• Non ci sono risultati.

Studio di metodi per il miglioramento della risoluzione spaziale in microscopia di forza elettrostatica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Studio di metodi per il miglioramento della risoluzione spaziale in microscopia di forza elettrostatica"

Copied!
90
0
0

Testo completo

(1)

1

Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Fisica

Corso di Laurea in Fisica

Anno Accademico 2018/19

Tesi di Laurea Magistrale

Studio di metodi per il miglioramento della

risoluzione spaziale in Microscopia di Forza

Elettrostatica

Candidato: Relatore:

(2)

2

Indice

Introduzione 4

1 Materiali dielettrici nanostrutturati 6

1.1 I materiali dielettrici……… 6

1.1.1 Caratteristiche generali……… 6

1.1.2Polarizzabilità di materiali nanostrutturati……… 9

1.1.3 Proprietà delle interfacce……… 10

1.1.4 I materiali nanodielettrici………. 15

1.1.5 Doppio strato elettrico………. 16

1.2 Studio delle interfacce dielettriche……… 22

2 Microscopia di Forza Elettrica 25

2.1 Microscopia a Forza Atomica (AFM)………. 25

2.1.1 Aspetti generali……… 27

2.1.2 Contributi di Forza Elettrica nella AFM………. 29

2.1.3 Modalità di operazione……… 34

2.2 Microscopia di Forza Elettrica……… 34

2.2.1 Modello di interazione elettrica punta-campione……… 36

2.2.1.1 Modello di Hudlet……… 39

2.2.1.2 Modello Straight……… 42

2.2.2 Misura della Forza Elettrica in Lift Mode……… 44

2.3 Risoluzione spaziale in microscopia a forza elettrostatica (EFM)… 46 2.3.1 Definizione e caratteristiche generali……… 46

2.3.2 Force mode e Gradient mode……… 48

2.3.3 Caso di campione bimetallico……… 50

3 Materiali e Metodi 55

3.1 Apparato sperimentale EFM……… 55

3.2 Materiali e Sonde……… 57

3.2.1 Campione metallico piano……… 57

3.2.2 Multistrato PS/PLA……… 58

3.2.3 Punte conduttive……… 60

3.3 Procedure di misura……… 64

3.3.1 Caratterizzazione geometrica: curve di forza……… 64

(3)

3

4 Risultati e discussione 69

4.1 Calibrazione sonde………. 70

4.1.1 Modelli teorici……… 70

4.1.2 Modello integrale……… 73

4.2 Risoluzione spaziale EFM 75

Conclusioni 86 Bibliografia 88

(4)

4

Introduzione

Le tecniche di microscopia a scansione di sonda, come la microscopia a forza atomica (AFM), permettono di caratterizzare e manipolare superfici su scala nanometrica. In AFM la forza di interazione tra una punta acuminata e la superficie alla quale è avvicinata può essere misurata tramite un sensore di forza composto tipicamente da una leva elastica, detta cantilever. Nel caso si vogliano indagare proprietà elettriche, come ad esempio potenziali di superficie, distribuzione di carica o costanti dielettriche, si utilizza la AFM per misurare forze elettrostatiche (microscopia di forza elettrostatica EFM). Con la miniaturizzazione dei dispositivi elettronici e la realizzazione di materiali nanocompositi è diventato sempre più importante riuscire a misurare le proprietà elettriche di una superficie o di un’interfaccia con alta risoluzione spaziale. Sono tutt’ora in corso studi mirati al miglioramento della risoluzione spaziale EFM, che data la natura a lungo raggio delle forze elettrostatiche non riesce a equiparare quella atomica raggiungibile dalla AFM. In questo lavoro di tesi si è partiti da un metodo EFM normalmente utilizzato, chiamato a modulazione di frequenza (FM), e si sono sperimentate strategie capaci di migliorarne ulteriormente la risoluzione spaziale.

Questa tesi è organizzata in quattro Capitoli. Nel primo Capitolo viene introdotta una categoria di materiali, i cosiddetti nanodielettrici, che sono dei materiali isolanti nei quali le proprietà dielettriche macroscopiche sono dominate da una strutturazione, sulla scala micro o nanometrica, piuttosto che dalle proprietà intrinseche dei materiali. Tra questi si possono annoverare dielettrici compositi dove all’interno di una matrice isolante sono disperse varie tipologie di particelle o nanostrutture, materiali con separazioni di fase sulla scala nanometrica, dielettrici multistrato. E’ proprio per l’indagine di questo tipo di sistemi che la microscopia a forza elettrica ha bisogno di raggiungere una

(5)

5

migliore performance, in quanto le proprietà elettriche alle interfacce delle nanostrutturazioni possono variare su scale che molto spesso sono al di sotto dei 10 nm. Nel Capitolo 2 viene illustrata la tecnica EFM, partendo dal metodi di base che è la Microscopia a Forza Atomica nei suoi vari modi di operazione, soffermandosi su quelli più pertinenti alla EFM stessa; in seguito si tratta il problema della misura delle proprietà elettriche locali tramite sonde di prossimità e si affronta il tema della risoluzione spaziale delle stesse. Col Capitolo 3 si passa alla descrizione del lavoro sperimentale oggetto della tesi, nonché delle procedure di analisi dei dati utilizzate per le calibrazioni strumentali e la misura della risoluzione spaziale, per la quale è stato utilizzato uno speciale campione opportunamente concepito per facilitare l’interpretazione dei risultati e ottenere un migliore raffronto con le previsioni teoriche. Infine, nel quarto Capitolo vengono presentati i risultati sperimentali sia riguardo alla calibrazione delle sonde, che è stata perfezionata applicando un metodo originale di analisi dei dati che tiene conto in maniera più puntuale delle condizioni di misura, sia per la determinazione della risoluzione vera e propria, condotta con quattro diversi modelli di sonda e in due diversi modi di operazione. Questa varietà di risultati ha consentito di fornire un quadro ben definito sulle potenzialità della tecnica e sulle condizioni per la sua migliore applicabilità per lo studio dei materiali dielettrici nanostrutturati.

(6)

6

Capitolo 1

Materiali dielettrici nanostrutturati

1.1 I materiali dielettrici

1.1.1 Caratteristiche generali

I materiali dielettrici ideali si definiscono come di conducibilità elettrica nulla, e sono quindi degli isolanti elettrici perfetti. Al loro interno può esistere un campo elettrico; infatti, in contrasto col caso dei conduttori perfetti (conducibilità elettrica infinita), dove invece non può esistere, le cariche elettriche componenti il materiale sono legate ai siti atomici, e per effetto di un campo elettrico possono solo spostarsi dalle loro posizioni di equilibrio. Tale spostamento provoca la formazione di momenti di dipolo microscopici, la cui densità di volume è detta polarizzazione elettrica, una grandezza vettoriale indicata con P

e funzione della posizione. In approssimazione lineare, cioè per campi elettrici sufficientemente poco intensi, la polarizzazione è proporzionale al campo elettrico locale Ecome:

0

P= E (1.1)

dove  è il coefficiente adimensionale di suscettività dielettrica, ed 0 la costante

(7)

7

L’applicazione ad uno strato di materiale dielettrico di un campo esterno Eext

uniforme (Figura 1.1(a)) provoca una polarizzazione omogenea del materiale, che corrisponde all’accumulo di due cariche di superficie uguali e opposte di densità superficiale p, mentre all’interno il materiale rimane mediamente

neutro. Le due cariche sono tali da produrre all’interno dello strato un campo elettrico di modulo p/0, di verso opposto a quello esterno (campo di

depolarizzazione) per cui il campo elettrico all’interno risulta Eext – p / 0. La

definizione di polarizzazione implica che il suo valore sia pari a p, per cui il

campo interno risulta Eext – P / 0. Dato che la polarizzazione è proporzionale al

campo interno, deve valere P = 0  ( Eext – P / 0), per cui P= 0  Eext / (1 + ),

Definendo la costante dielettrica relativa r = 1 + , si può scrivere r 0 ext r 1 ( ) P   E  − = (1.2)

Il valore della carica superficiale risulta quindi proporzionale ad Eext tramite il

fattore (r -1) / r, che è nullo per r = 1 mentre tende ad 1 per r grandi. Per un conduttore perfetto r è infinita, e infatti il campo all’interno si annulla.

Figura 1.1. (a) Strato dielettrico sottoposto a un campo elettrico esterno Eext. (b)

(8)

8

Nel caso più realistico nel quale lo strato dielettrico sia sottoposto ad un campo elettrico uniforme ma questa volta generato all’interno di un condensatore le cui armature siano tenute ad una differenza di potenziale fissata V (Figura 1.1(b)), la carica di polarizzazione p che si forma sul dielettrico è in grado di indurre

una carica addizionale sulle armature stesse, richiamando altra carica fornita dai generatori di potenziale in modo da tenere quest’ultimo al valore fissato. Chiamando Ed ed Ev i campi elettrici all’interno del dielettrico e dello spazio

vuoto rimanente, per definizione di potenziale si deve avere, con riferimento alla Figura 1.1(b), V = Ed hd + Ev (h – hd). Inoltre, applicando opportunamente il

teorema di Gauss, scegliendo delle superfici di Gauss che includano la carica superficiale presente sulle diverse superfici del condensatore e dello strato dielettrico, si ottiene che d Ed = Ev. La soluzione di questo sistema fornisce i

valori di Ed ed Ev, dati da:

d d d(1 d) V E hh   = + − (1.3) d v d d(1 d) V E h h     = + − (1.4)

Notiamo che sia il campo elettrico nel materiale che quello nel vuoto dipendono dalla costante dielettrica del materiale.

La capacità C è definita come la carica che il generatore deve portare sulle armature del condensatore per ottenere una data differenza di potenziale fra le stesse. Nel caso del condensatore vuoto, questa capacità vale, per unità di area,

0 / h, mentre nel caso di condensatore pieno di dielettrico, essa vale 0 d / h, cioè d volte quella del condensatore vuoto. Per il condensatore parzialmente riempito, si può definire una costante dielettrica efficace eff che ne fornisca il valore della capacità. Questa vale:

(9)

9 eff d d d 1 1 1 h h    =  −  +   (1.5)

In maniera analoga si può ricavare una costante dielettrica efficace di un sistema composto da più strati con diversa costante dielettrica.

1.1.2 Polarizzabilità di materiali nanostrutturati

I materiali dielettrici esistenti in natura possono avere varia forma e struttura: cristalli, solidi amorfi e semicristallini, liquidi. Per un materiale omogeneo, la costante dielettrica è determinata dalla polarizzabilità degli atomi o molecole costituenti. Possono esistere diversi tipi di processi che conferiscono polarizzabilità al materiale, tra i quali:

- orientazionale, caratteristico delle molecole con momento di dipolo permanente, che tende ad orientarsi parallelamente al campo elettrico; - vibrazionale ionico, in cui i nuclei si spostano rispetto alla loro posizione

di equilibrio nella molecola o nel solido;

- vibrazionale elettronico, in cui gli elettroni degli atomi si spostano rispetto al proprio nucleo.

Esiste la possibilità di ottenere materiali isolanti con polarizzabilità elettrica più elevata rispetto a quella naturale, introducendo una strutturazione. Consideriamo come esempio delle particelle metalliche che vengano incluse in un materiale isolante, che diremo matrice. Gli elettroni del metallo possono muoversi liberamente lungo la superficie della particella, ma non possono allontanarsi da essa, in quanto racchiusi in un isolante. Un campo elettrico applicato è in grado di accumulare gli elettroni da un lato della particella, lasciando carico positivamente l’altro lato, e creando così un dipolo elettrico. La polarizzabilità efficace di un materiale così strutturato differisce da quella della matrice, rimanendo tuttavia il materiale globalmente isolante.

(10)

10

Se le inclusioni nella matrice sono di piccole dimensioni e omogeneamente distribuite, il materiale apparirà macroscopicamente omogeneo, ma le sue proprietà dipenderanno dalla natura delle inclusioni e possibilmente anche dal fatto di avere creato delle interfacce fra inclusioni e matrice. Il comportamento della materia ad una interfaccia, infatti, si può differenziare notevolmente da quello dei singoli materiali componenti. Un esempio è quello appena discusso di particelle conduttive in matrice isolante, dove gli elettroni del conduttore sono costretti ad accumularsi presso l’interfaccia. I casi in cui una specie, ad esempio gli elettroni, o più in generale una caratteristica chimico-fisica di un sistema risulti costretta in una regione spaziale limitata vengono detti di confinamento

spaziale. La creazione di interfacce fra due materiali risulta spesso in effetti di

confinamento. I materiali confinati possono esibire comportamenti che si discostano da quelli dei materiali componenti, e ciò può essere sfruttato per produrre materiali con caratteristiche mirate.

La trattazione dei fenomeni all’interfaccia viene svolta nella maniera più semplice considerando un problema unidimensionale, anche se nella pratica i sistemi possono essere mono-, bi- o tri-dimensionali. Qui di seguito introduciamo la definizione di interfaccia secondo Gibbs e alcune sue caratteristiche salienti.

1.1.3 Proprietà delle interfacce

Una superficie delimita un corpo, ad esempio un solido o un liquido dal gas circostante, oppure un solido dal liquido circostante. Più in generale si parla di interfaccia o interfase. Alcuni solidi possono esistere in due o più fasi, così come alcuni liquidi. Un esempio di due fasi solide è quello delle fasi cristallina e amorfa di una stessa sostanza. Un esempio di liquido che può esibire due o più fasi è quello dei cristalli liquidi. Inoltre, due liquidi immiscibili, mescolati assieme, col tempo si separano formando interfacce di separazione.

(11)

11

Si possono distinguere le fasi che compongono un sistema in fasi disperdenti, o continue o esterne, e fasi disperse, o discontinue o interne. Esiste inoltre il caso di fasi bicontinue, dove non è presente la fase dispersa. Ad esempio, nella miscela acqua/olio, l'acqua costituisce la fase continua e l'olio quella dispersa, nella forma di goccioline.

Una interfaccia è definita come la regione di spazio al confine fra due regioni composte di due diversi materiali o fasi, in cui una certa grandezza fisica subisce la variazione dal valore che essa assume in uno dei due materiali, inteso come il valore caratteristico del materiale bulk assunto allontanandosi sufficientemente dall’interfaccia, al valore nell’altro. Sottolineiamo che a seconda delle grandezze fisiche considerate, le relative interfacce non sono necessariamente coincidenti. La trattazione delle interfacce dal punto di vista termodinamico, quindi in condizioni di equilibrio, è dovuta a Gibbs. Consideriamo un sistema di due fasi

 e  divise da una interfaccia s, ad esempio un sistema liquido-vapore, e per semplicità consideriamo una interfaccia planare. Consideriamo una variabile estensiva Y la cui densità y varia dal valore y della fase bulk  al valore y della fase bulk , spostandosi lungo la coordinata x attraverso l'interfaccia. In Figura 1.2 viene rappresentato un esempio di questa situazione, dove la grandezza estensiva è il numero di molecole N e la relativa densità è c (concentrazione molare). La regione di transizione presenta una variazione continua fra y e y. Scegliamo un piano arbitrario di divisione alla coordinata x = xs, di area A, che

divide il volume totale in V e V e rappresenta una interfaccia di volume Vs nullo (piano divisorio di Gibbs). Esistono anche altri modelli, più realistici, dove l'interfaccia ha volume Vs > 0, ad es. il modello di Guggenheim. Tuttavia, il

modello di Gibbs è il più semplice, seppur contenendo i concetti basilari, per cui viene usato per descrivere la fenomenologia di base.

(12)

12

Figura 1.2. Il piano divisorio di Gibbs nel caso di una interfaccia liquido/vapore, posizionata in modo da fornire un valore dell’eccesso interfacciale nullo. Da Ref. [3].

La generica quantità estensiva Y per l'intero sistema vale: s

Y = y V  +y V  +y A (1.6)

definendo ys come densità superficiale di Y. Se la grandezza estensiva è ad

esempio il numero di molecole N, abbiamo s

N =c V  +c V  +c A. Per il volume, si ha V =V +V, essendo l'interfaccia ideale di Gibbs di volume nullo.

Definiamo l'eccesso interfacciale molare i come:

s i i N A  = (1.7)

dove assumiamo che il sistema possa essere composto da un certo numero di specie, indicate con l'indice i. L'eccesso interfacciale dipende dalla posizione del piano di Gibbs; come si vede in Figura 1.3, posizionando in maniera diversa il piano divisorio si ottiene un diverso valore di . Nell'esempio di  > 0 in figura, è come se la fase  fosse aumentata di un'area tratteggiata piccola, mentre la fase  fosse diminuita dell'area tratteggiata grande, e l'eccesso interfacciale fosse la differenza fra queste due aree, che è come se fosse accumulato nell'interfaccia ideale. Al contrario, per il caso  < 0 la fase  è aumentata di un'area grande,

(13)

13

mentre la fase  è diminuita di un'area più piccola, dando un impoverimento all'interfaccia.

Figura 1.3. Piano divisorio di Gibbs all’interfaccia, la cui posizione determina l’eccesso interfacciale . Da Ref. [3].

Esiste una quantità, denominata eccesso interfacciale (o adsorbimento) relativo della componente i rispetto alla componente 1:

(1) 1 1 1 ( ) ( ) i i i i c c c c     −    −  − (1.8)

il cui valore risulta indipendente dalla posizione del piano di Gibbs, ed è determinabile sperimentalmente, ad esempio tramite misure di tensione superficiale. Nel caso di un sistema solvente/soluto che esibisca una interfaccia con il proprio vapore, a seconda della natura delle specie si può verificare una situazione di arricchimento o impoverimento all’interfaccia del soluto rispetto al solvente. In Figura 1.4 sono mostrati i profili di concentrazione di solvente (1) e soluto (2), nel caso in cui il soluto sia arricchito all'interfaccia. L'area in grigio corrisponde all'eccesso interfacciale relativo 2(1) del soluto rispetto al solvente.

Si può verificare che il secondo membro dell'equazione (1.8) che definisce l'adsorbimento relativo fornisce la misura di tale area.

(14)

14

Figura 1.4. Andamento della concentrazione del solvente (1) e del soluto (2) all’interfaccia col loro vapore, nel caso di soluto arricchito all’interfaccia. Da Ref. [3].

Le interfacce sono importanti in fisica per alcune principali ragioni. Prima di

tutto, i processi e le trasformazioni fisico-chimiche avvengono

preferenzialmente alle interfacce. Dal punto di vista applicativo, la fisica delle interfacce è alla base della nanotecnologia, disciplina di importanza sempre crescente.

Inoltre, il comportamento dei cosiddetti sistemi colloidali è determinato prevalentemente dalle interfacce. Vengono detti colloidi le dispersioni con una delle fasi segregata sulla scala sub-micrometrica o nanometrica. Storicamente indicavano una miscela di due sostanze che sembravano disciolte una nell'altra, dall'aspetto omogeneo e somigliante a una colla, ma che non riusciva a superare una membrana porosa senza separarsi. Questo significa che su scala microscopica la miscela non era uniforme. Esempi sono l'albumina e l'amido. Il motivo per cui la fisica dei colloidi è dominata dalle proprietà di interfaccia piuttosto che da quelle di volume sta nel loro rapporto superficie/volume, ovvero lo sviluppo dell'area dell'interfaccia a parità di volume del sistema. Ad esempio, per particelle micrometriche nell'aria l'effetto della gravità, che è di volume,

(15)

15

conta meno che quello di attrito viscoso, che è di superficie, se le particelle sono sempre più piccole. E' per questo motivo, ad esempio, che le nuvole e il fumo galleggiano nell'aria.

Il rapporto superficie/volume S/V in una dispersione, ad esempio gas/liquido con il liquido come fase dispersa in particelle sferiche di raggio r, si trova come

SN/VN, dove N è il numero di particelle considerate:

3 3 4 r N Nv VN = =  (1.9) r V S r N Ns S N N N 3 4 2  = = =  (1.10)

Quindi, a parità di quantità di materiale (proporzionale al volume), particelle di raggio minore presentano maggiore superficie esposta.

1.1.4 I materiali nanodielettrici

I nuovi sviluppi della nanoscienza e nanotecnologia considerano quali proprietà speciali possano essere esibite da sistemi strutturati al livello nanometrico, e come queste possano essere sfruttate. Si tratta di un mondo a metà fra la fisica del continuo e quella quantistica. Nel caso dei dielettrici, ciò può riguardare unità elementari come macromolecole, monostrati, membrane, e particelle micrometriche o nanometriche. Per sistemi dielettrici le cui lunghezze di scala siano al di sotto dei 200 nm, cioè dielettrici nanometrici [Lewis1] o nanodielettrici, le superfici e interfacce tra gli elementi dielettrici, anch’esse di dimensioni nanometriche, diventano gli elementi dominanti. Le consuete leggi di scala del mondo macroscopico e anche microscopico non possono più essere usate per predire le proprietà dei sistemi, e le forze tipicamente osservabili nei

(16)

16

sistemi colloidali prevalgono. Dato che le interfacce dominano i fenomeni dielettrici a questo livello, i nanodielettrici e le interfacce diventano inestricabili. Una caratteristica delle interfacce dielettriche in equilibrio è che sono in grado di sostenere campi elettrici intensi, rendendoli adatti ad applicazioni di accumulo di energia (energy storage) [4]. Infatti, dato che l’energia accumulata in un condensatore è pari a U = C V2 /2, a parità di capacità C e quindi di costante

dielettrica si può immagazzinare più energia se si può aumentare il potenziale elettrico applicabile prima che si verifichi la rottura (breakdown elettrico).

Inoltre, l’organizzazione molecolare e la non-centrosimmetria, che sono caratteristiche comuni delle interfacce dielettriche, e le proprietà da queste derivate, le rendono candidate interessanti per la realizzazione di sensori ed attuatori. L’avvento degli acronimi MEMS e NEMS per i dispositivi elettromeccanici sulla micro e nanoscala mostrano le possibilità di sfruttamento tecnologico delle interfacce. Nel seguito verrà dato un esempio di una proprietà di interfaccia rilevante in questo tipo di sistemi.

1.1.5 Doppio strato elettrico

Analizziamo una interfaccia fra due diversi dielettrici, dei quali uno sia ideale e l’altro presenti un certo grado di conducibilità elettrica. Questo caso può generalizzare quello precedentemente proposto di particelle conduttrici in una matrice isolante. Supponiamo che il dielettrico ideale presenti sulla superficie una densità di carica, ad esempio una carica di polarizzazione formata per l’applicazione di un campo elettrico esterno.

La superficie solida carica attrae i portatori di carica liberi responsabili della conduzione nel dielettrico affacciato, che denominiamo controioni, e li fa accumulare all’interfaccia stessa. Lo strato di superficie carica e controioni si

(17)

17

chiama doppio strato elettrico. Il semplice strato di controioni idealmente legati alla superficie e che ne neutralizzano la carica si chiama strato di Helmholtz. Un modello più realistico è quello di Guoy-Chapman, che considera anche il moto termico degli ioni. Le fluttuazioni termiche tendono ad allontanare i controioni dalla superficie, formando uno strato diffuso, più esteso del semplice strato monomolecolare di Helmholtz. Il modello di Guoy-Chapman è comunque continuo, e ignora la natura molecolare del dielettrico. Lo strato complessivo formato dal monostrato di Helmholtz più quello diffuso viene detto di Stern.

Figura 1.5. Schema dello strato di Helmholtz (a sinistra) e di quello diffuso (a destra). Da Ref. [3].

Il potenziale elettrico in funzione della distanza dall'interfaccia viene descritto dalla teoria di Poisson-Boltzmann. Consideriamo una superficie solida planare con densità di carica superficiale , sulla quale il potenziale è 0 = (x = 0), in contatto con il dielettrico, di costante dielettrica r. La densità di carica di volume e deve soddisfare l'equazione di Poisson:

2 0 e r      = − (1.11)

(18)

18

Dato che gli ioni nel dielettrico sono mobili, non conosciamo la loro posizione, ma possiamo determinare la loro distribuzione termica tramite l'equazione di

Boltzmann: T k W i i B i e c c = 0 − / (1.12)

dove Wi è il lavoro necessario a portare uno ione nel dielettrico dall'infinito a

una certa posizione più vicina alla superficie. Si assume che si debba compiere solo lavoro elettrico, e non ad esempio lavoro per spostare altre molecole.

Il lavoro per posizionare singoli ioni è W+ = e, W- = – e. Le concentrazioni

degli ioni positivi e negativi sono:

T k e T k e B B e c c e c c / 0 / 0   = = − − + (1.13)

La densità di carica locale è ) ( ) ( 0 e /kT e /kT e B B e e ec c c e    = + − − = − − (1.14) per cui: ( , , )/ ( , , )/ 2 0 0 ( , , ) ( e x y z k TB e x y z k TB ) r ec x y z ee     −  = − (1.15)

Nel nostro caso di superficie planare, per simmetria si ottiene: 2 ( )/ ( )/ 0 2 0 ( e x k TB e x k TB ) r ec d e e dx      − = − (1.16)

Per potenziali e||<<kBT, si può sviluppare in serie l'esponenziale:

2 2 0 0 2 0 0 2 ( ) ( ) (1 1 ) r B B r B ec c e d e x e x dx k T k T k T         = + − + +  (1.17)

Dando luogo all’equazione di Poisson-Boltzmann linearizzata, che è risolubile analiticamente:

(19)

19 D D x x e c e c x    / 2 / 1 ) ( = − + (1.18)

con la lunghezza di Debye

0 2 0 2 r B D k T c e    = (1.19)

Le condizioni al contorno (0) = 0 e () = 0 ci danno:

D x e    / 0 − = (1.20)

Questa descrizione linearizzata funziona abbastanza bene per potenziali fino a 50-80 mV, dopodiché si deve utilizzare una soluzione completa dell’equazione. La situazione è illustrata in Figura 1.6.

Figura 1.6. (a) Schema dello strato di Stern che si forma all’interfaccia (AB) fra una particella solida (A) e una matrice che contiene ioni mobili (B). (b) Andamento del potenziale nel caso di teoria di Poisson-Boltzmann linearizzata, dove d indica la lunghezza di Debye. Riadattata da Ref. [2].

Per un dato potenziale 0 dell'elettrodo, è utile conoscere la corrispondente densità di carica  presente sulla sua superficie. Questo ci consente ad esempio

(20)

20

di trovare d/d0, che corrisponde alla capacità differenziale del doppio strato elettrico, che può essere misurata sperimentalmente.

Imponendo la condizione di neutralità e sostituendo l'equazione di Poisson si ha: 2 0 2 0 0 0 0 0 0 e r r r x d d d dx dx dx dx dx              =   = − = = = −  

(1.21)

Usando il risultato della Poisson-Boltzmann linearizzata si ricava: 0 r 0 D       (1.22)

Detta equazione di Grahame linearizzata. Infine, derivando rispetto a 0 si ottiene: 0 0 r D d d       . (1.23)

Vediamo quindi che il doppio strato elettrico si comporta, per piccoli potenziali, come un condensatore piano con spaziatura D. Il potenziale di un tale condensatore ha l'andamento lineare mostrato nella figura 1.6, dove la pendenza coincide con quella dell’andamento esponenziale in x = 0.

Consideriamo a questo punto il caso di una matrice dielettrica con inclusioni anch’esse dielettriche, e che uno dei due dielettrici presenti una certa conducibilità. Ad esempio, si potrebbe considerare una matrice polimerica, con la presenza di ioni o impurezze che determinino la conducibilità, con inclusioni di particelle ceramiche. Questo è un caso molto diffuso nel campo dei materiali dielettrici compositi, dove la matrice polimerica determina principalmente le proprietà meccaniche e di lavorabilità del materiale, mentre le inclusioni di ceramiche con alta costante dielettrica determinano un miglioramento delle proprietà dielettriche del composito. La presenza di un campo elettrico determina la comparsa di una carica di polarizzazione sulle particelle ceramiche.

(21)

21

Si realizza perciò la formazione di un doppio strato elettrico alla loro interfaccia, dove i controioni della matrice vengono concentrati in prossimità dell’interfaccia stessa, ad una distanza dell’ordine della lunghezza di Debye. Sebbene i portatori siano confinati nella direzione normale all’interfaccia, questi hanno una certa libertà di muoversi parallelamente ad essa, e quindi di spostarsi in seguito a variazioni del potenziale, determinando correnti confinate sulle interfacce. Questo fenomeno è detto di conducibilità interfacciale.

L’attività del doppio strato ha un ruolo importante nel comportamento dielettrico dei compositi. L’effetto della conducibilità interfacciale sulle proprietà dielettriche complessive fu studiato da O’Konski [5] nel caso di una sospensione random di particelle sferiche con una certa conducibilità di superficie s. I

parametri del sistema composito sono illustrati in Figura 1.7. A basse frequenze  di variazione del campo elettrico esterno o per elevati valori di s, i portatori

di carica sono trasferiti efficacemente, per azione del campo, lungo l’interfaccia, provocando una polarizzazione indotta alle estremità polari della particella, che diventa un dipolo esteso. La costante dielettrica efficace eff può diventare molto

maggiore di quella del materiale che compone la particella (1). Ad alte

frequenze o piccole conducibilità, questo non succede più, ed eff torna ad essere

determinata, in maniera analoga alla (1.5), unicamente dalle costanti dielettriche delle componenti e dalla geometria.

Figura 1.7. (a) I parametri del modello di O’Konski per particelle dielettriche in una matrice dielettrica; (b) il dipolo indotto risultante nella particella quando viene applicato un campo elettrico e si realizza conduzione lungo lo strato superficiale. Da Ref. [2].

(22)

22

1.2 Studio delle interfacce dielettriche

Oggetto di questo lavoro di tesi è una tecnica di caratterizzazione superficiale, denominata Microscopia di Forza Elettrostatica (EFM), che può essere utilizzata per lo studio delle proprietà di interfacce dielettriche. Questa microscopia fa parte della famiglia delle microscopie a scansione di sonda (SPM), che sono state estesamente utilizzate per l’investigazione delle proprietà locali di superficie dei materiali, misurando interazioni a corto raggio fra una punta e un campione [6]. In EFM, una punta conduttiva di un Microscopio a Forza Atomica (AFM) viene polarizzata elettricamente e le forze elettrostatiche che si generano affacciando la punta ad un campione, tipicamente collegato a terra, vengono studiate [7], in genere, a distanze fra la punta e il campione tali da poter trascurare altri contributi. Queste metodologie sono state largamente usate nella comunità scientifica per caratterizzare le proprietà dielettriche dei campioni sulla scala nanometrica [7,8].

Lo studio portato avanti in questa tesi mira a un miglioramento del potere risolutivo della EFM tramite l’individuazione di modalità e parametri di misura applicabili per misure in ambiente aria anche su apparati di ampia diffusione, non richiedendo quindi particolari modifiche o aggiornamenti degli strumenti già in uso. Allo stesso tempo, in questa tesi si sono perfezionati i metodi di calibrazione delle sonde EFM già diffusamente impiegati, rendendoli quantitativamente più affidabili soprattutto per situazioni di lavoro in ambiente aria, che sono quelli più praticate. L’obiettivo a lungo termine di questa attività può essere la caratterizzazione delle proprietà dielettriche in prossimità di interfacce presenti in varie tipologie di situazioni sperimentali che possano essere adatte all’applicazione delle microscopie a scansione di sonda [9]. In particolare, la regione dell’interfaccia deve essere accessibile alla sonda del microscopio; per questo, i campioni devono essere adeguatamente strutturati o

(23)

23

preparati. Assumendo ad esempio che l’interfaccia da studiare sia quella fra un dielettrico e una inclusione inorganica, il dielettrico dovrebbe essere depositato su un substrato composto della stessa sostanza dell’inclusione, con l’altra faccia del dielettrico esposta (Figura 1.8). Se il film è sufficientemente sottile, l’interfaccia con il dielettrico le cui proprietà vengono misurate è quella fra il supporto e il film (Figura 1.8(a)). Se particelle o altre nanostrutture sono incluse nel film per formare un composito, la loro interfaccia è quella in corrispondenza della particella, mentre l’effetto dell’interfaccia film/substrato può essere trascurato se il film è sufficientemente spesso (Figura 1.8(b)). Le particelle più vicine alla superficie superiore del film (al confine con l’aria o il vuoto) sarà quella preferenzialmente sondata dalla punta EFM, il che rappresenta una peculiarità delle sonde locali. Anche interfasi diffuse possono essere sondate, almeno limitatamente alla regione più vicina alla superficie libera, come mostrato in Figura 1.8(c). Le proprietà in corrispondenza di una interfaccia estesa possono essere sondate, a patto di preparare opportunamente il campione effettuando una sezione trasversale (Figura 1.8(d)). In tal caso, si deve prestare attenzione a possibili effetti di ricostruzione che possono verificarsi dopo aver praticato la sezione. D’altro canto, la misura delle proprietà elettriche attraverso una sezione trasversale fornisce informazioni più dettagliate sui processi interfacciali presenti e sulla loro variazione spaziale.

Figure 1.8. Possibili strutture di campioni per analisi delle interfacce tramite EFM. (a) Film sottile dielettrico, dove viene sondata l’interfaccia col substrato. (b) Inclusioni in film dielettrici, dove viene sondata l’interfaccia con le nanostrutture più vicine alla superficie libera del film. (c) Interfase diffusa (le due fasi sono indicate con 1 e 2). (d) Sezione trasversale dell’interfaccia fra dielettrico e substrato.

(24)

24

Notiamo che il caso (a) può essere utile a studiare effetti di confinamento di un film dielettrico sottile all’interfaccia con un altro materiale, ma non aiuta a stabilire come le proprietà del film cambino allontanandosi dall’interfaccia. Invece, negli altri casi questa informazione può essere ottenuta, nel caso in cui la risoluzione spaziale del microscopio sia migliore della lunghezza caratteristica di variazione delle proprietà all’interfaccia, e cioè, rifacendosi alla definizione, dello spessore dell’interfaccia. Questo motiva la necessità di migliorare il più possibile la risoluzione dei microscopi EFM.

La descrizione delle tecniche di microscopia oggetto della tesi e dello stato dell’arte riguardante le loro applicazioni sui materiali dielettrici nanostrutturati verrà esposta nel prossimo Capitolo.

(25)

25

Capitolo 2

Microscopia di Forza Elettrica

2.1 Microscopia a Forza Atomica

2.1.1 Aspetti generali

La Microscopia a Forza Atomica (AFM) è una tecnica di Microscopia a Scansione di Sonda (SPM) che è stata inventata nel 1986 da G. Binnig, C. F. Quate e C. Gerber [10], per riuscire a misurare la topografia superficiale di campioni isolanti su scala atomica. A tale scopo è stata realizzata una sonda costituita da una punta acuminata fino a pochi nm, posta all’estremità di una leva, detta cantilever, di lunghezza dell’ordine di 100 μm, capace di deflettersi a causa delle forze di interazione agenti tra la punta e gli atomi del campione. In prima approssimazione è possibile descrivere il comportamento della cantilever come elastico, per cui l’intensità della forza agente sulla punta risulta proporzionale alla sua deflessione, 𝐹 = 𝑘Δ𝑥, con k costante elastica della cantilever. Quindi, nota k e la deflessione della cantilever, è possibile ricavare la forza agente sulla punta. La deflessione solitamente viene misurata grazie ad un sistema a leva ottica, in cui un fascio laser colpisce il dorso della leva, che lo riflette su una coppia di fotodiodi, capaci di trasformare il segnale ottico in elettrico tramite effetto fotovoltaico. Conoscendo il raggio r dello spot luminoso e la sua intensità , cioè il flusso del fascio laser, è possibile risalire alla deflessione della cantilever grazie alla relazione ∆(𝑖𝐴− 𝑖𝐵) ∝ ∆𝑥 ∙ 𝑟 ∙ Φ, con iA

(26)

26

metodo è possibile raggiungere una sensibilità dell’ordine di frazioni di Angstrom [11].

Il campione può spostarsi lungo le tre direzioni spaziali, grazie all’azione di attuatori piezoelettrici sui quali è posto. Tali attuatori si presentano come cilindri cavi piezoelettrici, con un elettrodo metallico interno e quattro elettrodi esterni. In seguito all’applicazione di opportuni potenziali elettrici si origina uno spostamento lungo z, quindi un’estensione o una contrazione omogenea del tubo, oppure uno spostamento lungo il piano xy, chiamato piano di scansione. In particolare, se si applica la stessa polarità ai quattro elettrodi si ottiene lo spostamento verticale, mentre polarizzando una coppia di elettrodi in modo opposto si ha un’estensione del tubo da un lato ed una contrazione dall’altro, che causa uno spostamento orizzontale. Per effettuare la scansione della superficie del campione si adotta la cosiddetta “scansione a rastrello”, per cui la punta avanza con velocità costante in una direzione, ad esempio x, detto asse veloce, ed al contempo si muove a velocità molto minore nell’altra, y, detto asse lento. Un esempio di ciò è riportato in Figura 2.1.

Altrettanto importante è la presenza di un sistema di controllo, detto sistema

feedback, utile a regolare, durante la scansione, la distanza punta/campione. Tale

sistema permette di mantenere ad un valore fissato, detto set-point, una grandezza di controllo, che dipende dalla distanza punta/campione z, come può essere ad esempio la deflessione della cantilever (δ). L’aggiustamento avviene processando il segnale in ingresso al sistema, cioè il cosiddetto segnale di errore, ad esempio definito come 𝜖 = 𝛿 − 𝛿𝑠𝑒𝑡−𝑝𝑜𝑖𝑛𝑡, il quale deve risultare nullo. Per soddisfare tale condizione viene inviata una tensione al piezotubo, adatta a modificare la sua posizione in modo tale che, per questo esempio specifico, la deflessione della cantilever risulti uguale alla deflessione di set-point.

(27)

27

Figura 2.1 Esempio di un tipico pattern di scansione di un piezotubo, data

dall’applicazione di una tensione lineare applicata lungo l’asse lento di scansione e di una tensione triangolare applicata lungo l’asse veloce.

2.1.2 Contributi di forza elettrica nella AFM

Nella AFM esistono diverse forze di interazione di origine elettrica tra la punta ed il campione, pur in presenza di una sonda non conduttiva. Tra queste vi sono le forze di Van der Waals (VdW), dovute all’interazione tra i momenti di dipolo del campione e quelli della punta. Queste forze sono di natura attrattiva e a lungo raggio. In generale si distinguono tre diverse componenti delle forze di VdW, in funzione alla natura del dipolo:

• Forze di Keesom (forze permanenti). dipolo permanente rotante – dipolo

permanente rotante (interazione tra molecole polari);

• Forze di Debye (forze indotte), dipolo permanente rotante – dipolo indotto (molecole polari immerse in campi elettrici, interazione tra una molecola polare ed una apolare);

• Forze di London (forze istantanee), dipolo istantaneo – dipolo indotto (interazione tra molecole apolari).

(28)

28

Oltre alle forze di VdW sono presenti, a distanze punta/campione molto piccole, dell’ordine dell’Angstrom, forze elettrostatiche di natura repulsiva, dovute all’interazione degli elettroni dei materiali in gioco. Oppure, quando sono presenti cariche nette sulla punta e sul campione, ad esempio a causa della ionizzazione delle molecole in aria, si ha interazione coulombiana a lungo range [1].

In genere, per rappresentare come varia il potenziale di interazione molecolare con la distanza punta/campione, si ricorre al modello di Lennard-Jones [71],

𝑈𝐿𝐽(𝑧) = 𝜀 [(𝜎 𝑧) 12 − 2 (𝜎 𝑧) 6 ] (2.1) dove σ rappresenta la distanza al di sotto della quale il potenziale da attrattivo diventa repulsivo, mentre ε è l’energia di interazione. Il primo termine in parentesi quadra fornisce il contributo repulsivo, relativo all’interazione elettrone/elettrone, mentre il secondo quello attrattivo, contributo tipico dell’interazione dipolo/dipolo. Quindi, variando la distanza z vengono esplorate diverse regioni, in cui la sonda è sottoposta a valori di forza caratteristici. La dipendenza del potenziale da z viene riportata in Figura 2.2.

(29)

29

2.1.3 Modalità di operazione

In Microscopia a Forza Atomica è possibile operare in due condizioni, in funzione della presenza o meno di una forzante esterna:

Statiche (Fext = 0)

La punta è in equilibrio statico, cioè la forza totale che agisce su di essa è nulla, quindi la forza di interazione tra la sonda ed il campione produce una deformazione della cantilever, che tramite la forza di richiamo elastica riporta la punta all’equilibrio. In tal caso vale la seguente equazione:

𝐹𝑝𝑐(𝑧) + 𝐹𝑒𝑙(𝛿) = 0 (2.2)

con Fpc (z) forza di interazione punta/campione, Fel (δ) forza di richiamo elastica,

δ = z – L deflessione della cantilever, dove L è la separazione punta-campione,

che rappresenta la posizione z della punta quando non c’è deflessione. La soluzione associata all’Eq. 2.2 risulta pari a 𝛿𝑒𝑞 = 𝑧𝑒𝑞 − 𝐿, che rappresenta la posizione di equilibrio della punta. Misurando come varia la deflessione δ con L durante l’intero ciclo di approccio e ritrazione della sonda rispetto al campione, è possibile, data la relazione 𝐹𝑝𝑐 = 𝑘𝛿𝑒𝑞 con 𝑧 = 𝐿 + 𝛿𝑒𝑞, ricavare le cosiddette

curve forza/distanza. Esistono anche altri tipi di curve di approccio e ritrazione,

nelle quali vengono registrate altre quantità in funzione di L. Ad esempio, è possibile registrare la forza elettrostatica, che sarà oggetto dei prossimi paragrafi.

In condizioni statiche si opera nella cosiddetta modalità di contatto (CM). In questo caso la AFM lavora in regime di forza repulsiva. Tale metodo è semplice da adoperare ma risulta rischioso per la sonda, a causa della presenza di elevate forze di contatto o di attrito.

(30)

30

Dinamiche (Fext ≠ 0)

La punta, a differenza di prima, non rimane in equilibrio, poiché la cantilever viene eccitata tramite uno stimolo esterno armonico, 𝐹𝑒𝑥𝑡 = 𝐹0cos(𝜔𝑒𝑥𝑡𝑡). La cantilever ha un comportamento assimilabile a quello di un oscillatore armonico, e in genere è conveniente eccitare la cantilever con una frequenza uguale alla sua frequenza di risonanza. Di solito l’eccitazione avviene in modo meccanico, cioè sfruttando un piccolo attuatore piezoelettrico che supporta la leva. In seguito a tale stimolo, la cantilever compie un moto sinusoidale lungo l’asse z. L’equazione del moto viene quindi scritta considerando un oscillatore armonico smorzato e forzato:

𝑚𝑧̈ + 𝛾0𝑧̇ + 𝑘(𝑧 − 𝐿) = 𝐹𝑝𝑐(𝑧) + 𝐹𝑒𝑥𝑡(𝑡) (2.3) con m massa efficace, cioè massa corrispondente a un sistema ideale massa-molla, e γ0 il coefficiente di dissipazione.

In condizioni dinamiche è possibile operare principalmente in due modi: modalità di non contatto (NCM) e modalità di contatto intermittente (Tapping Mode).

La NCM viene realizzata mantenendo l’ampiezza di oscillazione piccola rispetto all’estensione del potenziale di interazione (A < 1nm). Per questa ragione è possibile linearizzare l’equazione del moto (2.3). Quando la punta è in interazione, si considera un oscillatore armonico soggetto ad un ulteriore campo di forza lineare, che fa variare la frequenza di risonanza come:

𝜔′ = √𝑘′ 𝑚 = √ 𝑘−𝜕𝐹𝑝𝑐/𝜕𝑧 𝑚 = 𝜔0√ 1−𝜕𝐹𝑝𝑐/𝜕𝑧 𝑘 (2.4)

La nuova frequenza di risonanza varia in funzione del gradiente di forza tra la punta ed il campione; in particolare se esso risulta maggiore di zero, cioè in corrispondenza di forze attrattive si ha uno spostamento di ω’ verso le basse

(31)

31

frequenze, viceversa in corrispondenza di forze repulsive, per cui il gradiente risulta negativo, lo spostamento avviene verso frequenze più alte.

Se la frequenza di eccitazione rimane costante e si adopera l’ampiezza di oscillazione come grandezza di controllo della distanza punta/campione, si parla di modulazione di ampiezza (AM). In modalità AM, i tempi di variazione dell’ampiezza sono dell’ordine 𝜏~ 𝑄 𝜔⁄ 0, con Q fattore di merito della cantilever. Per Q alti, come nel caso di operazione in vuoto (Q > 10000), questi risultano troppo lunghi per permettere l’effettuazione di scansioni in tempi praticabili [12]. Per ovviare a ciò, nel 1991 è stata introdotta la modalità cosiddetta in modulazione di frequenza (FM) [13]. Questa consiste nel variare istante per istante la frequenza di eccitazione così da avere una cantilever sempre oscillante alla propria frequenza di risonanza, la quale varia in virtù dell’interazione punta/campione. In questo caso, la grandezza usata per controllare la distanza punta/campione è la frequenza di risonanza istantanea, che non è soggetta al limite legato al fattore Q. Per ottenere questa condizione si adotta un sistema di phase-locked-loop. Esso è costituito da tre componenti principali (Figura 2.10):

1. Phase Detector (PD), che produce un segnale proporzionale alla

differenza tra le fasi dell’oscillazione della cantilever (“Reference signal” in Fig. 2.3) e quella dell’eccitazione (“Signal phase-locked to reference” in Fig. 2.3);

2. Loop Filter, è un circuito di feedback integrale che genera un segnale di

correzione tale da portare la differenza di fase sopra menzionata al valore desiderato, ad esempio a /2 se si vuole fare oscillare la cantilever a risonanza;

3. Voltage-controlled oscillator (VCO), che genera un segnale sinusoidale

di eccitazione la cui frequenza istantanea viene controllata da una tensione, in questo caso il segnale di correzione prodotto dal Loop Filter.

(32)

32

Figura 2.3. Configurazione base del PLL. Il rivelatore di fase confronta la fase

del segnale di riferimento in ingresso con la fase del segnale in uscita dal VCO e produce un segnale di errore, che viene elaborato in modo da aggiustare istante per istante la frequenza del VCO, in modo da mantenere l’errore di fase invariato e produrre quindi un segnale con fase costante rispetto al riferimento.

In modulazione di frequenza, in generale esistono due modi di operare:

constant-amplitude (CA) mode e constant-excitation (CE) mode. In CA viene

regolata l’ampiezza di eccitazione in funzione di come cambia l’ampiezza di oscillazione della cantilever in seguito all’interazione punta/campione, per ottenere una ampiezza di oscillazione della leva costante. Qui il tempo di risposta non è limitato dal fattore Q della leva, quindi tale modalità risulta particolarmente vantaggiosa in vuoto. In CE l’ampiezza di eccitazione viene mantenuta costante, per cui, durante l’approccio o ritrazione della punta rispetto al campione, l’ampiezza di oscillazione della cantilever può cambiare. A differenza del caso CA, in CE il tempo di risposta della variazione di ampiezza è limitato da Q, quindi questo modo trova maggiore applicabilità in aria. In generale, la modalità CE risulta più vantaggiosa della CA, perché quest’ultima, mantenendo l’ampiezza costante, è più soggetta ad eventuali danneggiamenti della punta, specialmente a piccole distanze punta/campione, alle quali, grazie alla presenza di effetti dissipativi, si registra generalmente uno smorzamento dell’ampiezza di oscillazione. Tale smorzamento però in CA viene corretto dall’aumento dell’ampiezza di eccitazione fornita dal VCO, così da riportare

(33)

33

l’ampiezza di oscillazione della leva al valore iniziale. In questo modo la punta è più soggetta a danneggiamenti.

Rispetto alla CM, in NCM la sensibilità è molto maggiore; questo è possibile grazie all’utilizzo di leve rigide (k = 10-100 N/m), per cui vengono ridotti i rumori termici (∝ 1

√𝑘

⁄ ), ed anche perché essendo il segnale misurato ad una frequenza dell’ordine delle centinaia di kHz, l’uso di tecniche di demodulazione lock-in consente di migliorare il rapporto segnale/rumore, rendendo possibili misure di forze di interazione di alcuni ordini di grandezza inferiori rispetto al CM [14].

La modalità di contatto intermittente o Tapping Mode, a differenza della NCM, viene realizzata usando grandi ampiezze di oscillazione, A = 10-100 nm. In questo caso quindi, considerando sempre l’Eq. 2.3, utile a descrivere il moto della sonda, si ha che non è più possibile linearizzare il campo di forze, per cui risulta più complicata la risoluzione dell’equazione stessa. Inoltre, poiché si lavora con ampiezze elevate, si ha che durante la traiettoria di oscillazione, la punta esplora una regione di distanze che si estende sino al regime repulsivo, e questo ha varie ripercussioni sulla curva di risonanza della cantilever. In particolare l’ampiezza di oscillazione subisce uno smorzamento indotto dai fenomeni dissipativi di superficie, che si va ad aggiungere allo spostamento della frequenza della curva di risonanza, dovuto alla presenza di interazioni conservative, come descritto nel caso NCM [12].

2.2 Microscopia di Forza Elettrica

Nel 1988, H. K. Wickramasinghe e suoi collaboratori introdussero una nuova tecnica detta Microscopia di Forza Elettrostatica (EFM), per cui applicando un potenziale elettrico alla sonda, elettricamente conduttiva, si manifestava una forza elettrica indotta, che una volta misurata consente di indagare quali siano le

(34)

34

proprietà elettriche del campione analizzato [15]. Per ricavare in modo semplice la forza elettrostatica indotta tra la punta ed il campione si modellizza in prima approssimazione il sistema come un condensatore a piani paralleli, di area S e spaziatura d minore rispetto allo spessore dei piani stessi, così da avere un campo elettrico omogeneo tra i due piani e gli effetti di bordo trascurabili. Applicando una differenza di potenziale ai piani si verifica che le cariche si accumulino sulla superficie di questi, e si genera un campo elettrico tra essi. Quindi un piano accumula carica positiva e l’altro carica negativa originando così una carica [16]:

𝑄 = 𝐶∆𝑉 (2.5) con ΔV differenza di potenziale applicata tra i piani e C capacità, che per il condensatore piano vale:

𝐶 =𝜀0𝑆

𝑑 (2.6)

A questo punto, calcolando il lavoro W necessario a muovere un elemento di carica da un piano all’altro, sotto l’azione del campo elettrico, ed integrando da 0 a Q, si ha: 𝑊 = 𝑄2 2𝐶 = 1 2𝐶∆𝑉 2 (2.7)

Sapendo che il lavoro rappresenta proprio l’energia potenziale immagazzinata e che la forza è legata al gradiente dell’energia potenziale, tramite la relazione:

𝐹𝑒𝑙 = ∇𝑈𝑒𝑙 (2.8) valida nel caso in cui dei generatori esterni mantengano fissati i potenziali delle armature, è possibile ricavare l’espressione della forza elettrostatica,

𝐹𝑒𝑙(𝑧, 𝑡) = 1

2 𝜕𝐶

𝜕𝑧(𝑧)∆𝑉

2(𝑡) (2.9)

(35)

35 𝜕𝐹𝑒𝑙 𝜕𝑧 (𝑧, 𝑡) = 1 2 𝜕2𝐶 𝜕𝑧2(𝑧)∆𝑉 2(𝑡) (2.10)

Tutto questo ha validità se si considera il caso in cui l’induzione sia completa, cioè la somma delle cariche indotte sui due piani sia nulla [15,17]. Nel caso della EFM, l’induzione completa si ha se si considerano distanze punta-campione molto minori rispetto alla lunghezza caratteristica data dalla media geometrica delle dimensioni tipiche della sonda e del campione analizzato.

Volendo esplicitare la forza elettrostatica nel caso EFM, si considera che ΔV =

Vpunta – Vcampione, per cui, applicando sia una tensione continua che alternata tra la

punta ed il campione, il loro quadrato risulta:

∆𝑉2 = (𝑉𝑑𝑐 + 𝑉𝑎𝑐cos(Ω𝑡) + 𝑉𝐶𝑃𝐷)2 (2.11)

dove VCPD rappresenta il potenziale di contatto, cioè la differenza dei potenziali

superficiali fra punta e campione. Sviluppando e sostituendo il ΔV2 ottenuto

nell’Eq. (2.9), si individuano tre contributi alla forza elettrostatica, rispettivamente, uno continuo, uno di prima ed un altro di seconda armonica:

𝐹𝑒𝑙,𝒅𝒄(𝑧) =1 2 𝜕𝐶 𝜕𝑧(𝑧) [(𝑉𝑑𝑐 + 𝑉𝐶𝑃𝐷) 2𝑉𝑎𝑐 2 ] 𝐹𝑒𝑙,𝛀(𝑧, 𝑡) = 1 2 𝜕𝐶 𝜕𝑧(𝑧)[2(𝑉𝑑𝑐 + 𝑉𝐶𝑃𝐷)𝑉𝑎𝑐cos(Ω𝑡)] (2.12) 𝐹𝑒𝑙,𝟐𝛀(𝑧, 𝑡) = 1 2 𝜕𝐶 𝜕𝑧(𝑧) [ 𝑉𝑎𝑐2 2 cos(2Ω𝑡)]

Si noti che, misurando la componente di seconda armonica della forza, è possibile avere informazioni esclusivamente sul contributo capacitivo, in quanto è l’unico termine indipendente dal potenziale di contatto.

(36)

36

2.2.1 Modello di interazione elettrica

punta-campione

La modellizzazione fatta finora riguardo la geometria punta/campione è sì utile allo studio della forza elettrostatica, ma non è molto fedele a quella che è la vera geometria del sistema, che risulta invece più complessa. In generale, la schematizzazione punta/campione più diffusa e adoperata in letteratura è la seguente. Si assume prima di tutto che il campione sia costituito da uno strato di materiale dielettrico di spessore omogeneo hd, con superficie perfettamente

piatta e posto al di sopra di un elettrodo portacampione. La punta viene assunta con un apice a forma di calotta sferica di raggio di curvatura R, supportata da un tronco di cono di semi apertura θ0 e altezza H, fissata ad una cantilever

rettangolare, di lunghezza l, larghezza w e spessore t, come riportato da Figura 2.4. Considerando un sistema di questo genere, si ha quindi che la capacità totale sarà data dalla somma di tre termini: la capacità apice-campione Capice, la

capacità cono-campione Ccono e la capacità cantilever-campione Ccantilever:

𝐶𝑡𝑜𝑡 = 𝐶𝑎𝑝𝑖𝑐𝑒 + 𝐶𝑐𝑜𝑛𝑜 + 𝐶𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖𝑙𝑒𝑣𝑒𝑟 (2.13)

(37)

37

Generalmente per le applicazioni EFM le quantità rilevanti da studiare sono proprio la derivata prima e seconda della capacità rispetto alla distanza apice-campione. Infatti, dalla prima derivata si determina come varia la forza elettrica in funzione della distanza z e dalla seconda il gradiente di forza in funzione di z. In base alla grandezza misurata si distinguono due modalità di lavoro: Force

Mode (corrispondente alla modalità AM) e Gradient Mode (FM). Nelle Figure

2.5 e 2.6 sono riportati dei grafici illustrativi, ottenuti per ciascun modo di operazione.

Figura 2.5 Andamento della forza elettrica al variare della distanza e relativi

contributi di apice, cono e cantilever. Tale dipendenza è stata calcolata considerando una tensione di 1 V e R=20nm, l=100 μm, w=20 μm, H~ 3μm e θleva= π/8 [18].

(38)

38

Figura 2.6 Andamento del gradiente della forza elettrica al variare della

distanza e relativi contributi di apice, cono e cantilever. Tale dipendenza è stata ottenuta applicando una tensione di 1 V e considerando R=20nm, l=100 μm, w=20 μm, H~ 3μm e θleva= π/8 [18].

Nel caso Force Mode emerge come per distanze punta/campione inferiori a 5nm domini il contributo di apice, e invece per z maggiori inizino a diventare più influenti i contributi dati dal cono e dalla cantilever. In particolare, si nota come per l’intero intervallo di distanze, il contributo di cantilever risulta maggiore di quello di cono. Nel caso Gradient Mode si ha che fino a distanze di circa 100nm l’apice domina sugli altri due contributi e fino a 600nm il contributo di cono risulta maggiore rispetto a quello di cantilever. Quindi, a differenza del caso Force Mode, nel Gradient Mode è possibile trascurare totalmente il contributo della cantilever [18].

Scegliendo di operare in FM, si ha che per avere una misura indiretta del gradiente di forza si può studiare lo spostamento della frequenza di risonanza della cantilever, detto Frequency Shift, dato da:

(39)

39

con ω0 frequenza di oscillazione propria della leva in assenza di interazioni e ω’

definito come nell’Eq. (2.4). Esplicitando ω’ si ricava:

Δ𝜔 = 𝜔0(√1 − 𝜕𝐹𝑝𝑐 𝜕𝑧 ⁄ 𝑘 − 1) ~ − 𝜔0 2𝑘 𝜕𝐹𝑝𝑐 𝜕𝑧 (2.15)

dove l’ultima relazione si è ottenuta tramite sviluppo di Taylor al primo ordine ed è valida nel limite in cui Δω<<ω0.

Si noti come dall’equazione 2.15, in particolare dalla proporzionalità tra il frequency shift ed il gradiente di forza, emerge che anche per Δω, così come per la forza e per il suo gradiente, si distingueranno tre contributi: uno continuo, uno di prima armonica ed un altro di seconda armonica.

In generale, i contributi di apice, cono, cantilever della forza elettrica o del gradiente di forza, e quindi la capacità del sistema punta/campione e la sua dipendenza dalla distanza z e dalla geometria della sonda, vengono esplicitati ricorrendo ad un modello interpretativo. Negli anni sono stati creati diversi modelli empirici; di seguito se ne descrivono alcuni.

2.2.1.1 Modello di Hudlet

Uno dei primi e più accettati modelli presentati in letteratura è stato proposto da Hudlet e collaboratori [16]. Qui la sonda viene schematizzata come un cono troncato con apice sferico, vedasi Figura 2.7. In questo caso si trascura il contributo della cantilever. Questo modello, inoltre, è relativo ad un campione conduttore, senza lo strato dielettrico sovrapposto.

(40)

40

Figura 2.7 Rappresentazione schematica della punta nel modello di Hudlet.

La forza elettrica verticale agente sulla punta viene calcolata sommando tutti i contributi della componente z della forza, che agiscono sulle superfici infinitesime della sonda, per cui si ha:

𝐹𝑧 = 1

2∬ 𝜎𝐸⃗ ∙ 𝑧̂𝑑𝑆 (2.16)

con σ densità di carica superficiale. Considerando la relazione E = σ / ε0 e

sostituendola nell’Eq. 2.16, si ritrova che la forza elettrica verticale totale agente sulla punta risulta:

𝐹𝑧 =𝜀0

2 ∬ 𝐸

2𝑛̂ ∙ 𝑧̂𝑑𝑆 (2.17)

Per esplicitare la forza bisogna ricavare quale sia il campo elettrico presente su ogni punto della superficie della sonda. Per fare ciò è necessario semplificare il problema adottando delle approssimazioni, essendo la geometria del sistema abbastanza complessa. In questo caso si adotta un’approssimazione cosiddetta diedra, cioè ciascun elemento infinitesimale M della superficie della punta è

(41)

41

considerato come parte di area dS di un piatto di un capacitore piano, inclinato di un certo angolo θ rispetto al piano del substrato (Figura 2.8).

Figura 2.8 Rappresentazione delle linee di campo generate adottando

l’approssimazione diedra.

In questo caso si assume che le linee di campo elettrico, che connettono le due superfici elementari sulla punta e sul substrato, siano di forma circolare, ortogonail ad entrambe le superfici, ed il campo lungo ciascuna linea abbia modulo costante, cioè il potenziale elettrico diminuisca in modo lineare lungo la linea. In questo modo si può calcolare facilmente il campo elettrico, relativo ad ogni porzione infinitesimale della superficie della punta, come la differenza di potenziale divisa la lunghezza della linea di campo. Quindi, una volta esplicitata la componente z del campo elettrico e conoscendo la densità di carica presente sull’area elementare dS, è possibile ricavare la forza elettrica lungo z. Per trovare la forza elettrica totale lungo z, basterà sommare la componente elementare della forza sull’intera superficie della punta. Il risultato di tale calcolo, effettuando alcune integrazioni, è:

𝐹𝐻𝑢𝑑𝑙𝑒𝑡 = 𝐹𝑎𝑝𝑖𝑐𝑒𝐻 + 𝐹𝑐𝑜𝑛𝑜𝐻 (2.18) 𝐹𝑎𝑝𝑖𝑐𝑒𝐻 = 𝜋𝜀0𝑉2{ 𝑅2(1−sin 𝜃0)

(42)

42 𝐹𝑐𝑜𝑛𝑜𝐻 = 𝜋𝜀0𝑉 2 [𝑙𝑛 tan (𝜃0 2 ⁄ )]2 [𝑙𝑛 𝐻 𝑧 + 𝑅(1 − sin 𝜃0)− 1 + 𝑅2𝑐𝑜𝑠2𝜃0/ sin 𝜃0 𝑧 + 𝑅(1 − sin 𝜃0)]

dove R è il raggio di curvatura dell’apice della punta, θ0 l’angolo di

semi-apertura del cono, H l’altezza del cono, V la tensione applicata tra la punta e il substrato, e z la distanza punta/campione. La stessa notazione verrà adottata anche successivamente.

Considerando l’Eq. (2.15) è possibile riscrivere tutto in termini del frequency shift, per cui si ricava la seguente espressione:

∆𝜔𝐻𝑢𝑑𝑙𝑒𝑡 𝑉2 = − 𝜔0𝜋𝜀0 2𝑘 [ 𝑅 𝑧2 − 𝑅 [𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0)]2+ 𝑅𝑐𝑜𝑠2𝜃0𝑠𝑖𝑛𝜃0/(𝜋2−𝜃0) [𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0)]2 + 𝑠𝑖𝑛2𝜃0 (𝜋 2⁄ −𝜃0)2[[𝑧+𝑅(1−sin 𝜃 0)]]] (2.20) 2.2.1.2 Modello Straight

L’approssimazione diedra adottata per il modello di Hudlet presenta un problema sostanziale che riguarda la terza legge di Newton. Infatti, risolvendo l’integrale dell’equazione 2.17, si ritrova un risultato diverso a seconda della superficie considerata, cioè, la forza elettrica agente sulla superficie della punta risulta diversa rispetto a quella che si avrebbe considerando il substrato. Per risolvere ciò si può ricorre al cosiddetto modello “Straight” [19], consistente con l’approssimazione di Derjaguin [20], descritta di seguito. Viene usata un’approssimazione a piani paralleli, per cui si decompone la superficie della punta in tanti anelli circolari, giacenti nel piano ortogonale a z, la cui area elementare dATP corrisponde alla proiezione dell’area elementare della punta,

dAT, sul piano orizzontale, e a sua volta la proiezione dATP sulla superficie del

(43)

43

Figura 2.9 (a) Approssimazione diedra e (b) approssimazione a piani paralleli,

con l’indicazione delle linee di campo elettrico.

Con tale modello, oltre ad avere che le linee di campo risultanti sono lungo l’asse z, si ritrova che le aree elementari coinvolte risultano uguali, per cui integrando in relazione alla punta oppure al substrato, la forza elettrica resta la stessa e la terza legge di Newton è così soddisfatta. Le espressioni risultanti per tale modello sono:

𝐹𝑎𝑝𝑖𝑐𝑒𝑆 = −𝜋𝜀0𝑅𝑉2[1 𝑧− 1 𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0)− 1 𝑅𝑙𝑛 ( 𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0) 𝑧 )] (2.21) 𝐹𝑐𝑜𝑛𝑜𝑆 = −𝜋𝜀0𝑉2𝑡𝑎𝑛2𝜃0[𝑙𝑛 ( 𝐻 𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0) − 1 + 𝑅𝑐𝑜𝑠2𝜃0/𝑠𝑖𝑛𝜃0 𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0)]

Si nota come il termine di apice, rispetto al modello precedente, presenta una dipendenza logaritmica in più, mentre il termine di cono è lo stesso, eccetto per un fattore di proporzionalità. In termini di frequency shift si ha:

∆𝜔𝑆𝑡𝑟𝑎𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑉2 = − 𝜔0𝜋𝜀0 2𝑘 [ 𝑅 𝑧2 − 𝑅(1−sin 𝜃0) [𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0)]2 + 1 𝑧+ 1/𝑐𝑜𝑠𝜃0 [𝑧+𝑅(1−sin 𝜃0)]] (2.22) I modelli descritti finora però sono validi nel caso in cui si considerino ampiezze di oscillazione piccole, cioè minori rispetto alla lunghezza di decadimento dell’interazione. Volendo invece esplicitare la forza elettrica per ampiezze di oscillazione arbitrarie, cioè 0.1 < A/σ <10, con σ distanza a cui si ha il massimo

Riferimenti

Documenti correlati

Si rimane un po’ sorpresi dal fatto che per w = 1.350 il numero di iterazioni fosse inferiore di quello fornito dal valore ottimale teorico w ∗ = 1.333.. Il fatto `e che questo

Per queste ragioni il modello di Thomson fu presto sostituito nel 1911 dal cosiddetto modello di Rutherford, che proponeva un modello per così dire planetario dell’atomo: un

L’interazione gravitazionale è una interazione a distanza, che non richiede il contato dei corpi; in realtà, tuttavia, può essere descritta come una modifica

• l’MCP-PMT a singola cella possiede anch’esso ottime caratteristiche in termini di timing (8-10 ps) ed essendo formato da un solo anodo non pre- senta il problema di cross talk

Questa indifferenza per l’agency umana potrebbe essere vera nel caso della localizzazione delle applicazioni di produttività; tuttavia, come detto prima, se consideriamo i

In questo caso le particelle cariche (per esempio elettroni) di massa m ruotano all’interno due semi-lune, di raggio R, immerse in un campo magnetico B perpendicolare

Nei metodi diretti, la presenza di eventuali element nulli nella matrice non può essere sfruttata ai fini di ridurre il costo computa- zionale e l’occupazione

Geometricamente, il metodo costruisce ad ogni passo l’approssimazione della radice calcolando l’intersezione della retta passan- te per i punt (a i ,sgn(a i )) e (b