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I racconti di Earl Lovelace. Analisi e traduzione.

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE

p. 2

CAPITOLO 1

1.1

La Short Story nei Caraibi

p. 3

1.2

Earl Lovelace: biografia e produzione

p. 8

CAPITOLO 2

2.1

Scrittura e traduzione postcoloniale

p. 14

2.2

Le lingue di Trinidad e Tobago

p. 19

2.2.1

Nascita delle lingue creole

p. 19

2.2.2

Creole Continuum

p. 21

2.2.3

La situazione linguistica di Trinidad e Tobago

p. 23

2.3

Il linguaggio di Earl Lovelace

p. 25

CAPITOLO 3

3.1

A Brief Conversion and Other Stories. Traduzione

p. 30

CAPITOLO 4

4.1

Analisi della traduzione

p. 137

4.1.1

Un autore source-oriented

p. 137

4.1.2

Tradurre Earl Lovelace

p. 139

4.1.3

Analisi delle principali strutture sintattiche

p. 143

nei racconti di Lovelace e delle scelte traduttive

CONCLUSIONE

p. 151

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2

INTRODUZIONE

Il linguaggio degli autori caraibici è, per le sue caratteristiche di mixture, estremamente affascinante. Earl Lovelace, nei racconti che mi appresto a tradurre e analizzare, utilizza diversi stili e registri di lingua inglese, regionalismi, termini dialettali e folkloristici, tutte sfide entusiasmanti sfide per un traduttore.

Dato che per un autore postcoloniale il contenuto delle opere e la forma in cui le scrive sono strettamente collegati, ho ritenuto indispensabile presentare in questo elaborato l’ambiente geografico, politico e culturale nel quale opera l’autore da me scelto. Per questo motivo ho eseguito una panoramica della storia letteraria e linguistica nei Caraibi, della vita dell’autore, e soprattutto delle caratteristiche e dell’uso che fa del linguaggio.

Successivamente ho tradotto i racconti della raccolta A Brief Conversion and Other Stories, e sono poi passata ad analizzarne caratteristiche lessicali e sintattiche, spiegando di volta in volta, con l’ausilio di esempi, le motivazioni delle mie scelte traduttive.

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CAPITOLO 1

1.1 La Short Story nei Caraibi

La tradizione della short story nei Caraibi, talmente radicata che secondo Kenneth Ramchand “non esistono scrittori di romanzi nelle Indie Occidentali, ma soltanto scrittori di short story in incognito”1, risale al diciassettesimo secolo e coincide con la nascita della stessa letteratura caraibica, grazie all’incontro di due tradizioni narrative: i resoconti scritti dai coloni europei (diari di viaggio, quotidiani, rapporti ufficiali, racconti dei missionari, opere pro e contro l’abolizionismo della schiavitù ecc.), che forniscono uno spaccato sociale e storico sulla vita nei Caraibi, e la tradizione orale degli schiavi africani, asiatici e nativi americani.

Naturalmente gli scritti degli europei non possono essere considerati una vera e propria forma di letteratura caraibica, poiché gli autori appartenevano alla classe dominante, che non si identificava affatto con il tessuto sociale dei Caraibi; nelle loro opere venivano descritte la nascita e i processi di formazione delle lingue creole, si sottolineava la tendenza dell’uomo di colore a preferire i paroloni e le frasi altisonanti, al raccontare con tono d’importanza, con vanterie e spacconate – tendenza che gli europei, dall’alto del loro senso di superiorità, scambiavano per uno sforzo di parlare un inglese più corretto. Si annotavano le differenze culturali – sempre con un marcato distacco – in materia di credenze, superstizioni, usanze; si registravano descrizioni di paesaggi, della natura, delle pratiche agricole.

In modo del tutto inconsapevole, questi resoconti gettavano le basi della letteratura caraibica: il contenuto, e soprattutto la forma episodica di queste digressioni descrittive inserite in opere non narrative, mostravano i lineamenti, seppur ancora nebulosi, della short story.

La tradizione orale che contribuì moltissimo allo sviluppo della short story caraibica fu quella degli schiavi, in particolare di quelli africani; dopo un processo di transculturazione e di reinvenzione, in cui la nuova realtà sociale e geografica apportò le sue inevitabili modifiche, il racconto popolare africano ha costituito la principale base socioculturale su cui si è delineata la short story caraibica. Lo scopo del racconto africano non era limitato all’intrattenimento, ma conteneva anche l’intento didattico di trasmettere valori morali e culturali alla comunità.

1 Kenneth Ramchand, “The West Indian Short Story”, Journal of Caribbean Literatures, Vol. 1, No. 1, pp.

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La persona designata alla narrazione cominciava con una formula di apertura, che annunciava il titolo del racconto, alla quale il pubblico doveva rispondere. Il coinvolgimento degli ascoltatori prevedeva che interrompessero, offrissero correzioni e cantassero le canzoni incluse nelle storie – legate strettamente alla danza e alla musica. Raccontare storie esigeva dunque un atto creativo tanto da parte del parlante quanto da parte del pubblico.

I soggetti dei racconti erano spesso di natura soprannaturale, e nei Caraibi si riscontra ancora una serie di creature che popolano storie e leggende e che sono dirette discendenti dei miti africani: obeah,

duppy, rolling calf, la diablesse, soucouyant2.

Alcuni racconti appartenevano a cicli in cui gli argomenti e gli avvenimenti erano strettamente collegati fra loro, e il cui protagonista era di solito il ragno imbroglione, Ananse3. Nella letteratura caraibica questa figura è un elemento che ricorre nelle famose anancy stories, che hanno come protagonista un eroe/truffatore.

La prima comparsa di un adattamento letterario della figura di anancy avvenne nella raccolta Maroon

Medicine (1905) di Edward A. Dodd, il quale scriveva in un inglese giamaicano che spaziava dal

dialetto più stretto al giamaicano standard. Nelle sue storie, caratterizzate da un’ambientazione rurale, l’astuto Mr. Watson sfrutta le sue risorse per arricchirsi: vende ai creduloni abitanti del villaggio pozioni miracolose, conduce un commercio illegale di rum sotto gli occhi della polizia, ecc.

Proprio come la figura dell’imbroglione, anche gli altri elementi del racconto africano sono passati nella short story caraibica (naturalmente rielaborati dal tempo e dalla differente cultura): la formula di apertura, la partecipazione del pubblico, lo schema ciclico.

La formula di apertura è rappresentata nelle short story dall’uso di canzoni e poesie all’inizio del racconto; il coinvolgimento del pubblico è espresso dalla voce che si rivolge direttamente al lettore, che ottiene così un ruolo attivo nella lettura e può condividere la prospettiva del narratore o partecipare alla situazione descritta nella storia. Infine, lo schema ciclico è reso dalla struttura narrativa delle raccolte, o cicli, di racconti, come A Brief Conversion and Other Stories di Lovelace. Un ciclo di racconti è caratterizzato dalla ripetizione di personaggi, temi, luoghi, simboli ed eventi; e come sostiene Susan Garland Mann, “c’è solo una caratteristica essenziale del ciclo di racconti: le storie sono sia autonome che interconnesse. Da una parte, funzionano indipendentemente l’una dall’altra: il lettore è capace di capire ciascuna di esse senza andare oltre i limiti della singola storia.

2 Obeah è una pratica magico-religiosa proveniente dall’Africa Centrale e Occidentale, che viene associata

alla magia sia bianca che nera; duppy significa spirito, fantasma; rolling calf è un vitello dagli occhi fiammeggianti ricoperto di catene che insegue le persone; la diablesse è una donna orribile, all’apparenza bellissima, che conduce gli uomini su sentieri solitari e alla morte; soucouyant è una vecchia che muta forma, trasformandosi in una palla infuocata, e di notte succhia il sangue della gente.

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Dall’altra parte… la capacità del ciclo di racconti di estendere la discussione – di funzionare su scala più ampia – assomiglia a ciò che si ottiene con il romanzo.”4

Al racconto africano e ai suoi modelli strutturali si aggiungevano il racconto umoristico, l’aneddoto, la ballata e il calipso: un insieme di forme di narrazione orale che diedero una spinta considerevole allo sviluppo della short story nei Caraibi.

Oltre a questa base narrativa a cui attingere, un altro importante fattore di crescita e diffusione della

short story si ritrova negli stessi abitanti delle Indie Occidentali, e nella loro marcata propensione

all’ascolto e al racconto, o come lo definisce Kenneth Ramchand, “l’istinto dell’autore caraibico per la short story”5.

Un esempio lampante dell’alta considerazione in cui sono tenute le storie, della loro importanza nella società caraibica, si trova in un racconto di Earl Lovelace, A Brief Conversion; il bambino protagonista, Travey, gironzola per le strade di Cunaripo e offre una ricca descrizione dei suoi abitanti:

Adesso lo Scienziato si aggira per le strade con una smorfia sul viso e ogni tanto batte violentemente la testa contro il legno del palo del telefono. Britain, nel suo eterno vestito rosso, bianco e blu; Graham, con la sua ernia, Piedi Belli, il nostro travestito; Pollo, che canta ancora come il galletto che ha rubato a Mamma Alice; la sacerdotessa Shango. Queste sono le nostre celebrità. Le loro avventure, le lotte, i momenti di follia, i motti, questi sono gli argomenti delle nostre conversazioni. E quasi ognuno di loro è una storia: orgoglio caduto; ambizione andata troppo in là. Ogni storia termina vittoriosamente con una sconfitta, un pentimento, una scusa. Questo era il nostro folklore. Fino a quel giovedì sera, non li avevo mai considerati tutti insieme in quel modo. Fu allora che sentii il peso delle loro scuse e sconfitte per la prima volta; e per la prima volta, guardai la nostra città.6

Secondo Louis James esiste anche una motivazione di tipo geografico che spiegherebbe perché la

short story è un genere letterario particolarmente fiorente nei Caraibi: l’area caraibica è infatti

composta da territori piccoli ed eterogenei, che non avevano né le strutture editoriali, né un pubblico di lettori abbastanza vasto per garantire la pubblicazione di lunghi romanzi. Gli scritti brevi, invece, avevano le caratteristiche ideali per essere inseriti nei quotidiani e nelle riviste locali: ecco che, a

4 Susan Garland Mann, The Short Story Cycle: A Genre Companion & Reference Guide.

5 Kenneth Ramchand, “The West Indian Short Story”, Journal of Caribbean Literatures, Vol. 1, No. 1, pp.

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partire dal diciottesimo secolo, giornali e riviste divennero il mezzo grazie al quale nacque la short

story caraibica, e di conseguenza, una vera e propria tradizione letteraria.

Tra fine Ottocento e inizio Novecento, i giornali, le riviste e le pubblicazioni locali contenevano, oltre ad articoli che riflettevano gli interessi sociali, culturali e commerciali delle classi più alte, anche la cronaca dei gruppi più “bassi” della popolazione: rivolte, casi del tribunale che coinvolgevano neri, mulatti e indiani, attività culturali e religiose, interazioni tra differenti classi e razze, a volte persino contributi in prosa o in versi scritti in dialetto. Dice Ramchand, “in questi scritti il confine tra realtà e finzione, tra fatto accaduto e invenzione è difficile da distinguere, e col passare del tempo alcuni di essi finiscono per assomigliare a bozzetti o a brevi racconti”7.

Grazie alla natura degli articoli su riviste e quotidiani, si delinearono i temi principali delle raccolte di racconti che comparvero sulla scena letteraria caraibica a partire dal sopracitato Maroon Medicine nel 1905: humour e comicità, povertà, razza, colore della pelle; la classe lavoratrice e povera; il problema dell’imitazione culturale.

Alla fine degli anni ’20 e durante i ’30 e i ’40, nelle varie isole caraibiche fiorirono innumerevoli riviste dedicate esclusivamente alla letteratura (poesia e short story): ancora prima delle famose e più recenti Bim (1942), Kyk-over-al (1945) e Focus (1943, 1948, 1956, 1960), in Jamaica c’era The

Planter’s Punch (1920-44), nelle Barbados c’erano The Outlook (1931-32), Weymouth Magazine

(che pubblicò soltanto quattro numeri dal 1943 al 1949), e Forum Quarterly (1931-34); a Trinidad

Quarterly Magazine, Trinidad (1929-30), che fu poi sostituito dalla rivista mensile The Beacon.

Il Beacon era pubblicato da Albert M. Gomes, che insieme agli scrittori e attivisti politici C.L.R. James e Alfred Mendes, costituiva il cuore del cosiddetto Beacon Group.

Il più grande risultato del periodico fu di incoraggiare gli scrittori delle Indie Occidentali a riflettere sulla propria società; le short stories pubblicate sul Beacon erano profondamente immerse nel contesto culturale di Trinidad, perché erano connesse alle altre arti, tra cui cinema e pittura, e anche alla cultura popolare (religione, calipso, folklore).

Il Beacon fu una delle prime riviste i cui membri venivano incoraggiati ad articolare le loro opinioni politiche e la loro affinità per temi sociali; il senso di responsabilità sociale dell’artista si esplicitò letterariamente nella cosiddetta yard fiction, ovvero narrazioni che ruotavano attorno alla povertà urbana.

Altro merito degno di nota degli scrittori del Beacon fu quello di aver saputo dipingere con maestria la vita e le tradizioni locali, introducendole così nel panorama della letteratura delle Indie Occidentali.

7 Kenneth Ramchand, “The West Indian Short Story”, Journal of Caribbean Literatures, Vol. 1, No. 1, pp.

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Il Beacon chiuse i battenti nel 1933, anche se fu brevemente riportato in vita da Albert Gomes nel 1939. Nonostante la sua breve esistenza, il periodico segnò la nascita della short fiction di Trinidad e di una letteratura nazionale.

L’assenza di un’industria editoriale, combinata con la scarsità di pubblico (a causa dell’elevato tasso di analfabetismo) e con i gusti dei pochi lettori più orientati verso la letteratura inglese, spinse gli scrittori caraibici a emigrare in Inghilterra, Canada o Stati Uniti. Una volta all’estero, questi autori iniziarono a scrivere romanzi, la forma letteraria preferita dagli editori, e il loro successo provocò un crescente interesse nella letteratura caraibica.

Nonostante il romanzo fosse diventato il genere letterario principale, la produzione di short fiction continuò anche negli anni ’50 e ’60; per molti autori, come V. S. Naipaul e Samuel Selvon, i racconti diventarono lo spazio in cui esplorare un’ampia gamma di temi e di strutture narrative.

Fu negli anni ’70 e ’80 che la tradizione della short story si riaccese notevolmente grazie all’emergere di un consistente gruppo di scrittrici, tra cui Olive Senior, Merle Collins, Velma Pollard, Lorna Goodison, Jamaica Kincaid, che cominciarono a utilizzare la forma del racconto come un efficace mezzo espressivo di narrazione. Seguendo l’esempio delle donne, anche gli autori uomini, scrittori di romanzi, riscoprirono il racconto come mezzo narrativo. Il caso di Earl Lovelace è esemplare: prima dei racconti di A Brief Conversion and Other Stories, aveva scritto quattro romanzi e la raccolta di opere teatrali Jestina’s Calypso and Other Plays.

Le pubblicazioni sui periodici furono la rappresentazione fisica del luogo in cui la tradizione orale si mescolava alla tradizione narrativa europea.

All’inizio del ventesimo secolo i giornali e le riviste dei Caraibi ne dipingevano i fatti di cronaca e gli avvenimenti sociali e culturali, creando così una nuova forma di narrazione.

Proprio in questi articoli, in cui tradizione scritta europea e tradizione orale africana, asiatica e nativa americana si intrecciavano, nacque un nuovo genere letterario. Così, tracciando uno studio sincretico della nascita della short story caraibica, si può convenire che la tradizione europea abbia fornito il mezzo linguistico (la lingua del colonizzatore, poi modificata dai processi di creolizzazione) e la forma letteraria; dall’altra parte le tradizioni orali degli schiavi, l’universo religioso e culturale degli africani, degli asiatici e dei nativi americani hanno provveduto alle strutture narrative e al contenuto. Questa combinazione di forma e contenuto, con il contributo delle pubblicazioni su periodici e riviste, ha dato origine alla letteratura caraibica.

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1.2 Earl Lovelace: biografia e produzione

Earl Lovelace nacque a Toco, Trinidad, il 13 Luglio 1935, ma fu cresciuto dai suoi nonni materni sull’isola di Tobago; ritornò a vivere coi genitori all’età di 11 anni.

Da bambino frequentò una scuola privata e la scuola primaria, distinguendosi fin da subito per una grandissima passione per la lettura (soprattutto per gli scrittori americani, come Hemingway e Faulkner). Tuttavia non superò l’esame di ammissione alla scuola superiore, nemmeno al secondo tentativo, a Port of Spain, “which was I suppose, when I look back, the best thing to have happened because my life would have been quite different.”8 Infatti, l’aver fallito questo esame lo spinse, più avanti, a prendere una direzione lavorativa (dopo un primo incarico come correttore di bozze per il

Trinidad Guardian nel 1953) peculiare: divenne guardia forestale e in seguito lavorò per il Ministero

dell’Agricoltura. Proprio in questo periodo, in cui si trovava immerso nella vita di campagna, alla quale partecipava come giovane uomo, ma a cui faceva anche da acuto osservatore in qualità di artista, tra danze, combattimenti col bastone, calipso e festival, Lovelace cominciò a scrivere, e al tempo stesso ad accumulare un’intima conoscenza della Trinidad rurale che poi divenne così abile a dipingere in molte delle sue opere.

Dopo l’adolescenza Lovelace cominciò a viaggiare: si trasferì negli Stati Uniti per studiare alla Howard University (1966-7) e per insegnare alla Virginia Union University durante l’estate del 1967. Poi tornò a Port of Spain per lavorare come giornalista, finché non ottenne un posto da insegnante al Federal City College a Washington. Si iscrisse alla Johns Hopkins University per frequentare un corso di scrittura; e quando uno dei professori lasciò il programma, Lovelace ne prese il posto (1974). Nel 1977 insegnò come tutor di letteratura inglese alla University of the West Indies, nel campus di St. Augustine a Trinidad, e due anni più tardi divenne lettore; vi rimase per 10 anni. Nel 1980 ricevette il premio Guggenheim Fellowship, e seguì il programma di scrittura alla University of Iowa.

Nel 1982 Earl Lovelace visitò Londra per la prima volta per promuovere la pubblicazione del suo quarto romanzo, The Wine of Astonishment. Poi fece ritorno a Trinidad e all’insegnamento alla UWI. Fu nominato writer-in-residence dalla London Arts Board nel 1995-96, ottenne un lettorato in letteratura inglese al Wellesley College, Massachusets, nel 1996-97, e dal 1999 fino al 2004 entrò a far parte del corpo docenti della Pacific Lutheran University in qualità di distinguished novelist. Nel 2005 venne nominato membro del consiglio d’amministrazione della University of Trinidad and Tobago, e la UWI tenne una conferenza in suo onore in occasione del suo settantesimo compleanno.

8 Lorna Down and Earl Lovelace, “Interview with Earl Lovelace”, Journal of West Indian Literature, Vol. 7,

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Attualmente Lovelace vive a Trinidad con la moglie, scrive per il Trinidad Express e collabora con diverse riviste, mentre continua a insegnare e a viaggiare.

La produzione di Lovelace conta sei romanzi di cui farò una breve panoramica, una raccolta di racconti e una di opere teatrali, saggi, produzioni di teatro e musical e un film tratto da uno dei suoi racconti, la cui sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con la figlia Asha.

Il primo romanzo di Lovelace, While Gods are Falling, ricevette il British Petroleum Independence Award nel 1964 e fu pubblicato a Londra l’anno successivo. In esso Lovelace inaugura l’esplorazione di temi che saranno presenti in tutte le opere successive: l’ambiguo rapporto tra cambiamento e progresso; le condizioni prodotte dalla violenza urbana e giovanile; il bisogno di appartenenza e il concetto di comunità come famiglia, o come famiglia allargata; la ricerca di una propria identità, o

personhood, che Lovelace definisce, secondo Daryl Cumber Dance, “man’s view of himself, the

search as it were for his integrity”.

Il romanzo racconta la storia di Walter Castle, che da uomo depresso e indifferente diventa un responsabile membro della comunità. Trasferitosi dalla campagna alla città, Port of Spain, con la moglie incinta e un bambino, trova il nuovo ambiente congestionato, confuso e cacofonico:

On those hills there, it is not only poverty. It is disorder; it is crime; it is a kind of fear, and a way of thinking; it is as if there is a narrow meaning to life, as if life has no significance beyond the primary struggles for a bed to sleep in, something to quiet the intestines and moments of sexual gratification: indeed it is as if all the Gods have fallen and there is nothing to worship at, and man is left only bare bones and naked passions.9

La frustrazione che Walter sente per la città e per il suo lavoro di funzionario minore nella Trinidad del post-indipendenza gli provoca una forte nostalgia per l’ambiente rurale, dove immagina opportunità di autonomia e affermazione, anche se l’autore rivela che la rappresentazione che Walter fa della vita in campagna è più influenzata dalla sua insoddisfazione verso il presente che non da un sincero attaccamento al passato. Walter arriva a pensare che solo attraverso la solitudine e l’isolamento ci si possa esprimere con libertà, poiché si sente limitato, costretto nel suo ruolo, soffocato e reso impotente in senso economico e politico dalla città; il suo impulso quindi, sarebbe di tornare in campagna con la famiglia. La moglie Stephanie però riesce a farlo riflettere a lo aiuta a scegliere una strada più responsabile. Dato il precipitare di ogni cosa in uno stato di incertezza e confusione a causa del vuoto lasciato dal governo coloniale, Walter, infine, si rende conto che ciò che

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manca in una Port of Spain caratterizzata da crimine e violenza è un senso dei valori. E i valori che contano, e che Lovelace qui sottolinea, non sono quelli delle istituzioni statali o religiose, bensì i valori umani di solidarietà, cooperazione e integrità morale. Con il cambiamento amministrativo e l’arrivo della politica moderna a Trinidad, Lovelace sente che è avvenuta una forte rottura col passato, che si è entrati in un’era caratterizzata dalla responsabilità, in cui tutto ciò che accade, bello o brutto, è merito e colpa di ogni cittadino. Walter quindi giunge alla conclusione di essere in parte responsabile della società di criminali e prostitute in cui è immerso, e che le persone, per ottenere un progresso sociale, hanno bisogno di aggregazione, di un senso di appartenenza, di sentirsi apprezzate e supportate, e arrivare così ad affermarsi come individui.

L’esplorazione del contrasto tra società urbana e ambiente rurale, generato dalla frammentazione culturale propria del colonialismo, nonché l’onnipresente ricerca della personhood, è affrontata anche dal romanzo successivo, The Schoolmaster (1968). In un villaggio remoto, Kumaca, una sorta di Eden appartato dal mondo moderno, la società, anche se molto povera, è unita, ordinata, onorevole e legata dalle tradizioni comuni. La tranquillità viene turbata dalla decisione di aprire una scuola per poter offrire ai bambini la possibilità di vivere nel mondo moderno, e di costruire una strada che metta in comunicazione il villaggio con l’esterno. Questi avvenimenti porteranno il male e la distruzione che seguono inevitabilmente l’infiltrarsi del mondo urbano nei piccoli paradisi rurali. Il preside, che viene da fuori, rifiuta i valori della cultura a cui pure apparteneva incarnando invece la peggiore versione dello sfruttatore colonialista; rappresenta quindi ironicamente la corruzione che distrugge l’innocenza del villaggio di Kumaca: dopo aver stuprato la sua assistente, che successivamente si suicida, va incontro a una morte violenta, e gli abitanti del villaggio si accordano per nasconderne le circostanze. Si conferma perciò l’inevitabile trasformazione della società rurale. La ricerca della personhood è portata avanti da un personaggio minore, Benn, filosofo ubriacone: le sue riflessioni riguardo alla tragedia a cui assiste aiutano il lettore a trovare un significato negli avvenimenti, e rimarcano l’importanza della ricerca di significato, scopo, valore e dignità nella vita dell’individuo.

Nel 1979 fu pubblicato The Dragon Can’t Dance, da molti considerato il miglior romanzo di Lovelace; è stato tradotto in italiano nel 2008 e pubblicato da Angelica Editore.

Gli abitanti di Calvary Hill, una slum di Port of Spain, sono quasi tutti migrati dalla campagna, da un ambiente stabile in cui i ruoli erano ben definiti. Ora cercano un’identità e un’affermazione in un mondo urbano più grande, che li reprime, li brutalizza e toglie loro umanità. Di fronte a una serie di valori basati sulla ricchezza, sul possesso materiale e sul potere politico, i numerosi personaggi che Lovelace delinea cercano di affermare la loro importanza e il loro diritto a una personhood senza essere legati alla proprietà o ad altri valori distorti. Come dice Aldrick a Philo, il cantante di calipso:

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All we thinking about is to show this city, this island, this world, that we is people, not because we own anything, not because we have things, but because we is. We are because we is.10

Sfortunatamente la battaglia per l’affermazione del self viene combattuta dai personaggi attraverso i pochi mezzi a loro disposizione, tra cui la violenza, la musica, la ribellione, la maschera, e il loro sforzo è strettamente legato al Carnevale, che si presenta come un’arma a doppio taglio: da una parte lega i personaggi a un passato comune e li unisce in una rivoluzione simbolica, dall’altra incarna un imbroglio, perché essi sprecano le energie in una rivolta-farsa invece di indirizzarle verso una rivoluzione vera e significativa.

Così, Aldrick ogni anno indossa il suo costume da drago, minacciando e terrorizzando tutti; Cleothilda si veste da regina, colmando i vicini di attenzioni indesiderate in un tentativo di onorare il ruolo che si è scelta; Fisheye, il badjohn di Calvary Hill, diventa un guerriero della steelband provocando risse con band rivali.

I personaggi che nel corso del romanzo giungono alla consapevolezza di sé riconoscono che il cercare di affermarsi attraverso una maschera, un ruolo, e durante il Carnevale non è utile né significativo; il vero ottenimento della personhood si raggiunge accettando le responsabilità verso i propri vicini, unendosi in una comunità amorevole. Così ad esempio Aldrick abbandona la sua egoistica ricerca del

self e si dedica completamente a Sylvia; l’indiano Pariag, da sempre isolato in una lotta contro la sua

discriminazione da parte dei vicini, finalmente si guarda attorno e si accorge della moglie devota, riconoscendone e accettandone la personhood.

Il vivido ritratto che Lovelace offre dei personaggi di Calvary Hill permette al lettore di affezionarsi loro, di gioire delle loro vittorie, di soffrire per le loro sconfitte, di esultare per la loro crescita e di riconoscerne, alla fine, la personhood.

In The Wine of Astonishment, scritto prima di The Dragon Can’t Dance ma pubblicato nel 1982, si raccontano le difficoltà di una comunità di Battisti Spirituali (i cosiddetti shouters) nel villaggio di Bonasse, le cui pratiche religiose vengono dichiarate fuori legge nella prima metà del ‘900. Non potendo più cantare e suonare, si rendono conto di non poter più affermare se stessi, la quintessenza del loro essere umani. Scelgono quindi un uomo istruito per rappresentarli e combattere per ripristinare le celebrazioni religiose e la loro personhood, ma quando questi li abbandona, il lottatore di bastoni Bolo, la cui danza aveva sempre unito la comunità in un’espressione di bellezza e umanità, decide di combattere per sé e per gli altri; vedendo però che nessuno si unisce alla sua lotta, diventa un criminale, un badjohn, terrorizzando i suoi vicini al punto di costringerli a ucciderlo. Bea però riconosce a Bolo un grande merito:

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He choose out himself […] to be the sacrifice. To be the one terrible enough and strong enough and close enough to our heart to drive us to take up our manhood challenge that we turn away from for too long. He push us and push us until we have to stand up against him.11

Anche se l’affermazione del self è avvenuta, la comunità di shouters si rende conto con disperazione che lo spirito ha abbandonato la loro chiesa; ma Eva, l’unica donna rimasta una fedele fervente, riconosce lo spirito nella musica di una steelband.

Nel 1984 e nel 1988 vennero pubblicate due raccolte di Lovelace: Jestina’s Calypso and Other Plays, e A Brief Conversion and Other Stories. Entrambe le raccolte continuano lo sviluppo e l’esplorazione dei temi cari all’autore già trovati nelle opere precedenti.

Nel 1997 Lovelace si recò a Londra, dove fu presentato alla regina Elisabetta in occasione della vittoria del Commonwealth Writer’s Prize per il suo quinto romanzo, Salt.

Il titolo del romanzo si riferisce a una leggenda riguardante Guinea John, che, ribellatosi alla schiavitù e alla morte, si mise due pannocchie sotto le ascelle e tornò in Africa volando. I suoi discendenti, avendo ingerito del sale, non riuscirono a sollevarsi da terra e a seguirlo. Emancipati, ma non veramente liberi, rimangono ancorati alla loro isola, cercando di definire la propria identità, oppure migrano non verso la libertà in Africa, ma verso i paesi occidentali dove è più facile trovare affermazione.

In Salt si oppongono due personaggi: Bango, narratore di storie e ricco di fascino, rappresenta le tradizioni, i valori e la cultura indigena di Trinidad. Alford George, insegnante diventato politico, è cresciuto con ideali europei, colonialisti, vivendo così gran parte della sua vita in un perenne disincanto. Attraverso questi ideali, Lovelace espone il problema della necessità di superare il lascito psicologico della schiavitù e di aiutare la gente a investire se stessa in Trinidad, senza “fuggire” altrove.

Il romanzo più recente, Is Just a Movie, è stato pubblicato nel 2011, ed è il vincitore del Grand Prize for Caribbean Literature del 2011, e dell’OCM Bocas Prize for Caribbean Literature del 2012. Ambientato a Trinidad negli anni ’70 e nel ventennio successivo, Is Just a Movie esplora il tema della rivoluzione attraverso il Carnevale e il calipso come mezzo per ottenere auto legittimazione. Il narratore è Kangkala, poeta e cantante, un tempo attivo nel movimento del Black Power; si auto definisce “maker of confusion, recorder of gossip, destroyer of reputations, revealer of secrets.”12, e il linguaggio che utilizza, quello del calipso, con la sua caratteristica tipica di critica sociale e di

11 Earl Lovelace, The Wine of Astonishment, p.122 12 Earl Lovelace, Is Just a Movie, p.3

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protesta, si trasforma in un potente stream of consciousness. Attraverso lo sguardo di Kangkala assistiamo alle vicende di un ricco gruppo di personaggi – complessi ed eterogenei sia per razza che per cultura – ai loro amori, alle loro aspirazioni, vittorie e sconfitte, alla loro ricerca di un’identità. L’altro protagonista del romanzo è un badjohn di nome Sonnyboy, che stringe amicizia con Kangkala e insieme a lui viene scritturato per un provino in un film americano girato nel loro villaggio, Cascadu. Il ruolo per cui si presentano è quello di un uomo che muore fucilato; entrambi, al momento dell’audizione, rifiutano di “morire” in modo banale e silenzioso, e recitano con gesti esagerati e stravaganti. Quando però il regista taglia le loro parti, e gli altri attori insistono che in fondo it is just

a movie, i due rifiutano di accettare un ruolo tanto limitato, e abbandonano il set, compiendo una

ribellione contro una morte insignificante, che in fondo è anche la ribellione a una vita senza significato. In questo gesto, soprattutto dal punto di vista di Sonnyboy, si può riconoscere la frustrazione di sogni irrealizzati, e il desiderio, non solo a livello personale ma anche su scala nazionale, di emergere, di essere riconosciuto come qualcosa di valore. Sonnyboy rappresenta lo spirito della sua nazione, alla ricerca di identità e affermazione, desiderosa di levarsi al di sopra delle cattive decisioni del passato.

Alla fine del romanzo i personaggi celebrano il Carnevale, che con il suo implicito livellamento sociale e il capovolgimento dei ruoli, con il suo essere, insieme al calipso, la collisione di tradizioni e culture di Trinidad, assume una funzione catartica, celebrativa e comunitaria, e rendendo più vitali, umane e significative le esistenze dei suoi partecipanti, rappresenta la vera rivoluzione dell’isola.

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CAPITOLO 2

2.1 Scrittura e traduzione postcoloniale

La lingua in cui sono scritti i racconti e i romanzi degli scrittori postcoloniali racchiude in sé la tragicità e la violenza della Storia. Le opere di questi autori esprimono sofferenza, separazione forzata, esilio e sradicamento culturale a causa della sovrapposizione di due culture e della brutale imposizione di una di esse sull’altra. La dolorosa divisione che questo fenomeno crea e la volontà di ribellarsi alle sopraffazioni del colonialismo e di affermare una nuova identità nazionale generano l’atto creativo, e anche un sentimento comune a tutti gli autori postcoloniali, espresso in modo esemplare da Salman Rushdie nel suo romanzo Shame (1983): “I, too, am a translated man”13. L’autore si sente cioè un “uomo tradotto”, un uomo sospeso tra due culture e quindi due identità. Gli scrittori postcoloniali si ritrovano da un lato in una condizione straziante, in perenne traduzione (l’etimologia di tradurre deriva dal latino trans ducere, cioè ‘portare dall’altra parte’) da un confine linguistico e culturale all’altro; ma è anche vero che la posizione di confine che questi scrittori occupano, un vero e proprio stato di ciò che Franca Cavagnoli definisce in-betweenness,14 offre loro possibilità creative uniche.

Poiché, secondo i meccanismi propri di quando una cultura prevarica su un’altra, la lingua dei colonizzatori si impone in tutti gli aspetti della vita civile – prima fra tutti l’istruzione scolastica – l’autore postcoloniale utilizza la lingua europea di cui ha studiato la letteratura e la storia, e vi inserisce poi elementi specifici e termini che appartengono alla cultura dominata. Si tratta quindi di un linguaggio fortemente contaminato, con parole e locuzioni in due lingue o anche di più, come accade negli autori originari di zone che nel tempo hanno subito molteplici colonizzazioni.

Per quanto riguarda l’inglese, molto spesso è ben lontano dalla lingua standard della madrepatria, e non a caso: la diversità con la norma parlata al centro dell’Impero è il prodotto di una volontà di appropriarsi dello stesso inglese da parte delle popolazioni locali. Il bacino caraibico è l’area in cui esiste la situazione linguistica più diversificata in assoluto: la presenza di tante lingue ha dato origine a varietà di inglese nelle quali si nota sempre più il fenomeno di ibridazione con il creolo. Più avanti delineerò le caratteristiche principali della varietà di inglese parlato a Trinidad.

13 Salman Rushdie, Shame, Random House, 2011

14 Franca Cavagnoli, Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, Monza, Polimetrica,

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Come già accennato, la letteratura delle ex colonie rappresenta la reazione delle culture dominate nei confronti della madrepatria, la ribellione verso l’imposizione improvvisa e brutale di una lingua estranea, che ha portato i margini del mondo a farne un tutt’uno con la propria lingua madre e i propri dialetti. In questo senso, il prefisso post nell’aggettivo postcoloniale va inteso nel senso di anti, e non meramente in ottica cronologica. A questo proposito si pensi a ciò che sostiene Douglas Robinson in

Translation and Empire sugli studi postcoloniali; essi hanno tre scopi principali:

1. Studiare le ex colonie europee dopo l’indipendenza; come hanno reagito, come si sono adattate, come hanno resistito o superato il lascito culturale del colonialismo dopo la sua fine. In questo senso, “postcoloniale” si riferisce alla cultura successiva al dominio europeo, dalla seconda metà del XX secolo.

2. Studiare le ex colonie dal momento del loro assoggettamento; come hanno reagito, come si sono adattate, come hanno resistito o superato il lascito culturale del colonialismo da quando si è imposto. In questo senso, “postcoloniale” si riferisce alla cultura dall’inizio dell’era coloniale in poi; storicamente si parla dell’era moderna, che comincia nel XVI secolo.

3. Studiare tutti i casi in cui una cultura/società/nazione è entrata in un rapporto di potere con un’altra cultura/ecc.; come le culture dominanti hanno assoggettato le culture dominate; e come le culture dominate hanno reagito, come si sono adattate, come hanno resistito o superato la coercizione. In questo senso, “postcoloniale” si riferisce alla nostra moderna prospettiva sui rapporti di potere politici e culturali.15

Dunque, dagli studi postcoloniali, in cui convergono anche influssi da altre discipline quali per esempio l’antropologia culturale, l’etnografia, la storia coloniale, si sviluppa una branca dei

Translation Studies che pone l’accento sulle relazioni tra potere e diversità. Come sostiene Spivak in The Politics of Translation, nel periodo della colonizzazione la traduzione è diventata uno strumento

di conquista imperiale e di sottomissione di altre lingue e culture, contribuendo così all’eliminazione dell’identità di individui e culture meno potenti, all’addomesticamento del “diverso”, e quindi al prevalere della “legge del più forte”.16

Lawrence Venuti inoltre ci avverte che

15 Douglas Robinson, Translation and Empire, New York, Routledge, 2014

16 Gayatri Chakravorty Spivak, The Politics of Translation, in Ead. Outside in the Teaching Machine, New

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[…] the violence that resides in the very purpose and activity of translation: the reconstitution of the foreign text in accordance with values, beliefs and representations that preexist it in the target language, always configured in hierarchies of dominance and marginality, always determining the production, circulation, and reception of texts. Translation is the forcible replacement of the linguistic and cultural difference of the foreign text with a text that will be intelligible to the target language reader. This difference can never be entirely removed, of course, but it

necessarily suffers a reduction and exclusion of possibilities—and an exorbitant gain of other possibilities specific to the translating language. Whatever difference the translation conveys is now imprinted by the target-language culture, assimilated to its positions of intelligibility, its canons and taboos, its codes and ideologies. The aim of translation is to bring back a cultural other as the same, the recognizable, even the familiar; and this aim always risks a wholesale domestication of the foreign text, often in highly self-conscious projects, where translation serves an appropriation of foreign cultures for domestic agendas, cultural, economic, political. […] translation wields enormous power in the construction of national identities for foreign cultures, and hence it potentially figures in ethnic discrimination, geopolitical confrontations, colonialism, terrorism, war.17

Alla luce di ciò, bisognerebbe quindi che la traduzione di testi postcoloniali fosse utilizzata come strumento di riabilitazione dell’identità, per esaltare il frutto dell’incontro tra più culture senza eliminare l’alterità del testo fonte e anzi, mantenendola viva e percettibile.

Questo obiettivo porta con sé una problematica ampiamente discussa nell’ambito degli studi sulla traduzione, che si acuisce in modo particolare quando si considera la letteratura postcoloniale: la traducibilità o intraducibilità di elementi testuali.

Prima di tutto, facendo un passo indietro, va ricordato che l’autore stesso, in bilico tra due culture, al momento della scrittura già compie un’opera di editing, con la quale decide se assumere un atteggiamento di mediazione tra la propria cultura e quella del lettore, o se optare per la creazione di un senso più o meno forte di straniamento.

Nel primo caso l’autore può ricorrere al corsivo per evidenziare termini o locuzioni propri della sua cultura, facendoli seguire da una spiegazione in inglese, oppure può inserire un glossario alla fine dell’opera.

Nel secondo caso può scegliere di inserire gli elementi culturospecifici in un contesto in cui per il lettore sia semplice inferirne il significato, in modo da abbreviare la distanza culturale tra le due parti,

17 Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility: A History of Translation, London, Routledge, 1995, pp. 18

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ma assicurandosi al tempo stesso che l’alterità dell’esperienza culturale dell’autore rispetto a quella del lettore sia evidenziata. Ad esempio, Earl Lovelace scrive:

Next Christmas the band came as usual, with their shac shacs shaking and long scraping wail of

the violin […]18

E anche:

[…] he would take up his cuatro and his two shac shacs and go into the kitchen where my mother would have started seasoning the meat, ‘I going down the road to see what the boys doing.’ And he would be gone until maybe, sometime, Christmas day when he would come up the front steps

with the rest of the parang band and stand on the verandah, with his head bent sideways and his

eyes closed, singing in his rasping bass voice the plaintive serenades, his fingers flying over the

strings of the cuatro cradled in his arms, […]19

Si capisce che l’autore si sta riferendo a strumenti musicali, e grazie ad alcuni elementi del contesto (da me evidenziati in corsivo), il lettore ne può indovinare, se non l’aspetto esatto, quantomeno la forma, e può immaginare il suono che producono.

Esiste anche la scelta di non evidenziare nemmeno i termini culturali, e di lasciare al lettore il compito di individuarne l’alterità, e di documentarsi per capirne il significato:

From her trips to the market, she returns with sea moss and sour sop and pawpaw […]20

E ancora:

‘You want him to go out there with his shirt open like a bad John for them to knock him down before he even start to live?’21

Spesso quindi il traduttore impegnato con un’opera postcoloniale si trova davanti a elementi non familiari al pubblico di lettori, che vanno dal mondo naturale a quello materiale (piante, animali, cibo,

18 Earl Lovelace, Those Heavy Cakes, in Id. A brief Conversion and Other Stories, New York, Persea Books,

2003

19 Earl Lovelace, A Brief Conversion, in A brief Conversion and Other Stories, New York, Persea Books,

2003, p. 8

20 Id., A Brief Conversion, cit., p. 4 21 Id., A Brief Conversion, cit., p. 7

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strumenti), dall’ambito giuridico e amministrativo a strutture sociali come usi e costumi. È difficile che termini del genere abbiano un perfetto corrispondente nella lingua d’arrivo.

Si ha a che fare allora con il problema ricorrente dei Translation Studies, delineato da Schleiermacher, ovvero se sia più opportuno ricorrere a una traduzione che “addomestica” il testo di partenza, appiattendo le diversità e rendendolo così più comprensibile al lettore, oppure eseguire una traduzione che ne mantenga la connotazione ibrida, richiedendo una partecipazione più attiva del lettore che viene “portato” verso la cultura straniera.22 In questo secondo caso il traduttore potrebbe avvalersi di elementi paratestuali quali introduzioni, note, glossari, fornendo al lettore un aiuto per orientarsi all’interno del mondo culturale oggetto del testo di partenza.

Lawrence Venuti, nella sua rielaborazione del concetto di Schleiermacher, suggerisce la strategia estraniante come la scelta più adatta per tradurre un testo postcoloniale, per riprodurne il multilinguismo e il multiculturalismo, per non rischiare l’eliminazione della diversità cadendo così in una sorta di “seconda colonizzazione”. Venuti afferma: “foreignizing translation seeks to restrain the ethnocentric violence of translation, it is highly desirable today, a strategic cultural intervention in the current state of world affairs, pitched against the hegemonic English-language nations and the unequal cultural exchanges in which they engage their global others. Foreignizing translation in English can be a form of resistance against ethnocentrism and racism, cultural narcissism and imperialism, in the interests of democratic geopolitical relations.”23

Considerato quindi quanto le culture subalterne siano state a rischio di essere assoggettate e inglobate da culture più forti e dominanti, e di quanto invece sia essenziale preservarle e anzi renderle fruibili nella loro diversità al pubblico ricevente, sarà necessario adottare un atteggiamento di disponibilità verso una traduzione di impronta “ibrida”.

22 Friedrich Schleiermacher, On The Different Methods of Translating, in The Translation Studies Reader, a

cura di Lawrence Venuti, London, Routledge, 2004, pp. 43 - 63

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2.2 Le lingue di Trinidad e Tobago

2.2.1 Nascita delle lingue creole

Il termine generale per indicare le numerose varietà di inglese parlate nel bacino Caraibico è

Caribbean English Creole. Le lingue creole sono sistemi linguistici formatisi a causa dell’interazione

di lingue europee, africane, asiatiche e amerindie. Le differenze tra esse sono dovute a vari fattori, quali i cambiamenti nell’amministrazione coloniale, la provenienza degli schiavi africani deportati nelle varie isole, la presenza di popolazioni amerindie e di lavoratori dall’Asia. Anche se la base linguistica era comunque l’inglese, le combinazioni date dalla mescolanza e dalla sovrapposizione di idiomi sono state molteplici (si sono sviluppati, ad esempio, il Jamaican English Creole, il Trinidadian English Creole ecc.).

La formazione delle lingue creole è avvenuta attraverso un processo che prende il nome di

creolizzazione; un atto di appropriazione, modifica e adattamento dell’inglese – lingua dei

colonizzatori – da parte dei colonizzati; un atto che, secondo Kenneth Ramchand, si può articolare in tre fasi:

1. All’inizio del periodo di colonizzazione gli schiavi africani parlavano una lingua che consisteva in una commistione dei loro dialetti e dell’inglese – una specie di inglese “minimal”24, utilizzata a fini esclusivamente pratici, che mostrava poche variazioni flessive e faceva molto affidamento sugli elementi extralinguistici. Kenneth Ramchand osserva che in questa fase viene mantenuta la sintassi dei linguaggi dell’Africa Occidentale.

2. Nella seconda fase, che si colloca al volgere del diciottesimo secolo, il creolo aveva già una base linguistica inglese, che derivava dalla prossimità degli schiavi ai padroni. Gli schiavi a stretto contatto con i colonizzatori svilupparono inevitabilmente un creolo più vicino all’inglese standard, dando così luogo alla nascita dell’English Creole; nel frattempo anche l’inglese degli europei subiva l’influenza della parlata africana.

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3. Tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’inglese standard parlato dai discendenti degli europei e il creolo del resto della popolazione si avvicinarono considerevolmente per due motivi principali: l’aumentare dei contatti sociali tra bianchi e neri e l’introduzione dell’istruzione obbligatoria, che fece emergere una fascia della popolazione non bianca istruita in lingua inglese. Nacque così una variante del creolo molto vicino alla lingua standard, il quale però mantenne una sintassi basata sui linguaggi dell’Africa Occidentale.

Al passo con lo sviluppo del creolo, si formò quindi anche la società caraibica: i settori della popolazione più esposti all’inglese dei colonizzatori divennero le fasce sociali più privilegiate; il creolo rimase la lingua delle classi inferiori. Lingua parlata e società caraibica furono strettamente connesse sin dall’inizio, tanto che a una risalita della scala sociale doveva inevitabilmente corrispondere un rifiuto delle forme creole; il creolo stesso, in effetti, venne stigmatizzato come “bad English”, o “broken English”, nonostante fosse la lingua parlata dalla maggioranza della popolazione caraibica anglofona.

Il creolo è dunque la lingua che gli schiavi neri hanno ricavato da quella degli europei, cambiandola, stravolgendola, piegandola: sovvertendone la grammatica, aumentando l’importanza di ritmo e accentazione, modificando la funzione degli elementi sintattici. Un processo doloroso e crudele, una sorta di contrappasso rispetto alle violenze della schiavizzazione e della colonizzazione da parte degli europei, che ha dato luogo a una lingua allo stesso tempo raddoppiata e divisa in due, nata per dare voce agli schiavi e al loro lascito in una lingua altra rispetto a quella dei padroni, e che esprime l’eterno conflitto che permea ogni aspetto della vita caraibica, descritto da Derek Walcott in A far cry

from Africa:

[…]I who am poisoned with the blood of both, Where shall I turn, divided to the vein? I who have cursed

The drunken officer of British rule, how choose Between this Africa and the English tongue I love? Betray them both, or give back what they give? How can I face such slaughter and be cool? How can I turn from Africa and live?25

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Nonostante la stigmatizzazione delle lingue creole rispetto all’inglese standard esista ancora, esse sono lingue parlate e riconosciute come tali, con il proprio lessico e la propria sintassi. Gli autori caraibici le utilizzano nelle proprie opere, e questo ne provoca la legittimazione attraverso il conferimento di dignità linguistica, oltre al fatto che la popolazione caraibica le percepisce come testimonianza della propria identità culturale, in quanto l’uso dei creoli rafforza la coscienza collettiva in tutti i suoi aspetti, contribuendo allo sviluppo della società.

2.2.2 Creole Continuum

Il rapporto tra inglese standard e le varietà di English Creole nell’area caraibica viene identificato con il nome di creole continuum.

Il creole continuum consiste nella presenza di diverse varietà collocabili in un range che va da quelle più vicine a quelle più lontane dallo standard.

Si distinguono tre livelli principali:

 Basilect: la forma di creolo più profonda, ampia e lontana dallo standard  Mesolect: le varietà intermedie

 Acrolect: la varietà accettabile della lingua standard lessificatrice

I due poli del continuum sono il basilect e l’inglese standard dei Caraibi (Caribbean Standard

English, o CSE), che in letteratura è la lingua di preferenza degli autori caraibici, soprattutto per

quanto riguarda le parti narrative; le varietà di creolo invece sono normalmente riservate ai dialoghi, e attraverso il loro uso gli autori identificano anche il livello sociale dei loro personaggi, grazie allo stretto rapporto tra lingua e società menzionato in precedenza (da notare che alcuni autori, specialmente per quanto riguarda la short fiction, utilizzano il creolo anche per la narrazione, con l’intenzione di riprodurre il senso della tradizione orale nella quale la letteratura caraibica affonda le proprie radici).

In genere il parlante caraibico si muove agevolmente tra tutte le varianti del continuum, passando dall’una all’altra a seconda del contesto in cui si trova (fenomeno detto code-switching).

Nell’opera di Lovelace che mi accingo a tradurre ci sono molti casi in cui il code-switching oppure l’uso di diverse varietà del continuum da parte dei personaggi ne identificano l’attitudine sociale o la classe.

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In A brief conversion, ad esempio, la mamma di Travey gli ordina “Button up your shirt!” in inglese standard. Nonostante la sua lingua primaria sia il creolo, l’ordine dato in inglese standard rivela un atteggiamento influenzato dalla cultura occidentale, orientato quindi su norme sociali occidentali. In The fire eater’s journey il protagonista, Santo, che si trasferisce a Port-of-Spain per lavorare come giornalista, utilizza una variante linguistica molto vicina allo standard (fa quindi parte di quella fascia di popolazione istruita in lingua inglese) mentre il personaggio di Blues, di cui Santo dice “Like most of the fellars, Blues had not gone beyond primary school, had learnt no trade;”26, è molto interessante dal punto di vista linguistico. È poco istruito, la sua lingua è il creolo. Eppure, nutrendo grandi ambizioni, e volendo essere accettato da un gruppo di persone che ritiene superiori a lui, si sforza di utilizzare una varietà diversa per sembrare più colto: Blues tenta la scalata sociale partendo proprio dalla lingua. Santo racconta:

I had listened hard to Blues. He spoke with a lot of superior smiling, in a self-important, put-on tone, his words barely intelligible, his talk weighed down with words he could not pronounce and phrases he did not understand. I could see that he was simply repeating what he had heard from sources he thought to be authoritative in order that the fellars would think him learned. […]27

E ancora,

“So what you doing in the city Santo?” he said, talking with that stilted affectation of superiority. I hear you leave Forestry. You in journalism or something? Writing a lot of stories. I see your name in the papers. That’s good. You were always a man with ambition. Always had brains. That’s why I used to stick close to you. You was the only man in Cunaripo could understand what I say.”

Even with his affectation, I had to admire Blues.28

26 Earl Lovelace, The fire eater’s journey, in Id. A brief Conversion and Other Stories, New York, Persea

Books, 2003

27 Id., The fire eater’s journey, cit., p. 35 28 Id., The fire eater’s journey, cit., p. 38

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2.2.3 La situazione linguistica di Trinidad e Tobago

In Indigenous Languages of the Caribbean, il sociolinguista Mervyn C. Alleyne definisce l’arcipelago caraibico come un “cimitero linguistico”. I Caraibi effettivamente hanno visto nel corso dei secoli la scomparsa di una quantità considerevole di lingue, soprattutto quelle amerindie e africane, a causa dell’intolleranza verso il multilinguismo diffusasi nel periodo coloniale.

La classificazione di Trinidad e Tobago oggi è quella di paese anglofono, ma nel corso della storia sul territorio si sono alternate diverse realtà linguistiche.

Dal 1498, anno di arrivo degli spagnoli, le popolazioni indigene furono spazzate via, e dei loro linguaggi, cancellati o assimilati, rimane un’unica testimonianza linguistica costituita da toponimi e dai nomi di parte della flora, della fauna e degli elementi culturali di Trinidad. Gli spagnoli rimasero al potere per tre secoli, ma la loro lingua, parlata nei circoli del governo e dell’amministrazione, non si impose mai sulla popolazione. A fine Settecento cominciò a diffondersi il creolo francese, importato da immigrati francofoni, che ben presto divenne l’idioma del commercio e della società. Il passaggio dal governo spagnolo a quello britannico avvenne formalmente nel 1801- 02, ma soltanto alla fine del diciannovesimo secolo l’inglese cominciò a sostituirsi al creolo francese.

Una volta saliti al potere, i britannici cominciarono ad attaccare la cultura francese, specialmente a livello linguistico e religioso, ma a metà Ottocento la popolazione non poteva ancora definirsi anglofona. Inoltre, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1834, Trinidad fu colpita da un’ondata di immigrati destinati a lavorare nelle piantagioni, che provenivano da India, Cina, paesi europei e altre isole delle Antille, e che resero la situazione linguistica del Paese ancora più complessa e variegata: ancora per qualche decennio a Trinidad sopravvissero circa una trentina di lingue, la cui compresenza rese l’isola una vera e propria Babele. Tra esse ricordiamo alcune lingue africane (yoruba, koongo), l’arabo, diverse lingue europee (danese, inglese, francese, tedesco, italiano, latino, portoghese e spagnolo), lingue indiane (bengali, tamil, urdu), il cinese e molte altre.

Il governo cominciò allora un’operazione di “anglicizzazione”, il cui scopo era quello di sostituire l’inglese al creolo francese, utilizzato come lingua di comunicazione tra le varie realtà linguistiche. La fase principale di questa operazione riguardò il sistema scolastico: furono fondate scuole di lingua inglese in tutto il territorio, e, come già sostenuto in precedenza, la presenza di un’intera generazione cresciuta con un’istruzione inglese ebbe un’enorme influenza sullo sviluppo delle classi sociali. All’inizio del ventesimo secolo l’inglese (il Trinbagonian English, o TE, parlato da un’élite ristretta, da non confondersi con l’inglese standard) e il creolo inglese (parlato dalle masse) sostituirono finalmente il creolo francese come lingua franca. Da notare che il creolo inglese (Trinidadian and

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Tobagonian English o TEC) non venne mai tenuto in considerazione in ambito educativo e

linguistico, principalmente per la sua associazione a parlanti di classe molto bassa. Solo recentemente ha acquisito dignità di sistema linguistico vero e proprio. Delle trenta lingue sopravvissute a metà Ottocento, oggi a Trinidad ne rimangono circa una dozzina, molte delle quali sono già cadute in disuso (i parlanti sono tutti over 50) o quasi del tutto estinte.

Il Trinidadian English è una delle tante varietà dell’inglese standard, dal quale si differenzia soprattutto per il lessico e l’accento. Viene usato in contesti formali e informali, e contiene elementi di inglese standard e non-standard.

Il creolo inglese parlato a Trinidad, il TEC, è la madrelingua della maggioranza della popolazione. Così come il TE forma una parte dello spettro dell’inglese standard internazionale, il TEC può essere considerato parte di un gruppo più ampio di creoli caraibici di matrice inglese, ai quali assomiglia per origini, formazione e struttura morfosintattica, ma da cui differisce nella fonologia e nel lessico. Tra TE e TEC ci sono differenze a livello morfosintattico, ma non a livello lessicale: la gran parte del lessico di queste due lingue deriva dall’inglese, dato che entrambe si sono sviluppate in seguito al già menzionato processo di anglicizzazione dell’isola di Trinidad nel corso dell’Ottocento.

All’interno del TEC esistono due varietà principali, il Trinidadian Creole (TrC) e il Tobagonian Creole (TbC).

La vicinanza di TE e TEC e la facilità con cui gli abitanti di Trinidad passano da una lingua all’altra pone le due lingue in un rapporto che si spiega con la teoria già menzionata del creole continuum: il TE costituisce l’acrolect, e il TEC costituisce il basilect, mentre TrC e TbC costituiscono due varianti di mesolect.

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2.3 Il linguaggio di Earl Lovelace

Il contributo di Lovelace allo sviluppo della letteratura caraibica è immenso anche per il suo uso del linguaggio, caratterizzato da una grandissima competenza linguistica, e attraverso il quale riesce a creare molteplici prospettive, che corrispondono a molteplici voci.

La competenza di Lovelace nella lingua consiste soprattutto nel saperla modellare attraverso la manipolazione del codice e dei registri stilistici; questa versatilità è di importanza fondamentale nell’opera dell’autore, e ne sottolinea la coscienza politica.

Come abbiamo visto, nell’area caraibica anglofona esiste un continuum linguistico che ha come poli la lingua ufficiale, il Caribbean Standard English (CSE), e la lingua nativa della maggioranza della popolazione, il creolo, il cui vocabolario è principalmente inglese con influenze da altre lingue. In base al loro livello di istruzione, o al background sociale, i parlanti sono più o meno competenti in CSE, e il code-switching tra creolo e CSE è un comportamento linguistico normale.

L’autore di narrativa trova in questa abilità di code-switching propria del parlante nativo una grandissima risorsa per la caratterizzazione dei personaggi e la creazione di punti di vista differenti. L’uso del creolo all’interno di dialoghi in effetti è sempre stato presente nella letteratura caraibica, mentre normalmente il CSE era destinato alle parti narrative. La vera svolta arrivò nel 1956, quando Samuel Selvon, in Lonely Londoners, utilizzò per la prima volta il creolo nella narrazione.

Anche Lovelace fa altrettanto in The Wine of Astonishment, la cui voce narrativa si esprime in un CSE – anche se in questo caso particolare è più corretto parlare di TSE, Trinidadian Standard English – regolarmente punteggiato dal creolo, e lo fa per due motivi principali: prima di tutto il narratore conosce il TSE, ma è egli stesso un parlante nativo, appartenente alla rosa dei personaggi che parlano creolo. In ogni opera di Lovelace, compresi i racconti di A Brief Conversion, il narratore partecipa alle vicende narrate: è dunque giusto che la sua voce narrativa non si distacchi in modo eccessivo dalla lingua effettivamente parlata dai personaggi.

Il secondo motivo si basa sulla convinzione che la storia non debba essere raccontata da un unico punto di vista: la narrazione non è un monologo, bensì l’insieme di una pluralità di voci, quelle dei personaggi che prendono parte alle vicende. Ogni voce colora la narrazione in modo diverso, modellandola attraverso la lingua secondo la gamma di sfumature proprie del continuum. In un’intervista del 2003, Kelly Hewson chiese a Lovelace di spiegare come si possa dare vita alle voci narrative, come si riesca a dar spazio a tutte e a passare liberamente da una all’altra. Lovelace risponde così:

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[…] when you write a novel all the voices are the individual’s voices. You want to give the illusion that you’re not omnipresent or omnipotent, so you have to take a perspective. How can you present yourself as a narrator as well as these voices of so many people you might believe to be speaking for? How do you inhabit and speak for them as well as help them to speak? […] The starting point is that one person is doing all this talking. What I’m trying to get at is that the writer writing a novel seeks to persuade the reader that there are characters who are speaking who are not he himself. I want to see what the possibility is for a writer saying I am speaking, but I am speaking through these people. I am the one speaking. I am taking responsibility, - I am taking it anyway – and in one instance I am pretending it is not me, and in another I am saying it is me.29

La presenza di molteplici prospettive e di un’ampia pluralità di voci narranti nei racconti di Lovelace è figlia della conscia e radicata identità culturale afro-caraibica dell’autore, espressa in diversi modi all’interno delle sue opere.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, A Brief Conversion, ci sono molti esempi che mostrano come il linguaggio venga utilizzato per riflettere la cultura dell’autore e la tradizione a essa legata. Quello più lampante è la facile identificazione della voce narrante appartenente al protagonista, il piccolo Travey, con la voce autobiografica dell’autore. Come si è già detto, Travey/personaggio si esprime in una lingua ben diversa da quella del Travey/narratore, e il testo quindi è interessato da frequenti fenomeni di code-switching: dal TSE si passa a un linguaggio molto vicino al creolo, per esempio nei dialoghi:

There is no mirror to see what is going on. I run my hand over my head. I feel the loss of hair. I plead, “Mr Fitzie, it good now? I finish trim now! Enough hair gone now!”30

Non è detto però che nei dialoghi i personaggi parlino sempre e solo una lingua con infiltrazioni di creolo. La variabilità linguistica è tale che spesso, all’interno di una singola frase, ci sono costruzioni sintattiche del TSE accanto a costruzioni tipiche del creolo:

Michael cannot understand what I am saying. He doesn’t want to. We quarrel.

“Just tell them I don’t want any one of them touching my head. Rule or no rule. I not playing. I don’t clout nobody and I don’t want nobody to clout me.”31

29 Kelly Hewson, An Interview with Earl Lovelace, June 2003

30 Earl Lovelace, A Brief Conversion, in Id. A brief Conversion and Other Stories, New York, Persea Books,

2003, p. 2

31 Earl Lovelace, A Brief Conversion, in Id. A brief Conversion and Other Stories, New York, Persea Books,

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Interviene poi un’altra caratteristica della narrazione afro-caraibica, ovvero l’importante influenza della tradizione del racconto orale, grazie alla quale Travey spesso e volentieri riporta storie raccontate da altri personaggi utilizzando il discorso indiretto.

Travey dà voce ai personaggi attraverso la sua conoscenza del creolo: ecco quindi come il creolo diventa anche lingua della narrazione. Per esempio, il bambino racconta la storia di una donna, Priscilla, di cui ha sentito parlare da sua madre. Il discorso indiretto riporta quindi le parole della madre di Travey, Pearl.

When Priscilla was young, my mother says, it didn’t have anybody in Cunaripo who could dress like her, and nobody so good looking. When it had a dance fellars used to line up just to dance with her, she was so popular. People see a drunkard now, my mother says. But, in those days, Priscilla was a star. Then she went to the city. She went Venezuela. Her pictures used to be in the papers. She was a model. She used to give away dresses to her relatives. Good good dresses, she used to give away; pretty pretty dresses. A big shot man was engaged to marry her. She had a good job in the civil service. She was up in society. But, poor Priscilla see what she shouldn’t see; she hear what she shouldn’t hear. Her boss was a big racketeer, defrauding the country of thousands and thousands of dollars. He bribe everybody, but not Priscilla. She give evidence against him in the enquiry. That was the end of her. She lose her job. The man that she was to marry leave her. Her family who she used to give those pretty dresses to disown her. They try to poison her. She come back to Cunaripo to try to catch herself. They drag her down. They drag her down. She start to drink rum. She lose her looks, her reputation. People forget her, my mother says; but, not my mother.32

L’identità culturale di Lovelace si esprime anche attraverso altri tipi di manipolazione del linguaggio.

Uno di questi è il riconoscimento della presenza di un pubblico a cui viene raccontata la storia, caratteristica tipica dell’oralità; nella tradizione caraibica, il narratore/bardo/cantastorie è chiamato “chantwell”, o “calypsonian”. In alcune opere di Lovelace, come The Dragon Can’t Dance, il narratore/chantwell è la voce che guida l’intero romanzo, così come la voce del calypsonian, che scrive e canta i calypso, guida il Carnevale. Nel caso di A Brief Conversion, ogni volta che Travey

32 Earl Lovelace, A Brief Conversion, in Id. A Brief Conversion and Other Stories, New York, Persea Books,

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