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IL PROBLEMA DELLA SOSTENIBILITà DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DALL'UNITà AL 1913

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1 UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT Corso di Laurea Magistrale in Banca,

Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

TESI DI LAUREA

IL PROBLEMA DELLA SOSTENIBILITA’ DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DALL’UNITA’AL 1913

RELATORE

Prof. Giuseppe Conti

CANDIDATO Pietro Padulo

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2 IL PROBLEMA DELLA SOSTENIBILITA’ DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DALL’UNITA’ AL 1913

INDICE

Introduzione 4

CAP. 1 LA CRESCITA DEL DEBITO E IL CONTROLLO DELLE FINANZE (1862-1871) Par.1 La formazione dello Stato e i problemi delle finanze 28

Par.2 La guerra con l’Austria e la crescita del debito durante la crisi finanziaria 62

Par.3 La questione romana 74

Par.4 La sostenibilità del debito nel modello Sylos Labini-Pasinetti 89

CAP. 2 UN DEBITO IN BILICO: L’ALTALENA DELLA SOSTENIBILITA’ NELL’ETA’ DELLA SINISTRA STORICA (1872-96) Par.1 Gli ultimi anni della destra storica e il pareggio di bilancio 101

Par. 1.1 Le ferrovie nell’Italia liberale 114

Par.2 La sinistra al potere 119

Par.3 Dal debito estero al debito“istituzionalizzato” 162

Par. 3.1 I debiti per lo sviluppo ferroviario 164

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3 CAP. 3 LA CRESCITA NELL’ETA’GIOLITTIANA E IL RISANAMENTO FINANZIARIO (1897-1913)

Par.1 L’età liberale e lo sviluppo economico 183

Par.2 La crisi del 1907 e il rallentamento dello slancio industriale 203

Par.3 L’età giolittiana, un’epoca di sostenibilità del debito 219

Par.4 Il debito degli ultimi anni dell’Italia liberale 229

Conclusioni 234

Appendice cap.1 244

Appendice cap.2 258

Appendice cap.3 279

Appendice grafici dell’Età liberale 293

Bibliografia 314

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4 INTRODUZIONE

L’obiettivo del presente elaborato magistrale è quello di presentare il modello della sostenibilità del debito pubblico di Sylos Labini – Pasinetti e di adattarlo nel primo cinquantennio unitario (1861-1913) per mostrare la sostenibilità o l’insostenibilità del debito pubblico italiano nei vari sottoperiodi:

-L’età della destra storica (1862-1871); -L’età della sinistra storica (1872-1896); -L’età giolittiana (1897-1913).

Il tema della sostenibilità, a partire dagli ultimi anni della seconda guerra mondiale, è stato oggetto del dibattito di vari studiosi. L’importanza del tema è cresciuta col tempo e, attualmente, nell’ambito degli accordi dell’Unione Europea con il trattato di Maastricht che ha istituto la moneta unica europea, il contenimento del debito entro certi limiti è un obiettivo da porre in cima all’agenda programmatica dei governi.

Il trattato ha indicato il rapporto tra Debito pubblico e Pil stabilendo che non deve eccedere il 60%, e un rapporto tra deficit e Pil che non deve sforare il 3%. Questo limite del rapporto tra il debito e il prodotto nazionale presuppone un limite di accumulazione del debito che, se viene superato, genera problemi al finanziamento del debito stesso. La nozione utilizzata dall’Unione monetaria rimanda al lavoro pioneristico di Domar (Domar 1944), al lavoro di Hamilton e Flavin (Hamilton e Flavin 1986), oltre al lavoro di Blanchard e altri (Blanchard, Chouraqui, Hagemann e Sartor 1990). Nel caso di Domar e Blanchard l’idea di fondo è che il rapporto tra Debito e Pil non possa superare un certo limite e la sostenibilità del debito è identificata nei limiti della variabile D/Pil. Hamilton e Flavin ritennero valido considerare, invece, sostenibili le situazioni in cui il valore attuale del flusso di tutti gli esborsi futuri del governo non eccedano il flusso degli incassi.

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5 L’unica certezza della letteratura è che non possiamo trovare un limite teorico del rapporto universalmente accettato come soglia di sostenibilità (Bagnai 1996). Il modello di Sylos Labini – Pasinetti deriva, come vedremo, dall’indice di Domar. Sicuramente il finanziamento della spesa pubblica in deficit non è esente da aspetti positivi per il reddito e l’occupazione ma è fondamentale comprendere la soglia oltre la quale è imprudente andare.

Nel suo lavoro, l’economista russo, naturalizzato americano, Evsey Domar identificò la sostenibilità con la stabilità del rapporto Debito-Pil. Il debito pubblico, affinché possa definirsi sostenibile, deve tendere ad un valore finito.

Lo studioso riteneva che gli interessi sul debito pubblico dovessero essere pagati con il gettito fiscale. Così scrisse, infatti, lo studioso: “This assumption is made both to simplify the argument and to protect the reader from a shock. To many, government investment financed by borrowing sounds so bad that the thought of borrowing to pay interest charges also is simply unbearable” (Domar 1944, pag.799).

Nel caso in cui il reddito sia costante per anni - mentre il deficit usato per finanziare la spesa pubblica è ogni anno una quota costante del reddito nazionale- il rapporto tra debito e prodotto nazionale tende all’infinito e l’aliquota di imposta sul reddito necessaria per onorare l’impegno degli interessi sul debito tende al 100%.

Nel caso in cui il reddito cresca ad un tasso fisso con tasso di interesse costante ed il deficit è una percentuale costante del reddito, il rapporto D/Pil tende ad un valore finito, così come l’aliquota di imposta necessaria per pagare gli interessi sul debito pubblico. Domar ritiene determinante per risolvere il problema della sostenibilità del debito la capacità di espandere il reddito. Ecco spiegato il motivo della sua attenzione del rapporto tra il debito e il prodotto nazionale rispetto alla grandezza del debito soltanto.

“It is hoped that this paper has shown that the problem of the debt burden is essentially a problem of achieving a growing national income. A rising income of course desired on general grounds, but in addition to its many other advantages it also solves the most important aspects of the problem of the debt. The faster income grows, the lighter will be the burden of the debt.

In order to have a growing income there must be, first of all, a rising volume of monetary expenditures. Secondly, there must be an actual growth in productive powers in order to

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6 allow the increasing stream of expenditures to take place without a rise in prices” (Domar 1944, pp.822-23).

La crescita del reddito dipende, quindi, dalla crescita della spesa monetaria in modo da permettere una crescita anche della produzione nazionale.

Domar, seguendo la tradizione keynesiana, espresse fiducia nella possibilità di espandere il reddito tramite la spesa pubblica: “The theory of the multiplier and our actual experience during this war have demonstred, I believe that money income can be raised to any desired level if the total volume of public expenditures is sufficiently high” (Domar 1944, p.799).

Il reddito cresce con la spesa pubblica in deficit e determina da un lato l’aumento del prodotto nazionale e, dall’altro, un aumento del debito pubblico. Il tasso di crescita del reddito è fondamentale per comprendere l’andamento del rapporto debito su Pil.

Un difetto di questa teoria può essere quello di cercare di considerare il tasso di crescita dell’economia nazionale come indipendente invece di considerare il rapporto tra la spesa pubblica e il reddito. Domar si focalizzò solo sul rapporto D/Pil ma confermando l’uso della spesa pubblica in deficit come strumento di espansione del reddito.

Anche i governanti dell’Italia liberale seguirono questa teoria, pur inconsapevolmente; il debito servì, infatti, all’unificazione di un paese sia moralmente che con le opere pubbliche, necessarie per lo sviluppo della nostra economia. Allora, però, i ministri delle finanze e del tesoro badarono al pareggio del bilancio e alla riduzione del volume del debito e agli investimenti per accrescere la competitività della nostra economia nel contesto mondiale.

Sicuramente non erano politiche concentrate teoricamente sul tasso di crescita dell’economia ai danni del tasso di interesse ma, se non altro, si provò a far ripartire la nazione e si posero le basi per il decollo industriale nell’età giolittiana.

Oltre all’indicatore della sostenibilità basato sul rapporto D/Pil non possiamo non parlare del lavoro di Hamilton e Flavin del 1986. Possiamo scrivere l’equazione degli studiosi come:

DJ= DJ-1 (1+ r) +GJ – TJ

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7 Ovvero D1 è il debito alla fine del periodo 1 dato dalla somma dal debito del periodo

precedente (D0) più gli interessi (al tasso r) maturati su di esso, più la spesa pubblica del

periodo (G1) meno l’ammontare raccolto con il gettito fiscale (T1). Osserviamo questa

formula:

D0= ∑∞𝒕=𝟏(𝑻𝒕− 𝑮𝒕)/(𝟏 + 𝒓)𝒕+ 𝒍𝒊𝒎

𝒋→∞𝑫𝑱 /(𝟏 + 𝒓) j

La formula esprime in sostanza l’uguaglianza tra il valore del debito pubblico presente D0 e il valore attuale dei futuri avanzi primari sommati al valore attuale del debito futuro.

Ponendo il valore attuale del debito futuro a zero si ha l’uguaglianza tra il valore presente del debito pubblico con gli avanzi primari della finanza pubblica.

Per soddisfare la condizione di sostenibilità con il valore attuale del debito uguale a zero è sufficiente che il debito pubblico aumenti a tassi inferiori rispetto al tasso di interesse. Inoltre questo indice di sostenibilità, preferito dal FMI, considera sostenibili i sentieri del debito lungo i quali il settore pubblico non viola il proprio vincolo intertemporale di bilancio.

La copertura del servizio del debito pubblico deve avvenire con attività liquide senza una correzione sostanziale del saldo primario, così da garantire, al netto dell’indebitamento iniziale, che il valore presente scontato degli oneri attuali e futuri non superi quello dei proventi attuali e futuri (cosiddetta condizione di solvibilità) tenuto conto dei costi di finanziamento in cui si incorre nel mercato.

Nella definizione di sostenibilità di vari studiosi (Blanchard, Chouraqui, Hagemann e Sartor 1990) il debito risulta sostenibile se, dato un livello iniziale dello stock di debito, il rapporto Debito-Pil si mantiene costante o, meglio, tende al livello iniziale.

“A formal definition can how we given to the notion of sustainability of fiscal policy. Fiscal policy can be thought of as a set of rules, as well as an inherited level of debt. And a sustainable fiscal policy can be defined as a policy such that the ratio of debt to GNP eventually converges back to its initial level” (Blanchard, Chouraqui, Hagemann e Sartor 1990, p.11).

Questa nozione di sostenibilità è molto diffusa ed è stata adottata anche dall’area Euro e si basa sulla semplice osservazione di una grandezza esistente.

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8 La crescita del debito è, dunque, sostenibile se, dato un livello iniziale del debito, il rapporto Debito/PIL si mantiene costante oppure tende al livello di partenza. Se il reddito cresce attraverso la spesa pubblica in deficit è il tasso di crescita del reddito, insieme al tasso di interesse, a determinare in ultima analisi l’andamento del rapporto Debito/PIL. Se per caso il tasso di interesse supera quello di crescita dell’economia, il processo di accumulazione del debito è insostenibile; quando il tasso di interesse è inferiore a quello di crescita, invece, il rapporto Debito/PIL è stabile e sostenibile.

Qualora il rapporto Debito/PIL non presenti un trend di crescita esplosiva, sia stabile e in diminuzione in altri termini, la condizione di solvibilità è automaticamente soddisfatta (Blanchard e S. Fischer, 1989).

Le controindicazioni derivanti dall’uso di questa nozione di sostenibilità possono essere quelle di considerare sostenibile in alcuni casi la situazione di paesi con D/Pil elevato e, invece, insostenibile quella di paesi con un rapporto basso, perché molto dipende dall’andamento del saldo primario nel tempo.

Questi modelli parlano tutti e tre in tre in termini diversi dell’importanza della crescita del prodotto nazionale come vedremo nel modello Sylos Labini – Pasinetti. Il tasso di interesse è un elemento fondamentale per la sostenibilità del debito, ma ancora più significativa sarà la differenza (i-g) per definire sostenibile o meno una soglia di debito pubblico.

Non è possibile ignorare, infatti, la relazione possibile tra il tasso di interesse e di crescita dell’economia, e ancora di più quella tra il tasso di crescita dell’economia e dell’accumulazione del debito; scelte che modificano i risultati della dinamica della variabile D/Y (Bagnai 1996).

Per quanto riguarda il rapporto D/Y come misura di sostenibilità, Domar ritenne che il prodotto nazionale dell’economia fosse la base per il prelievo fiscale necessario a coprire almeno gli interessi sul debito pubblico.

Il reddito assume così i caratteri di garanzia del debito e lo stato possiede il potere di imporre le imposte necessarie a coprire il debito. Però, a volte, il rapporto delle passività accumulate fino al momento delle analisi del loro livello e il reddito prodotto dall’economia nazionale in un anno non sempre denota l’analisi più adeguata della garanzia sul debito pubblico (Salvemini 1992).

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9 Il debito confrontato con il reddito secondo questa teoria costituirebbe solo una misura parziale.

Un rapporto più significativo potrebbe derivare dal legame fra il debito e le attività totali dell’economia. La ricchezza privata, infatti, costituisce una base imponibile mentre il patrimonio pubblico potrebbe essere venduto a soggetti privati e, quindi, costituire una garanzia sulla restituzione del debito.

Il rapporto D/Pil, come detto, non permette di definire una soglia precisa oltre la quale si ha la insostenibilità del debito. Il trattato di Maastricht sicuramente ha attribuito alla soglia 60% una valenza normativa ma si tratta di una decisione di un ente sovranazionale. Reinhart e Rogoff (2010) ritennero che nel caso di superamento del livello del 60-90 % del rapporto D su Pil da parte di uno stato la situazione certifichi dei problemi di restituzione del debito, con grosse difficoltà a onorare gli impegni presi. Un debito elevato non risulta sempre insostenibile ma aumenta comunque il rischio che non sia onorato. Al momento si ritiene impossibile definire un valore teorico oltre il quale si verifica il dissesto finanziario di uno stato debitore (Buiter, Corsetti e Rubini 1993).

Blanchard, insieme agli altri autori, riteneva si potesse puntare sulla stabilità del rapporto esistente ma con un lavoro di Pasinetti emerse la possibilità che ai paesi con un livello più elevato di debito pubblico corrispondesse una soglia di sostenibilità del debito più alta rispetto alle altre nazioni (Pasinetti 1998b).

Anche in questa opera si prende come riferimento il livello del rapporto D/Pil esistente e la teoria di Pasinetti ha una base di fondamento, in quanto il nostro Stato attualmente è in compagnia di paesi come Portogallo e Grecia per il debito poco virtuoso ma già nell’età liberale i nostri sottoscrittori principali (Francia e Germania), senza scordare gli investimenti inglesi, avevano interesse che l’Italia avesse un debito sostenibile.

La nostra nazione sin dalla sua nascita è stata marchiata dalla presenza delle passività ma questo non ci ha impedito, con la crescita dell’economia, di riportare il bilancio in pareggio e addirittura in avanzo nell’età giolittiana o, meglio, ancora negli anni del boom economico del Novecento.

La nozione di sostenibilità per Pasinetti si può cominciare a intuire da queste affermazioni: “We may therefore start from the following definition of sustainability of

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10 the public debt: a public debt is sustainable when it satisfies the following condition: (D/Y)(o) (D/Y)(t)

Where:

D>0 public debt of year

Y: annual Gross Domestic Product (GDP), in nominal terms t= time

This means that the pubblic debt is defined as sustainable when the ratio D/Y decreases or, at least, remains constant”

(Pasinetti 1998b, p.3)

Da questa formula si evince l’indicatore di sostenibilità: S/Y≥ (i-g) D/Y Con S avanzo pubblico;

Y reddito;

i tasso di interesse

g tasso di crescita dell’economia D debito pubblico

Non può, quindi, esistere un’unica soglia di sostenibilità sempre valida e generale in quanto il deficit pubblico che è possibile accumulare ogni anno rispettando la soglia della sostenibilità è tanto più alto quanto maggiore è già il livello di passività assunte.

Esistono comunque dei punti di non ritorno che potrebbero causare l’insolvenza degli stati. L’obiettivo di Pasinetti non è incentivare un ricorso massiccio al debito ma ritiene la frontiera della sostenibilità molto flessibile. La frontiera del debito pubblico è identificata con la formula (i-g) D/Y.

Domar, nel suo scritto degli anni ‘40 del novecento, aveva teorizzato che in uno scenario di un paese con un grande debito pubblico, ma anche di continua crescita del debito, e un permanente disavanzo pubblico, gli stati sarebbero risultati sostenibili purché si mettesse in atto un sentiero di crescita economica. Nel caso di un paese con un’economia stabile

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11 un aumento del debito risulterebbe disastroso mentre il debito pubblico potrebbe crescere all’infinito purché il tasso di interesse rientri nel valore del tasso di crescita dell’economia nazionale (Pasinetti 1996, p.191-192).

Lo studioso elabora il concetto di onere sociale del debito pubblico nella nozione di sostenibilità del debito pubblico.

L’onere sociale t non è altro che l’onere sociale del debito (imposizione in % del Pil necessaria per mantenere il rapporto D/Y).

Per dirla con Domar, l’onere della comunità è rappresentato dall’aliquota fiscale (t) proporzionale al reddito nazionale (Y), che il governo dovrebbe imporre per il pagamento degli interessi dovuti sull’ammontare del Debito pubblico (D).

Sempre nell’ipotesi che il governo voglia mantenere in crescita costante il rapporto D su Pil.

In questo modo possiamo sapere quale disavanzo di bilancio (G), in termini assoluti e come proporzione del reddito nazionale, il governo si può permettere compatibilmente con il pagamento degli interessi sul debito e la stabilità del rapporto D/Y.

Dunque se g è il tasso di crescita di Y, di conseguenza: ∆Y= gY con il governo che può permettersi un disavanzo di bilancio e, perciò, un incremento di debito pubblico G= ∆D=gD con il rapporto debito su Pil che resta costante. L’ammontare totale degli interessi da pagare con i (tasso di interesse), sarà: iD, le spese per gli interessi.

Mediante le imposte bisogna raccogliere l’ammontare di risorse per coprire il pagamento degli interessi. La nota aliquota fiscale istituita per il pagamento degli interessi con D/Y stabile è

t=(i-g) D/Y, l’onere sociale di equilibrio del debito pubblico. Il fattore cruciale della formula è rappresentato dalla differenza (i-g), ossia dalla differenza tra il tasso di interesse e il tasso di crescita dell’economia.

Abbiamo tre 3 casi di onere sociale: l’onere sociale nullo, quello positivo e quello negativo.

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12 i=g>0 t=0

In questa situazione il bilancio pubblico può rimanere perennemente in disavanzo e il debito può crescere infinitamente perché il reddito nazionale cresce al tasso(g) cosicché il rapporto D/Y rimane costante. Poiché (i-g) =0 ne consegue che t=0 con gli interessi che vengono pagati mediante il disavanzo di bilancio ma essi sono cumulati con il debito pubblico, senza che sia necessario imporre alcuna imposta per il loro pagamento. La crescita del Pil compensa la crescita del debito che, anche se fosse aumentato nel tempo, avrebbe un onere per la comunità nullo, qualsiasi sia il livello del debito su Pil (D/Y). Nel caso dell’onere sociale negativo si ha g>i>0 e la situazione per i contribuenti è ancora più favorevole della precedente. In questo caso gli interessi sul debito i risultano inferiori al tasso di crescita del reddito nazionale. Ulteriori crescite del debito sono possibili senza peggiorare il rapporto D/Y. In questo caso il disavanzo di bilancio G compatibile con la stabilità del rapporto D/Y consente addirittura un disavanzo primario uguale a (g-i) D. L’onere del debito per la comunità diventa negativo assumendo le fattezze di un sussidio. Di conseguenza non sarebbe necessaria l’istituzione di un’imposta per il pagamento degli interessi ma in effetti la comunità nel suo insieme si può permettere un’imposta negativa, il sussidio appunto. Il sussidio per i contribuenti è più alto quanto più è elevato il rapporto D/Y.

L’ultimo caso dell’onere sociale positivo: i>g>0 fu un caso diffuso negli anni 1862-1913. L’avanzo primario di bilancio (i-g) D necessario per mantenere D/Y costante è tanto più alto quanto più elevata è la differenza (i-g) tra il tasso di interesse ed il tasso di crescita. L’imposta t=(i-g) D/Y necessaria per pagare gli interessi e mantenere il rapporto D/Y costante è tanto più alta quanto più è elevato il rapporto D/Y. I contribuenti per mantenere il debito costante devono versare sempre più soldi in tasse (Pasinetti 1996, pp.193-96). Osservando il grafico del cinquantennio 1862-1913, generalmente l’onere sociale si presenta positivo, ovvero è sopra la linea 0. Nella prima fase l’onere sociale è totalmente positivo; nella fase dei governi della Sinistra cambia continuamente passando dalla positività alla negatività; lo stesso onere nell’età giolittiana è prevalentemente negativo. Nel caso della superiorità del tasso di interesse i sul tasso di crescita del reddito g, il rapporto D/Y si riduce solo in presenza di un avanzo primario Sp, con lo stock iniziale di

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13 debito che si autoalimenta con gli interessi. Nel caso opposto di g>i sarebbe possibile aumentare il deficit pubblico senza l’aumento del rapporto D/Y.

I due autori del modello Sylos Labini- Pasinetti , oggetto della nostra ricerca, nel corso di un dibattito all’Accademia del Lincei nel 1998 trattarono ancor più nel dettaglio l’indice di sostenibilità del debito.

(Pasinetti 1998 a, p.513)

Per quanto riguarda Pasinetti, egli distinse dopo l’opera precedente la zona della sostenibilità dalla zona di insostenibilità del debito pubblico.

In questa opera distinse anche il saldo in avanzo o disavanzo pubblico (S) e l’avanzo primario o disavanzo primario (Sp). Sp/Y= (i-g) D/Y è la relazione di frontiera tra disavanzo (avanzo) primario e debito. Mentre la zona di sostenibilità del debito risulta definita algebricamente dalla relazione:

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14 Pasinetti classifica come rilevanti per la sostenibilità del debito le grandezze: D/Y, tasso nominale di crescita g, il rapporto disavanzo/Pil. Sp/Y- (i-g) D/Y rappresenta la distanza tra la posizione effettiva di ogni paese e la frontiera della zona di sostenibilità. Questa distanza può essere considerata un indice di velocità della convergenza (se positivo) altrimenti di divergenza (se negativo).

Volgendo un primo sguardo al grafico dell’indice di convergenza/divergenza, notiamo una permanenza sotto la soglia zero, la zona di insostenibilità del debito, nei primi dieci anni del regno d’Italia, un andamento altalenante del valore durante il periodo 1872-1896 e una quasi totale presenza sopra la soglia zero nell’età giolittiana.

L’indice di convergenza/ divergenza deriva dalla formula Sp-(i-g) D/Y. Riepilogando: se quest’ultima assume valore positivo si parla di anni di convergenza del debito; nel caso contrario siamo in presenza di valori divergenti. (Pasinetti 1998 a).

Possiamo così classificare le varie annate, divise nei tre sottoperiodi, in base alla velocità di convergenza verso la frontiera ipotetica della zona di sostenibilità del debito (valore positivo) oppure in base alla divergenza dalla frontiera nel caso in cui il valore sia negativo, come detto. Banalmente, come vedremo, con valori positivi molto alti siamo lontani dalla frontiera zero e siamo ampiamente dentro la zona di sostenibilità del debito. Valori negativi consistenti invece ci portano a dichiarare l’insostenibilità del debito assunto e una lontananza evidente dalla frontiera.

Questo scenario si verificò indubbiamente nel periodo del governo della destra storica. In quegli anni notiamo, infatti, una permanenza totale nella zona di insostenibilità. Il primo decennio unitario sarà segnato dalla durata del vincolo del debito elevato. Nel caso del livello del debito, se questo si presenta stabile, o meglio ancora si riduce, dipende dall’avanzo di bilancio, in grado di coprire il pagamento degli interessi e il rimborso del debito.

Con i governi della Sinistra storica osserviamo che, dal 1872 al 1896, vi sono cambiamenti continui e passaggi dalla zona di sostenibilità alla zona di insostenibilità. Nell’età giolittiana (1897-1913) si verifica un andamento in antitesi con quello dell’età della destra storica. Il debito risultò sostenibile in quasi tutti gli anni ad eccezione dell’annata 1908 (l’anno successivo della crisi mondiale). Proprio in questi anni si nota la presenza della più grande serie di valori convergenti dell’Italia liberale.

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15 Pasinetti nel dibattito nel 1998 tornò anche sul tema dell’onere sociale del debito. Il mantenimento di un certo livello di debito comporta sempre un onere sociale del debito. Un livello che comporta una spesa per interessi iD. Una spesa rappresenta un onere per la collettività nella misura in cui, ammesso che si debba mantenere il bilancio pubblico sostenibile, lo Stato in questo caso è costretto a imporre tasse e imposte per fronteggiare quella spesa. Ma se questo non fosse necessario, quella spesa non potrebbe essere definita un onere.

In questa prospettiva, la spesa per interessi rappresenta l’onere sociale soltanto per la parte di essa che corrisponde alle imposte e tasse necessarie per ottenere quell’avanzo primario che è necessario per rimanere nella zona di sostenibilità. (Pasinetti 1998 a, p. 519) L’altra parte della spesa per interessi può essere aggiunta al debito pubblico totale senza far aumentare il rapporto D/Y, se intanto il Pil è aumentato. Proprio questa parte della spesa per interessi non può essere considerata un onere sociale perché non richiede l’introduzione di alcuna imposta o tassa.

L’onere sociale viene indicato con t, definita come l’aliquota (in proporzione al Pil) che è necessario istituire in sovrappiù, rispetto al caso in cui non esistesse debito pubblico. Tale imposta viene a coincidere con l’avanzo primario Sp (in % del Pil) che si trova precisamente sulla linea di frontiera che separa la zona di sostenibilità da quella di insostenibilità.

t= (i-g) D/Y

L’aliquota t rappresenta il sovrappiù di pressione fiscale in un paese con il debito pubblico rispetto a un paese senza debito pubblico. Come è possibile ridurre questo onere sociale del debito? L’onere sociale si riduce se cala il debito pubblico, purché i-g>0. Per ridurre t possiamo perseguire politiche economiche che conducono alla diminuzione del tasso di interesse i.

Un ulteriore modo è quello di introdurre politiche economiche che portano ad un più elevato tasso di crescita del Pil, g. Tutte le variabili (g, i, i-g) sono espresse in termini nominali nel modello oggetto di analisi.

Importantissima è la differenza tra i due tassi che incide sull’onere sociale. Quando i-g è un valore esiguo, l’onere sociale è piccolo anch’esso. Per azzerare l’onere sociale t,

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16 occorre realizzare D/Y=0 con debito pubblico nullo qualunque sia il tasso di interesse. Oppure i-g=0 qualunque sia il rapporto, il livello D/Y. (Pasinetti 1998, p.522).

L’autore si chiedeva: ”Perché i governi si concentrano solo sulla diminuzione del noto rapporto D/Y e non fanno attenzione al tasso di interesse e al tasso di crescita g”?

Entrambe le strade portano allo stesso risultato, soltanto che così si hanno diverse scelte di pressione fiscale, di incentivi agli investimenti e, quindi, di domanda globale, sviluppo economico e occupazione. Il rientro del debito pubblico comporta, oltre che l’onere sociale t necessario per rimanere nella zona di sostenibilità, anche l’ulteriore onere fiscale, in ciascun anno di un disavanzo primario in eccesso rispetto alla necessaria aliquota t, al fine di far diminuire il livello del debito.

Ma se governassimo il rientro del tasso di interesse a livelli accettabili e stimolassimo la crescita dell’economia, con l’aumento di g avremmo il triplice effetto di far diminuire la pressione fiscale, di incrementare la crescita del Pil e di far diminuire la disoccupazione. Il tasso di interesse diventa difficile gestirlo in casi di instabilità finanziaria. In presenza di forti variazioni dei cambi, i tassi nominali di interesse hanno subito variazioni diverse da paese a paese in modo rapido.

Per i paesi con un alto D/Y come il nostro, di conseguenza, il tasso di interesse richiesto dai mercati finanziari è maggiore e con scadenze più corte per il saldo del debito. Questo può aver ingenerato la paura del debito elevato che potesse creare instabilità. Con l’Unione europea questo non può succedere in quanto il controllo della volatilità dei tassi di interesse può prevenire problemi di elevato onere sociale del debito. (Pasinetti 1998 a, p. 522-524).

Con le crisi finanziarie del periodo dell’Italia liberale vedremo che il tasso di interesse raggiunse livelli molto alti condizionando l’onere sociale del debito e causando un’uscita dalla zona di sostenibilità. L’inversione di rotta delle politiche di Giolitti saranno importanti per la crescita del paese e la riduzione del debito pubblico dopo decenni di disordini finanziari.

Sylos Labini, invece, ricordò un suo scritto del 1948, presentato all’Accademia dei Lincei dal suo maestro Alberto Breglia. Citò il caso dei prestiti accesi dalle imprese, con un’impresa che investe delle somme prese in prestito; essa, alla fine del ciclo, deve restituire una somma pari al valore del prestito accresciuta dell’interesse.

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17 Nel caso dei prestiti delle famiglie, Sylos Labini ammonisce che per fini di consumo l’interesse viene saldato non con il profitto, il sovrappiù, ma con redditi di altra provenienza: la fonte dell’interesse non è un reddito addizionale ma è costituita dai redditi che affluiscono ai debitori, indipendentemente dai prestiti.

Secondo l’economista, inoltre, quello che valeva per i prestiti ai soggetti privati valeva anche per i soggetti pubblici (Stato ed altri enti), con la avvertenza che nel caso di prestiti pubblici produttivi di regola il sovrappiù andrà ad accrescere il reddito complessivo mentre ciò non accade nel caso dei prestiti pubblici per fini improduttivi. Cosa differenzia i due tipi di prestiti pubblici? La pressione fiscale. Gli interessi vengono pagati in entrambi i casi con i tributi ma, nel caso dei prestiti pubblici produttivi, il pagamento degli interessi non porta con sé un aumento della pressione fiscale se l’aumento del reddito è proporzionale all’aumento delle spese imputabili al pagamento per interessi.

Nel caso dei prestiti pubblici improduttivi (prestiti al consumo) la pressione fiscale cresce. Con la guerra assistiamo proprio a questa seconda tipologia. Quando, però, la pressione fiscale resta stabile, non necessariamente ciò vale per i contribuenti singolarmente considerati: la stabilità del livello non implica quella della distribuzione del carico fiscale. (Sylos Labini 1998, p. 533).

Nella storia hanno avuto luogo prestiti produttivi e prestiti improduttivi ma, mentre nel lontano passato i primi erano l’eccezione e i secondi la regola, negli ultimi due secoli, nei paesi del capitalismo industriale, si assiste ad un cambio di rotta.

Purtroppo nei primi anni unitari i prestiti sicuramente furono accesi a fin di bene, ma non mancarono anche prestiti improduttivi come quelli per la guerra del 1866 e le guerre d’Africa. Anche Labini è concorde, e vedremo perché, nel considerare il tasso di interesse ormai espressione di un profitto da considerare in un contesto di sviluppo, ovvero il tasso i va confrontato con il tasso di crescita del reddito sociale, g, non solo anno per anno ma per periodi lunghi. Tanto maggiore risulta la quota dei prestiti improduttivi, tanto più i>g. In definitiva è molto importante confrontare il saggio di interesse con l’aumento del reddito; un aumento che va visto come il risultato di un confronto fra le due grandezze. Nello sviluppo il profitto di beni trova sbocco nella crescita della domanda monetaria che ha la sua origine nella banca centrale e nelle banche ordinarie. I soggetti pubblici, con le imprese, sollecitano gli istituti di credito chiedendo prestiti addizionali e consentono così

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18 la chiusura dei cicli produttivi e dei cicli monetari aperti in precedenza prefigurandone di nuovi.

Labini, inoltre, scriveva : “ Per quanto riguarda i prestiti pubblici si può osservare che se lo Stato impiega produttivamente il risparmio ottenuto, quei prestiti concorrono a determinare l’incremento del reddito della società: per conseguenza i tributi che lo Stato pone per pagare gli interessi non aggravano quella che si chiama pressione fiscale, non accrescono, cioè, il rapporto fra l’ammontare dei tributi e il volume complessivo del reddito sociale, né quindi provocano intralcio all’attività produttiva o riduzione del tenore di vita dei contribuenti” (Sylos Labini 1998, p. 534).

Citando Pasinetti, Sylos Labini definisce sostenibile il debito pubblico quando il rapporto fra debito e reddito (D/Y) diminuisce o per lo meno resta stabile; un tale definizione comporta la considerazione di zone di sostenibilità o insostenibilità.

La relazione AP/Y≥ (i-g) D/Y

Dove AP è l’avanzo primario, Y il Pil, i il saggio di interesse, g il saggio di aumento del reddito e D il volume del debito. (Sylos Labini, p. 534)

Tornando alla nota di Sylos Labini del 1948, se g=0, ossia se il reddito non varia, ed eliminando Y in entrambi i membri della relazione di Pasinetti, allora AP=iD, ossia l’onere per interessi dev’essere pagato con entrate tributarie, senza contrappesi, ciò che determina necessariamente uno spostamento di reddito a favore dei creditori.

Sylos Labini invita a non demonizzare il debito parlando del saggio di Modigliani e Kostoris del 1997 e ricorda, senza polemica, che già nel citato lavoro del 1948 aveva parlato del tasso di interesse e del tasso di crescita, come ricorderà nel 2004.

Così gli altri due autori: “non è il volume del debito o il suo rapporto con il Pil o la sua dinamica temporale che devono preoccupare, bensì la quota di esso che è accesa per ragioni improduttive rispetto alla parte che lo ripaga automaticamente, essendo volta allo sviluppo, quindi a incrementare la capacità produttiva (umana e materiale) e la redditività della collettività in termini sociali e non necessariamente monetari)” (Kostoris e Modigliani 1997, p. 57).

Fra le spese pubbliche improduttive sono da includere quelle per le pensioni e l’assistenza, come per un altro verso, quelle militari e le spese per interessi finanziate con i tributi che accrescono la pressione fiscale; naturalmente fra le spese improduttive ci

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19 sono gli sprechi (riscontrabili anche nell’ambito delle spese produttive) e quelle da attribuire a ruberie e a corruzione.

In una delle sue ultime opere l’economista analizzò la sostenibilità dei debiti privati e pubblici ricordando il suo saggio del 1948 dal titolo “Saggio dell’interesse e reddito sociale” presentato quando era giovane, argomentando che il saggio di interesse va visto come un fenomeno dinamico e che nel lungo periodo può coincidere con il tasso di aumento del reddito sociale. Ritornò sull’importanza che diede già allora ai prestiti produttivi, in cui il pagamento degli interessi non crea problemi. Nel caso di prestiti pubblici l’interesse non dà luogo a problemi di redistribuzione del reddito con la pressione fiscale se l’interesse è pagato con l’aumento del reddito con prestiti di tipo produttivo; nel caso opposto si ha un aumento della pressione fiscale complessiva con l’accensione di prestiti pubblici improduttivi (Sylos Labini 2004, p. 125).

Citando il pensiero di Pasinetti (ricordò il suo modello elaborato in Pasinetti 1998b), parlò di un debito sostenibile quando il rapporto D/Y resta stabile o diminuisce e sostenne la teoria della zona di sostenibilità/insostenibilità del debito.

La frontiera della sostenibilità/insostenibilità è definita da Sp/Y ≥ (i-g) D/Y:

- Con Sp si intende l’avanzo primario (l’avanzo del bilancio pubblico al netto del pagamento degli interessi);

- Y è il prodotto interno lordo; - i il tasso di interesse sul debito;

- g il tasso di crescita dell’economia o il saggio di aumento del prodotto nazionale; - D rappresenta il volume del debito.

Sp/Y indica la capacità del tesoro di coprire il pagamento degli interessi del debito, senza ricorrere ad altro debito.

Il saldo primario sul Pil come indicatore di sostenibilità del Pil dipende dalle variazioni e dall’andamento del rapporto Debito su Pil. Se quest’ultimo rapporto cresce andiamo incontro a problemi di sostenibilità del debito.

Il debito, però, è in aumento anche se il tasso di interesse sul debito o saggio di interesse medio è maggiore del tasso di crescita dell’economia (i>g). Se il rapporto D/Y rimane

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20 costante, la sostenibilità è visibile anche dalla differenza tra il saggio di interesse e saggio di aumento del prodotto (i-g).

La differenza (i-g) può anche annullarsi e accompagnarsi ad un saldo primario tra entrate e spese pubbliche nullo senza compromettere la sostenibilità, in quanto gli interessi sarebbero pagati con il ricorso a nuovi debiti, compensati dall’aumento del prodotto e il rapporto Debito su Pil, che rimane invariato. In questo modo possiamo evitare il ricorso alla pressione fiscale.

Il livello del debito D/Y dipende spesso da scelte passate e le inversioni nella politica economica dipendono dall’imporsi di nuovi indirizzi di politica fiscale, anche nel caso in cui siano imposti esternamente per assecondare nuovi processi. Tecnicamente il debito pubblico corrisponde all’accumulo dei deficit di bilancio coperti da emissioni di titoli, e solo in parte da contrazione di prestiti presso istituti di credito.

Molte volte un allontanamento dalla zona di sostenibilità è un segnale di ricerca o perdita di consenso da parte della classe politica. A volte si rimanda l’imposizione fiscale per evitare la perdita del consenso che rimane, invece, costante con l’utilizzo del debito pubblico.

La variabile (i-g) in una rappresentazione grafica rappresenterebbe il coefficiente angolare della retta che disegna la frontiera tra la zona di sostenibilità e di insostenibilità, nonché parte dell’onere sociale di Pasinetti. In riferimento alle variabili del modello quelle sotto il controllo dell’autorità politica risultano le entrate (T), la spesa pubblica (G), il saldo primario (Sp) e il debito (D).

Molte volte, però, incidono variabili al di fuori del controllo delle autorità governative come, appunto, il tasso d’interesse (i), il tasso di crescita del prodotto (g), la spesa per gli interessi sul debito (iD) e il Pil (Y). A metà tra le variabili sotto controllo e non monitorabili dalle autorità troviamo il tasso di interesse ed il livello dei prezzi (P). Per quanto riguarda il rapporto tra imposte, debito e consenso sociale, la sostenibilità o la insostenibilità del debito pubblico è un segnale del grado di consenso sociale. Lo stato non assume le sembianze di un attore superpartes che fornisce beni pubblici che i privati non sarebbero in grado di produrre. I gruppi sociali si scontrano tra di loro perché cercano di sfruttare meccanismi istituzionali per migliorare le proprie posizioni a svantaggio di altri.

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21 Anche la copertura di uno squilibrio di bilancio rientra nella logica dei rapporti tra governanti e governati, all’interno della quale le classi governanti cercano di mantenere il consenso sociale o di acquisirlo. L’alternativa tra l’imposta straordinaria e il debito è, così, una scelta politica perché attraverso il debito le classi dominanti sfruttano il meccanismo dell’illusione fiscale per nascondere lo scarto tra benefici della spesa pubblica e oneri fiscali.

Sul piano tecnico e finanziario il ricorso al debito rispetto all’imposta straordinaria è un mezzo più efficace per ottenere risorse in tempi rapidi. Secondo Einaudi, dal punto di vista politico è preferibile l’imposta straordinaria al debito nel caso in cui i governanti ritengano di avere un grande consenso. Il caso opposto avviene nel momento in cui i governanti intendono, invece, nascondere il costo del debito scaricandone l’onere sulle generazioni future. Il governo giocherebbe in questo caso sul legame prestito e“imposte-interessi”, ovvero i flussi di imposte nei prossimi esercizi sarebbero sotto forma di spese per interessi sul debito. In questo caso i governanti punterebbero al ricorso del debito per aumentare il consenso sociale del governo.

I mezzi di illusione fiscale, però, non sono sempre perseguibili e la classe dirigente può avvalersi dei meccanismi di illusione fiscale fino a che persista la sostenibilità del debito. In caso di debito fuori controllo si giunge alla disillusione fiscale prima e, poi, alla crisi fiscale dello stato. Sotto la soglia minima per rendere il debito sostenibile, i governanti rischiano di perdere il consenso sociale invece di acquisirlo.

Ecco, quindi, che siamo in presenza di tre soluzioni di rientro del debito nella zona di sostenibilità:

1) un rientro ortodosso con l’aumento dell’imposizione fiscale: la soluzione più complessa in caso di mancanza del consenso sociale nei confronti del governo;

2) l’ammortamento automatico del debito mediante una crescita adeguata del reddito nazionale, oltre a dipendere da condizioni in parte indipendenti dall’azione di governo, dipende dalla produttività delle spese pubbliche degli esercizi precedenti e non è detto che siano state tali quelle decise da governi deboli;

3) l’illusione fiscale può essere sostenuta dall’illusione monetaria: il livello dei tassi di interesse nominali può anche aumentare per esigenze di collocamento dei titoli di debito pubblico e recuperare la sostenibilità del debito se l’inflazione, conseguenza di una

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22 crescente monetarizzazione del debito, avvia un rapido ammortamento del medesimo in termini reali.

La terza soluzione è preferibile che sia adottata da governi con scarso consenso politico (Conti 2015).

Sylos Labini propose la sua versione della sostenibilità: ∑ [SP/Y - (i - g) D/Y] j

La somma cumulata della serie di valori dell’indice di convergenza/divergenza derivanti dal modello di Pasinetti è l’indice di sostenibilità tendenziale del debito (∑ [SP/Y - (i - g) D/Y] j). Essa si collega al grafico della convergenza/divergenza perché in caso di divergenza (valore negativo della variabile SP/Y - (i - g) D/Y) il valore della cumulata aumenta, nel caso di convergenza (valore positivo di SP/Y - (i - g) D/Y), il valore della cumulata si riduce. Analizzando il grafico in generale risulta evidente come, se il valore della cumulata continui ad aumentare in negativo, la linea della variabile D su Y salga di conseguenza come vedremo nei grafici.

Con lo sguardo ai grafici della sostenibilità è visibile come nelle fasi in cui il rapporto debito su Pil cresca, al contrario l’indice di sostenibilità scenda di conseguenza rafforzando la tesi che vede un debito insostenibile. Tutto questo succede nel primo decennio unitario e in qualche annata della seconda fase. Nell’età giolittiana al crollo del debito consegue un aumento in positivo dei valori dell’indice di sostenibilità, dando prova della sostenibilità del debito in quegli anni.

Nella fase della destra storica il valore della cumulata aumenta in negativo in modo esponenziale per effetto della permanenza nella zona di insostenibilità dovuto all’indice di divergenza (i valori di SP/Y - (i - g) D/Y sono tutti negativi). La fase della sinistra storica come sempre presenta valori in movimento e senza una tendenza precisa.

Notiamo che per la nozione di sostenibilità sia stato Sylos Labini a ispirarsi alla sostenibilità di Pasinetti ma quest’ultimo non conosceva la relazione del 1948 di Labini in cui anticipava di anni il tema del tasso di interesse e del tasso di crescita (Sylos Labini 2004, p. 125). Entrambi gli autori sono concordi sostanzialmente nell’importanza del rapporto D/Y con i problemi che ne derivano in caso di valori alti e di valori in ascesa e nell’altro confronto fondamentale fra il saggio i e il saggio g sia per quanto riguarda i prestiti privati che per i prestiti pubblici.

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23 Recentemente il professor Conti ha approfondito questo filone di ricerca della sostenibilità del debito mediante l’utilizzo del modello Sylos Labini - Pasinetti nella ricerca “Les sorties des dettes excessives depuis la formation de l’État italien (1861-2010)” dividendo l’analisi del debito pubblico italiano in 11 sottoperiodi.

La sua ricerca ha definito sostenibile il debito nel caso in cui: Sp/Y ≥ (i-g) D/Y

Sp/Y - (i-g) D/Y ≥ 0

mediante la separazione dalla zona di sostenibilità dalla zona di insostenibilità del debito (Pasinetti 1996, 1998a, 1998b) e Sylos Labini (1998, 2004).

Se il bilancio è in avanzo copre il secondo termine affinchè il valore sia superiore o uguale a zero. Ciò si verifica tutte le volte che il tasso di crescita dell’economia superi il tasso di interesse sul debito e nel caso inverso se il valore del secondo termine non sia maggiore dell’avanzo.

Se la differenza i-g è positiva, gli interessi sono più onerosi, mettendo in difficoltà le finanze e rendendo necessaria la riconversione del debito. In caso di disavanzo, la situazione è più complicata e il secondo termine deve essere positivo e coprire il livello del disavanzo affinché possano essere rispettate le condizioni della disuguaglianza. Nei casi contrari la finanza si muove in una zona di insostenibilità. Il livello del debito è il fattore cruciale. L’altro è dato dalla differenza (i-g).

Nel caso in cui tale differenza fosse nulla, con il saldo nullo, le finanze si manterrebbero costanti in una zona sostenibile qualunque fosse il livello D/Y. Il rapporto debito su Pil quindi non basta.

Altre variabili occorre analizzare, come il tasso di interesse che è una approssimazione dei tassi applicati sui vari scaglioni di debito. La spesa per interessi incorpora le condizioni strutturali del debito dipendenti dai tassi di interesse negoziati all’emissione dei prestiti. Gli interessi pagati correntemente pesano sull’utilizzo delle entrate e delle capacità del governo di prelevare nuove tasse, ridurre le spese e accendere nuovi prestiti. La crescita del prodotto g, incorpora il tasso di inflazione. L’inflazione o la deflazione svolgono un ruolo di alleggerimento o meno del peso del debito. Notiamo, però, che se l’economia cresce, le finanze statali non incorrono a problemi. Il problema è che anche

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24 un rallentamento temporaneo può mettere in pericolo la sostenibilità (Conti e Della Torre 2015).

Il nostro stato non ha mai avuto fenomeni di crisi fiscale; tuttavia sono sempre esistiti rischi di destabilizzazione nelle relazioni sociali e politiche anche in situazioni di conti in ordine o in fasi di riordino. L’andamento dell’indice di sostenibilità ci aiuta a capire quando lo stato italiano fosse in una zona di sostenibilità o insostenibilità. Gravi fasi di insostenibilità si verificarono negli anni 1862-1873, 1888-1890. Gli altri periodi dell’Italia liberale (1861-1913) sono di sostenibilità tendenzialmente crescente o stazionaria (Conti 2007).

Notiamo, quindi, che le maggiori crisi di insostenibilità si inserirono nel periodo dall’Unità al 1897 con la situazione del debito pubblico pericolante, a volte segnata da qualche miglioramento ma fortunatamente l’età giolittiana fu segnata dalla crescita industriale e dal bilancio in avanzo ed è possibile definirla come l’età della sostenibilità del debito all’interno del nostro cinquantennio in analisi.

Premessa metodologica

Variabile singola

Grafici e variabili coinvolte

Sp/Y

Avanzo primario su Pil

i-g Sp/Y i g Sp/Y D/Y Sp/Y D/Y Sp/Y T/Y G/Y

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25 D/Y

Rapporto debito su Pil

Sp/Y D/Y D/Y Indice di sostenibilità Sp/Y (i-g) D/Y iD/Y D/Y g D/Y Indice di convergenza/divergenza Pasinetti Sp/Y-(i-g) D/Y Indice di sostenibilità D/Y

Onere sociale del debito

Indice di sostenibilità ∑ [SP/Y - (i - g) D/Y] j Labini Indice di sostenibilità D/Y Indice di sostenibilità T/Y G/Y Indice di convergenza/ divergenza i tasso di interesse i g i-g i g iD/Y D/Y g

tasso di crescita del Pil g D/Y i g iD/Y D/Y i g i-g

Onere sociale del debito t= (i-g) D/Y

Onere sociale positivo Onere sociale negativo

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26 questo valore

costituisce anche la frontiera della sostenibilità del debito. i-g

differenza tra il tasso di interesse e il tasso di crescita. i-g Sp/Y i g (i-g) T/Y Entrate su Pil T/Y G/Y T/Y G/Y iD/Y T/Y G/Y iD/Y P/Y T/Y G/Y Indice di sostenibilità G/Y Spese su Pil T/Y G/Y T/Y G/Y iD/Y T/Y G/Y iD/Y P/Y T/Y G/Y Indice di sostenibilità P/Y Prezzi su Pil T/Y G/Y iD/Y P/Y

La presente tabella indica le singole variabili nelle colonne a sinistra mentre nella parte destra indica i grafici dove sono inserite e i grafici da confrontare insieme per aver una maggiore comprensione dell’argomento.

I dati delle rappresentazioni grafiche mi sono stati forniti dal professor Giuseppe Conti che ringrazio anche per gli importanti consigli sulla creazione dei grafici.

Dalle linee tratteggiate è possibile scorgere le varie sottofasi che rispecchiano la divisione dei capitoli con i relativi governi, visibili nelle appendici.

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27 Nel primo capitolo la destra storica ebbe nel primo decennio unitario il difficile compito di riequilibrare i conti pubblici e di unificare lo Stato italiano.

Nel secondo capitolo la sinistra storica ha preso il posto della destra dopo il raggiungimento del pareggio di bilancio portando a termine anche importanti riforme. Nel terzo e ultimo capitolo dell’età giolittiana il paese raggiunse il decollo industriale dopo il superamento della grande depressione che riguardò tutto il mondo.

Avvertenza:

Nella descrizione dell’andamento delle variabili quando si parla, ad esempio, del biennio 1862-‘63 intendiamo che il trend della variabile sia in salita o discesa nel passaggio dall’anno 1862 al ‘63 a seconda della variabile di cui stiamo parlando.

A volte sono stati specificati questi passaggi ma, per evitare inutili ripetizioni, abbiamo optato per questa soluzione.

Quando citiamo i grafici con la loro numerazione rimandiamo esclusivamente all’appendice generale dell’Italia liberale. Quando parliamo dei governi e delle tabelle bisogna fare riferimento alle Appendici di ogni singolo capitolo.

Cap.1 LA CRESCITA DEL DEBITO E IL CONTROLLO DELLE FINANZE (1862-71)

Par.1 La formazione dello Stato e i problemi delle finanze

La storia del regno d’Italia iniziò il 17 marzo 1861: precisamente con la legge n. 4671 si stabilì che il “Re Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia”.

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28 L’unificazione fu molto rapida e la classe politica del tempo si rese conto immediatamente delle conseguenze del consolidamento del nuovo Stato.

Bastogi, il primo ministro delle finanze, fissò le priorità finanziarie ed economiche del governo e si prefisse il raggiungimento dei seguenti obiettivi:

- l’unificazione del debito pubblico;

- fronteggiare le esigenze finanziarie del nuovo stato e ridurre progressivamente il deficit di bilancio;

- unificazione dell’amministrazione finanziaria secondo le esigenze di unità politica in base ad un riordino e ad un decentramento amministrativo (Conti e Scatamacchia 2009).

La nostra nazione si formò sulla spinta patriottica nell’interesse della borghesia e delle classi povere che vedevano vantaggi dall’allargamento del mercato e dalla modernizzazione della produzione e dell’economia in generale.

Vari studiosi giudicarono il processo di unificazione troppo rapido. Infatti furono uniti vari stati con diversi governi (liberali e dittatoriali); diversi modelli di amministrazioni (alcune centralizzate, altre più periferiche); diversi modelli economici (al nord si diffusero le grandi imprese, al contrario del sud); consistente fu la presenza e la prevalenza nell’Italia settentrionale dell’industria sul modello agricolo.

Il sud Italia non conosceva la gran parte dei tributi estesi a tutto il paese. Il dibattito in quegli anni sull’imposizione fiscale del Regno vedeva contrapposti i sostenitori dell’aggravio delle imposte esistenti in ogni stato preunitario, e chi invece era per un ordinamento tributario nuovo, uniforme e comune in tutto il Regno. Alla fine prevalsero i sostenitori del processo di unificazione totale e Bastogi propose il riordinamento delle tasse indirette di registro, di bollo e sulle concessioni governative. Inoltre fu estesa a tutto il paese l’imposta sulla manomorta e l’imposta sul movimento ferroviario (Marongiu 2010, p.41-42).

Come se non bastasse, le differenze emergevano anche da un punto di vista di sistemi monetari (bimetallismo o monometallismo basato sull’argento o l’oro). Critiche erano anche le differenze nel mercato finanziario; nel mercato piemontese era abbondante la

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29 circolazione di titoli privati (come le azioni) mentre nel Regno delle due Sicilie era prevalente la circolazione dei titoli pubblici.

Il sistema bancario nell’Italia settentrionale aiutava gli industriali ed i commercianti mentre al sud non faceva altro che sostenere le finanze statali. I governanti, quindi, non optarono per la gradualità cercando di ridurre le differenze esistenti. Purtroppo la scelta ricadde sull’imposizione alla nazione italiana di tutti i sistemi politici, amministrativi, economici e finanziari esistenti nel Piemonte.

In seguito a questi cambiamenti del sistema statale aumentarono in modo consistente le spese e, contemporaneamente, non aumentò il gettito tributario fino al 1863, anno in cui si approvarono le imposte di registro, bollo, quelli sui beni di manomorta, sulle società industriali e sulle ipoteche.

I disavanzi di bilancio furono coperti sin dall’inizio ricorrendo all’emissione di nuovi titoli del debito pubblico. Nitti, a differenza di Scialoja, evidenziò il dissesto delle finanze del Piemonte ed esaltò la gestione delle finanze dei Borboni rilevando la semplicità del sistema tributario al sud, al contrario di quello del nord, caratterizzato da un eccesso di carichi tributari che non furono in grado di coprire le numerose spese.

Il regno di Sardegna aveva un elevato debito pubblico diversamente dal Regno di Napoli, che presentava anche un avanzo di bilancio di ben 9 milioni di lire pur non favorendo la crescita industriale, civile e culturale della popolazione. Quindi fu esteso il sistema tributario piemontese a tutto il regno e le numerose spese, tra cui quelle militari, fecero aumentare l’indebitamento.

L’abolizione delle dogane fra gli stati non facilitò le finanze pubbliche e fu così che il governo dovette far approvare provvedimenti straordinari come la vendita dei beni demaniali e ricorrere ai prestiti pubblici (Balletta 2011, pp. 179-180).

Il nostro stato unitario ha svolto un ruolo fondamentale come operatore finanziario, un ruolo sottolineato anche da Bonelli, come artefice del cambiamento dell’economia del paese.

La politica fiscale fu il principale strumento per l’accumulazione delle risorse per promuovere i grandi processi di accumulazione di capitale fisso sociale e di ammodernamento civile nei primi anni del regno (Marongiu 2010 p.19 introduzione).

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30 I problemi maggiori che turbavano il sonno dei politici dell’epoca possono essere classificati nelle categorie dei problemi di politica interna ed estera. Guardando all’interno dei nostri confini era evidente l’esigenza di opere pubbliche per collegare il paese e favorirne lo sviluppo industriale. I settori primario e secondario della nostra economia erano arretrati rispetto agli altri paesi, l’analfabetismo era diffuso, vi erano molte malattie endemiche e il brigantaggio spadroneggiava.

La nazione aveva bisogno di un’opera di unificazione legislativa, amministrativa e monetaria; occorreva anche riorganizzare l’esercito e la marina per fronteggiare eventuali attacchi e, ultimo ma non meno importante, era presente il grande problema del deficit statale e del già citato debito pubblico italiano, che lievitava giorno dopo giorno.

Così il Plebano: “Contenere la spesa pubblica in così ristretti confini che potessero bastare ad essa le risorse derivanti da un mite e riguardoso ordinamento tributario, sarebbe stato senza dubbio desiderabile, ma non era possibile nei primi tempi della vita nazionale… Da tre principali fonti prendeva alimento il crescere delle pubbliche spese, o traevano origine le difficoltà a limitare talune di esse: le necessità militari, le opere pubbliche, l’ordinamento amministrativo del paese” (Plebano 1997, p. 2).

Nell’ambito della politica estera, Cavour, con la sua abilità diplomatica, aveva stretto rapporti d’affari con Inghilterra e Francia nel corso degli anni. Con quest’ultimo paese, però, era in atto una tensione costante a causa della questione romana.

L’Austria era il nostro principale nemico per le guerre di indipendenza e con il Papato ci furono sempre frizioni perché lo stato pontificio era protetto dai francesi. L’occupazione di Venezia e Roma furono nodi irrisolti per vari anni.

Tra i problemi dell’Unificazione della penisola, come anticipato, vi erano: il regolamento dei rapporti di conversione delle monete degli antichi stati con la lira italiana e il riconoscimento o meno di alcuni debiti, che diversi stati preunitari avevano nei confronti di alcune famiglie spodestate.

La nostra penisola, infatti, è sempre stata influenzata per secoli dalle divisioni politiche, dalle invasioni di stati stranieri e dall’assolutismo dinastico od oligarchico; questo fa capire come la nascita dello stato italiano fosse un evento epocale.

Nel periodo 1860-1871, tuttavia, non ci fu una cesura netta tra il periodo risorgimentale e quello dell’Italia unita perché esisteva una continuità tra essi.

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31 Una cesura più profonda si era verificata, invece, più nella prima metà del secolo diciottesimo quando, dopo la crisi seicentesca, la borghesia cominciò il suo sviluppo in tutti gli stati italiani e in quegli anni il nostro paese cominciò a rapportarsi con gli altri paesi europei.

Le dinastie straniere, insediandosi, hanno indubbiamente dato l’impulso al progresso ed al rinnovamento e da allora l’Italia ha intrapreso la via per divenire uno stato moderno (Candeloro, 1968, pp. 9-10). Un percorso tortuoso in cui rientra anche il periodo del Risorgimento (il periodo dalla fine del Settecento al 1860), caratterizzato dalla rivoluzione borghese e dalle lotte per l’indipendenza e l’unità nazionale.

Per la rivoluzione borghese si notò un compromesso tra i gruppi dei capitalisti agrari, mercantili e, in piccola parte, industriali ed i gruppi di proprietari terrieri borghesi con ancora il carattere feudale e semifeudale nei rapporti con le masse dei contadini. La classe dirigente liberale formatasi nel Risorgimento ha offerto un contributo importante pur presentando al suo interno un’anima progressista ed una conservatrice con quest’ultima che prevalse arrivando a spingere la classe politica citata su posizioni reazionarie. Oltre al problema politico, in quegli anni di trait d’union tra il Risorgimento e l’Italia unita, esisteva un problema importante che era quello delle condizioni dei contadini, soprattutto nel mezzogiorno. Un dilemma che si ripresenterà molte volte nel corso della vita politica del paese, compresi i tumulti contro gli odiati tributi, tra cui il più tristemente famoso: quello sul macinato (Candeloro, 1968, p.12).

Gli schieramenti protagonisti della scena politica italiana in questa fase furono prevalentemente la Destra storica e la Sinistra storica. Il sistema elettorale era maggioritario e mancava un orientamento unico dei partiti con i componenti che spesso agivano per orientamenti personali, permettendo il nascere del fenomeno del “trasformismo” dagli anni ‘80.

La destra storica seguiva un pensiero liberale e propugnava uno stato accentratore. Composta da cavouriani e da liberali moderati, rappresentava la borghesia agraria e l’aristocrazia per cercare di formare uno stato laico, risolvere la questione romana con la diplomazia, realizzare l’accentramento amministrativo oltre al perseguimento di una politica economica di stampo liberista.

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32 La sinistra storica, invece, era formata da democratici, dalla vecchia sinistra costituzionale piemontese mentre l’estrema sinistra era composta da garibaldini e mazziniani. La sinistra puntava anch’essa alla formazione di uno stato laico ma voleva risolvere la questione romana e veneziana anche con la forza; al contrario dei suoi avversari sosteneva il decentramento amministrativo e varie riforme democratiche con l’allargamento del suffragio universale.

Un segnale della continuità con il Piemonte, poi, compariva anche solo alla lettura delle carte parlamentari in cui svettava la scritta “ottava legislatura” e non “prima legislatura”. Per quanto riguarda l’intestazione degli atti e il titolo reale ci fu un’ulteriore prova dell’insensibilità del nuovo regno.

Il parlamento seguiva i dettami reali alla lettera e la formula dei documenti ufficiali era la seguente: “per grazia di Dio e volontà della nazione, re d’Italia”. “Re d’Italia” era infatti una dizione arcaica; forse sarebbe stato meglio usare la formula “re degli italiani” per far vedere un cambiamento; così, invece, il nuovo regno apparve come frutto di una conquista del regno di Sardegna.

Vittorio Emanuele non fece alcuno sforzo per farsi amare dal popolo. Non visitò, se non sporadicamente, le varie zone del paese e voleva che la nazione di identificasse nella sua figura e non viceversa. Di conseguenza questo non gli fece acquisire le simpatie di gran parte del popolo italiano (Duggan 2013, p.265-266).

Con le prime elezioni politiche del Regno d’Italia, l’elezione della Camera dei deputati si basava, inoltre, sul voto di un elettorato ristretto. L’elettorato attivo era basato sulla legge del 1848, modificata nel 1859 e poi estesa successivamente a tutto il Regno con legge 31 ottobre 1860, n. 4385. Questo provvedimento limitava il voto esclusivamente agli elettori di sesso maschile alfabetizzato che godevano dei diritti civili e politici e che pagavano imposte dirette sul censo per 40 lire almeno.

L’elettorato, a causa di questi requisiti, era molto limitato: circa il 2 % della popolazione italiana. I votanti potevano essere iscritti alle liste elettorali su iniziativa autonoma negli uffici comunali per essere ammessi alle votazioni oppure i consigli comunali includevano nelle liste gli aventi diritto al voto. Il sistema elettorale era basato sul collegio uninominale a due turni, di ispirazione francese (epoca della restaurazione). La Camera era espressione della gerarchia sociale e dei rapporti esistenti nel paese; una camera di “notabili” come fu definita dagli storici (Ballini e Ridolfi, 2002, p. 2).

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33 Un problema storico reale era il rapporto dello Stato italiano col cittadino e con la società civile (Caracciolo 1960, p.13), e l’elettorato ristretto era un sintomo della scarsa identificazione del popolo con la nazione.

I collegi erano convocati dal re e Cavour si era preoccupato dei reati che avrebbero potuto manifestarsi durante le elezioni politiche. Tanto che presentò un disegno di legge prima del 1859 per prevenire le irregolarità e i brogli ma il provvedimento non fu mai portato a termine anche per la sua morte.

Il nuovo codice penale provvederà successivamente con qualche punizione per l’attentato al libero esercizio dei diritti politici. Nelle prime elezioni del Regno un quarto dei candidati nell’età della Destra non ebbe rivali a causa del candidato unico nei collegi. Molto frequenti furono i ballottaggi nella restante parte dei collegi. Le candidature come per l’elettorato attivo, erano quasi sempre di “notabili” che con le loro conoscenze mobilitavano i propri elettori.

Nel caso di candidati “ministeriali” il prefetto assumeva un ruolo attivo. Le candidature erano promosse dalle associazioni costituzionali e dai comitati elettorali ma qualche anno dopo l’unificazione non c’erano già più stabili organizzazioni a livello nazionale o regionale. Dopo la caduta della Destra nel 1876 esistevano solo associazioni costituzionali centrali che inglobavano le precedenti associazioni nazionali sparse per il paese.

La Sinistra provò anche ad organizzarsi a livello nazionale e periferico. La propaganda dei candidati si svolgeva con l’ausilio di periodici, numeri unici e lettere agli elettori. Immancabili erano i banchetti politici, mentre i radicali prediligevano i comizi (Ballini e Ridolfi, 2002, pp. 4-5).

Il nuovo Regno d’Italia era una monarchia parlamentare e alle prime elezioni Cavour era molto convinto della sua potenziale maggioranza nelle camere. Nel gennaio 1861 furono indette le prime elezioni del nuovo stato che furono senza storia per il grande consenso di cui godeva il conte. Vinse il partito moderato dello statista e fu la prima camera italiana con la legge elettorale piemontese basata sul censo. Il papato era per il non expedit e la sinistra conquistò meno del 20% con Garibaldi, che fu eletto deputato a Napoli.

L’11 aprile Cavour ordinò la smobilitazione dell’armata meridionale di Garibaldi. Nel frattempo Mazzini cospirava nel sud Italia contro il nuovo regno e Crispi, allora deputato

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34 siciliano, ebbe degli screzi con il re e Cavour che non vollero conoscerlo. Questa ottusità politica si vide anche in campo militare dove Cavour, appunto, sciolse l’esercito meridionale e fu riluttante a favorire l’inserimento degli ufficiali e dei volontari garibaldini nell’esercito. In parte questo rifiuto poteva essere motivato dalle irregolarità contabili di alcuni uomini che risultavano iscritti in più reggimenti per avere più paghe e da una parte di loro che si era arruolata per avere un lavoro sicuro.

In realtà, purtroppo, vi era un pregiudizio verso i soldati e ufficiali meridionali e una mancanza di riconoscimento del loro contributo che aveva favorito l’unificazione del regno.

Le polemiche parlamentari non si placarono quando Garibaldi in parlamento accusò il governo di aver provocato “una guerra fratricida” tra le due parti del paese e protestò vigorosamente per il trattamento riservato ai suoi uomini chiedendo la riorganizzazione dell’armata meridionale. Soltanto una piccolissima parte dei volontari venne accolta nelle file dell’esercito regolare: i vertici più importanti mentre la restante parte dei volontari fu congedata con un premio pari a 6 mesi di paga.

In questo caso furono Cavour e Garibaldi a non stringersi la mano nonostante la mediazione del re (Duggan 2013, pp.267-270).

Un ulteriore conflitto diplomatico interno fu dovuto ai tentativi di Pantaleoni e Passaglia per negoziare il potere temporale con il papato. Pio IX, però, respinse ogni forma di accordo.

Come abbiamo visto, secondo la legge elettorale piemontese aveva il diritto di voto il cittadino che pagava almeno 40 lire d’imposta all’anno oppure aveva una laurea o una qualifica professionale. Il bacino elettorale era esiguo (circa 420 mila elettori): un maschio su dieci di età superiore ai 25 anni, contro un quinto dell’elettorato britannico dell’epoca.

L’elettorato era ristretto perché era considerato una garanzia il fatto che il paese sarebbe stato governato da uomini istruiti e informati. La maggioranza degli elettori, tuttavia, appoggiò Cavour anche per il ruolo che lo statista ebbe negli anni precedenti la formazione del regno.

Quel che era evidente era la scarsa esperienza di governo parlamentare, fatta eccezione per i piemontesi. La breve permanenza di Giuseppe Verdi come parlamentare, per

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