glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (o 7 mmol/l);

Glicemia rilevata 2 ore dopo la somministrazione orale di 75g glucosio ≥ 200 mg/dl (o

11,1 mmol/l) con Test di tolleranza al glucosio (OGTT));

Glicemia "random" ≥ 200 mg/dl (o 11,1 mmol/l) associata a sintomi di iperglicemia (tra i

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Le patologie diabetiche possono essere classificate in:

1. Diabete mellito Tipo 1 (DM1, colpisce il 10% del totale) detto Insulino-Dipendente (IDDM) o di Tipo giovanile o infantile o magro o chetosico; necessita di insulina sin dall’esordio (non è possibile non utilizzarla).

2. Diabete mellito Tipo 2 (DM2 80-90%) detto Non Insulino-Dipendente (NIDDM) o di Tipo adulto o senile o grasso o non chetosico; non necessita di insulina (tranne in alcuni casi particolari);

3. Altri tipi di Diabete: difetti genetici della funzione della cellula beta (MODY), difetti genetici dell’azione insulinica, disordini del pancreas esocrino, endocrinopatie, farmaci e infezioni (virali).

4. Diabete gestazionale: una forma di ridotta tolleranza al glucosio diabete che insorge o viene diagnosticata per la prima volta durante la gravidanza e che solitamente (ma non sempre) si risolve con essa. Non è esclusa la possibilità - peraltro frequente - che una preesistente intolleranza glucidica venga smascherata ed aggravata dallo "stress" gravidico; i cambiamenti ormonali legati alla gravidanza, infatti, aumentano la resistenza all’insulina, rendendo le cellule meno sensibili alla sua azione.

In condizioni normali, le cellule beta, secernono insulina in quantità sufficienti per compensare la ridotta efficienza dell’azione dell’insulina, mantenendo una normale tolleranza al glucosio. Nelle condizioni di obesità ed insulino-resistenza associate al Diabete Mellito di tipo 2 ( DM2 ), che corrisponde al 90 % circa dei casi di diabete totali, le cellule beta sono incapaci di compensare pienamente la diminuita sensibilità all’insulina. Il DM2 è infatti correlato all'obesità ed allo stile di vita e rappresenta un fattore prognostico e causa pericolosa per malattie cardiovascolari.

1.2.3 Epidemiologia:

L'uso di diversi criteri diagnostici e la scarsità di dati causano difficoltà nel determinare la prevalenza del diabete nel mondo soprattutto in Europa orientale e in Asia meridionale, specie nei più giovani e negli anziani. I documenti dell'International Diabetes Federation (IDF) [79] stimano che nel mondo, al momento, sono 382 milioni le persone che convivono col diabete, e

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altri 280 milioni sono ad alto rischio di svilupparlo, e ci si aspetta che entro il 2035 saranno più di mezzo miliardo i pazienti in tutto il mondo.

La prevalenza del diabete è maggiore negli uomini che hanno meno di 60 anni e in donne più anziane . In fatti, la prevalenza del diabete aumenta con l'invecchiamento, e l’effetto protettivo degli estrogeni viene perso nelle donne dopo la menopausa [19].

Inoltre, esistono differenze nella distribuzione mondiale della malattia. Ad esempio nei Paesi industrializzati (Europa , Nord America, Giappone , Australia, Nuova Zelanda) la maggior parte dei soggetti diabetici sono di età superiore ai 64 anni, mentre nei Paesi in via di sviluppo si collocano nella fascia di età tra i 45 e i 64 anni. E si stima che i Paesi in via di sviluppo dovranno affrontare un ulteriore aumento del numero di persone con diabete entro il 2030, soprattutto in Medio Oriente, Africa Sub-Sahariana, e India.

Nel 2004 circa 3.4 milioni di persone sono morte per le conseguenze di iperglicemia, di queste, oltre l'80% dei decessi si sono verificati nei Paesi a basso e medio reddito.

Sia l'OMS e la Fondazione Internazionale del Diabete ( IDF ) prevedono che le morti associabili al diabete potrebbero raddoppiare tra il 2005 e il 2035 [13,79].

La crescente prevalenza del diabete è associata all'aumento percentuale di malattie cardiovascolari nella popolazione mondiale. Malattie coronariche (CAD) e disfunzioni ventricolari sono le principali complicanze che colpiscono i pazienti diabetici. Nonostante i grandi progressi nella prevenzione e terapia delle malattie cardiovascolari, l’aspettativa di vita in pazienti diabetici rimane bassa.

Scholte et al. [20] ha mostrato un fenotipo vascolare di malattia coronarica diffusa e un aumentato rischio di infarto miocardico nei pazienti diabetici asintomatici. Inoltre, più di un quarto dei pazienti che hanno avuto un infarto miocardico, presentavano comorbilità con DM, e la percentuale sale a oltre il 75 % per la cardiopatia ischemica clinicamente manifesta , se viene inclusa anche l’alterata glicemia a digiuno ( Lenzen et al.2006, 51).

Schramm et al. (2008) [80] , studiando una grande coorte di 3,3 milioni di soggetti , ha dimostrato che i pazienti con DM e senza preventivi problemi cardiovascolari, presentano un rischio di infarto miocardico equivalente a quello trovato nei pazienti non diabetici con cardiopatia ischemica.

I dati disponibili suggeriscono che il grado di iperglicemia di per sé potrebbe essere un indice predittivo di rischio in seguito a infarto miocardico, o di sviluppare insufficienza cardiaca congestizia. Oltre all’iperglicemia cronica , l'aumento documentato di rischio cardiovascolare nei soggetti diabetici è dovuto all’effetto combinato di una serie di fattori, compresa obesità, dislipidemia, infiammazione, insulino-resistenza, e ipertensione [81].

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1.2.4 HOMA: indice di Insulino-Resistenza

Cause di tipo ormonale, genetiche o farmacologiche possono portare le cellule a sviluppare una bassa sensibilità o resistenza delle cellule nei confronti dell’azione dell’insulina, definita

Insulino-Resistenza (IR). Uno degli indici utilizzati comunemente per valutare

l’insulino-resistenza è l’indice HO.M.A (Homeostasis Model Assessment) che si basa su un modello omeostatico matematico che considera le concentrazioni sieriche di insulina e glucosio a digiuno:

Indice HOMA = (glicemia a digiuno (mg/dl) * insulinemia a digiuno (microU/ml)/ 405

Si ritiene non insulino-resistente un paziente con indice HOMA compreso tra 0,23-2,5.

1.2.5 Meccanismi che coinvolgono IR, diabete e obesità

La “Diabesità” è il neologismo coniato da Sims [143] e utilizzato in seguito da altri studiosi per sottolineare la stretta associazione che intercorre tra diabete mellito di tipo 2 e l'obesità patologica. La diabesità rappresenta una pandemia dei nostri tempi con una prevalenza e un impatto socio-economico-sanitario destinato a crescere. Nell'impatto socio-sanitario della diabesità è fondamentale includere le potenziali complicanze a lungo termine, sia diabetiche sia legate all'obesità patologica. Esse includono infarto del miocardio, disfunzioni cerebro-vascolari e patologie renali in stadio avanzato. Recenti progressi nelle conoscenze scientifiche hanno documentato che esiste inoltre un'associazione tra stress cronico, depressione e disturbi del sonno legati sia all'obesità sia al diabete mellito [52].

Avere un singolo meccanismo per spiegare il legame tra obesità, insulino-resistenza e diabete di tipo 2 sarebbe l’ideale, al momento si parla piuttosto di una serie di concatenazioni, che si influenzano vicendevolmente.

L’obesità è un fattore di rischio per lo sviluppo di disordini metabolici legati ad insulino-resistenza e diabete. Il tessuto adiposo oltre ad essere un tessuto di immagazzinamento di molecole energetiche, modula anche il metabolismo sistemico rilasciando in circolo acidi grassi liberi (FFA), ormoni (inclusa leptina e adiponectina) e citochine proinfiammatorie che possono agire in maniera autocrina, paracrina o endocrina.

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L’eccessivo accumulo di tessuto adiposo viscerale che caratterizza le condizioni di sovrappeso e obesità costituisce uno tra i principali fattori responsabili dell’insorgenza delle complicanze associate all’obesità, come ipercolesterolemia, diabete, malattie cardiovascolari e cancro [69, 70].

Nei soggetti obesi, infatti, la progressiva crescita delle cellule adipose in seguito all’accumulo di lipidi potrebbe determinare una condizione ipossia locale, associata ad un aumento della produzione di radicali liberi, apoptosi cellulare e rilascio locale di citochine pro infiammatorie che determinano l’instaurarsi di una condizione di infiammazione cronica e sistemica e l’alterazione del signaling dell’insulina [72].

Tra queste, la proteina chemioattrattante per i monociti-1 (MCP-1) è coinvolta nell’infiammazione sistemica (topi che sovra esprimono MCP-1 sviluppano insulino resistenza e mostrano alti livelli di TNF-α (Tumor Necrosis Factor α) e interleuchina-6 (IL-6) [107]), inibisce l’espressione dell’adiponectina, e interferisce col signaling dell’insulina, stimolando quindi la lipolisi e il rilascio di FFA e riducendo la captazione di glucosio a livello sistemico.

Nei soggetti obesi anche le concentrazioni ematiche di TNF-α , l’IL-6 e prodotti addizionali di macrofagi e di altri tipi di cellule che potrebbero avere un ruolo nell’insulino-resistenza, risultano generalmente aumentate. TNF-α e IL-6 hanno attività pro-infiammatoria agendo attraverso i classici meccanismi mediati da recettore e stimolano sia la JNK (chinasi c-Jun amino terminale) e la IKB, e inoltre riducono la trasmissione del segnale insulinico. Un aumento dei loro livelli, sia in modelli animali sia nell’uomo, si associa a resistenza insulinica [72,99].

Tra i metaboliti rilasciati dal tessuto adiposo, anche le adipocitochine, leptina, adiponectina e resistina rivestono un ruolo particolarmente importante:

- La leptina (il cui nome deriva del greco leptos che vuol dire magro) sopprime l’appetito e favorisce la spesa energetica, riducendo l’accumulo di grasso. Modelli animali, geneticamente deficienti in leptina (topo ob/ob [73]) o del recettore per la leptina (topo db/db e ratto di Zucker fa/fa ) sviluppano obesità, dislipidemia, e insulino resistenza [74]. Questi ultimi non hanno bassi livelli di leptina, il che suggerisce che potrebbero essere resistenti all’ormone [75].

- L’adiponectina determina una riduzione dei livelli plasmatici di glucosio e lipidi. Nell’uomo, una minore concentrazione di adiponectina plasmatica è associata a obesità, sviluppo di DM2 e aumentato rischio di malattie cardiovascolari [105, 148]. L’adiponectina ha azione antinifiammatoria riducendo il rilascio di proteina C reattiva (CRP) e dell’IL-8 [106]. In presenza di danno aterosclerotico, determina una regressione della patologia attenuando la proliferazione cellulare e la migrazione nella lesione aterosclerotica, e diminuendo l’attività dei

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macrofagi che sono responsabili dell’accumulo di lipidi e la formazione di cellule schiumose [105].

- La resistina sembra avere un’azione antagonista a quella dell’insulina [76]. Essa è aumentata nel diabete di tipo 2, suggerendo un legame tra l’obesità e l’insulino-resistenza, anche se il suo ruolo è ancora controverso e poco chiaro. La letteratura è divisa tra i dati ottenuti in favore o contro il ruolo della resistina in caso di obesità o diabete nell’uomo [77].

In condizioni di insulino-resistenza, la riduzione della lipogenesi e l’aumento della lipolisi, determinano quindi un incremento della concentrazione plasmatica di acidi grassi liberi.

Questo meccanismo, insieme alla progressiva riduzione e saturazione delle capacità di accumulo del tessuto adiposo, determina infine un crescente afflusso di acidi grassi verso tessuti non fisiologicamente deputati alla loro esterificazione e stoccaggio, come fegato, pancreas e cuore. Gli aumentati livelli di FFA sono osservati nell’obesità e nel diabete di tipo 2 e sono associati con l’insulino-resistenza presente in entrambi. Gli aumentati livelli di FFA potrebbero entrare in competizione con il glucosio quale substrato per l’ossidazione portando alla inibizione della piruvato deidrogenasi (che in condizioni fisiologiche viene attivata dall’insulina durante la lipogenesi per formare Acetil-CoA), della fosfofruttochinasi e della esochinasi II. Alcuni studi [32] mostrano che l’aumentato immagazzinamento dei FFA o il loro diminuito metabolismo intracellulare determinino un aumento del contenuto intracellulare di metaboliti lipidici come il diacilglicerolo, acil-CoA e ceramidi che attivano una serina/treonina chinasi che porta alla fosforilazione dell’IRS-1 o dell’IRS-2, con la conseguente alterazione della capacità di attivare la PI(3)K, causando infine una riduzione del segnale dell’insulina.

La distribuzione del grasso è esso stesso un determinante critico della sensibilità insulinica [17]. Recenti studi hanno dimostrato infatti che gli adipociti viscerali sono più sensibili all'attività lipolitica di alcuni ormoni quali le catecolammine, e meno sensibili all’azione dell’insulina [69,71].

Questa differenza nelle caratteristiche degli adipociti, associata al fatto che i depositi intra-addominali si trovano in prossimità del fegato, determina una maggiore esposizione di questo organo ai FFA rispetto ad altri tessuti periferici. Questa differenza nell’esposizione ai FFA potrebbe spiegare il fatto che a volte il fegato può essere insulino-resistente e gli altri tessuti periferici no o in minor misura [26].

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A livello metabolico sistemico, la riduzione della sensibilità all’insulina determina l’instaurarsi di un circolo vizioso con conseguente iperglicemia, iperinsulinemia ed accumulo ectopico di lipidi: la bassa sensibilità delle cellule adipose e muscolari all’insulina compromette l’immagazzinamento dello zucchero come glicogeno e riduce la lipogenesi. Inoltre la diminuita soppressione della lipolisi al livello del tessuto adiposo determina un innalzamento della concentrazione ematica di acidi grassi liberi. A livello epatico invece l’insulino-resistenza comporta la riduzione della sintesi di glicogeno e la mancata soppressione della produzione di glucosio, che viene perciò rilasciato in circolo.

Il conseguente aumento della concentrazione degli acidi grassi liberi (e di glucosio) da un lato stimola ulteriormente la secrezione insulinica e dall’altro, attraverso un meccanismo definito di competizione del substrato, inibisce ancor di più l’utilizzo del glucosio, peggiorando ulteriormente la condizione l’insulino-resistenza (la sostituzione del glucosio con gli acidi grassi come substrato energico va sotto il nome di ciclo di Randle [33]).

Per mantenere uno stato di euglicemia, il pancreas risponde inizialmente aumentando la produzione di insulina, determinando quindi una condizione di iperinsulinemia [17].

L’aumento ematico sia dei FFA che del glucosio possono avvenire simultaneamente e insieme essere molto deleteri per la funzionalità pancreatica e per l’azione dell’insulina. Nella patogenesi del progressivo deficit della secrezione insulinica [figura 5] hanno un ruolo determinante la necrosi e l'apoptosi della cellule beta, alle quali concorrono la dislipidemia (lipotossicità) e la iperglicemia cronica (glucotossicità), attraverso meccanismi biochimici complessi, tra i quali un aumento della produzione di radicali liberi (stress ossidativo). Quando le cellule beta non sono più un grado di sostenere la sovrapproduzione dell’insulina, la tolleranza dell’organismo verso il glucosio viene compromessa determinando infine l’instaurarsi del diabete di tipo 2 [82].

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Figura 5: Effetti della diminuzione del rilascio di insulina su diversi tessuti corporei (Fonte: Coletta D.K et al.,

American Journal of Physiology - Endocrinology and Metabolism, 2011,Vol. 301, [99])

1.3 Malattie Cardiovascolari associate ad obesità e diabete

Le malattie cardiovascolari hanno un ruolo predominante tra le cause di mortalità globale [84], suggerendo la necessità di identificare i fattori di rischio e attuare strategie di prevenzione per contrastare la pandemia di queste patologie.

Nella descrizione dei principali fattori di rischio, obesità e diabete vengono spesso considerati unitamente, ciò è dovuto al verificarsi in maniera contestuale di entrambi nella maggior parte dei pazienti, il che rende difficile distinguere il loro contributo specifico nello sviluppo di malattie cardiache [52]. Infatti l’obesità è generalmente associata a ipertensione, dislipidemia, insulino-resistenza, iperleptinemia, e uno stato di infiammazione cronica, condizioni che sono considerate fattori di rischio per lo sviluppo di malattia coronarica, infarto miocardico, insufficienza cardiaca congestizia e fibrillazione atriale [85]. Anche il diabete mellito e l’insulino-resistenza sono associati indipendentemente alla malattia coronarica e disfunzioni atriali.

L’esatto meccanismo responsabile delle alterazioni metaboliche e funzionali nel distretto cardiovascolare non è ancora del tutto chiaro, tuttavia diversi studi mettono in evidenza il ruolo

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del metabolismo lipidico e glucidico, con una serie di meccanismi diversi che vanno ad influenzarsi reciprocamente e ad agire in modo negativo sull’apparato cardiocircolatorio.

1.3.1 Danno miocardico

Uno dei meccanismi possibili che va ad agire sul tessuto miocardico, è la compromissione dell’immagazzinamento fisiologico, in seguito ad una dieta normocalorica, dei grassi che vengono immagazzinati sotto forma di trigliceridi nel tessuto adiposo. Nell’obeso, che spesso eccede nel fabbisogno giornaliero calorico, la capacità di immagazzinamento degli adipociti raggiunge una saturazione, così che i lipidi vengono rilasciati nel circolo sanguigno e accumulati in cellule e tessuti, incluso il miocardio, nel quale entrano attraverso proteine di trasporto. In condizioni fisiologiche il 60-80% dell’energia richiesta dal cuore per contrarsi deriva dall’ATP prodotta dall’ossidazione lipidica, mentre in minor misura dall’ossidazione del glucosio e solo una minima parte dal lattato. Quindi i FFA rappresentano la maggiore fonte di energia per i cardiomiociti rispetto a qualsiasi altro substrato, fornendo 129 molecole di ATP per mole di acido grasso ossidato, contro le 36 forinte da una mole di glucosio. I cardiomiociti, hanno una limitata capacità di accumulare lipidi, e se esposti ad alti livelli plasmatici di grassi e trigliceridi, possono andare incontro a processi infiammatori che comportano steatosi e lipoapoptosi, con conseguente compromissione delle funzioni fisiologiche del miocardio [31].

Obesità e DM2 sono associate ad una aumentata circolazione di FFA che raggiungono il cuore, che tende ad adattarsi agli alti livelli di grassi, inducendo all’accumulo di trigliceridi e aumentando l’utilizzo di acidi grassi (promuovendo la beta ossidazione), a spese dell’utilizzo del glucosio [86]. Quindi si può sviluppare insulino resistenza nel miocardio (MIR), come descritto nel Ciclio di Randle glucosio-Acidi grassi [32, 33].

Anche studi con Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) hanno mostrato che

l’insulino-resistenza sistemica nei pazienti con DM2 è associata a MIR [88].

Inoltre è stata dimostrata una diretta relazione tra insulino-resistenza del miocardio e bassa frazione di eiezione che potrebbe contribuire alla diminuzione della funzione cardiaca nei soggetti diabetici [87,89].

1.3.2 Aterosclerosi e alterazioni del circolo

La disfunzione del tessuto adiposo può inoltre alimentare la progressione dell’aterosclerosi e il danno causato dall’ischemia. Sovrappeso e obesità sono associati a maggiore rigidità vascolare e pressione sanguigna, all’aumento del volume di sangue circolante, e della gittata cardiaca e per

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questo posso determinare alterazioni della struttura e funzione cardiaca (esempio soprattutto a livello del ventricolo sinistro), aumentando il rischio di fibrillazione atriale e arresto cardiaco che sono la causa di morte predominate di questi soggetti [54].

Inoltre, in soggetti affetti da insulino-resistenza, è stata misurata una riduzione del diametro dei vasi più piccoli, inclusi quelli in cervello e cuore. In condizioni normali l’endotelio produce vasodilatatori come l’Ossido Nitrico (NO) che ha effetto protettivo su ischemia e necrosi del miocardio; in pazienti con diabete, la disponibilità di NO è ridotta, ciò è dovuto in parte all’indebolimento del signaling dell’insulina. Quindi il danno microvascolare può verificarsi indipendentemente dal meccanismo di aterosclerosi [55].

La vasocostrizione può essere anche determinata, in pazienti con insulino-resistenza, da una massiccia sintesi epatica di VLDL che contribuisce direttamente ad aumentare le lipoproteine e gli acidi grassi liberi circolanti che hanno effetto pro-infiammatorio che va a ripercuotersi sul tono dei vasi [90].

I processi di aterosclerosi sono complicazioni cardiovascolari frequenti in soggetti obesi e diabetici, giustificando il 70% delle morti tra i pazienti diabetici. La rottura della placca promuove la formazione di trombi e l’ostruzione di arterie coronarie, privando il miocardio di ossigeno e nutrienti, e portandolo alla morte.

In soggetti obesi e diabetici, l’ipertensione e disfunzioni endoteliali aumentano la suscettibilità ai danni causati da aterosclerosi. Entrambe le condizioni patologiche sono caratterizzate da dislipidemia, con aumento di livelli circolanti di acidi grassi liberi, trigliceridi, colesterolo totale e colesterolo LDL (low-density lipoproteins) che correlano con il rilascio di citochine pro infiammatorie e proaterogeniche (TNF-α, IL-6) e specie reattive dell’ossigeno (ROS). Per quest’ultime, l’ipotesi più accreditata è che in iperglicemia, l’aumento di donatori di elettroni ne aumenti il flusso attraverso la catena di trasporto di elettroni mitocondriale [86]. La perturbazione dell’equilibrio redox risulta tossico per la cellula, perché l’aumento di ROS ne danneggia tutte le componenti, dalle proteine agli acidi nucleici, innescando reazioni di perossidazione lipidica. Tutto ciò contribuisce allo sviluppo di un’infiammazione sistemica [91].

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1.4 FETAL PROGRAMMING

L’obesità e il diabete sono patologie che stanno aumentando notevolmente anche tra bambini, con circa 155 milioni di individui affetti da sovrappeso o obesità secondo i dati dell’International Obesity Task Force (Hossain et al. 2007, 56). Questi bambini hanno grandi probabilità, oltre che di essere obesi in età adulta, di sviluppare patologie metaboliche, come insulino-resistenza e diabete, e malattie cardiovascolari in età precoce.

Alla luce della pandemia di obesità sin dall’età scolare e del significativo aumento del numero di donne in sovrappeso o obese in età riproduttiva (30% secondo i dati forniti dal Center of Disease Control and Prevention, CDC, 92) è stata formulata l’ipotesi di un’origine fetale e perinatale delle malattie metaboliche, nota con il nome di “fetal programming”. Secondo tale ipotesi, in risposta a uno stimolo transitorio in utero, l’organismo mette in atto modifiche metaboliche e trascrizionali che divengono permanenti poiché si verificano in un periodo critico del differenziamento cellulare [38].

L’idea è stata avanzata da Barker nel 1995 che osservò che, in una coorte di uomini e donne adulti, pressione sistolica e tasso di morte per malattie cardiovascolari erano inversamente collegati al peso che l’individuo aveva alla nascita. Infatti è risultato che soggetti con peso e/o altezza inferiori rispetto alla media avessero un rischio sei volte maggiore di sviluppare DM2, rispetto a chi aveva parametri antropometrici apparentemente normali alla nascita [39]. Questa osservazione suggerirebbe che gli stessi meccanismi che permettono al feto la sopravvivenza in utero, possono comprometterne la sua salute in un diverso ambiente. Un esempio è il fenotipo “risparmiatore”[93]: nel caso di denutrizione o malnutrizione materna durante la gravidanza, la ridotta disponibilità di substrati determina una riduzione delle dimensioni corporee del feto e l’adattamento del suo metabolismo a un limitato utilizzo di glucosio e substrati energetici [94]. Dopo la nascita però, tale regolazione può diventare molto svantaggiosa e, in risposta all’aumentata disponibilità di cibo, determinare lo sviluppo di intolleranza al glucosio [95]. Studi longitudinali effettuati su 13517 individui da Barker et al. [40] hanno confermato l’associazione tra i nati sottopeso e lo sviluppo di malattia coronarica, ipertensione e DM2, il cui rischio aumenta ulteriormente se si è verificato inoltre un rapido aumento di peso nei primi anni di vita. L’obesità materna costituisce un rischio sia per la madre stessa sia per la prole. La donna obesa infatti ha maggiore probabilità di sviluppare ridotta sensibilità all’insulina rispetto a donne normopeso [97]; questa condizione aumenta a sua volta i rischi a lungo termine di sviluppare insulino-resistenza e problemi associati quali diabete, ipertensione, iperlipidemia, e disordini cardiovascolari. Il rischio futuro per le prole è quello di sviluppare complicanze metaboliche e

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non che possono già manifestarsi alla nascita con la presenza, ad esempio, marcatori di infiammazione, iperglicemia, e insulino-resistenza cha si originano già in utero nel feto [98]. Per questo motivo è di fondamentale importanza una prevenzione dell’obesità che contribuisca a dare benefici a breve e lungo termine oltre che alla donna, alla sua prole [41].

Possibili alterazioni nel metabolismo del feto includono cambiamenti nelle proporzioni di massa magra e massa grassa [63], alterazione nella regolazione dell’appetito, dell’omeostasi glicemica e della struttura e funzione di pancreas [96], muscolo, fegato, vasi sanguigni e cervello [38]. Oltre a ciò, il sottopeso alla nascita sembra associato anche ad un successivo rischio di obesità viscerale, che come è stato dimostrato contribuisce ad aumentare il rischio cardiovascolare [42]. Infine è stato dimostrato che bambini nati da madri dislipidemiche mostrano un accelerato sviluppo di accumuli di grasso nell’aorta [43], per l’accumulo di LDL e loro ossidazione che precede il reclutamento leucocitario nella placca aterosclerotica. In letteratura diversi studi su modelli animali e in seguito sull’uomo hanno dimostrato che la prole di madri obese è più soggetta allo sviluppo di ipertensione [136, 137, 140], e disfunzioni dell’endotelio [ 138, 139]. Tutto ciò ha suggerito un collegamento tra l’aumento della pressione arteriosa e la perturbazione dell’omeostasi glucidica in progenie adulta di madri che hanno consumato elevate quantità di grassi e carboidrati in gravidanza.

1.4.1 Ruolo della placenta:

Studi sperimentali e in vitro confermano che la crescita fetale è molto vulnerabile in presenza di squilibri materni di nutrienti (ad esempio proteine o micronutrienti), in particolare durante il primo trimestre di gravidanza, periodo di impianto dell’embrione e di maggiore accrescimento della placenta [11]. Lo stato di malnutrizione o ipernutrizione materna porterebbe, attraverso vie metaboliche finali comuni, a una riduzione dei processi di angiogenesi e di supporto ematico della placenta [46]. La placenta umana è l'organo deputato agli scambi metabolici tra la madre e il feto, ed è costituita da una parte materna, o decidua, e da una fetale, ossia il corion, e va incontro a modificazioni fisiologiche durante lo sviluppo del feto; se la salute materna viene alterata le ripercussioni si riscontreranno direttamente a livello di quest’ultima.

Ad esempio la gravidanza è caratterizzata da una diminuzione della sensibilità all’insulina (fino al 60%) e lieve uno stato di infiammazione cronica che risulta amplificata nel caso di complicanze come preeclampsia, diabete gestazionale e obesità, patologie che già osservate singolarmente sono caratterizzate da stati infiammatori [44]. Una maggiore espressione di marcatori di infiammazione, tra cui IL-6, IL-1 e TNF-α [45], è stata osservata nella placenta di donne obese. Frias et al. [46] ha osservato in madri obese o che seguivano una dieta ricca di

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grassi, una diminuzione della perfusione utero-placentare, in particolare nella parte fetale dell’organo, con aumentato rischio di ischemia e infiammazione a livello della placenta.

Oltre alle caratteristiche metaboliche materne, che agiscono durante lo sviluppo fetale, altri fattori nutrizionali e metabolici presenti nelle prime fasi della vita neonatale hanno un ruolo importante nel determinare la salute della prole. Ad esempio, alcuni studi hanno mostrato una correlazione inversa tra durata dell’allattamento e rischio di sovrappeso e/o obesità, secondo la quale più a lungo il bambino viene allattato al seno materno e minori saranno le probabilità per lui di diventare obeso [47].

Anche il ruolo del padre è stato a lungo indagato, suggerendo una sua minore influenza stesso sul rischio di insorgenza di patologie metaboliche e cardiovascolari nella prole [108, 109].

1.4.2 Lunghezza telomerica

ll telomero è la regione terminale del cromosoma composta di DNA altamente ripetuto. I telomeri hanno ha un ruolo determinante nell'evitare la perdita di informazioni durante la duplicazione dei cromosomi. Infatti, poiché la DNA polimerasi non è in grado di replicare il cromosoma fino alla sua terminazione, se non ci fossero i telomeri la replicazione del DNA comporterebbe dopo ogni replicazione una significativa perdita di informazione genetica [64]. I telomeri hanno quindi la duplice funzione di proteggere l’integrità cromosomica sia dalla degradazione progressiva, sia dall’essere processata come estremità a filamento spezzato (non possedendo la tipica struttura a doppia elica) col rischio di fusione tra le due regioni telomeriche di due cromosomi diversi. I telomeri vengono estesi dall'enzima telomerasi, che rappresenta una classe di retrotrascrittasi specializzate, presenti in numerosi organismi (tra cui l'uomo), ma non in tutte le fasi dello sviluppo. In particolare, nell'uomo le telomerasi (così come nella maggior parte degli multicellulari) sono attive solo nelle cellule della linea germinale: ciò significa che, ad ogni replicazione, i telomeri umani si accorciano fisiologicamente di un certo numero di paia di basi, finchè raggiungono una lunghezza critica in cui la cellula entra in senescenza o eventualmente in apoptosi. Per questo motivo i telomeri sono considerati “l’orologio biologico” della cellula [100]. Da recenti studi è risultato che l’attività della telomerasi può essere in parte regolata da stress metabolico, con conseguente ridotta attività dell’enzima e accorciamento dei telomeri [4]. Inoltre i telomeri corti portano ad una cessazione della divisione cellulare che può causare morte cellulare e può portare a instabilità genomica e a fusione cromosomica [114, 115]. Quando i telomeri si accorciano a livello critico nei leucociti, queste cellule diventano senescenti, e secernono citochine pro-infiammatorie [116, 117]. Così, un sistema immunitario senescente può

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contribuire a uno stato pro infiammatorio, e i macrofagi senescenti possono contribuire direttamente alla formazione di placche aterosclerotiche [118].

Il diabete durante la gravidanza si associa a danni al DNA cromosomico, accorciamento dei telomeri nella placenta fetale e nel sangue cordonale, suggerendo quindi che la condizione metabolica materna durante la gravidanza potrebbe avere un effetto sulla salute e la regolazione dell’invecchiamento cellulare nella prole [7].

Basandosi su studi precedenti che affermavano che l’obesità negli adulti è associata a una minore lunghezza dei telomeri, Buxton et al. ha dimostrato l’esistenza di un’associazione tra accorciamento dei telomeri e obesità infantile (i bambini in studio avevano telomeri significativamente più corti rispetto alla controparte non obesa) [5].

Alterazioni dell’ambiente metabolico materno durante la vita fetale possono contribuire ad un’origine fetale di malattie cardio-metaboliche [101], in seguito a modifiche metaboliche e trascrizionali operate dall’organismo in fase di differenziamento. Tra queste modifiche, un maggiore accorciamento dei telomeri, presumibilmente correlato ad un aumento dello stress ossidativo [102] e infiammatorio [103], potrebbe essere associato ad un aumentato rischio di cardiopatie [6, 110], invecchiamento cellulare [49] e anche obesità e diabete infantile [104], così come suggerito da recenti studi [48].

Inoltre, l’accorciamento dei telomeri e’ stato associato anche a malattie cardiovascolari. Cawton e colleghi [119] hanno mostrato che l’accorciamento della lunghezza dei telomeri è associato alla comparsa di malattie cardiovascolari e malattie infettive in un campione di 143 soggetti [113]; trovando che individui con telomeri corti avevano un rischio tre volte maggiore di morte per malattie cardiovascolari.

Per anni gli studiosi hanno cercato di chiarire la questione, tuttora aperta, se l’invecchiamento precoce dipenda più dalla lunghezza dei telomeri alla nascita o dal tasso di accorciamento di questi ultimi o dall’effetto cumulativo di numerosi telomeri accorciati nella cellula [119,120]. Tuttavia, studi sui gemelli indicano che i fattori non genetici possono avere effetti significativi sulla lunghezza dei telomeri nella vita adulta [111]. Ad ogni modo sono necessari ulteriori studi longitudinali per fornire informazioni più precise sul cambiamento della lunghezza dei telomeri nel tempo per confermare e chiarire le varie ipotesi.

Anche se la lunghezza dei telomeri è eterogenea nelle diverse cellule e tessuti, la maggior parte degli studi la riferisce la misura alla lunghezza dei telomeri nei leucociti. In vivo, la lunghezza dei telomeri, si pensa venga modificata da fattori biologici, ambientali e genetici che includono

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meccanismi di infiammazione e invecchiamento [121], fornendo così un adeguato effetto rappresentativo del contributo di diversi fattori di stress sulla lunghezza telomerica.

Esistono diversi metodi per misurare la lunghezza dei telomeri, che può essere determinata in popolazioni di cellule, piuttosto che in cellule single o individualmente nei cromosomi. Tra le piu’ più utilizzate ci sono il Southern blot, l’Ibridazione fluorescente in situ (Q-FISH), Single telomere length analysis (STELA), Reazione a catena della Polimerasi Quantitativa (qPCR), e la Multiplex Real-Time PCR (MMqPCR). Quest’ultima tecnica, sviluppata da Cawton nel 2002 [122] e rivista nel 2009 [65], permette la co-amplificazione della sequenza telomerica e del gene a singola copia nella stessa reazione. Ciò riduce gli errori all’interno del campione e normalizza le differenze nella concentrazione del DNA utilizzato per due misurazioni separate. Infine necessita di una minor quantità di reagenti e al tempo stesso permette una elevata produttività.

SCOPO DELLO STUDIO

Lo scopo di questo progetto è di verificare se variazioni nutrizionali e metaboliche materne durante la gravidanza siano associate allo sviluppo di marcatori precoci di alterazione metabolica e cardiovascolare nella prole. Basandoci sulla teoria del fetal programmig, in questo lavoro di tesi, ci proponiamo di valutare come l’ambiente metabolico materno influenzi il metabolismo e le dimensioni e funzione cardiaca della prole nelle prime fasi di vita. Abbiamo inoltre valutato l’associazione tra lunghezza dei telomeri alla nascita e parametri metabolici e cardiaci, al fine di indagare potenziali meccanismi alla base del fetal programming.

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2. MATERIALI E METODI

2.1 Disegno dello studio

Questo elaborato di tesi riporta i dati ottenuti dal reclutamento di una popolazione di 78 donne di età compresa fra i 20 e i 40 anni, i loro partner e la futura prole. Un primo sottogruppo di 41 donne e i rispettivi partners sono stati reclutati all’inizio della gravidanza (primo trimestre), mentre le rimanenti 37 sono state reclutate nel giorno del parto. Il reclutamento, così come tutte le visite e campionamenti, si sono svolti presso l’Unita di Ginecologia e Ostetrica della USL-1 di Massa e Carrara. Gli studi sono stati approvati dal Comitato Etico di pertinenza ed i genitori hanno fornito consenso informato scritto per se stessi e per i figli. La raccolta e l’analisi di questi dati è stata supportata dal progetto europeo EU-FP7-HEALTH-DORIAN (grant agreement

278603) e da un Grant della Fondazione Europea per lo Studio del Diabete (EFSD/Roche Educational Grant).

I criteri di esclusione adottati sono:

- presenza di insufficienza renale (creatininemia >3 mg/dl) - anamnesi positiva per insufficienza epatica

- anamnesi positiva per cancro

- anamnesi positiva per disturbi psichiatrici ed impossibilità o indisponibilità a firmare il consenso informato

- scarsa compliance

- anamnesi positiva per consumo di sigarette (>5 sigarette/giorno per più di 5 anni)

- anamnesi positiva per abuso di alcol o stupefacenti - presenza di diabete di tipo 1 nel padre

Per tutte le donne sono stati raccolti i dati antropometrici e le analisi di routine della gravidanza compresi gli esami biochimico clinici ed ecografici.

Per le pazienti reclutate all’inizio della gravidanza i dati antropometrici quali IMC, circonferenza di vita e fianchi e pressione arteriosa sono stati misurati in sede di reclutamento nel primo trimestre e poi di nuovo alla fine del secondo trimestre (tra la 26° e 28° settimana) e durante il terzo trimestre (intorno alla 30° settimana). I dati delle pazienti del secondo sottogruppo, reclutate nel giorno del parto e sono stati raccolti, dove presenti, dalla cartella clinica della gravidanza.

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Sono stati raccolti inoltre dati dalle analisi di routine effettuate durante il I trimestre di gravidanza in tutte le madri e comprendenti enzimi epatici AST, ALT e GGT per valutare la funzione epatica, la creatinina per quella renale, e la glicemia a digiuno.

Tra le 26-28 settimane di gestazione il primo sottogruppo di donne ha svolto insieme ai propri partner il test di tolleranza orale al glucosio (OGTT) per diagnosi di diabete. Durante il test sono stati raccolti campioni ematici a digiuno (tempo 0) ed a 15, 30, 60, 90 e 120 minuti dalla somministrazione dei 75g di glucosio. Il diabete gestazionale è stato diagnosticato per mezzo di una curva glucosio della glicemia a 3 punti (tempi 0, 60, 120) secondo le linee guida correnti. Inoltre, nei campioni di sangue prelevati a digiuno, sono stati misurati peptide C e insulina, profilo lipidico, enzimi epatici, creatinina e lunghezza dei telomeri. Le misure di insulina e glicemia sono state utilizzate per il calcolo dell’indice HOMA di resistenza insulinica secondo la formula: glicemia a digiuno (mg/dl) x insulinemia a digiuno (microU/ml) / 405. Le misure di insulina e peptide C a tutti i punti della curva sono invece state utilizzate per valutare la risposta delle cellule pancreatiche al carico di glucosio.

Nel secondo sottogruppo i parametri biochimici sono stati analizzati da sangue prelevato dalle madri al momento del parto.

Inoltre, per entrambi i sottogruppi, sono stati raccolti al momento del parto i campioni di sangue cordonale per la misura degli stessi marcatori biochimici e molecolari misurati nel sangue materno.

Oltre a ciò è stato misurato il contenuto di trigliceridi (TG) in alcuni campioni di placenta, e ulteriori campioni di placenta, cordone e membrane sono stati prelevati e conservati per future analisi molecolari e istologiche. Sono stati inoltre registrati tutti i dati antropometrici e metabolici quali lunghezza, circonferenza cranica, peso alla nascita e alla dimissione, Apgar score, glicemia a 2 ore dal parto, ed eventuali annotazioni pediatriche.

Intorno alla 30 settimana di gestazione, le donne reclutate all’inizio della gravidanza sono state sottoposte insieme ai propri partner ad esame ecocardiografico durante il quale è stato misurato anche lo spessore della parete intima-media carotidea. I dati ecocardiografici di dimensione e funzione cardiaca sono quindi presenti solo per il primo sottogruppo e non per l’intera popolazione.

Inoltre in un sottogruppo di neonati delle coppie, prevalentemente del primo gruppo è stata fatta una misura ecografica dei parametri cardiaci entro 3 giorni dalla nascita.

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Il follow-up della prole (uguale nei due sottogruppi) consiste in ecocardiografie transtoraciche all’età di 3, 6 e 12 mesi per misurare e monitorare i parametri di dimensione e funzione cardiaca. In corrispondenza degli esami ecocardiografici sono stati anche raccolti dati antropometrici, note pediatriche, informazioni su vaccinazioni, alimentazione e salute generale.

Per analizzare l’effetto della condizione metabolica materna durante la gravidanza sulla salute della prole, le madri sono state stratificate in quattro gruppi sulla base del valore di IMC e della presenza di diabete gestazionale: donne normopeso (NP, n=35) con IMC fino a 24.9 kg/m2 , sovrappeso (SV, n=14) con IMC compreso tra 25.0 e 29.9 kg/m2 e obese (OB, n=9) con IMC superiore a 30 kg/m2, e mamme con diabete gestazionale (GDM, n=20). I dati antropometrici hanno numerosità più elevata perché sono stati raccolti in entrambi i sottogruppi. Al contrario, il numero degli esami biochimici variano in base al gruppo di appartenenza. I parametri biochimici riguardanti il primo trimestre di gravidanza hanno maggiore numerosità rispetto a quelli effettuati nel secondo trimestre (ecocardiografia ed insulinemia/peptide C durante OGTT nel primo sottogruppo) e quelli misurati al parto nel secondo sottogruppo. Per quanto riguarda l’analisi dei tessuti, sono stati estratti i TG della placenta su un campione totale di 9 individui. La tabella 1 riassume la numerosità dei gruppi di madri.

Tabella 1: Numerosità dei gruppi materni in base ai parametri analizzati.

NP SV OB GDM

Età, IMC, Aumento peso 35 14 9 20

Pressione Arteriosa 18 8 8 12

I trimestre:

Glicemia, AST, ALT, GGT

30 13 8 16 II trimestre (OGTT): Ecocardiografia 15 14 8 7 6 7 11 12 II trimestre o Parto:

Glicemia, Insulina, Peptide C, HOMA

AST, ALT, GGT, Creatinina, TG, Colesterolo, HDL, LDL 21 21 10 10 7 8 13 12

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