• Non ci sono risultati.

Corporate Open Social Innovation: l'Open Innovation a servizio della Creazione di Valore Condiviso

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Corporate Open Social Innovation: l'Open Innovation a servizio della Creazione di Valore Condiviso"

Copied!
56
0
0

Testo completo

(1)

Classe accademica di Scienze Sociali

Settore di Scienze Economiche

Anno Accademico 2017-2018

Corporate Open Social Innovation:

l'Open Innovation a servizio della

Creazione di Valore Condiviso

Luisa Caluri

Allieva Ordinaria di II livello

Supervisor: Chiar.mo Prof. Alberto Di Minin Tutor: Chiar.mo Prof. Alessandro Nuvolari

ABSTRACT

In letteratura gli stream relativi ai paradigmi del Creating Shared Value (CSV) (Porter & Kramer 2011) e dell'Open Innovation (Chesbrough, 2003) sono stati analizzati in via separata e mancano ad oggi contributi che evidenzino le sinergie tra i due filoni di studio. Il modello di Open Social Innovation (OSI) (Chesbrough & Di Minin, 2014) fa un avanzamento su questo fronte analizzando i modelli con cui pubbliche amministrazioni o organizzazioni no-profit possono rispondere ai bisogni della società, ma non dà delucidazioni su come le corporation private possano farlo.

Il presente elaborato ambisce a evidenziare come, i suddetti paradigmi manageriali siano altamente complementari e, quando internalizzati e messi in pratica nella cultura aziendale permettono alle organizzazioni for profit di creare soluzioni per un numero molto più vasto e variegato di stakeholder, non soltanto in ambiti di mercato. Il presente contributo ambisce ad operare una sintesi dei paradigmi di CSV e Open Innovation, andando ad analizzare le caratteristiche e i driver che nella prassi connotano il modello che qui denominiamo "Corporate Open Social Innovation" (COSI).

A supporto dell’argomentazione sono proposti i casi di due aziende italiane, Enel e Barilla, che integrando l’approccio CSV a livello strategico e dando attuazione all'Open Innovation con risoluzioni operative ad hoc, dimostrano che le organizzazioni coerenti al framework COSI hanno più possibilità di rispondere efficacemente ai bisogni della società (non ai mercati) e di diventare vettore di sviluppo economico e sociale nei contesti di cui fanno parte.

(2)

SOMMARIO

ABSTRACT ... 1

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO 1 INQUADRAMENTO TEORICO ... 5

IL CONCETTO DI SHARED VALUE E LA SUA APPLICAZIONE IN AZIENDA ... 5

La diffusione del concetto di sviluppo sostenibilità e del sustainability management ... 5

La CSR e il sustainbaility management come antecedenti dell’approccio CSV ... 6

Una nuova concezione strategica per la creazione di Valore Condiviso ... 7

Fattori caratterizzanti della CSV ... 9

Verso un capitalismo illuminato ... 11

Principali risultati... 12

L’innovazione oltre il mercato: social innovation vs. CSV ... 13

L’OPEN INNOVATION COME NUOVO PARADIGMA PER INNOVARE IN CONTESTI DI BUSINESS SEMPRE PIÙ VOLATILI ... 14

Tipologie di Open Innovation e fattori distintivi ... 15

Evoluzioni e pratiche “open” ... 16

L’OPEN SOCIAL INNOVATION: CATALIZZARE BENEFICI PER LA SOCIETÀ CON NUOVI MODELLI ORGANIZZATIVI APERTI .... 16

PUNTI DI COMUNANZA E GAP TEORETICO ... 19

CAPITOLO 2: LA RICERCA ... 22

Intento e domande di ricerca ... 22

Metodo e framework di riferimento ... 22

CAPITOLO 3 VALORI ED APERTURA PER UN’INNOVAZIONE “BUONA PER IL PIANETA”: IL CASO BARILLA ... 25

Le origini e l’espansione multinazionale ... 25

Nuovo Millennio, nuova strategia all’insegna della sostenibilità ... 26

Long-term innovation come driver di evoluzione culturale ... 30

CAPITOLO 4 QUANDO L’INNOVAZIONE È... SOSTENIBILITÀ E EMPOWERMENT: IL CASO ENEL ... 35

Un po’ di storia ... 35

L’approccio ecosistemico al business Enel Green Power e la transizione al paradigma di Open Power ... 37

Nuova leadership, nuovo empowerment ... 38

CAPITOLO 5 DISCUSSIONE E RICERCA FUTURA ... 43

Barilla: Empatia, utente-centrismo e Scouting Globale per un’innovazione condivisa e strategica... 43

Enel: Fattori critici di successo per coniugare Creazione di Valore Condiviso (CSV) e Innovazione Aperta (OI) abilitando un Social Empowerment ... 44

Decodificazione e implicazioni ... 45

Limitazioni e raccomandazioni per la ricerca futura ... 46

CAPITOLO 6 CONCLUSIONI ... 47

APPENDICE: INTERVISTE ... 49

INTERVISTA A FABIO TENTORI (ENEL) – MARZO 2018 ... 49

INTERVISTA A MICHELA PETRONIO (BARILLA)–OTTOBRE 2018 ... 51

BIBLIOGRAFIA ... 53

(3)

INTRODUZIONE

Negli ultimi anni, dai tempi della crisi economica del 2008 circa, ha avuto luogo un lento declino della fiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle imprese e dei governi di tutto il mondo. Rispetto agli anni precedenti, tale sfiducia ha coinvolto più recentemente i governi, che sono stati sempre più delegittimati. Le imprese si trovano sono oggi chiamate non soltanto ad essere responsabili, ma a sopperire in una certa misura a quel ruolo “sociale” che, al giorno d’oggi, le istituzioni non riescono a svolgere in una maniera adeguata.

Se in passato la fiducia nei confronti delle imprese dipendeva dalla qualità dei prodotti, dalla compliance alle regole e dai rendimenti finanziari, oggi le imprese sono chiamate a guadagnarsi tale fiducia facendo leva sul coinvolgimento aperto e il dialogo con i membri delle comunità in cui sono inserite. Oggi più che in passato per le aziende esiste un potenziale di riposizionarsi in un modo nuovo nei contesti socio-economici di cui fanno parte: esse possono agire per giungere a posizioni di leadership basate su principi solidi e su una proattività nei confronti delle sfide della società.

Piuttosto che perseguire un’etica “reattiva” (di compliance) nei confronti delle aspettative e delle prescrizioni da parte della società civile, le aziende possono e devono concentrarsi su creare nuove opportunità per generare nuovo valore e distribuirlo anche a quei segmenti di popolazione sotto-serviti dai tradizionali modelli di produzione e commercializzazione.

Il focus del business deve spostarsi dai mercati alla società, coinvolgendo gli utenti nella progettazione delle soluzioni (anziché solo nelle fasi di commercializzazione) e abbandonando le strategie technology push a favore di approcci market pull.

Allontanandosi così dalle condotte business as usual , le aziende possono contribuire attivamente al progresso della società in campi che vanno ben oltre quello del mercato, come ad esempio quelli dell'istruzione, dell'accesso all’energia, della qualità ecologica degli ecosistemi.

Per permettere ciò, c’è bisogno di un "salto di qualità" nel pensiero innovativo in termini economico-manageriali, politici ed accademici. C’è bisogno di nuovi concetti, approcci e di competenze che sappiano far leva sul dialogo e sulla cooperazione per originare soluzioni inedite e più efficaci in risposta ai grandi problemi del nostro tempo.

Il nostro lavoro vuole appunto ampliare il dibattito e la ricerca in merito al contributo che le imprese possono fare per rendere i modelli di produzione e di consumo più sostenibili senza andare a detrimento della competitività economica.

Il primo capitolo fornirà una trattazione del tema andando a fare una rassegna della principale letteratura accademica e “grigia” sul tema: nel primo paragrafo si cercherà di enucleare quali siano l’approccio e il livello di comprensione prevalenti delle aziende sui temi della sostenibilità.

In primis, ci concentreremo sulla Creazione di Valore Condiviso (CSV), concetto introdotto da Porter e Kramer nel 2011, illustrandone le principali declinazioni ed effetti e i principali punti di forza o di diversità rispetto agli altri paradigmi di gestione orientati alla sostenibilità.

In secondo luogo, sarà fornita una trattazione sulle più recenti evoluzioni degli approcci all’innovazione, con un focus particolare su quelli che, predisponendo l’organizzazione al dialogo e allo scambio di conoscenza con soggetti e centri di competenze esterni all’azienda (Open Innovation – OI), negli ultimi decenni hanno contaminato la cultura di molte aziende anche in Italia.

(4)

Parte della trattazione sarà dedicata al concetto di Open Social Innovation (OSI), usato come punto di partenza per la nostra trattazione, che tenta di abbracciare anche le casistiche di aziende private che, senza snaturare il proprio carattere “for profit”.

Passeremo poi al quesito centrale della presente tesi e al razionale sottostante, da ravvisarsi nella mancanza di un framework che metta in relazione i concetti di CSV, OI e OSI e ne illustri i punti di convergenza e sinergia.

La nostra esplorazione si concentra sulla natura del rapporto instaurabile tra CSV e OI nel contesto della gestione e della strategia aziendali in un’ottica di generazione di (open) social innovation in contesti for profit. In questo, viene prefigurato un nuovo concetto, quello della Corporate Open Social Innovation

(COSI), complementare a quello già esistente di Open Social Innovation.

Il framework COSI vede come soggetto attore la corporation privata (principalmente quella di grandi dimensioni) e come output caratterizzante una tipologia di innovazione che può definirsi “sociale” in quanto orientata a creare un valore non soltanto per l’azienda ma per la società più ampia. In questo, il paradigma della Creazione del Valore Condiviso orienta le scelte strategiche, predispone l’azienda ad aprirsi all’ecosistema esterno di stakeholder e la rende più matura nel mettere in pratica il paradigma dell’innovazione aperta come modus operandi principale per la normale operatività di chi è adibito allo sviluppo prodotti. Parallelamente, è importante il ruolo dei metodi e degli approcci OI come “canale operativo” attraverso cui rendere possibile dispiegare la CSV in modo economicamente sostenibile.

La tesi sarà corroborata dall’esposizione, nel terzo e nel quarto capitolo, dei casi di due aziende italiane, Enel e Barilla, che sono state selezionate per dimostrare che l’orientamento strategico alla sostenibilità è conciliabile e sinergico con un approccio aperto e collaborativo delle funzioni R&S.

La discussione, contenuta nel Capitolo 5, andrà ad enucleare gli elementi principali dei due casi, illustrando quali sono quelli che contribuiscono al successo della commistione della CSV e dell’OI, in termini di creazione di valore per l’azienda e di esternalità positive per il contesto territoriale in cui essa è inquadrata. Ciò al fine di delineare alcuni tratti della Corporate Open Social Innovation e di proporre un quadro di analisi che possa fungere da strumento utile per l’analisi di ulteriori casi con l’obiettivo di convergere sui tratti e i driver abilitanti per i migliori risultati condivisi.

(5)

CAPITOLO 1

INQUADRAMENTO TEORICO

Il concetto di Shared Value e la sua applicazione in azienda

La diffusione del concetto di sviluppo sostenibilità e del sustainability management

A partire dalla seconda metà del XIX secolo, il sistema economico ha visto l’evoluzione di infrastrutture e modelli di produzione che hanno creato pressioni sempre maggiori sugli stock di risorse ambientali, e finendo per alterare, anche significativamente, gli equilibri degli ecosistemi ambientali in cui le società, con le loro attività economiche, si inseriscono.

La domanda di energia (e l'uso di combustibili fossili) da parte dei settori industriali è costantemente aumentata, causando impatti sulla qualità delle risorse naturali e sulla loro capacità di assicurare i relativi servizi ecosistemici. È ormai riconosciuto che le attività antropiche, consumando materie prime a tassi spesso superiori rispetto a quelli di rigenerazione dell'ecosistema, siano la causa principale della riduzione della qualità dello stato ambientale e del danneggiamento della biodiversità. L’aumento delle emissioni climalteranti ha portato ad un incremento delle temperature medie ben al di sopra dei livelli medi preindustriali: il recente report dell’International Panel on Climate Change (IPPC, 2018) stima che l’umanità, con le proprie attività, ha indotto a livello globale un’anomalia di circa +1°C rispetto al livello medio preindustriale1 e che in mancanza di un netto cambio di paradigma da parte dei sistemi produttivi,

tale anomalia potrebbe2 arrivare a +1,5°C tra il 2030 e il 2052.

È ormai appurata la nozione per cui i nostri modelli di produzione e di consumo, e quindi di sviluppo, sono il fattore primario per un’evoluzione così catastrofica. A introdurre l’idea della necessità di cambiare le nozioni e le logiche fondanti lo sviluppo economico e sociale (quanto meno nel mondo occidentale) è stato per la prima volta il Rapporto The Limits to Growth pubblicato dal Club di Roma nel 1972, le cui simulazioni sul tasso di crescita della popolazione e di sfruttamento delle risorse lasciavano presagire una degenerazione della situazione climatica e il declino della capacità industriale. Nel 1987 la Commissione mondiale sull’Ambiente e sullo Sviluppo (WCED, World Commission on Environment and Development), nel suo rapporto Our Common Future (conosciuto anche come Rapporto Brundtland) ha introdotto il concetto di “Sviluppo Sostenibile” quale modello di sviluppo che risponde alle necessità della generazione presente senza compromettere quelle delle generazioni future.

Dagli Anni Novanta, quindi, è andata diffondendosi la consapevolezza sulla necessità di modificare il modo in cui i sistemi socio-economici svolgono i propri processi e si relazionano con l’ecosistema naturale. A tal fine, ricercatori e legislatori hanno studiato i meccanismi di funzionamento delle principali cause antropiche dei problemi ambientali, al fine di proporre possibili rimedi per ridurre la loro influenza: sono state lanciate delle politiche e istituiti degli standard per volgere i sistemi produttivi a cambiare in modo tale da ridurre le proprie pressioni inquinanti. Governi, organizzazioni non-profit e organizzazioni internazionali si sono attivate in un dialogo di alto livello per convergere su soluzioni che riuscissero a coniugare lo sviluppo economico con i limiti imposti dagli ecosistemi naturali e con la necessità di salvaguardare i diritti delle persone, soprattutto in quei Paesi più arretrati e che salvaguardassero l’equità sociale.

In questo sforzo a livello internazionale, un importante momento di sintesi si è avuto il 26 settembre 2015, quando le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030 Globale per lo sviluppo sostenibile, convergendo

1 Pari alla temperatura media nel periodo (1850-1900). 2 Scenario di alta confidenza: probabilità=95%.

(6)

sui 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs, e i relativi 169 sotto-targets): questi definiscono le aree ambientali, sociali ed economiche che i Paesi, le organizzazioni internazionali ma anche le aziende sono chiamate a integrare nella propria programmazione e a curare nell’attuazione del proprio scopo istituzionale.

Di fatto, l’adozione dell’Agenda 2030 attribuisce esplicitamente un ruolo alle aziende, che vengono concepite non soltanto come “parte del problema”, ma anche e soprattutto come attori importantissimi nella definizione di approcci e soluzioni a favore dell’evoluzione del modello verso quello della sostenibilità (Frey, 2018).

Negli scorsi decenni si è anche attuata un’evoluzione culturale sul lato della domanda di mercato e in termini di aspettative della società nei confronti delle delle imprese (in particolare di quelle multinazionali): in svariate istanze le aziende sono state additate come responsabili dei processi produttivi insostenibili o dannosi per le comunità di riferimento.

Pertanto, sono aumentate decisamente le pressioni a cui le aziende sono chiamate a rispondere per dare contezza non soltanto di quale valore portano sui mercati, ma anche e soprattutto dei modi in cui esse generano di tale valore, di quali sono i mezzi e le modalità con cui esse lo distribuiscono e quali sono gli effetti sociali e ambientali indotti da tali azioni.

In altre parole, l’ampiezza della responsabilità delle imprese è andata ampliandosi e con essa, anche i modi di approcciarsi alla gestione aziendale e i relativi approcci con cui la letteratura nel campo del corporate management ha cercato inquadrare le relative condotte.

La CSR e il sustainbaility management come antecedenti dell’approccio CSV

L’effetto combinato delle suddette evoluzioni è stato l’emergere di nuovi approcci al business e alla condotta aziendale e la nascita di nuovi filoni di ricerca accademica ad essi relativi.

A partire dagli anni ’70, già prima dell’avvento della nozione di sviluppo sostenibile, viene coniato il concetto di Corporate Social Responsibility (CSR), che introduce una visione dell’aziende i cui obiettivi trascendono quelli di redditività economica e amplia il riconoscimento degli effetti dell’operato aziendale anche alle sfere ambientale e sociale.

La stessa CSR sarà poi definita nel 2000 dal Libro Verde dalla Commissione delle Comunità Europee che la definisce come “l’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con altre parti”(Commissione delle Comunità Europee, 2000): l’azienda deve assumere su di sè dovere di farsi carico degli impatti non solo economici ma anche sociali e ambientali riconducibili alla propria attività.

La CSR è strettamente collegata alla importante teoria della Stakeholder Theory di Freeman, secondo cui l’azienda non deve rispondere solamente agli interessi (finanziari) degli azionisti, ma è chiamata a relazionarsi con una cerchia molto più ampia di interlocutori interni ed esterni (i manager, i lavoratori, i fornitori, i membri della comunità locale), ai cui interessi e legittime pretese è chiamata a rispondere per mantenere la propria operatività nel lungo periodo. La natura delle attività aziendali deve essere quindi concepita alla luce del ruolo sociale che l’azienda è chiamata a ricoprire nel più ampio contesto in cui essa è inserita e in virtù di una responsabilità di cui essa si deve far carico su molteplici fronti, come dimostra il modello di Carroll (1979), stando a questo, l'azienda deve ottemperare a responsabilità sul piano innanzitutto economico (generare valore sul mercato per ricompensare gli azionisti), legale (compliance normativa), etico (fare cose che non vadano a discapito della società), filantropica (fare del bene alla società

(7)

in via puramente discrezionale). Nel 2011 la stessa commissione europea ha rivisto la propria definizione, ampliandone la portata per includere “tutti gli impatti sulla società” causati dalle organizzazioni3.

Col tempo e con la crescente urgenza sul fronte ambientale e sociale, sono stati coniati concetti e paradigmi per decodificare i caratteri “operativi” della sostenibilità in azienda: agli inizi degli anni ‘2000 viene introdotta la nozione di “triple bottom line” quale principio di riferimento secondo cui i processi decisionali in azienda devono considerare congiuntamente i fattori in input e i risultati conseguibili sui piani ambientale, sociale ed economico. L’attenzione, quindi, per la sostenibilità delle proprie operazioni deve essere concentrata dall’azienda non più soltanto ex post, ma in maniera preventiva.

Nasce così il sustainability management, che vede un’espansione dei fini dell’azienda affinchè essa, nlla scelta delle iniziative che intende perseguire, non vada a detrimento della qualità ambientale o dei principi di inclusività e giustizia sociale.

La disciplina studia le modalità e gli strumenti attraverso cui un’azienda può raccogliere in modo sistematico e continuativo le informazioni sugli effetti economici, sociali e ambientali dei propri processi, su come può rendicontare tali impatti nei confronti dei vari stakeholder nella società: la gestione aziendale si arricchisce di strumenti per la misurazione dei Key Performance Indicator per quanto attiene i consumi di risorse, l’efficienza e le emissioni, nonché di strumenti di comunicazione che vanno a rendicontare anche in che modo e con quali canali l’azienda si interfaccia con i propri stakeholder (lavoratori in primis). Si sviluppano e si diffondono gli standard di gestione responsabile degli impatti ambientali (ad es. la famiglia ISO 14001) o per la responsabilità sociale (ISO 26000), a beneficio della comparabilità delle informazioni rivelate e come strumento per indirizzare ulteriori iniziative da parte delle aziende.

Gli approcci di business si sono quindi evoluti in condotte più accorte nei confronti della gestione delle aspettative di diversi stakeholder e del reporting multidimensionale.

Una nuova concezione strategica per la creazione di Valore Condiviso

Nel 2011 un significativo avanzamento è stato impresso da Porter e Kramer, i quali hanno introdotto il concetto di Creazione di Valore Condiviso (CSV: Creating Shared Value) come approccio necessario per riscattare il ruolo delle aziende agli occhi della società odierna e dare un nuovo senso al capitalismo. Nell’ottica di Porter e Kramer (20064; 20115), la progressiva penetrazione in azienda di pratiche volte alla

responsabilità sociale non è bastata a contrastare la crescente sfiducia, da parte di molti consumatori e parti civili, nei confronti del mondo businessi, ma anzi si è trovata a confrontarsi con una delegittimazione “senza precedenti nella storia recente”6. A una tale dinamica ha contribuito, secondo gli autori, un’errata

percezione del rapporto esistente tra le pratiche aziendali volte alla generazione di valore economico e quelle attuate per contribuire al benessere della società: le aziende “continuano a concepire la creazione di

3 Commissione Europea - “Corporate Social Responsibility (CSR)”

4 Kramer, M. R., & Porter, M. E. (2006). Strategy and society. Harvard Business Review, (84).

5 Porter, M. E., & Kramer, M. R. (2011). “The big idea: Creating shared value.” Harvard Business Review (Jenuary February) 6 Ibid., pag. 1

(8)

valore in un modo restrittivo e shortermista, sottovalutando spesso le esigenze più importanti della società e degli stakeholder che potrebbero determinare il loro successo nel lungo periodo. […] Questa problematica è stata esacerbata dalle politiche istituzionali, che hanno spesso finito per creare barriere all’attività di impresa, “normalizzando” all’interno dell’opinione pubblica l’esistenza di questo presunto trade-off tra efficienza economica e progresso sociale”7.

Secondo Porter e Kramer, le aziende possono riscattarsi e riacquistare legittimazione agli occhi della società cambiando il modo in cui concepiscono il fine ultimo della propria attività di impresa. Un tale cambiamento (culturale in primis) si fonda sul riconoscimento che nella società esistono dei bacini di bisogno “strutturali”, relativi alle situazioni di contesto e ai bisogni di base delle persone e delle comunità, a cui le aziende possono dare una risposta concreta ed efficace intraprendendo azioni non puramente filantropiche né sconnesse dalle loro attività core: la chiave per una nuova legittimazione del sistema capitalista è quella di rendere quest’ultimo un vettore di efficienza, ma anche motore un ampliamento del valore generabile e della gamma dei destinatari a cui esso viene erogato.

Ecco quindi che è necessario che le aziende si adoperino in uno sforzo per attuare quello che loro chiamano creazione di valore condiviso (Creating Shared Value – CSV) e che definiscono come tutte le “politiche e pratiche operative che migliorano la competitività di un'azienda contribuendo al contempo al miglioramento delle condizioni economiche e sociali nelle comunità in cui essa opera”.

I leader orientati alla CSV perseguono iniziative a favore della comunità di cui fanno parte in un modo sinergico col proprio core business, anziché parallelo: questa integrazione di fini, che permette il simultaneo conseguimento di obiettivi sociali, ambientali ed economici, dimostra che efficienza economica e “conformità sociale” non si contrappongono come in un gioco a somma zero, ma nella loro implicita interdipendenza possono essere conciliati per dar vita a risultati “win-win”, ovvero benefiche per le varie parti coinvolte.

Ad esempio (e in maniera conforme alla resource-based view dell’azienda), dal capitale relazionale e dalla dinamica degli attori nel contesto sociale e competitivo di riferimento possono originarsi dei flussi outside-in chiave per l’azienda, importanti outside-innanzitutto per la legittimazione e la licenza ad operare per la stessa, e capaci di apportare valore sul piano degli asset conoscitivi. Viceversa, l’azienda può distribuire valore inside-out non necessariamente attraverso una transazione economica-commerciale o un’iniziativa promozionale: il “valore condiviso”, per essere davvero creato in quanto tale, richiede un ampliamento della visione manageriale, che deve spingersi oltre l’efficientamento “interno” per abbracciare una visione “ecosistemica”. In questo modo la collaborazione con altri attori (della filiera, della comunità, del sistema-Paese) può permettere efficienze e risultati ben più estesi di quelli conseguibili con un’azione autonoma o limitata all’orizzonte del mercato. L’azienda può così farsi promotrice di una spinta proattiva capace di colmare quelle lacune e i “fallimenti sociali” che le istituzioni non riescono a curare.

Le “opportunità” che un’azienda può cogliere per “mettere in pratica” un approccio di questo tipo si concretano essenzialmente in tre forme (Porter & Kramer, 2011):

• un ripensamento dei prodotti e dei mercati (“reconceiving products and markets”): anziché ambire a un miglioramento continuo delle caratteristiche funzionali dei prodotti da proporrei ai mercati in un’ottica push, le aziende dovrebbero ì volgersi a una modalità di sviluppo che ponga la società al centro cercando di individuarne i principali bisogni (anche più “basici”) cui né governi né istituzioni sono capaci di sopperire. Questo implica volgere l’attenzione anche a quelle categorie di clienti che, caratterizzate da budget ristretti o in situazioni o regioni svantaggiate, sono tradizionalmente sotto-servite ma che, nel complesso, costituiscono dei mercati potenziali dalle dimensioni interessanti. Al centro di tutto ciò risiede, comunque, l’identificazione del bisogno sociale, operazione questa che può richiedere il coinvolgimento diretto dei potenziali utenti e un’analisi del contesto in cui essi sono immersi (Pfitzer, Bockstette & Stamp, 2013);

(9)

• una revisione della nozione di produttività (e delle iniziative per migliorarla) lungo tutta la catena del valore (“redefining productivity in the value chain”): problemi o mancanze a livello sociale, normativo-istituzionale o infrastrutturale possono impattare fortemente sulla possibilità, per gli attori che vivono in questi contesti, di condurre attività di mercato in maniera efficace ed efficiente. Significativi efficientamenti possono essere conseguiti non soltanto nell’ambito dei processi industriali, ma anche promuovendo salute, sicurezza, formazione del personale o agendo sul fronte della performance dei processi ambientali: negli ultimi decenni è stato infatti dimostrato che i costi sostenuti per la riduzione degli impatti ambientali8 o sulla qualità del lavoro possono

essere più che compensati dai guadagni in efficienza e qualità delle produzioni. Oltre a questo, una filiera comprensiva di fornitori o clienti locali può diventare un locus per importanti collaborazioni e progetti condivisi per il raggiungimento di performance più efficienti in diverse fasi della filiera: la competitività può essere trainata dalla creazione di legami forti con la comunità sociale ed economica più prossima e dal miglioramento delle condizioni di lavoro di chi ne è coinvolto;

• un contributo attivo allo sviluppo socio-economico del cluster di appartenenza, ovvero della comunità produttivo-imprenditoriale e sociale geograficamente prossima (“enabling local cluster

development”): dato il ruolo centrale del network e delle condizioni delle infrastrutture a cui

un’azienda può fare riferimento per garantire la continuità della propria attività nel lungo termine, le aziende possono scegliere di effettuare degli investimenti in infrastrutture o promozione dell’educazione, che per loro natura esercitano un ruolo complementare e anzi ancillare per la prosecuzione della propria attività caratteristica. Altresì, le stesse aziende, soprattutto quelle che per le loro grandi dimensioni hanno un ruolo catalizzante per l’area economica in cui operano, possono altresì farsi promotrici di nuovi orientamenti nel gioco competitivo dei mercati, introducendo nuove pratiche a livello contrattuale volte alla salvaguardia delle migliori condizioni ambientali o sociali in relazione al territorio di appartenenza: in questo modo, nuovi standard competitivi e di performance possono essere promossi proprio utilizzando quegli stessi canali propri del capitalismo che da molti è identificato come la maggior causa di danno su questo fronte. Secondo gli autori, la condotta aziendale orientata al valore condiviso definisce best practice che, perseguite dalle aziende e/o dalle istituzioni pubbliche sono peculiari nel risolvere problemi sociali generando anche valore economico, ponendosi quindi in sinergia, anzichè in contraddizione.

Fattori caratterizzanti della CSV

L’approccio CSV viene proposto come approccio alternativo e, in una certa misura necessario, a quelle condotte che diverse aziende hanno adottato all’insegna di una (millantata) CSR che però vengono perseguite in modo frammentario (Porter & Kramer, 2006) e concepite in maniera totalmente scissa rispetto alla strategia di medio-lungo termine dell’azienda.

Il nuovo concetto proposto da Porter e Kramer è utile a illustrare quanto sia importante che le aziende concepiscano la sostenibilità (non soltanto ambientale, ma anche sociale ed economica) come fine caratteristico di ogni azione che esse perseguono, e che una maggiore integrazione del proprio operato con le evoluzioni (e le necessità) che si materializzano nella società è una condizione necessaria. Di fatto, per un’organizzazione creare valore condiviso equivale alla “sostenibilità”, e il riconoscimento di ciò è uno dei maggiori cambiamenti attuabili a livello manageriale9.

8 Ad esempio per diminuire, a parità di output, i consumi energetici o di risorse

(10)

Ecco quindi che l’integrazione degli obiettivi di sostenibilità nel core business, nelle logiche di programmazione strategica e nella cultura aziendale sono i fattori che differenziano questo approccio da quelli sviluppatisi fino ai primi anni Duemila, come si può vedere nella sintesi della Tabella 1.

Tabella 1: Differenze tra filantropia, responsabilità sociale e creazione di valore condiviso in azienda10

Corporate Philantory CSR – Corporate Social Responsibility CSV – Creating Shared Value

“Valore” definito in termini assoluti: Fare del bene (in modi coerenti alle norme e convenzioni vigenti)

“Valore” definito in termini relativi: benefici sociali ed economici rapportati ai costi sostenuti per conseguirli

Donazioni dell’azienda per cause o organizzazioni sociali.

Compliance con le norme e gli standard ambientali e sociali delle aziende.

Azione strategica volta a risolvere problemi e rispondere a bisogni della società in modo economicamente conveniente.

Azioni totalmente volontarie (“plus” rispetto all’attività aziendale, sporadici).

Sostenibilità e “good” corporate citizenship dell’azienda, quali obiettivi primari di iniziative ad hoc (con risultati per lo più reputazionali).

Integrazione di miglioramento socio-ambientale e creazione di valore economicamente: prospettiva strategica.

Cause-related marketing (elemento periferico)

Ampliamento e rafforzamento delle competenze e/o asset aziendali (elemento core)

-

Gestione affidata a Marketing, funzioni di Comunicazione, External/Public Affairs, funzione Sostenibilità

(silo)

Diretto coinvolgimento e/o ruolo (pro)attivo del CEO e del senior management, in collaborazione con altre funzioni aziendali (integrazione)

Orientamento allo short term: Generazione di un impatto sul corto termine.

Orientamento al medio termine: Impatto in termini reputazionali e comunque limitato dal budget allocato per le iniziative CSR.

Prospettiva di lungo termine: Driver di riallocazione di risorse aziendali e di budget su iniziative singole.

Insomma, il CSV si connota per una rilevanza strategica di certi elementi che, seppur già penetrati nella letteratura e nella condotta del management prima dell’avvento di questo concetto, trovano qui una centralità inedita e divengono motore per la creazione di nuovi modelli di business (Schaltegger, Lüdeke-Freund & Hansen, 2016) volti a valorizzare il connubio tra priorità aziendali e priorità sociali. Tra questi, la CSV focalizza la nozione di sostenibilità sul rafforzamento del capitale sociale dell’azienda e sul coinvolgimento attivo di diversi stakeholder (stakeholder engagement11), esplicitando i benefici

conseguibili non soltanto dall’azienda ma anche dall’intera società.

Tal rilevanza è confermata dalla definizione di obiettivi specifici e misurabili rispetto alle varie iniziative perseguite, contestualmente alla creazione e messa in funzione di un sistema di misurazione e reportistica adatto allo scopo, utilizzati su orizzonti temporali lunghi e integrati nei sistemi di performance management da cui dipendono anche gli incentivi al management (Kramer & Porter, 2006): più precisamente, sistemi di

10 Rielaborazione dell’autrice sulla base di Porter & Kramer (2011), Porter (2012), e dei materiali FSG

11 Con “stakeholder engagement” ci si riferisce alle attività di informazione, dialogo e consultazione che un’organizzazione intraprende nei confronti dei propri portatori

d'interesse: a seconda dell’ampiezza dei temi che si decide di trattare e del giudizio di rilevanza espresso rispetto ad essi, tali attività possono spaziare da campagne informative per destinatari specifici fino alla co-progettazione di nuovi progetti (EY Italia, 2017). Le pratiche di stakeholder engagement si sono andate diffondendo negli ultimi anni, in quanto sempre più aziende hanno realizzato l’importanza di dedicare tempo e risorse a un momento di confronto e di verifica delle aspettative dei soggetti (interni ed esterni) che si relazionano con l’impresa, per comprenderne le esigenze e anticipare quelle future. Nelle aziende più culturalmente mature, lo stakeholder engagement può diventare un’opportunità per rivedere criticamente le proprie politiche e decisioni di lungo termine.

(11)

misura atti a quantificare la forza del link esistente tra i nuovi prodotti/servizi e la loro penetrazione tra i target della società (nuovi mercati aperti) per cui sono stati concepiti, i risultati di efficienza (miglioramento della produttività o risparmi di costo) diffusi a vari livelli della value chain, o degli impatti e delle conseguenze sulla comunità e sul cluster geografico di riferimento. Sistemi di rendicontazione, questi, utili innanzitutto alla gestione interna delle core operations, più che strumenti comunicativi adottati per sola compliance.

Verso un capitalismo illuminato

L’introduzione del concetto di CSV e la sua adozione da parte di un numero crescente di aziende si è inserita in (e ha coadiuvato) periodo di “maturazione” da parte del management aziendale a livello globale che Dyllick e Muff (2015) nella loro tipologia della business sustainability definiscono come “Business Sustainability 3.0”, sinteticamente illustrata nella seguente Tabella 2:

Tabella 2: Evoluzione degli approcci alla sostenibilità e relativa maturazione culturale nelle aziende12

Tipo di Business

Sustainability Focus Decisionale (What) Ratio della creazione di valore (What for?)

Modalità di attuazione (da un punto di vista organizzativo)

(How?) Business-as-usual Economico Valore per gli azionisti Inside-out

Business

Sustainability 1.0 Triple Bottom Line Valore per gli azionisti (+ iniziative filantropiche) Inside-out (reattivo)

Business

Sustainability 2.0 Triple Bottom Line

Valore economico per gli azionisti

Performance ambientale Compliance normativa e creazione di posti di lavoro

Inside-out (preventivo)

Business

Sustainability 3.0 Sostenibilità: sfide a livello sistemico

Creazione di valore per la società

Outside-in + Inside-Out (proattivo)

Principali Shift

Mutamento dei criteri valutativi e decisionali e della concezione del ruolo dell'impresa: ampliamento dei target e dei benefici su cui ci si focalizza

Espansione (non più soltanto riallocazione distributiva) del valore condiviso

Da un approccio reattivo (adeguarsi a cosa impongono le istituzioni) e proattivo (dialogare con la società concependola come destinatario e fonte di innovazione -valorizzabile economicamente-)

Attraverso questa “forma più alta di capitalismo” (Porter & Kramer, 2011, p. 15), le aziende amplificano il proprio ruolo al di là del mero contesto di mercato e valorizzano, rendendola più esplicita, la stretta relazione (Aakhus & Bzdak, 2012) di interdipendenza che esse intrattengono con la società.

Il riconoscimento di tale interdipendenza, anzi, diventa una fonte di conoscenza importante per rendere l’azienda più matura per perseguire processi di gestione del cambiamento, aumentare la propensione all’innovazione e innalzare le probabilità di estrazione di valore dalla stessa nel lungo termine. L’introduzione della concezione CSV, facendo della sostenibilità una parte integrante della strategia aziendale, ne evidenzia il potenziale in termini di stimolo all’innovazione e di ampliamento delle possibilità aziendali di perseguire attività capaci di generare effetti a livello sistemico e di spostare il focus dai profitti agli impatti.

(12)

Come evidenziato anche da Porter et al. (2011), la creazione di valore passa attraverso la generazione di nuovo valore in maniera win-win, conseguito attraverso uno sviluppo di prodotti e servizi o modelli di business innovativi, come illustrato in Tabella 3:

Tabella 3: Risultati conseguibili a livello aziendale e sociale attraverso gli approcci Shared Value (Porter et al., 201113)

Canale CSV Risultati di Business Risultati a livello sociale

Ripensare prodotti e servizi

• Aumento dei ricavi

• Aumento della quota di mercato • Crescita del mercato accelerata • Miglioramento della redditività

• Miglioramento dei servizi alla collettività14 • Riduzione della carbon footprint

• Contributo a una miglior nutrizione • Contributo a un miglior sistema educativo

Ridefinire la nozione di produttività nella value chain

• Miglioramento della produttività • Riduzione dei livelli logistici e dei costi operativi

• Maggiori garanzie sulla fornitura • Miglioramento della qualità • Miglioramento della redditività

• Riduzione dei consumi energetici • Riduzione del consumo idrico • Riduzione delle materie prime

• Miglioramento competenze dei dipendenti • Miglioramento dei salari per i dipendenti

Abilitare lo sviluppo del

cluster locale

• Riduzione dei costi

• Maggiori garanzie sulla fornitura

• Miglioramento dell’infrastruttura distributiva • Accesso alla forza lavoro migliore

• Miglioramento della redditività

• Contributo a un miglior sistema educativo • Aumento della creazione di posti di lavoro • Miglioramento della salute

• Redditi migliorati

Ecco quindi che la gestione sostenibile del business non si configura più come una mansione cui relegare singoli ruoli o funzioni, ma una logica sottostante (o, anzi, antecedente) alla programmazione del budget e alle attività di sviluppo dei nuovi prodotti e servizi trasversale a tutti i dipartimenti aziendali e elemento centrale della cultura e dell’immagine aziendale.

Principali risultati

La creazione di valore condiviso può prendere diverse forme a seconda del settore di appartenenza dell’azienda attrice, del contesto sociale in cui essa si trova a svolgere le proprie attività e delle istituzioni e stakeholder che essa riesce a coinvolgere nell’iniziativa: pertanto, a livello operativo, non esiste un approccio one-size-fits-all e di conseguenza e risulta ostico dimostrare empiricamente quali effetti si ricollegano ad un approccio CSV.

Nondimeno, comunque, svariati studi in letteratura hanno indagato sulle conseguenze di un’integrazione più o meno strategica degli obiettivi di sostenibilità nella gestione aziendale. Come riporta anche il report “Seize the change” di EY Italia (2017), tre sono le macro-categorie di benefici conseguibili per mezzo di un approccio che amplii lo scopo del business, coinvolgendo nelle attività di ricerca e sviluppo non soltanto i consumatori di mercato o i clienti nella filiera, ma una vasta gamma di portatori di interessi e di istanze:

1. una mentalità volta al lungo periodo (long-term thinking), che si accompagna ad una maggior propensione a valutare i rischi in modo olistico e quindi in maniera anche più efficace: questo si traduce spesso in migliori ritorni sugli investimenti (Eccles, Ioannou & Serafeim, 2012) 2. benefici reputazionali e in termini di fidelizzazione con i clienti e consumatori target, in virtù

di un set di valori e di iniziative concrete che differenziano l’azienda sul mercato e contribuiscono ad un’immagine di integrità che favorisce una più larga legittimazione da parte

13 Traduzione in italiano a cura dell’autrice. 14(pazienti e cittadini, non solo consumatori)

(13)

di mercati sempre più sensibili alla componente etica dei comportamenti aziendali: tali risultati si ricollegano principalmente al fatto che l’azienda non solo mette in atto azioni “in linea” con le aspettative sociali e istituzionali, ma anche al fatto che, costruendo un sistema di reporting specifico e integrato nei sistemi di performance measurement, è dotata dei mezzi per comunicare i propri risultati senza cadere in pratiche di green washing:

3. una maggior produttività dovuta agli aumenti dell’employee commitment e alla soddisfazione sul luogo di lavoro che si genera nelle aziende più attente alle esigenze della comunità interna ed esterna, e all’attrazione di talenti e persone ad alto potenziale che viene incentivata dalle pratiche aziendali.

L’innovazione oltre il mercato: social innovation versus CSV

Di fatto, la componente di change management e di innovazione insita nel paradigma CSV lo rende contiguo ad un fenomeno che nella letteratura e nella pratica è conosciuto come social innovation, ovvero “nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che contemporaneamente soddisfano i bisogni sociali e creano nuove relazioni o collaborazioni. In altre parole, sono innovazioni che oltre a creare un impatto positivo per la società, aumentano la capacità di agire di più soggetti” (Murray, Caulier-Grice & Mulgan, 2010): un processo che l’OCSE (2000) supporta “perché non si tratta di introdurre nuovi tipi di produzione o di far leva su nuovi mercati al mero scopo di estrarne tutto il valore possibile, ma piuttosto di soddisfare bisogni […] o creare nuovi e più efficaci sistemi di inserimento sociale che diano alle persone un posto e un ruolo nei sistemi produttivi”.

Uno degli aspetti che caratterizza la social innovation è la portata del cambiamento, che è sistemica e strutturale: essa infatti penetra nelle strutture della società ed è tale da avere effetti che perdurano nel tempo innestandosi nel tessuto istituzionale e relazionale proprio della comunità interessata e alterando in via permanente le percezioni e i comportamenti di chi è/era coinvolto dalla problematica in questione (Pol & Ville, 2009).

Caratteristiche proprie della corporate social innovation di successo sono da rinvenirsi nel fatto che le aziende che la intraprendono lo fanno con un intento strategico, sperimentando muovi metodi nella funzione di ricerca e sviluppo (che spesso vedono la collaborazione diretta con altri soggetti dell’ecosistema di riferimento come le ONG o le istituzioni pubbliche) attraverso una valorizzazione degli asset aziendali e investendo nella formazione e nello sviluppo dei dipendenti15.

È evidente quindi che nella realtà operativa CSV e social innovation sono concetti/fenomeni complementari e strettamente connessi, il primo attivo ad un livello strategico-valoriale e di cultura organizzativa, il secondo esistente più come effetto e/o estrinsecazione della “rinnovata” concezione dello scopo del business.

(14)

L’Open Innovation come nuovo paradigma per innovare in contesti di business sempre

più volatili

Come delineato nei precedenti paragrafi, la globalizzazione e la diffusione di nuovi sistemi normativi e informativi hanno indotto un’evoluzione nelle aspettative dei mercati nei confronti delle imprese e rispetto alle responsabilità che esse sono chiamate ad assumere su di sé. D’altro canto, la stessa globalizzazione e lo sviluppo esponenziale delle tecnologie ha indotto un accorciamento della vita media dei prodotti, dei tempi propri dei cicli di sviluppo e un incremento forte nel grado di competizione, stimolato dall’ingresso sempre più frequente di nuovi entranti e l’emergere di modelli di business inediti. Diviene più comune la convergenza tra discipline e campi che un tempo erano gestiti da organizzazioni separate o in settori diversi, e le aziende si trovano quindi in uno scenario competitivo che richiede di essere sempre più flessibili e “percettive” nei confronti delle istanze avanzate dai mercati o dei bisogni latenti in essi.

In un tale contesto, il modello tradizionale di innovazione dimostra le sue limitazioni e la sua inadeguatezza: se fino ai primi anni Duemila il vantaggio competitivo era dato da una gestione dell’innovazione all’interno delle mura e dei laboratori R&S aziendali e da investimenti ingenti per mantenere tutto il processo “proprietario”, nel contesto odierno il modello chiuso non riesce a rispondere al fabbisogno di competenze e risulta anacronistico in un mondo in cui la mobilità dei lavoratori è aumentata, rendendo impossibile “bloccare” all’interno della propria organizzazione i talenti e il miglior capitale intellettuale.

Il riconoscimento, da parte del management, che le fonti di conoscenza (migliori) sono distribuite nell'economia, ha spostato il focus della gestione dell'innovazione sull’elaborazione di nuove modalità di accesso alla stessa in modi tempestivi e competitivamente consoni. “Not all the smart people work for you” è la premessa fondamentale per l’internalizzazione di pratiche di open innovation management in azienda (Chesbrough, 2014), un approccio manageriale relativamente recente che vede l’impresa attivare scambi di conoscenze e di know-how con università, ricercatori, fornitori e imprese del proprio settore, startup o consulenti di altri comparti.

La nozione di innovazione aperta è stata introdotta per la prima volta nel 2003 quale “un processo di innovazione distribuita, basato su una gestione ‘accorta’ dei flussi di conoscenza attraverso i confini organizzativi, utilizzando meccanismi pecuniari e non pecuniari del modello di business caratteristico dell'organizzazione” (Chesbrough & Bogers, 2014). L’OI si pone in antitesi alla tradizionale integrazione verticale” in cui i processi di innovazione interna portano a novità di prodotto o di servizio che poi vengono distribuiti dall’azienda sulla base del suo modello di business.

Al contrario, “i processi di innovazione aperta assemblano idee interne ed esterne in piattaforme, architetture o sistemi […] creano modelli di business per definire i requisiti di queste architetture e sistemi [i quali] accedono a idee sia esterne che interne per creare valore definendo al contempo meccanismi interni per catturare parte di tale valore” (Chesbrough, 2014).

L’attuazione dell’OI implica una variazione, culturale in primis, di paradigma sulla base di cui diventa possibile accelerare i processi innovativi diversificando le fonti di generazione delle idee e riducendo i costi per il reperimento delle competenze necessarie. Se il modello chiuso tendeva a voler minimizzare ogni sorta di spillover conoscitivo, l’OI ne fa un elemento fondamentale del business modelling e development, costruendo strategie orientate proprio a far circolare conoscenze e competenze nella maniera più sinergica possibile. L’open innovation (OI) è utile a ridurre i costi della ricerca e sviluppo, rafforzare le relazioni con clienti e fornitori e sviluppare nuove sinergie tecnologiche; la presenza di un modello di business aperto, permette di moltiplicare le fonti di ricavo, accelerare il time to market e di condividere il rischio con altri soggetti.

Al fine di essere adeguatamente valorizzati, i processi di open innovation devono comunque integrare competenze e strategie di proprietà intellettuale avanzate al fine di non perdere il controllo sui processi che si rendono permeabili ad apporti ed integrazioni da attori esterni. Ciò implica un ripensamento del modo in cui la proprietà intellettuale viene concepita e gestita: anziché accumulare famiglie brevettuali (inutilizzate

(15)

al 70-90%16) allo scopo di creare barriere ai rivali (riducendo però il tasso di innovazione) le aziende

possono agire da acquirenti e venditori attivi di brevetti, favorendo il circolo di conoscenza e aumentando i flussi finanziari.

Tipologie di Open Innovation e fattori distintivi

Esistono tre modalità (flussi) per far fluire le conoscenze nei processi di innovazione aperta:

• l’outside-in (o inbound) OI, che vede l'apertura dei processi di innovazione di un'azienda a molti tipi di input e contributi da parte di fornitori, clienti o altri stakeholder delle attività aziendali: questo approccio permette di aumentare le fonti informative senza intaccare o andare a detrimento il capitale intellettuale interno;

• l’inside-out (o outbound) OI si focalizza invece alla generazione di profitti attraverso la commercializzazione di prodotti (o componenti), anche attraverso spinout, la vendita o il (cross) licensing brevettuale, soprattutto di quelle soluzioni tecnologiche che, sviluppate per lo più internamente, non si adattano al business model corrente (e che in assenza di OI sarebbero lasciati sotto-valorizzati in azienda - Roszkowska-Menkes, 2018-);

• il processo coupled, che consiste in processi di co-creazione principalmente con (molteplici) partner complementari basati su accordi di cooperazione o su joint venture, che strutturandosi su una dimensione dialogica massimizzano il potenziale conseguibile da network: è questa la forma di OI più appropriata per contesti aziendali dalle maggiori dimensioni e disponibilità finanziarie.

Ognuno dei tre processi, comunque, richiede uno sforzo culturale, diffuso in tutta l’azienda, per cancellare la sindrome del not invented here (tale per cui si tende a sottovalutare il potenziale delle soluzioni o delle componenti non sviluppate internamente alle mura aziendali) e promuovere invece un approccio che identifichi i fattori di forza su cui far leva e si interroghi sulle modalità al fine di metterli in sinergia con altri soggetti nel mercato.

L’adozione di approcci propri dell’open innovation implica un deciso cambiamento rispetto al modello di New Product Development (NPD) di tipo stage-gate, in cui il set di idee iniziali viene progressivamente analizzato e “scremato” dal team interno aziendale, per poi giungere a un prototipo da mettere in produzione e lanciare sul mercato.

Figura 2: The Closed VS Open Innovation Funnel (adattato da Chesbrough, 2014)

Il nuovo modello prefigura un processo schematizzabile nella forma di un open funnel che rimane “poroso” agli input esterni dalla generazione delle idee fino al lancio del prodotto, ma che non manca di integrare

(16)

apporti esterni nelle fasi precedenti alla prototipizzazione e che non deve aspettare le ultime fasi dell’R&S per “dismettere” un brevetto (cercando di valorizzarlo prima dello sviluppo di un nuovo prodotto completo).

Evoluzioni e pratiche “open”

Per quanto l’innovazione aperta possa prendere le forme più disparate, negli ultimi anni essa è andata diffondendosi nei settori high-tech, nei campi dell’informatica (dove il paradigma dell’open source e l’economia della piattaforma hanno trovato le loro più importanti manifestazioni), ma anche nei settori più tradizionali.

In questi ultimi, in particolare, le aziende hanno spesso fatto ricorso a iniziative di crowdsourcing, ovvero “esternalizzando una mansione -ideativa e/o di problem solving- che un tempo veniva svolta dai dipendenti e a un’ampia rete di persone sotto forma di una chiamata aperta e a-specifica. L’atto può portare a forme di peer production (quando il lavoro, in risposta alla call, viene svolto in modo collaborativo), ma può anche elicitare la risposta di singoli individui. Il prerequisito cruciale è il ricorso alle open call e l'ingaggio di una quanto più ampia rete di individui interessati (Howe, 2006).

La pratica è andata diffondendosi tra gli attori di mercato anche grazie alla disponibilità di canali online multimediali che rendono possibile raggiungere moltissime persone in diversi luoghi e con bagagli culturali e di esperienze diversificati che possono portare grande valore aggiunto in termini di creatività. Il fenomeno è stato studiato e diverse evidenze (Boudreau & Lakhani, 2013) hanno dimostrato come, per essere di successo (Brabham, 2008), il ricorso alla wisdom of the crowd richieda da parte dell’azienda che lancia la call uno sforzo preventivo di limitazione (identificazione) di un insieme di target specifici presso cui ricercare risposte alle sfide lanciate e degli adeguati meccanismi premianti a fronte del loro contributo. Negli ultimi anni diverse aziende hanno integrato delle open call tra le proprie iniziative, spesso coniugandole con gli sforzi di community building effettuati “attorno” ai propri prodotti e sfruttando il canale online per ridurre la distanza con l’utilizzatore finale: questo è invitato a partecipare a una comunità (virtuale) di interessi non solo in quanto acquirente ma anche come prosumer (Toffler & Alvin, 1980), avanzando idee, proposte o anche critiche in un’ottica di miglioramento continuo. Se ben integrato con le altre pratiche perseguite a livello aziendale, il crowdsourcing può diventare un importante vettore di innovazione e un valido contributo alla costruzione/rafforzamento della brand reputation.

Un altro canale di attuazione di cultura e di pratiche OI è quello conosciuto come design thinking, una metodologia “che infonde in tutte attività di innovazione un’attenzione centrale alla persona umana e all’etica della produzione, come nel design. Secondo il design thinking l'innovazione è alimentata da una comprensione approfondita, conseguita per mezzo dell'osservazione diretta, di cosa le persone vogliono o di cosa necessitano nelle loro vite, di cosa amano o non apprezzano dei prodotti nel modo in cui questi vengono creati, confezionati, commercializzati, venduti o promossi” (Brown, 2008; Kolko, 2015). Questa pratica user-centered, attuata nell’ambito di team interfunzionali e multidisciplinari, coinvolge il consumatore-target fin da prima della progettazione del nuovo prodotto/servizio, facendogli testare i prototipi e facendo dipendere da lui l’esito delle fasi di sviluppo successive. Il fine ultimo di questa metodologia, basata su processi iterativi e sulla massima contaminazione tra i membri del team di progetto, è quella di creare proposte di valore che siano davvero utili per l’utilizzatore e adatte al contesto in cui esso ne farà utilizzo.

L’Open Social Innovation: catalizzare benefici per la società con nuovi modelli

organizzativi aperti

La stessa transizione socio-culturale che ha spinto sempre più aziende ad adottare pratiche di Corporate Social Responsibility e/o di stakeholder engagement, unitamente alla delegittimazione, crescente nell’opinione pubblica, nei confronti delle corporations e delle istituzioni pubbliche, hanno spinto diversi studiosi a invocare la necessità di un cambiamento radicale dei processi di creazione di nuove proposte di

(17)

valore. “L'innovazione sociale diventa più rilevante all’interno delle imprese e nel contesto delle collaborazioni intersettoriali al fine di creare valore condiviso e per riguadagnare la fiducia per tutte le parti interessate […] È chiaro che la tradizionale visione di prodotti e soluzioni deve essere ampliata” (Osburg & Schmidpeter, 2013, p. xiv).

La ricerca accademica e quella di stampo manageriale ha approfondito la nozione di innovazione sociale (introdotta nei precedenti paragrafi) sulla base di una casistica abbastanza ampia, introducendo e esplicitando i concetti e gli approcci alla base del fenomeno e sugli elementi abilitanti. Lo sforzo è stato portato avanti su un piano innanzitutto teorico, al fine di dimostrare che, attivando i canali adeguati, le imprese possono innovare per sconfiggere o alleviare i “disagi sociali” che il settore pubblico non riesce a gestire adeguatamente o che, viceversa, le istituzioni possono amplificare gli effetti positivi delle proprie attività e, soprattutto, migliorare le modalità con cui li quantificano.

Tuttavia, il fenomeno della social innovation è stato analizzato prendendo in esame i casi di organizzazioni non governative e società no-profit che si attivano per portare all’attenzione delle imprese l’esistenza di determinate problematiche e incitandole ad attivarsi (con adeguate risorse e competenze) per contribuire ad estirpare il problema (Osburg & Schmidpeter, 2013). Nella maggior parte dei casi, quindi, manca un’internalizzazione del problema nella strategia corporate e nelle routine delle funzioni aziendali, e le azioni di innovazione sociale rimangono fuori dalla missione aziendale, rimanendo appannaggio delle istituzioni no-profit.

Inoltre, nel 2014, è stata proposta un’evoluzione del concetto di social innovation attraverso un’opera di sintesi tra i fini dell’innovazione sociale e i metodi propri dell’innovazione aperta: Chesbrough e Di Minin (2014) hanno infatti coniato il concetto di open social innovation (OSI) ovvero del“l'applicazione delle strategie di innovazione aperta -inbound, outbound o coupled-, o di cambiamento del business model organizzativo, al fine di dare una risposta alle sfide sociali”, declinando per la prima volta il framework dell’open innovation al settore sociale.

Nella loro formulazione i due autori si rifanno al processo di innovazione sociale che viene delineato da Murray et al. (2010) come diviso in 6 componenti/fasi principali, illustrate in Figura 3, che sono:

• “Prompts, inspirations and diagnoses”: quei fattori che evidenziano una situazione di “squilibrio”, di bisogno, una necessità di cambiamento e/o innovazione, e che definiscono quindi una domanda per lo sviluppo di una nuova soluzione; questo primo momento (fase) è fondamentale nell’orientare tutte le successive attività di ideazione e progettazione e si caratterizza per un’attenzione “aumentata” sul profilo (o gruppo) di persona/e a cui si cerca di dare risposta;

• Proposals and ideas: la generazione di idee avvia il processo di sviluppo, richiedendo spesso approcci che coinvolgono i soggetti interessati dal problema (in misura o attraverso canali diversi); • Prototyping and pilots: la fase di test “pratico” delle idee generate attraverso la realizzazione di prodotti “di prova” più o meno sofisticati da proporre in via preventiva ai target prospettici, per identificare punti di miglioramento e di inadeguatezza prima che sia troppo tardi per correggerli; • Sustaining: la fase in cui la soluzione innovativa, una volta appuratane l’effettiva utilità di presso

gli utenti prospettici, viene istituzionalizzata quale componente dal modello organizzativo adibito a produrla, distribuirla e valorizzarla, così che essa possa diventare parte di un apparato produttivo “permanente”;

• Scaling and diffusion: la fase in cui vengono attuate delle strategie (attraverso il licensing, il franchsing, o associandosi con altri soggetti) per permettere che la soluzione in oggetto possa raggiungere quanti più utenti possibili su larga scala e diventare motore di uno sviluppo che “si adatta” alle necessità delle persone, anziché sovrastarle;

• Systemic change: è l’”obiettivo ultimo” dei processi di innovazione volti a rispondere ai bisogni sociali; “il cambiamento sistemico di solito comporta l'interazione di molti elementi: movimenti sociali, aziende e modelli di business, leggi e regolamenti, dati e infrastrutture e approcci inediti al

(18)

pensare [progettare] o al fare. Il cambiamento sistemico generalmente comporta nuovi framework o architetture composte da molteplici innovazioni di minor dimensione. Le innovazioni sociali spesso confliggono con la rigidità e l’inerzia di strutture preesistenti. I pionieri possono aggirare questi ostacoli, ma la diffusione della soluzione da loro proposta sarà condizionata dal grado in cui essi sapranno rendere economicamente accessibili tali le innovazioni” ai più (Murray et al., 2010, p. 13).

Figura 3: le fasi principali della Social Innovation (Murray et al., 2010)

Nella trattazione delle fattispecie di Open Social Innovation, Chesbrough e Di Minin (2014) si riferiscono ai casi di due Organizzazioni Non Governative (Emergency e Ashoka) e della Municipalità della città di Birmingham per dimostrare quali sono gli elementi che permettono a organizzazioni non-profit di farsi promotori di progetti ad alto impatto e di creare sistemi o soluzioni replicabili in vari contesti.

I tre casi proposti dimostrano che diversi tipi di organizzazioni (sociali) possono dar luogo a processi di cambiamento sistemico (innovazione scalabile) facendo leva su azioni di apertura e di ingaggio di altri attori dell’ecosistema di riferimento.

Tabella 4: tre casi di Open Social Innovation (Chesbrough & Di Minin, 2014)

Emergency Ashoka Città di Birmingham

Peculiarità

• Azione focalizzata (target specifici, no aspettative di universalità)

• Risorse finanziari razionate (e dipendenti dalle donazioni)

• Approccio democratico (fornitura equa e universale) • Maggiore discrezionalità nell’approvvigionamento finanziario Inbound • Attori/fornitori locali di capitale umano • Intermediari locali come

broker di competenze locali • "Local power brokers" come

fonti di licenza a operare

• System integrator • Network di relazioni

personali

• Ingaggio e contributo dei singoli membri

• Utilizzo di tecnologie esterne per raccolta e analisi dei dati sulle esigenze dei cittadini

Outbound

• Relazioni con cooperative e associazioni locali • Exit Strategy: basata sulla

formazione/training in loco, per assicurare che le persone manterranno l'occupazione e le mansioni acquisite nel post-intervento

• Network globale e multidisciplinare • Diventare intermediario di

fiducia (high trust) per attori pubblici e privati

• Negozia le regole di ingaggio per le diverse parti coinvolte nei progetti

• Creazione e offerta di una metodologia per il settore pubblico (change managment in public services) • Codificazione e Standardizzazione della metodologia in tutti i programmi di trasformazione in città

L’innovazione aperta coupled viene qui adoperata come chiave di dialogo ed inserimento nelle comunità locali, imprenditoriale o cittadine in cui queste organizzazioni no-profit operano: i flussi informativi non riguardano (soltanto) le funzioni di singoli prodotti o le caratteristiche di determinati

(19)

servizi, ma trasmettono competenze, tecniche e aumentano le possibilità di azione per diversi membri all’interno della propria comunità di riferimento.

Centrali per il successo dell’OSI sono dunque:

• la commistione di attività outside-in e inside-out nell’esecuzione dei progetti, supportate da delle absorptive capacities discretamente sviluppate;

• l’esistenza di un modello operativo (se non proprio di business) vocato all’erogazione di servizi (core o complementari all’attività istituzionale dell’ente): questo perché quando le aziende del settore privato spostano il proprio core business dalla vendita di prodotti all’erogazione di servizi, spesso maturano contestualmente una maggior consapevolezza dell’importanza dei risultati e degli impatti, piuttosto che delle risorse in input;

• le potenzialità dello stakeholder engagement e dell’orientamento alla comunità nel creare opportunità per valorizzare delle risorse intellettuali o degli asset intangibili (IP) all’esterno delle mura aziendali.

Ecco quindi che l’OSI si pone come concetto paradigmatico con cui decodificare i modi in cui le organizzazioni no-profit possono dare vita a progetti condivisi di innovazione sociale e contribuire attivamente ed efficacemente alla risoluzione di problemi diffusi: esso può essere usato come framework utile per capire su quali elementi far leva per iniziare un sistema di relazioni e di attività, fattibili, sostenibili e scalabili su un orizzonte di lungo termine e capaci di generare impatti positivi per quei segmenti di popolazione che gli approcci tradizionali di business non riescono a raggiungere o supportare adeguatamente.

Punti di comunanza e gap teoretico

Dalla breve rassegna delineata fino a questo punto, si rende evidente come le nozioni di CSV, OI e OSI siano contraddistinte ognuna da aspetti peculiari ma anche da molti tratti simili.

La Tabella 5 riepiloga i principali elementi dei tre approcci, rendendo evidente come alcuni temi o tratti si ripetano o sottostiano alle logiche attuative dei tre fenomeni.

Tabella 5: i framework CSV, OI e OSI a confronto

CREATING SHARED VALUE

(CSV) OPEN INNOVATION (OI) OPEN SOCIAL INNOVATION (OSI)

Definizione Policies and operating practices that enhance the competitiveness of a

company

while simultaneously advancing the economic and social conditions in the

communities in which it operates (Porter & Kramer, 2011)

A distributed innovation process based on purposively managed

knowledge flows across organizational boundaries, using

pecuniary and non-pecuniary mechanisms in line with the organization's business model (Chesbrough & Bogers, 2014)

The application of either inbound or outbound open innovation strategies, along with

innovations

in the associated business model of the organization, to social challenges. (Chesbrough & Di

Minin, 2011)

Soggetto Attore

Aziende private e Terzo settore Aziende private Organizzazioni non profit (NPO), Pubblica Amministrazione

Goal primario

Creare valore finanziario per l'azienda in un modo tale che si realizzino

risultati win win per la società

Ampliare le fonti informative per dar vita a processi innovativi

Realizzare un impatto positivo sulla società utilizzando processi

tipici dell’Open Innovation

Principio fondante

“societal needs, not just conventional economic needs, define markets” “Valore” (Beneficio-Costo) come

principio-guida

“Not all the smart people work for you”

“Possible by an organization running a centrally administered

Figura

Figura 1: Piramide di Carroli (1979)
Tabella 2: Evoluzione degli approcci alla sostenibilità e relativa maturazione culturale nelle aziende 12
Tabella 3: Risultati conseguibili a livello aziendale e sociale attraverso gli approcci Shared Value (Porter et al., 2011 13 )
Figura 2: The Closed VS Open Innovation Funnel (adattato da Chesbrough, 2014)
+7

Riferimenti

Documenti correlati

Paradoxalement pour pouvoir insérer l’apprentissage des langues premières dans le cadre d’un apprentissage de la langue du pays d’accueil, il faut se poser en amont

Relative magnitude of secondaries and their SFDs: The number of secondary craters generated by a primary impact is a function of the size of the primary crater; v_min, the minimum

The dependence of the fluorescence enhancement on the distance between the nanocage and the radiating dipoles is investigated experimentally and modeled by taking into account the

We can identify three dimensions in digital literacy: a technical dimension (technical and operational skills to use ICTs), a cognitive dimension (the ability to think

companies preferably choose a set of specific triads of practices (i.e. activities and approaches), tools (i.e. instruments to support.. the carrying out of activities) and

All in all, the articles in this Special Section on Open Innovation highlight a number of relevant aspects that tap into the current trends and challenges of open innovation,

This produces a consensus crisis which can only be overcome with a greater involvement of the citizens at the European level, more European democracy a stronger

Figure 1 BlandeAltman plot to assess the difference between the SenseWear armband and Sensor Medics Vmax SM-29N (N ¼ 99, *p ¼ 0.001) for average resting energy expenditure. The