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Non solo matematico e pacifista: Russell pensatore politico

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Academic year: 2021

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Non solo matematico e pacifista: Russell pensatore politico di Giovanni Borgognone

Michela Nacci, Strade per la felicità. Il pensiero politico di Bertrand Russell, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2012, pp. 420.

Bertrand Russell è da tempo annoverato tra i grandi autori della filosofia del Novecento. Tuttavia al suo pensiero politico è stata riservata sostanzialmente scarsa attenzione scientifica (tra i lavori più recenti si segnala però quello, assai discusso, dello «skinneriano» Philip Ironside, The Social and Political Thought of Bertrand Russell, Cambridge University Press, 1996), soprattutto se confrontata con quella ottenuta dagli altri aspetti della sua attività intellettuale, principalmente la matematica e la logica e in seconda battuta l’etica. Eppure per tutta la vita Russell ha dedicato alla politica una serie notevole di opere, peraltro non riconducibili semplicemente alla sua figura pubblica di «attivista per la pace», da cui a ben vedere è derivata più una sorta di «monumentalizzazione» che l’effettiva sua considerazione quale scrittore politico. A essa inoltre non ha giovato la propensione di Russell per le opere divulgative e per una scrittura piana, a cui fa non di rado da contraltare la tendenza degli «esperti» a ritenere più attraente la complessità argomentativa. Per tutte queste ragioni è particolarmente meritorio l’impegno di Michela Nacci di restituire a Russell, in questo libro, la piena dignità di pensatore politico, presentando così, senza pregiudizi, una parte importante della sua riflessione.

Dal lavoro emerge nel complesso un Russell «realista», consapevole dei problemi della democrazia moderna, come, in ordine sparso, la «separatezza della classe politica», la «tendenza all’aumento delle dimensioni delle organizzazioni», la debolezza dell’individuo di fronte a esse, «l’ambiguità della scienza e della tecnica rispetto al potere», la «follia collettiva», la «debolezza del liberalismo» (p. 21). L’impianto del suo pensiero non manca di suggestioni di marca elitistica e «tecnoscientistica», temperate e riequilibrate, tuttavia, dalla costante attenzione per il tema della libertà individuale. L’autrice propone come punto di partenza la visione antropologica di Russell, incentrata sulla «ricerca della felicità». Due sono gli istinti fondamentali che egli mette in luce: quello alla cooperazione e quello alla competizione, con la ragione individuale a moderali e armonizzarli. Nel contempo Russell è consapevole che altra cosa dalla prospettiva individuale è la «psicologia della folla» (si potrebbe forse inserire tali considerazioni nel più ampio contesto, di fine Ottocento e primi decenni del Novecento, degli studi sui comportamenti collettivi). A tal proposito nel ’14, allo scoppio del conflitto, egli è particolarmente colpito dalla «gioia» delle folle per la guerra. Se da un lato, dunque, Russell denuncia il fanatismo delle folle, dall’altro, a compensarlo, vi è l’alto compito che a suo parere spetterebbe agli intellettuali (in questo egli è, per molti versi, assai vicino alle preoccupazioni progressiste «transatlantiche» dei primi decenni del Novecento per il ruolo da assegnare alla knowledge elite). Gli intellettuali conoscono la forza dei «miti», pertanto possono anche decostruirli. Tuttavia essi, secondo Russell, hanno abdicato ai loro compiti, non hanno saputo «vigilare sulle coscienze» come avrebbero dovuto (p. 63). Dall’auspicio del trionfo della ragione sulla follia collettiva della guerra discende peraltro uno dei grandi progetti del filosofo britannico: quello di uno Stato mondiale come via istituzionale alla pace, al centro dello scritto Which Way to Peace? (1936).

Accanto al pacifismo, intrecciato come si è visto con elementi di elitismo intellettuale, nel pensiero di Russell un aspetto centrale è certamente rappresentato dalla riflessione sui nessi tra politica ed economia. Tra i suoi volumi più importanti vi è Roads to Freedom (1918), l’opera nella quale egli descrive al meglio la sua idea di una «via industriale alla democrazia», quella che a suo avviso può realmente liberare le migliori capacità degli uomini. Questo modello di democrazia «permeata di competenza» è giocato dall’autore in contrapposizione con la democrazia della pura e semplice rappresentanza politica, «lontana e incompetente» (p. 152). È la democrazia del «produttore» in antitesi con quella del «consumatore» (il punto di vista di quest’ultimo è infatti, per Russell, quello tradizionale del cittadino-elettore). Nell’avanzare tale proposta il filosofo britannico non intende però perdere di vista la salvaguardia della libertà individuale: per

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questo egli non aderisce al marxismo, vedendo in atto una «deriva statalista» nel socialismo marxista, né, come si è visto, alla democrazia politica, basata su un modello di cittadino-atomo separato dagli altri, impianto da cui discende nuovamente, a suo giudizio, un approccio statalista, data la passività del singolo che tale forma politica comporta.

Qual è pertanto la soluzione prospettata da Russell? Si tratta sostanzialmente di un «socialismo gildista», che implica l’organizzazione della società in gruppi di lavoratori-produttori, o “gilde”, quali forme di autogoverno del mondo del lavoro. Questo modello di organizzazione economico-sociale consentirebbe, a suo modo di vedere, «di liberare le energie costruttive degli uomini» (p. 168), superando la gestione capitalistica del mondo industriale. L’idea di fondo è, più in generale, di sostituire la «politica», caratterizzata da incompetenza e inefficienza, con il lavoro. Una prospettiva non lontana — osserva Michela Nacci — da quelle che in quegli anni ruotano intorno alla nozione di «corporativismo». Al posto del sistema parlamentare, nel quale il normale cittadino di fatto è impotente, si profila un sistema basato sulla rappresentanza degli interessi e delle branche professionali, incentrato cioè sulle «competenze». Su queste basi Russell guarda alla democrazia con il classico disincanto del realista: essa, a suo avviso, si basa sulla lusinga e l’inganno dell’elettore, consentendo alle oligarchie dei legislatori di vivere nel benessere e di tradire, più o meno consapevolmente, coloro che li hanno eletti.

Il quadro così delineato, oltre a evidenziare l’influenza di autori britannici come G.D.H. Cole, non manca di connessioni con il pensiero progressista d’oltreoceano. A differenza però di John Dewey e del new liberalism, Russell ritiene «illegittimo e liberticida» (p. 203) — avverte l’autrice — il ruolo di intervento pubblico assegnato allo Stato dal filosofo statunitense. Grazie al guild socialism egli è convinto di poter contrapporre il self government dei produttori al rischio dello statalismo. Il socialismo tradizionale, da questo punto di vista, ha perso la sua sfida perché oltre ad affermare l’autorità dello Stato, di certo «indispensabile», non ha saputo salvaguardare la libertà individuale. E non è possibile una società buona se non è composta da individui liberi; la crescente efficienza dell’organizzazione sociale rischia di trasformarli in «macchine, addomesticati, comodi per il burocrate o il sergente maggiore» (p. 237).

Siamo così giunti a un altro tema centrale nella riflessione di Russell, in stretta connessione con quanto ora visto: è il ruolo della tecnica, a sua volta conseguenza dell’«abilità», una delle «caratteristiche basilari dell’uomo» (p. 241). Il suo giudizio sui risultati derivati dallo sviluppo della scienza e della tecnica è ambivalente. La distribuzione ineguale delle abilità – afferma l’autore – è stata causa, nella storia dell’umanità, della struttura oligarchica del potere. Il mondo complesso però non ha di certo bisogno di meno scienza; la conoscenza scientifica è peraltro considerata dal filosofo inglese come autentica portatrice di liberazione. Su questi problemi l’opera russelliana di maggior rilievo è Icarus or the Future of Science, del 1924, che potrebbe essere collocata in un panorama culturale coevo assai ampio, esteso dalle riflessioni filosofiche tedesche sulla tecnica ai dibattiti statunitensi su taylorismo e veblenismo. Russell, soprattutto nelle prime fasi del suo pensiero, assegna alla scienza e alla tecnica un ruolo centrale, anche sul piano delle riforme da applicare alla società; solo gli strumenti della modernità renderebbero peraltro possibile il più ambizioso dei suoi progetti, lo Stato mondiale. Egli però deve prendere atto, nel contempo, dell’uso della chimica per produrre armi terribili; la tecnica implica inoltre una crescita di «organizzazione», e in un mondo sempre più organizzato l’individuo – avverte Russell – diventa preda della macchina, parte di un ingranaggio.

Il filosofo inglese delinea una chiara distinzione tra un livello cognitivo e un livello pratico e sociale della funzione della scienza. Se sul primo versante essa è certamente positiva, ispirando atteggiamenti basati sulla ragione e sull’esperienza (su questo punto egli è vicino ad autori come Dewey e Popper), ed è dunque l’antidoto più efficace contro ogni fanatismo, sugli effetti pratici della scienza il giudizio dell’autore, come si è detto, è molto più oscillante. Non mancano da parte sua – mette in luce Michela Nacci – «amare considerazioni» circa le conseguenze negative di una società dominata dalla tecnica e dai tecnici, inclini potenzialmente al «piacere della manipolazione del materiale umano» (pp. 265-266). Discostandosi in tal

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modo da certe utopie socialiste o tecnocratiche, Russell, così come ce lo restituisce efficacemente questo studio, non si dimentica mai, in ultima analisi, di volersi riferire all’individuo non meramente come cittadino o come membro di una classe, bensì come uomo in carne e ossa, dalla cui «libera espansione» egli vede discendere «tutto il bene della società» (p. 278).

Giovanni Borgognone, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Culture, Politica e Società, Lungo Dora Siena, 100, 10153 Torino, giovanni.borgognone@unito.it.

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