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L'impero dei viceré

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Academic year: 2021

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MUSI RECENSIONE.

A.Musi, L’impero dei viceré, Bologna, Il Mulino, 2013.

A partire dal libro di Michael Hardt e Antonio Negri, apparso all’inizio del terzo millennio, il tema dell’impero è tornato prepotentemente alla ribalta non soltanto della cronaca internazionale, bensì della riflessione di storici e politologi (M.Hardt – A.Negri, Impero, trad.it Milano, 2003, ed.or. 2000). Questi ultimi tuttavia si sono concentrati su alcuni argomenti in particolare, come l’affermazione dei processi di «globalizzazione» e la «crisi dell’impero americano», manifestatasi a cavallo delle guerre del Golfo Arabo condotte dalle amministrazioni dei presidenti Bush, padre e figlio. Le vicende degli Stati Uniti come potenza «globale» sono state paragonate a quelle di Roma antica, creando un nesso con l’epoca contemporanea, che dimenticava altre realtà «imperiali», che invece si erano costituite in età moderna.

Gli studiosi in effetti hanno da tempo sottolineato come nelle vicende dell’Europa tra XVI e XIX secolo, gli stati più potenti abbiano sovente manifestato aspirazioni «imperiali», realizzando in qualche caso una sorta di impero, come testimonia ad esempio la Spagna degli Austrias. Non è questa la sede per riassumere le tappe attraverso le quali la storiografia del novecento ha ricostruito il processo di formazione del sistema imperiale spagnolo e quindi mi limiterò a ricordare alcuni momenti significativi.

Già Fernand Braudel nel secondo dopoguerra descriveva un Mediterraneo «imperiale», comprendendovi la monarchia di Filippo II (Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. Torino, 1953, ed. or. 1949). Alcuni decenni dopo Helmut Koenisgberger in un’ampia sintesi sull’Europa del Cinquecento, intitolava significativamente un capitolo «Imperi» (L’Europa del Cinquecento, trad. it., Roma-Bari, 1969, ed. or. 1968) mentre di cultura imperiale si occupava Frances Yates (Astrea. The Imperial Theme in the Sixteenth Century, trad. it. Torino, 1978, ed. or. 1975). Dal canto suo John Elliott da tempo aveva iniziato un’indagine sulla «Spagna imperiale»,

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dando il via ad un filone di ricerche dimostratosi molto fecondo (La Spagna imperiale, 1469-1716, trad. it. Bologna 1982, ed. or. 1963). Vale la pena infine di citare il contributo fornito dagli studi di dottrine politiche, che miravano a ricostruire le «ideologie dell’impero», specie dopo l’espansione europea negli altri continenti e l’organizzazione dei primi domini coloniali (cfr. A. Pagden, Signori del mondo. Ideologie dell’impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia, 1500-1800, trad. it. Bologna 2005, ed. or. 1995). A questo proposito non è un caso che gli ultimi lavori del già citato Elliott si siano concentrati proprio sugli imperi «atlantici» fondati dalla Spagna e dall’Inghilterra ( Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830, trad. it. Torino, 2010, ed. or. 2006).

Occorre ricordare che gli storici non hanno ancora risolto la questione se sia più corretto definire quello spagnolo un «impero» oppure una «monarchia» o per meglio dire una «monarchia composita», definizione formulata da Elliott e che ha trovato accoglienza soprattutto tra gli storici anglosassoni. Aurelio Musi nel suo recente libro si pone in una posizione in qualche modo intermedia: invece di usare la categoria di «monarchia composita», col rischio di sopravvalutare l’importanza degli elementi pluralistici e delle autonomie, egli adotta il concetto di «sistema imperiale», sottolineando tuttavia come tale nozione non presupponga tanto una «razionalità» compiuta, quanto una tendenza progettuale, che nel caso della Spagna è stata comunque presente tra XVI e XVII secolo.

L’impero dei viceré si situa dunque all’interno di un dibattito storiografico attuale e completa idealmente il percorso iniziato dallo stesso autore con L’Italia dei viceré (Cava dei Tirreni, 2009). Mentre qui l’istituto viceregio era analizzato soprattutto nel «sottosistema italiano», nell’ultimo lavoro diventa l’asse portante di un discorso che interessa l’intero «sistema imperiale spagnolo». Anticipando in qualche modo un giudizio complessivo, si potrebbe dire che attraverso la storia dell’evoluzione della carica vicereale Musi ci offre un’ottica diversa attraverso cui interpretare due

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fenomeni: la vicenda storica della Spagna asburgica, il cui «presunto» declino viene riletto alla luce di una diversa scansione cronologica e il processo di organizzazione dello Stato moderno.

Perché è di «processi di modernizzazione» che ci parla lo storico, anche a proposito di una realtà statuale «composita» e disomogenea come quella dei domini spagnoli, a lungo considerati come un contesto in cui le strutture politiche «moderne» trovano difficoltà ad affermarsi. E non a caso il percorso inizia proprio dall’epoca di Carlo V, un sovrano che persegue il «sogno dell’impero» (cfr. M.Rivero Rodriguez. Gattinara, Carlos V y el sueño del Imperio, Madrid 2005) e che perciò è stato giudicato in bilico tra medioevo ed età moderna, nonché rappresentante di una cultura politica ancorata più al passato che al futuro.

In realtà, come hanno sottolineato in particolare i lavori di Giuseppe Galasso, che Musi del resto utilizza ampiamente, (cfr. G.Galasso, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, 1994), nonché sintesi recenti (cfr. P.Merlin, La forza e la fede. Vita di Carlo V, Roma-Bari, 2004), nell’azione di governo di Carlo è possibile rilevare una continua tensione fra eredità medievale e sperimentazioni politiche «moderne», che ci permette di affermare che anche durante il suo lungo regno furono attuate riforme istituzionali che consentirono di dare ai compositi domini spagnoli un’omogeneità amministrativa tale da renderli effettivamente una compagine statuale organizzata in forma «moderna».

Tale obiettivo viene appunto raggiunto grazie all’utilizzo dei viceregni, la cui natura ci dice Musi è caratterizzata da una «composita miscela di ingredienti medievali e moderni» (p.9). L’imperatore in questo senso si serve di un istituto aragonese, realizzando una costruzione politico-amministrativa che all’inizio è ancora «profondamente condizionata da una visione feudo-vassallatica» (p.10). A partire però dalla fine degli anni venti, su impulso del gran cancelliere Gattinara, l’istituzione si trasforma seguendo due linee di sviluppo: una spagnola e una

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borgognona, che trovano il loro terreno di realizzazione rispettivamente a Napoli e Navarra e nei Paesi Bassi.

Nel primo caso poteri e prerogative dei viceré vengono modellati sulla base dell’equilibrio «con l’organismo politico-amministrativo più importante dei reinos» (p.13); si tratta del modello napoletano in cui il Consiglio Collaterale è in stretta relazione col viceré. Nel secondo è il rapporto personale, per non dire di sangue) tra il monarca e i luogotenenti generali (tutti stretti parenti come Margherita e Maria d’Austria, rispettivamente zia e sorella dell’imperatore) a costituire il perno intorno a cui ruota l’intera struttura di governo. Quanto sia fondamentale tale legame nel caso fiammingo, è dimostrato dalle difficoltà incontrate dal successore di Maria d’Ungheria, il duca Emanuele Filiberto di Savoia, il quale tuttavia riesce ad attuare quelle riforme di carattere soprattutto fiscale che costituiscono una delle direttive fondamentali su cui è basato il funzionamento dei viceregni nell’età di Filippo II (cfr. P.Merlin, Emanuele Filiberto. Un principe tra il Piemonte e l’Europa, Torino, 1995).

Se infatti nella prima metà del Cinquecento la politica asburgica viene portata avanti da figure carismatiche di grandi feudatari come Ferrante Gonzaga a Milano e Pedro de Toledo a Napoli, a capo di territori da ora in avanti strettamente collegati nel disegno strategico della monarchia cattolica, nella seconda parte del secolo avviene quella che Musi chiama la «virreinalizacion» dell’impero (p.52), che vede la trasformazione del viceré da alter ego del monarca in alto magistrato con un incarico temporaneo (solitamente di durata triennale), incaricato di sovrintendere alla gestione della macchina amministrativa. L’autorità di tale funzionario non è illimitata, bensì viene esercitata in collaborazione con il principale organismo giudiziario di ciascun dominio (il Collaterale a Napoli, il Senato a Milano, la Reale Udienza in Sardegna, le varie Udienze nei domini iberici e nelle colonie).

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Si realizza così, specie nell’area mediterranea, una struttura di «virreinatos», con al vertice il Consiglio d’Italia, già costituito nel 1555: da quest’ultimo dipendono Sicilia, Napoli e Milano, mentre Catalogna, Valencia e le Baleari rimangono sotto la giurisdizione del Consiglio d’Aragona, al pari della Sardegna, il cui legame di lunga durata con l’ambiente catalano è stato sottolineato di recente da un libro di Lluis Guia Marìn (Sardenya, una història pròxima, Catarroja-Barcelona, 2012). Il viceré funziona come «cinghia di trasmissione» (p.95), diventa cioè parte integrante di una catena di comando che trasmette nel virreinato le linee direttrici del sistema e le realizza in relazione ai differenti contesti ed equilibri locali, tenendo però conto delle forme di rappresentanza, della resistenza e dell’integrazione dei ceti territoriali.

Si costituisce così quello che Musi identifica come «modello mediterraneo», contraddistinto dal patto fra territorio e monarca, il quale si impegna a rispettarne i diritti, e dalla tensione tra sovranità e pluralismo, tra tendenza assolutistica e autonomie. Prendendo le distanze dalla storiografia che ritiene «la monarchia ispanica articolata in naciones più che in Stati», riducendo «la dimensione politico-istituzionale delle sue componenti alla fisionomia di Corti come Case reali» (p.78), l’autore ritiene più convincente la tesi che intende la monarchia come comunità di regni sotto lo stesso re.

La «burocratizzazione» della carica di viceré la rende una tappa ambita del cursus honorum dell’aristocrazia spagnola, favorendo un processo che vede da un lato la progressiva «castiglianizzazione» dell’ufficio (con una riserva rappresentata dalla Sardegna, dove il personale continua ad essere soprattutto catalano-aragonese) e dall’altra il coinvolgimento dell’alta nobiltà nel governo della corona. Si affermano altresì una notevole «circolazione delle élite vicereali castigliane» e la «formazione di vere dinastie familiari», destinate a diventare «elemento caratterizzante il sistema imperiale spagnolo» (p.82). Musi dimostra come queste reti di parentele e di clientele abbiano un ruolo importante non soltanto nel determinare la nomina dei viceré,

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bensì nel condizionare gli scenari politici della corte di Madrid, come accade in occasione dello scontro tra «albisti» ed «ebolisti» nella seconda metà del Cinquecento.

Si tratta di una situazione che risulta ulteriormente favorita da quella «vera rivoluzione del governo», che coincide con l’affermazione dei grandi validos della prima metà del Seicento, Lerma ed Olivares (p.157). A capo non solo di clan famigliari e gruppi clientelari, ma anche di «un’amministrazione parallela, alternativa ai consigli» (p.159), essi realizzano un vero e proprio «sistema», basato sul rapporto viceré-favorito. All’ombra di quest’ultimo possono così emergere figure di viceré validos (la recente storiografia iberica ha usato per loro il termine di «proconsoli») capaci di agire con notevole discrezionalità e destinati ad influenzare profondamente la politica della monarchia cattolica, specie in Italia. In quest’epoca la strategia dei favoriti è basata su un elemento nuovo: il «controllo della corte», vero centro in cui viene distribuito il favore regio ed assegnate le cariche. Tale realtà costituisce il culmine dell’«età d’oro dei viceregni», come è stata definita recentemente da Manuel Rivero Rodriguez (cfr. La edad de oro de los virreyes. El virreinato en la Monarquía Hispánica durante los siglos XVI y XVII, Madrid, 2011).

Il «regime» dei favoriti, descritto efficacemente John Elliott nel caso di Olivares, viene messo in crisi dal ciclo di rivolte degli anni quaranta del Seicento, che colpisce «anche l’istituzione forse più rappresentativa del sistema imperiale spagnolo: quella vicereale» (p.197). La rottura del rapporto centro-periferia e sovrano-sudditi, che si manifesta traumaticamente nel caso della Catalogna con l’assassinio del viceré, coinvolge quasi tutti i domini italiani, da Napoli, alla Sicilia, alla Sardegna. Ancora una volta però è l’istituto viceregio che contribuisce al superamento del momento difficile, grazie alla sua rivitalizzazione e al fatto che «figure di rilevante statura politica andarono a ricoprire la carica nelle aree di crisi della monarchia» (p.208).

Il ruolo dei viceregni risulta fondamentale anche nella seconda metà del XVII secolo, quando garantiscono la tenuta del «sistema imperiale» anche nel momento di più evidente declino militare

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e politico della Spagna, uscita sconfitta dalla Guerra dei Trent’anni. Superata la fase acuta del valimiento, si afferma una forma di governo per così dire «mista», che coinvolge non soltanto i consigli della corona, il cui ruolo viene rinnovato, bensì «primi ministri» come Luis de Haro e più tardi Don Giovanni d’Austria, nonché viceré dotati di grande protagonismo politico, soprattutto nei domini italiani, i quali si rivelano capaci di coinvolgerne i ceti dirigenti nel sostegno della monarchia.

Certo, essi sono i membri di spicco di un elite aristocratica che pur garantendo la circolazione delle cariche nell’impero, ne monopolizza l’accesso. Gran parte dei viceré e dei governatori del Seicento, come ha notato Giuseppe Galasso, appartengono a «quella ristretta cerchia di famiglie imparentate per lo più tra loro e oggettivamente solidali pur nel più aspro divampare delle lotte di fazione» (p.240). Questo fatto ha effetti positivi, come «la forte assunzione di responsabilità da parte dei vertici della monarchia, tesa alla sua difesa militare e al suo consolidamento politico in tutti i reinos» (246), ma determina pure «scarso ricambio, tendenza oligarchica e gerontocratica» (p.247).

Ciò tuttavia non impedisce che si manifesti da parte di molti esponenti di tale ceto dirigente una straordinaria capacità di elaborazione e di guida politica, come testimoniano ancora una volta i viceré italiani, specie napoletani, alla vigilia della crisi dinastica e della drammatica successione borbonica. Nel considerare il crepuscolo del sistema imperiale occorre dunque tener conto di una realtà: vale a dire la tenuta di un modello politico-amministrativo che si mantiene nonostante la crisi della Casa d’Austria. Ciò consente di rivedere una vulgata diffusa, che tendeva a limitare fortemente la durata della supremazia mondiale della Spagna, la cui decadenza, come conclude l’autore fu una conseguenza logica della fine della sua egemonia militare e non della sua capacità di governo (p.252).

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Il libro di Aurelio Musi tuttavia non si limita a ricostruire l’evoluzione dell’istituto vicereale, bensì propone altri temi che, sia pur non sviluppati in modo ampio, permettono di integrare il discorso istituzionale, fornendo validi spunti di ricerca. Ecco quindi l’attenzione per la cultura e la formazione dei viceré, per il cerimoniale che li interessa e per la «doppia natura» della carica, per cui il viceré è istituzione e persona al tempo stesso, fornito anch’egli di «due corpi» come il sovrano. Particolarmente interessanti sono poi le osservazioni relative ai viceregni delle colonie americane, dove l’istituzione sopravvive alla fine della dinastia asburgica, favorendo così la «lunga durata» del «sistema imperiale» spagnolo al di là dell’Oceano ben oltre la «quiebra» della monarchia cattolica.

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