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Anton Čechov, inviato nelle galere zariste

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AntonCechov,inviato

nellegalerezariste

IIsaak Il'ich Levitan, «Il monastero silezioso», 1890

Durant e Schutz,

arte contestata

dalle minoranze

FRANCESCO STELLA

di RAISSA RASKINA

Q

uando l’11 luglio del 1890, dopo aver at-traversato la Siberia in un viaggio este- nuantecheduròesat-tamente ottantuno giorni, Cechov intra-vide dal bordo della nave la sua meta finale, l’isola diSachalinglisipresentòavvol-ta dalla fiamme. Il bagliore in-fernale irradiato da quella ter-ra situata oltre le colonne d’Er-cole è il preludio più adeguato per introdurre il lettore in un luogo, che l’ottusa politica di colonizzazione interna stava trasformandoin un gigantesco bagno penale. A Cechov sareb-be occorso qualche anno per rielaborare la mole di impres-sioni e testimonianze collezio-nate durante la permanenza di tre mesi in quel posto realissi-mo e inverosimile: per rielabo-rarla e farne un libro contun-dente,L’isola di Sachalin,

ap-punto, una sobria, pacata, im-placabile denuncia della disu-manità del Leviatano russo, nonché del fallimento di un in-tero sistema istituzionale im-prontato all’ingiustizia e alla corruzione. Ora la Adelphi ren-de omaggio a quest’opera, mai patetica e però assillante, ap-parsa per la prima volta in Ita-lia già nel 1905, offrendone una nuova, impeccabile tradu-zione curata da Valentina Pari-si (pp. 457, e 22,00) .

In cerca di crediti etici

Qualunque sia stato il motivo contingente che spinse il tren-tenne medico e scrittore, or-maifamosodopo una lungaga-vettanelsottobosco deigiorna-letti satirici, a intraprendere il viaggio a Sachalin, qualche ra-gione essenziale l’aveva già se-minata nel racconto pubblica-to subipubblica-to prima della parten-za,«Una storia noiosa». In quel-le pagine dominano tonalità

emotiveaffiniallibrodell’Eccle-siaste: spaventosa è la vanità

una vita non riscattata da alcu-na «idea generale», ovvero da un plausibile surrogato del «dio dell’uomo vivente». In-somma: vana è una esistenza che eviti accuratamente di im-battersi in entità come il peni-tenziario di Sachalin.

Poiché la critica progressi-sta, pur riconoscendo l’indub-bio talento letterario di Ce-chov, si ostinava a negargli quella consistenza etica che era indispensabile, in Russia, a

decretare la grandezza di uno scrittore, è ipotizzabile che una causa così ingrata come lo studio delle condizioni di vita dei forzati e degli esiliati di Sa-chalin fosse necessaria a Ce-chov per reagìre sia alla sua

im-passe esistenziale sia alla

tena- ciadeipregiudizicheinvestiva-no la sua statura morale.

Sul sistema penitenziario russo aveva già attirato l’atten-zione il giornalista americano George Kennan, che a metà degli anni ottanta visitò le ga-lere siberiane e ruppe l’omer-tà che ne occultava le condi-zioni. Naturalmente, la deci-sione di Cechov di recarsi a

Sa-chalin ebbe un’ampia riso-nanza sulla stampa, e il suo editore (e amico), il magnate Suvorin, che aveva provato a dissuaderlo da quell’impresa, si guardò bene poi dal pubbli-carne il resoconto.

Una volta giunto a destina-zione, Cechov, che aveva solle-citato invano un mandato uffi-cialepervisitare i penitenziari, dovette ricorrere a un espe-diente. Grazie alla complicità delcomandantedell’isola,ilge- neraleKononovic,sifecepassa-re per un addetto al censimen-to e, così, riuscì a visitare casa per casa, cella per cella, i villag-gi e le privillag-gioni dell’isola. L’uni-co divieto riguardava eventua-li colloqui confidenziaeventua-li con i deportati politici. Tutto è,

L’iso-la di Sachalin, tranne che un

col-po d’occhio impressionistico o una raccolta di aneddoti più o meno suggestivi. È, invece, un testo sistematico, non privo di una certa acribia sociologica, corredato da statistiche e da un’ampia bibliografia.

Allettoresichiedediesplora-re con pazienza l’articolazione

degli spazi e la scansione del tempo nella vita della colonia penale. Si passa dai gironi più cupi, comequello dei carceri di DueediVoevodsk,adagglome-rati meno terribili, quali erano i villaggi situati nella parte me-ridionale dell’isola. Secondo la legge dell’epoca, una volta scontata la condanna ai lavori forzati,gli ex-galeotti –strema-ti dalla fa–strema-tica fisica e da un «ci-nismo che oltrepassa ogni li-mite»– avrebberodovuto assu-mere le sembianze di pacifici e solerti membri di una colo-nia agricola. A questo scopo, gli «ordini superiori ingiunse-ro di dichiarare Sachalin terra fertile e adatta all’agricoltu-ra», senza tenere conto del fat-to che nessun cereale riesce a maturare nell’arco della breve estate artica.

L’isola somigliava a una po-tenza malevola. L’«erba alta quanto un uomo e anche di più», le felci gigantesche e le bardane con foglie larghe un metro,latajgainestricabile,co- stituivanounoscenarioinquie-tante che «di notte, soprattutto

al chiaro di luna, assume par-venze spettrali». Nessuna for-ma di vita comunitaria riusci-va ad attecchire in quegli stra-ni villaggi multietstra-nici, privi di storia e tradizioni, in cui si con-sumavano usanze abiette co-me il concubinato forzato e la prostituzione delle donne de-portate.

Il segno più eclatante della forma di vita vigente a Sacha-lin era, forse, l’oblio del tem-po. Un oblio che si accompa-gnava alla crescita smisurata dell’apatia e all’assenza di ogniragionevole speranza.Co-sì, alla domanda sull’età, c’era chi rispondeva: «Trent’anni, o

forse cinquanta»; molti non ri-cordavano i giorni della setti-mana; il passato sopravviveva soltantocome lancinante desi-derio di vendetta. La fuga dall’isola, che d’inverno si ri- congiungeallaterrafermagra-zie al mare ghiacciato, restava l’unica aspirazione propria-mente etica, anzi spirituale, deiprigionieri.Cechovnon na-sconde la sua simpatia per un proposito così degno: «Guardi quell’altra riva e pensi: se fossi un deportato, fuggirei sicura-mente, a ogni costo».

Chi leggerà questo libro sul-le gasul-lere zariste, non si aspetti racconti a effetto di delitti de-moniaci, descrizioni degli in-sondabili abissi che abitano una mente criminale, crona-che di fervori e pentimenti. Niente di più lontano, da que-ste pagine, delle idee dostoe-vskiane sul Male e la Redenzio-nechenutronoDelittoecastigoo

I fratelli Karamazov. Cechov non

si stanca di spiegare quanto «quasi tutti i reati fossero terri-bilmente poco appassionanti, banali» e «quanto fossero inco-lori e squallidi gli innumerevo-li resoconti (…) che mi è tocca-to ascoltare dai detenuti». Non è, del resto, incolore, squallida e inappariscente tutta la quoti-dianità di cui si è sempre nutri-ta la narrativa di Cechov?

Un racconto datato 1888

Di tutt’altro genere è il viaggio che sta al centro del lungo rac-contoLa steppa, riproposto da

Quodlibet nella bella traduzio-ne di Paolo Nori (pp. 192, e 14,00). Pubblicato nel marzo del 1888, è uno dei testi che se-gnano una svolta nell’attività di Cechov, di certo il suo rac-conto più lirico: i tempi di ste-sura si allungano, lo stile si raf-fina.Lastepparievoca idintorni della natia città di Taganrog, chel’autorebambinopercorre- vaincalesseperrecarsidalnon-no patervaincalesseperrecarsidalnon-no, e conclude un nu-trito ciclo di testi (da Griša a

Vo-glia di dormire) dedicati

all’fanzia e spesso alla speciale in-felicità che le tocca in sorte.

Un bambino di nove anni, Egòruška, viene portato in cit-tà con un viaggio di quattro giorni perché venga iscritto al ginnasio. Gli otto capitoli scan- disconoimovimentidiunapar-titura in cui non mancano bra- nivirtuosistici:odori,suoni,lu- ci,atmosferedellasteppafiltra-ti dalla percezione del piccolo protagonista che, varcando i confini del proprio microco-smo, è investito dalla casualità senza lustro della vita con l’in-tensità che siamo propensi ad attribuire a un’esperienza mi-racolosa.Personediognirango sociale, parole udite lungo la strada, paesaggi intravisti dal calesselascianoimpressioniin- delebili,destinateatrasformar-si in quei «ricordi d’infanzia» che, come i sogni, non ammet-tono resoconti lineari, e ripor-tati nella scrittura di Cechov hanno prodotto alcune tra le pagine migliori della narrativa di tutti i tempi.

9

PAOLA BONANI

Eudora Welty 1941,

la prima integrale

dei suoi racconti

2

La mistica agguerrita

di André Vauchez

5

Torna «Bord de mer»,

libro-manifesto

di Gabriele Basilico

Di tutt’altro genere

il viaggio al centro

di «La steppa», ora

da Quodlibet, tradotto

da Paolo Nori

Datato 1890,

il reportage esce

nella nuova

traduzione

di Valentina Parisi

Sobria e implacabile, la denuncia del Leviatano russo seguì

ai tre mesi che lo scrittore passò con i galeotti, spacciandosi

per un addetto al censimento: «L’isola di Sachalin», Adelphi

STEFANO CHIODI

11

Catalogo delle opere

a cura di Celant

MIMMO ROTELLA

CATERINA RICCIARDI

Australia anni ’50,

«L’età dell’oro»

di Joan London

SILVIA ALBERTAZZI

3

7

SILVANA TURZIO

SANTA CATERINA

Inserto settimanale

de "il manifesto"

23 luglio 2017

anno VII - N° 29

(2)

di CATERINA RICCIARDI

I

ntervistata dalla «Paris Review» nel 1972, Eudo-ra Welty spiegava il suo puntodivistasulraccon-to, forma che privilegia-va rispetto al romanzo, perché – sosteneva – «i racconti sono tutti rac-chiusi in una singola atmosfe-ra, alla quale tutto, nella storia, deveadeguarsi.Personaggi,sce-nario, tempo, eventi, sono tutti soggetti a quell’atmosfera. E si possono tentare le cose più effi-mere, più fugaci, in un racconto… Forse si risolve di meno, ma succede di più».

Un fuoco intimo

A differenza dell’arte del ro-manzo, quella del racconto – quand’è al meglio – è sempre puntata su un fuoco intimo, ap-pena sfiorabile, anche dalla penna dell’autore, che spesso deve limitarsi a un flash discre-to su un obiettivo circoscritdiscre-to, una luce istantanea che tutta-via non deve sfuggire al lettore. È lì che succede quel tanto che può suggerire una chiave

plau-sibile al di più.

Questa tecnica, sempre più selettiva nel Novecento, è mae- strìadipochi.Ariproporcelaar-riva la pubblicazione integrale diUna coltre di verde

(Raccon-ti edizioni, traduzione di Vin-cenzo Mantovani e Isabella Za-ni, introduzione di Katherine Anne Porter, pp. 262, e 17,00), laprimaraccoltadiEudoraWel-ty risalente al 1941, già in parte tradottanegliscorsianni ottan- ta,quandocifuunarivalutazio-ne di questa appartata scrittri- cedelSuddegliStatiUniti,mor-ta novantenne nel 2001 a Jack-son(Mississippi), dove era nata. I diciassette racconti di Una

coltredi verdevannoaformarela

tavolozza di un apprendistato, variegata nei ritmi narrativi, nelle strutture dialogiche e ver- nacolari,nellescenografierura- liecittadine,neimodipiùome-no comici, caricaturali o tragici, e nelle tipologie umane che du-rante gli anni della Depressio-ne e dei suoi postumi, quando Welty era impegnata in un pro-getto fotografico sulla sua ter-ra, andavano caratterizzan-do – rispetto al moncaratterizzan-do epico ri-tratto da Faulkner – il paesag-gio notoriamente complesso del Sud, ancora diviso fra i po-chi resti di una antica gentility decaduta, poveri bianchi e po-veri neri.

Non a caso, il senso del luogo per Welty (come per altri scrit-tori del Sud, per esempio Car-son McCullers e Flannery O’Connor) è l’anima generatri-ce della storia, il «punto focale» cui si relaziona, scriveva Welty nel saggio Place in Fiction (1955), ciò che «stiamo sperimentan- do»nellanarrazione.Nell’accal-dato Mississippi basta poco a sconvolgereilritmomonotono e statico del tempo e far esplo-dere l’umano, che cova

silenzio- samenteinesistenzemortifica-te:l’arrivodiuntreno,uncirco, unforestiero,unamorte,posso- noprovocarelostrappoall’ordi-nario stantio, rompendone la rassegnata linearità di facciata. Manell’urtoconl’eventocasua-le, ogni smottamento di mi-cro-esistenza, anche effimero, si fa squarcio di riflessi intro-spettivi, che superano il senso del luogo, ridimensionando – dovec’è–ilcontornogrottesco, e indicando territori più estesi, non di rado di natura anche mi-sterica o allegorica.

Donne eccentriche

Ruby Fisher vive un’ora di esal-tazione nel leggere su un gior-nale di essere stata uccisa da suomarito,elabanaleconsape-volezza del caso di omonimia fa cadere in frantumi il suo so-gno di evasione dalla prigionia della consuetudine; Lily Daw, una ritardata mentale, scopre improvvisamente amore e ses-somentre,inattesadiuntreno, sta per essere internata in una casadi cura;Clytie, unavecchia eccentrica, è ossessionata dai voltidella gente,perchévivede la fonte di una «visione più pro-fonda e commovente del mon- do:eramaipossibile–sidoman-da, con fotografica sottigliezza metatestuale – comprendere gli occhi e la bocca di un altro, i quali nascondevano lei non sa-pevacosa,esegretamente chie-devano a loro volta un’altra co-sa ignota?» Imparerà qualcoco-sa di più tragico nel contempla-re, senza riconoscerlo, il suo volto rispecchiato in un barile d’acqua.

Il giardino che Mrs. Larkin, turbata dalla morte del marito, coltiva con perseveranza mani-acalesi fa coltredi verdeper na- sconderelasuacadutanellafol-lia quando, per un lungo istan-te catartico bagnato dalla piog-gia, tiene sollevata la zappa de-cisa a farla cadere sulla testa di un ragazzo di colore. È il miste- rodell’esistenzaciòcheinteres-sa Welty, l’enigma di quello che si nasconde dietro un volto qualsiasi, se solo si riuscisse a squarciarne il sipario.

Disagi mentali

Nel perfetto racconto «La chia-ve» tutto accade in un breve las-soditempo e nellospaziocirco-scritto di una remota stazione ferroviaria. Tra i viaggiatori in attesa c’è una coppia di sordo-muti diretta alle Cascate del Niagara e un giovane dai capel-li rossi che gioca al rilancio di una chiave. Non una parola rompeilsilenzioassonnatodel-la stanza. Toccherà alrompeilsilenzioassonnatodel-la chiave aprire l’occultata anima sogna-trice a un linguaggio misterio-so quando cadrà casualmente aipiedidelsordomuto,carican-dosi di segni tanto ovvi quanto segreti. Inutile porsi domande su possibili significati. Lo sa an-che Albert, il sordomuto: «Sa-rebbe mai stato sicuro di cosa veramente poteva essere un simbolo?». Ciòcheconta per lui è che la chiave è un simbolo: di cosa è difficile saperlo.

Allafinedelracconto,l’obiet-tivo si posa sul volto del giova-ne donatore di un’illusiogiova-ne (o di una teofania? o di una tenta-zione?), il quale, nell’allonta-narsi dalla scena, ha acquisito per sé una consapevolezza in-quieta, che lascia disarmato il lettore: «Si capiva che disprez- zavaevedeval’inutilitàdellaco-sa che aveva fatto».

di SILVIA ALBERTAZZI

A

distanza di oltre trent’annidallalezio-ne di Italo Calvino sulla leggerezza, do- velaricercadellalevi-tà come reazione al peso del vivere, e la capacità di «contem-plare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in ma- linconiaeironia»venivanoindi-cate come la pricipale conse-gna al futuro millennio, non sembrano molti gli autori ad averefattotesorodiquestocon-siglio: se gli altri valori proposti nelle Lezioni americane – rapidi-tà, esattezza, visibilirapidi-tà, molte-plicità – trovano riscontro, in misuramaggioreominore,nel-la narrativa contemporanea, più difficile è inventariare ro-manzio raccontiin cuinonpre-valgalavolontàdi«comunicare al linguaggio il peso, lo spesso-re, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni».

Per questo, un romanzo co-meL’età d’oro (e/o, traduzione

di Silvia Castoldi, pp. 240, e 16,50) della scrittrice australia-na Joan London, al tempo stes-so provoca stupore e fascino. Fra le sue pagine si muovono

corpi malati, senza gravarne il peso sia fisico sia emotivo; e d’altra parte Joan London rie-sce ad affrontare la sofferenza infantile, lo spaesamento, la migrazione,laguerra,l’Olocau-sto sottraendo peso ai disastri della Storia adulta per lasciar-ne alla grazia delle piccole sto-rie infantili, e alleggerendo la cronaca per far posto alla irru-zione della poesia.

Primi anni cinquanta

l Golden Age del titolo è un vec-chio pub di Leederville, un vil- laggionell’AustraliaOccidenta-le, riconvertito in ospedale per bambini malati di poliomielite nei primissimi anni cinquanta, quando una epidemia flagellò l’intero continente. Qui si in-contrano – e si innamorano – Frank e Elsa, due tredicenni, i piùgranditrairagazziricovera-ti: lui, figlio di colti immigrati ebrei ungheresi, malgrado la giovanissima età ha già vissuto durante la guerra esperienze traumatiche, e perciò indelebi-lii; per lei, primogenita di una famiglia operaia australiana, il dolore più grande è non poter più correre sulla sua bicicletta onuotarenell’oceano.Luièbru-no,piccoloper la sua età,ma

in-telligente e vivace; lei, con i suoi boccoli biondi e la sua co-stante serenità, ha la placida bellezza di una piccola madon-na rimadon-nascimentale.

Ilcontatto continuo, il quoti-diano vivere insieme, il sotto-porsi agli sforzi della palestra, il lavorare sui propri corpi fian-co a fianfian-co, li porta ad abituarsi alla reciproca fisicità, sino a fa-re del Golden Age una sorta di mondo parallelo illuminato dalsentimentochescopronodi provare l’uno per l’altra. «Quand’èchetuttoavevainizia-to a cambiare?» riflette Elsa, ri-pensando al suo rapporto con il ragazzo. «All’improvviso il viso diFrankleeradivenutofamilia-re. Non bello, non brutto, ma uguale al suo, una specie di ge-mello, uno specchio. Il loro le-game sembrava colmare l’aria che li circondava. Dal momen-toincuisisvegliavano,allaluce che splendeva dietro le lunghe tendebianchedeilorodormito-ri separati, aspettavano solo di riunirsi».

Precocemente cresciuti a causadella malattia edellacon-seguente separazione forzata dalle famiglie (separazione che, per il ragazzo, sembra ini-

zialmenteripeterequellaimpo-stagli nella prima infanzia dal nazismo in Ungheria), Elsa e Frank appaiono più maturi dei genitori, i quali faticano a veni-re a patti con la disgrazia che si è abbattuta sulle loro famiglie. Mentre la madre di Elsa è con-fusa di fronte alla malattia del-la figlia e per questo incapace di portarle conforto, i genitori di Frank (che tra loro, a volte, continuano a chiamare il loro unicofiglio conilsuo nomeun-gherese, Ferenc) sono sconvol-ti dall’infermità del ragazzo, interpretata quasi come un proseguimento, all’altro capo del mondo, delle sciagure di cui sono stati vittime durante la guerra.

Iniziazione alla poesia

Tuttavia,mentreilpadre,facol- tosouomod’affariinpatria,rea-gisce e trova soddisfazione an-chenellavorodicamionistacui si adatta in Australia, la madre, brillante pianista in Ungheria, rifiuta il paese in cui si trova, cheleapparedesertoeinospita- le,evivenelricordodiunpassa-to europeo precedente alla guerra e ormai perduto. La di-versa accettazione della loro condizione di migranti non può che creare un contrasto tra

i due coniugi: mentre la moglie insiste nel suo sdegnosorigetto del contesto australiano, il ma-rito comincia ad apprezzarne non solo le bellezze naturali, ma anche le persone che lo po-polano, prima fra tutte l’infer-miera Olive Penny, amatissima dai bambini del Golden Age.

Ritratto a tutto tondo di una donna indipendente e respon-sabile, i cui comportamenti emancipati – soprattutto in campo sessuale – appaiono in largo anticipo sui tempi, Olive Penny è una delle tante figure del romanzo che restano im-presseper laloro vivacità e vita-lità. Del resto, nell’Età d’oro an- cheipersonaggidisecondopia-no socheipersonaggidisecondopia-no costruiti con un’atten-zione tale da renderli unici e collocatisullosfondodiunami-nuziosa ricostruzione degli an-ni cinquanta australiaan-ni, a con-fermare che – come scriveva Calvino – «la leggerezza … si as-socia con la precisione e la de-terminazione, non con la va-ghezza e l’abbandono al caso».

Varchi nella malattia

Non c’è nulla di indeterminato o di casuale, infatti, nel roman-zo di Joan London: attentissi-ma, per esempio, è la ricostru-zione degli ambienti e dalla vi- tanelGoldenAge,sanatoriope-diatrico realmente esistito tra il1949eil1959,mentreallasco- pertadelvaccinoantipoliolavo-rava il «giovane e attraente me-dico ebreo Jonas Salk»; così co-me ben restituita è la visita in Australia, nel 1954, della regi-na Elisabetta, accompagregi-nata dal suo impettito «principe sol-dato dal volto risoluto», e viva-ce la resa della condizione dei neo-australiani, alloggiati al lo-ro arrivo nel nuovo continente in baracche di fortuna. Fratuttiicaratteriminori,siim- poneungiovanissimopoetaim- prigionatonelpolmoned’accia-io,Sullivan, cheFrankincontra al Royal Perth Hospital, in cui è ricoverato prima di approdare al Golden Age. Poiché non ha modo di usare carta né penna, Sullivan, che scrive versi nella sua mente, introduce Frank al piacere della poesia, gli inse-gna che essa non deve necessa-riamente ricorrere alla rima o a espressioni auliche: «La poesia nondovevaperforzatrattaredi gestaeroiche...Potevaancheso-migliare alla voce di qualcuno che parlava. Poteva descrivere eventi personali».

Un soggetto in versi

È Sullivan, dunque, a fare di Frankunpoeta, suggerendogli, in primo luogo,di abituarsi alla propriacondizione,poichéèal-lora che «l’immaginazione tor-na libera» e diventa possibile, dal fondo di un polmone d’ac-ciaio, immaginare la neve In Australia guardando un soffit-to. Lo stesso Sullivan conse-gnerà a Frank, alla vigilia del-la sua morte, pochi versi che suonano quasi come una mise

en abyme dell’intera vicenda:

«La tragedia è rimasta a casa / con le nostre madri e i nostri padri /… / Alla fine siamo tutti orfani». Lasciando l’ospedale degli adulti per il Golden Age, Frank è pronto a raccogliere il testimone di Sullivan. In Elsa riconosce la sua musa e il sog-getto privilegiato dei suoi ver-si:la lorodelicata storia d’amo-re si apd’amo-re un varco nella malat-tia, nonostante lo spaesamen-to e la sofferenza.

WELTY

JOAN LONDON

Sullo sfondo di una ricostruzione minuziosa

degli anni cinquanta in Australia, un romanzo

che affronta con grazia la malattia, ambientato

nel Golden Age, sanatorio pediatrico

realmente esistito: «L’età dell’oro», da e/o

Ron Mueck, «Woman with Shopping», 2013 di LUCA SCARLINI

D

opo vari titoli di poe-sia, Margaret Atwo-od debuttò alla nar-rativa nel 1969, con il romanzo La donna

da mangiare, che

rientrava nei circui-ti temacircui-tici del fem-minismo nordamericano. La vicendaerainfatticentratasul-la figura di Marian, che decide di usare l’anoressia come ar-ma di protesta contro il fidan-zato Peter, dal quale si sente usata, ovvero «mangiata».

Nel 1976 l’autrice canadese pubblicò poi Lady Oracolo, che in una rivolta dell’immagina-zione presentava la protago-nista Joan Foster come una donna che finge di essere morta per trovare la quiete necessaria a scrivere con cal-ma i rocal-manzi rosa che adora. Quelle fiction romantiche so-no infatti la sua massima pas-sione e l’oggetto della violen-ta ripugnanza del marito, im-pegnatissimo intellettuale di sinistra.

Un decennio dopo, nel 1985, uscì quello che resta il

suopiùriuscitoromanzo,Ilrac-contodell’ancella, subito accolto

da non poche controversie ne-gli Stati Uniti. La ricorrente tensione verso la prosa poeti-ca di Margaret Atwood giun-ge, in questa scrittura distopi-ca, all’apice confrontandosi con la lingua oracolare, profe-tica, della Bibbia di Re Giaco-mo e citando peraltro esplici-tamente nel titolo il modello deiCanterburyTales diGeoffrey Chaucer.

Erano gli anni in cui le cro-nache americane registrava- noquotidianamenteatti,spes-so violenti,del movimentoan-tiabortista, che attaccava con le armi gli ospedali dove si ac-cettava di effettuare l’inter- vento,inneggiando:«GesùCri-sto è generale/ solo lui deve re-gnare». Il 15 giugno del 1984 il Women’s Health Center dell’Alabama subì un grave at-tacco, mentre i telepredicato-ri insistevano istetelepredicato-ricamente sul tema.

Nella vivace traduzione di Camillo Pennati,Il racconto dell’ancella arrivò in Italia

nel 1988 da Mondadori, e ora

quellaversionevieneopportu-namente riproposta da Ponte alleGrazie(pp. 400,€15,00)in coincidenza con il successo della serie televisiva ideata da Bruce Miller per Hulu Produc-tions, che arriva a distanza di ventisetteannidallapreceden-te trasposizione cinematogra- ficadiVolkerSchlöndorff,sce-neggiata da Harold Pinter, quando il libro peraltro negli Stati Uniti venne presentato come una specie di profetico manifesto anti-Trump.

Dopo una esplosione nucle-are i puritani più estremi (non poche, peraltro, le assonanze conilclassicodellafantascien-za distopica Le crisalidi di John Wyndham,ripropostoda Beat nel 2015) hanno preso il pote-re assoluto nella cupa landa di Gilead,doveunaorganizzazio-ne che si definisce «I figli di Ja-cob» ha eliminato il governo legittimo. Le ancelle, tra le poche donne ancora in grado di fare figli nonostante le ra-diazioni che hanno contami-nato l’area, debbono ubbidi-re agli ordini delle seveubbidi-re «zie», adibite a prepararle all’atto sessuale con i capi del-la comunità. Per questo è ne-cessario l’aiuto delle mogli, incapaci di procreare, cui si chiede di partecipare a sini-stre nonché grottesche ceri-monie di accoppiamento.

Malgradol’ossessioneripro-duttiva, ribadita dalla nuova teologia, esistono in realtà lo-cali dove trionfano le Jezebel, sacerdotesse del sesso clande-stino che lo stato relega in bor-delli nascosti per intrattenere l’élite e gli ospiti stranieri. In questa favola nera, che si con-clude con una fuga disperata e con la rivalsa del desiderio del- laprotagonistacontrol’ipocri-siafurente della nuovareligio-ne di regime, l’elemento di maggiore interesse è l’inven-zione dell’ossessiva retorica delle autorità, che dividono le persone in categorie astratte o le costringono con la violenza a diventare figure di una sini- stramodernasacrarappresen-tazione, espressa nei termini sonanti di un a lingua barocca e oracolare. L’adesione a un

immaginariocensoriodaLette-

rascarlattasitraduceinunidio-maritmico,battente,a cui cer-ca disperatamente di sfuggire la protagonista.

TORNA DA PONTE ALLE GRAZIE, «IL RACCONTO DELL’ANCELLA»

di FRANCESCA BORRELLI

A

ffezionarsi ai propri personaggi, presumi- bilmenteinragionedel-lagratitudine per i buo-ni servigi dispensati nelromanzoincuiface- vanolaloroprimaappa- rizione,ètantopiùperi-colosoquanto più fortunata è stata la loro entrata in scena. Quando J. M. Coetzee inventò, nell’Infanzia di

Gesù (Einaudi, 2013) la figura di un

bambino venuto da non si sa dove, che ammiccava discretamente e con guizzi di ironia alla figura del Redentore (in nulla peraltro rical-candone la vita) aveva destato stu-pore e ammirazione; ma ora che ne riprende la storia inI giorni di scuola di Gesù (traduzione di

Ma-ria Baiocchi, pp. 224, e 19,00) ci si domanda quale urgenza lo abbia motivato.

Difficilmente,chinonhalettoil romanzo precedente potrà orien-tarsi sin dall’inizio, perché Coet-zee annaspa nell’infilare goffa-mentequae làflash-backnonsem-pre illuminanti. Dunque, varrà la pena ricordare che le due figure principali, l’uomo chiamato Si-món e il bambino chiamato David, nel romanzo precedente erano ap- prodatiallacittàdiNovilla,icuiabi-tanti avevano cancellato i loro ri- cordiedisdegnatoognilegamesen-timentale, provenienti da un im- precisatodeserto.Laloroconoscen-za era avvenuta sulla nave che li portava alla nuova destinazione, e dal momento che il bambino ave-va perso il biglietto legato al collo, dove è probabile si dicesse qualco-sa circa i suoi genitori, Simón lo avevapresoconsé,pazientemente consegnandosi a una duplice mis- sione:proteggerloeeducarlo,non-ché ritrovarne la madre, convinto che pur non avendola mai vista, la avrebbe riconosciuta perché qual-cosa nel suo animo, o in quello del bambino,sarebbeintervenutoain-viare loro un segnale.

La donna era stata trovata: un moto irrazionale di Simón aveva fatto cadere la scelta sulla viziata, anaffettiva,frivolaInés,chemai ri- cambiandodiungestogentileilpo-ver’uomo, si era votata tuttavia al- lacausadelbambino,dicuituttola-sciava presupporre che non fosse la madre, come il piccolo David nonmancaapiù riprese dipuntua-lizzare, nella sua irritante antipa-tia, ciò che ne fa un personaggio se non altro interessante e intonato al mood narrativo di Coetzee.

Nel nuovo romanzo, la necessi-tà di scappare alle autorinecessi-tà che po-trebbero identificarli ha portato i tre profughi a Estrella, cittadina di provincia dove il piccolo tiranno Davidpretendedi frequentareuna scuola di ballo: sarà questa la quin-ta di un delitto, il cui interesse si ri-solvetutto nel personaggio meglio riuscito del romanzo, l’improvvi- doeverbosocustodeDmitri,–inca-pricciato della signoraArroyo, mo-glie del direttore della scuola – che trasformerà il suo sogno d’amore in un incubo, quando con dita esa-geratamente passionali stringerà troppo forte il collo di lei.

IL SEQUEL, DA EINAUDI

J. M. Coetzee

arranca dietro

il piccolo David:

«I giorni

di scuola di Gesù»

Nell’accaldato

Mississippi,

tentazionidivita

Come per altri scrittori del Sud, anche

per Eudora Welty il senso del luogo è l’anima

generatrice della storia: da Racconti edizioni,

«Una coltre di verde», la integrale della prima

raccolta della scrittrice, datata 1941

Un ritratto della scrittrice americana Eudora Welty; sotto, «Il racconto dell’ancella», 1990, diretto da Volker Schlöndorff su sceneggiatura di Harold Pinter, tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood

Ossessivaedistopica,

lafavolanera

diMargaretAtwood

Tavolozza

per un apprendistato,

tra varianti dialogiche

e scenografie

rurali e cittadine

autrici

americane

Unamoreadolescenziale

ai tempi della poliomielite

scrittori

dall’Australia

(3)

di CATERINA RICCIARDI

I

ntervistata dalla «Paris Review» nel 1972, Eudo-ra Welty spiegava il suo puntodivistasulraccon-to, forma che privilegia-va rispetto al romanzo, perché – sosteneva – «i racconti sono tutti rac-chiusi in una singola atmosfe-ra, alla quale tutto, nella storia, deveadeguarsi.Personaggi,sce-nario, tempo, eventi, sono tutti soggetti a quell’atmosfera. E si possono tentare le cose più effi-mere, più fugaci, in un racconto… Forse si risolve di meno, ma succede di più».

Un fuoco intimo

A differenza dell’arte del ro-manzo, quella del racconto – quand’è al meglio – è sempre puntata su un fuoco intimo, ap-pena sfiorabile, anche dalla penna dell’autore, che spesso deve limitarsi a un flash discre-to su un obiettivo circoscritdiscre-to, una luce istantanea che tutta-via non deve sfuggire al lettore. È lì che succede quel tanto che può suggerire una chiave

plau-sibile al di più.

Questa tecnica, sempre più selettiva nel Novecento, è mae- strìadipochi.Ariproporcelaar-riva la pubblicazione integrale diUna coltre di verde

(Raccon-ti edizioni, traduzione di Vin-cenzo Mantovani e Isabella Za-ni, introduzione di Katherine Anne Porter, pp. 262, e 17,00), laprimaraccoltadiEudoraWel-ty risalente al 1941, già in parte tradottanegliscorsianni ottan- ta,quandocifuunarivalutazio-ne di questa appartata scrittri- cedelSuddegliStatiUniti,mor-ta novantenne nel 2001 a Jack-son(Mississippi), dove era nata. I diciassette racconti di Una

coltredi verdevannoaformarela

tavolozza di un apprendistato, variegata nei ritmi narrativi, nelle strutture dialogiche e ver- nacolari,nellescenografierura- liecittadine,neimodipiùome-no comici, caricaturali o tragici, e nelle tipologie umane che du-rante gli anni della Depressio-ne e dei suoi postumi, quando Welty era impegnata in un pro-getto fotografico sulla sua ter-ra, andavano caratterizzan-do – rispetto al moncaratterizzan-do epico ri-tratto da Faulkner – il paesag-gio notoriamente complesso del Sud, ancora diviso fra i po-chi resti di una antica gentility decaduta, poveri bianchi e po-veri neri.

Non a caso, il senso del luogo per Welty (come per altri scrit-tori del Sud, per esempio Car-son McCullers e Flannery O’Connor) è l’anima generatri-ce della storia, il «punto focale» cui si relaziona, scriveva Welty nel saggio Place in Fiction (1955), ciò che «stiamo sperimentan- do»nellanarrazione.Nell’accal-dato Mississippi basta poco a sconvolgereilritmomonotono e statico del tempo e far esplo-dere l’umano, che cova

silenzio- samenteinesistenzemortifica-te:l’arrivodiuntreno,uncirco, unforestiero,unamorte,posso- noprovocarelostrappoall’ordi-nario stantio, rompendone la rassegnata linearità di facciata. Manell’urtoconl’eventocasua-le, ogni smottamento di mi-cro-esistenza, anche effimero, si fa squarcio di riflessi intro-spettivi, che superano il senso del luogo, ridimensionando – dovec’è–ilcontornogrottesco, e indicando territori più estesi, non di rado di natura anche mi-sterica o allegorica.

Donne eccentriche

Ruby Fisher vive un’ora di esal-tazione nel leggere su un gior-nale di essere stata uccisa da suomarito,elabanaleconsape-volezza del caso di omonimia fa cadere in frantumi il suo so-gno di evasione dalla prigionia della consuetudine; Lily Daw, una ritardata mentale, scopre improvvisamente amore e ses-somentre,inattesadiuntreno, sta per essere internata in una casadi cura;Clytie, unavecchia eccentrica, è ossessionata dai voltidella gente,perchévivede la fonte di una «visione più pro-fonda e commovente del mon- do:eramaipossibile–sidoman-da, con fotografica sottigliezza metatestuale – comprendere gli occhi e la bocca di un altro, i quali nascondevano lei non sa-pevacosa,esegretamente chie-devano a loro volta un’altra co-sa ignota?» Imparerà qualcoco-sa di più tragico nel contempla-re, senza riconoscerlo, il suo volto rispecchiato in un barile d’acqua.

Il giardino che Mrs. Larkin, turbata dalla morte del marito, coltiva con perseveranza mani-acalesi fa coltredi verdeper na- sconderelasuacadutanellafol-lia quando, per un lungo istan-te catartico bagnato dalla piog-gia, tiene sollevata la zappa de-cisa a farla cadere sulla testa di un ragazzo di colore. È il miste- rodell’esistenzaciòcheinteres-sa Welty, l’enigma di quello che si nasconde dietro un volto qualsiasi, se solo si riuscisse a squarciarne il sipario.

Disagi mentali

Nel perfetto racconto «La chia-ve» tutto accade in un breve las-soditempo e nellospaziocirco-scritto di una remota stazione ferroviaria. Tra i viaggiatori in attesa c’è una coppia di sordo-muti diretta alle Cascate del Niagara e un giovane dai capel-li rossi che gioca al rilancio di una chiave. Non una parola rompeilsilenzioassonnatodel-la stanza. Toccherà alrompeilsilenzioassonnatodel-la chiave aprire l’occultata anima sogna-trice a un linguaggio misterio-so quando cadrà casualmente aipiedidelsordomuto,carican-dosi di segni tanto ovvi quanto segreti. Inutile porsi domande su possibili significati. Lo sa an-che Albert, il sordomuto: «Sa-rebbe mai stato sicuro di cosa veramente poteva essere un simbolo?». Ciòcheconta per lui è che la chiave è un simbolo: di cosa è difficile saperlo.

Allafinedelracconto,l’obiet-tivo si posa sul volto del giova-ne donatore di un’illusiogiova-ne (o di una teofania? o di una tenta-zione?), il quale, nell’allonta-narsi dalla scena, ha acquisito per sé una consapevolezza in-quieta, che lascia disarmato il lettore: «Si capiva che disprez- zavaevedeval’inutilitàdellaco-sa che aveva fatto».

di SILVIA ALBERTAZZI

A

distanza di oltre trent’annidallalezio-ne di Italo Calvino sulla leggerezza, do- velaricercadellalevi-tà come reazione al peso del vivere, e la capacità di «contem-plare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in ma- linconiaeironia»venivanoindi-cate come la pricipale conse-gna al futuro millennio, non sembrano molti gli autori ad averefattotesorodiquestocon-siglio: se gli altri valori proposti nelle Lezioni americane – rapidi-tà, esattezza, visibilirapidi-tà, molte-plicità – trovano riscontro, in misuramaggioreominore,nel-la narrativa contemporanea, più difficile è inventariare ro-manzio raccontiin cuinonpre-valgalavolontàdi«comunicare al linguaggio il peso, lo spesso-re, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni».

Per questo, un romanzo co-meL’età d’oro (e/o, traduzione

di Silvia Castoldi, pp. 240, e 16,50) della scrittrice australia-na Joan London, al tempo stes-so provoca stupore e fascino. Fra le sue pagine si muovono

corpi malati, senza gravarne il peso sia fisico sia emotivo; e d’altra parte Joan London rie-sce ad affrontare la sofferenza infantile, lo spaesamento, la migrazione,laguerra,l’Olocau-sto sottraendo peso ai disastri della Storia adulta per lasciar-ne alla grazia delle piccole sto-rie infantili, e alleggerendo la cronaca per far posto alla irru-zione della poesia.

Primi anni cinquanta

l Golden Age del titolo è un vec-chio pub di Leederville, un vil- laggionell’AustraliaOccidenta-le, riconvertito in ospedale per bambini malati di poliomielite nei primissimi anni cinquanta, quando una epidemia flagellò l’intero continente. Qui si in-contrano – e si innamorano – Frank e Elsa, due tredicenni, i piùgranditrairagazziricovera-ti: lui, figlio di colti immigrati ebrei ungheresi, malgrado la giovanissima età ha già vissuto durante la guerra esperienze traumatiche, e perciò indelebi-lii; per lei, primogenita di una famiglia operaia australiana, il dolore più grande è non poter più correre sulla sua bicicletta onuotarenell’oceano.Luièbru-no,piccoloper la sua età,ma

in-telligente e vivace; lei, con i suoi boccoli biondi e la sua co-stante serenità, ha la placida bellezza di una piccola madon-na rimadon-nascimentale.

Ilcontatto continuo, il quoti-diano vivere insieme, il sotto-porsi agli sforzi della palestra, il lavorare sui propri corpi fian-co a fianfian-co, li porta ad abituarsi alla reciproca fisicità, sino a fa-re del Golden Age una sorta di mondo parallelo illuminato dalsentimentochescopronodi provare l’uno per l’altra. «Quand’èchetuttoavevainizia-to a cambiare?» riflette Elsa, ri-pensando al suo rapporto con il ragazzo. «All’improvviso il viso diFrankleeradivenutofamilia-re. Non bello, non brutto, ma uguale al suo, una specie di ge-mello, uno specchio. Il loro le-game sembrava colmare l’aria che li circondava. Dal momen-toincuisisvegliavano,allaluce che splendeva dietro le lunghe tendebianchedeilorodormito-ri separati, aspettavano solo di riunirsi».

Precocemente cresciuti a causadella malattia edellacon-seguente separazione forzata dalle famiglie (separazione che, per il ragazzo, sembra ini-

zialmenteripeterequellaimpo-stagli nella prima infanzia dal nazismo in Ungheria), Elsa e Frank appaiono più maturi dei genitori, i quali faticano a veni-re a patti con la disgrazia che si è abbattuta sulle loro famiglie. Mentre la madre di Elsa è con-fusa di fronte alla malattia del-la figlia e per questo incapace di portarle conforto, i genitori di Frank (che tra loro, a volte, continuano a chiamare il loro unicofiglio conilsuo nomeun-gherese, Ferenc) sono sconvol-ti dall’infermità del ragazzo, interpretata quasi come un proseguimento, all’altro capo del mondo, delle sciagure di cui sono stati vittime durante la guerra.

Iniziazione alla poesia

Tuttavia,mentreilpadre,facol- tosouomod’affariinpatria,rea-gisce e trova soddisfazione an-chenellavorodicamionistacui si adatta in Australia, la madre, brillante pianista in Ungheria, rifiuta il paese in cui si trova, cheleapparedesertoeinospita- le,evivenelricordodiunpassa-to europeo precedente alla guerra e ormai perduto. La di-versa accettazione della loro condizione di migranti non può che creare un contrasto tra

i due coniugi: mentre la moglie insiste nel suo sdegnosorigetto del contesto australiano, il ma-rito comincia ad apprezzarne non solo le bellezze naturali, ma anche le persone che lo po-polano, prima fra tutte l’infer-miera Olive Penny, amatissima dai bambini del Golden Age.

Ritratto a tutto tondo di una donna indipendente e respon-sabile, i cui comportamenti emancipati – soprattutto in campo sessuale – appaiono in largo anticipo sui tempi, Olive Penny è una delle tante figure del romanzo che restano im-presseper laloro vivacità e vita-lità. Del resto, nell’Età d’oro an- cheipersonaggidisecondopia-no socheipersonaggidisecondopia-no costruiti con un’atten-zione tale da renderli unici e collocatisullosfondodiunami-nuziosa ricostruzione degli an-ni cinquanta australiaan-ni, a con-fermare che – come scriveva Calvino – «la leggerezza … si as-socia con la precisione e la de-terminazione, non con la va-ghezza e l’abbandono al caso».

Varchi nella malattia

Non c’è nulla di indeterminato o di casuale, infatti, nel roman-zo di Joan London: attentissi-ma, per esempio, è la ricostru-zione degli ambienti e dalla vi- tanelGoldenAge,sanatoriope-diatrico realmente esistito tra il1949eil1959,mentreallasco- pertadelvaccinoantipoliolavo-rava il «giovane e attraente me-dico ebreo Jonas Salk»; così co-me ben restituita è la visita in Australia, nel 1954, della regi-na Elisabetta, accompagregi-nata dal suo impettito «principe sol-dato dal volto risoluto», e viva-ce la resa della condizione dei neo-australiani, alloggiati al lo-ro arrivo nel nuovo continente in baracche di fortuna. Fratuttiicaratteriminori,siim- poneungiovanissimopoetaim- prigionatonelpolmoned’accia-io,Sullivan, cheFrankincontra al Royal Perth Hospital, in cui è ricoverato prima di approdare al Golden Age. Poiché non ha modo di usare carta né penna, Sullivan, che scrive versi nella sua mente, introduce Frank al piacere della poesia, gli inse-gna che essa non deve necessa-riamente ricorrere alla rima o a espressioni auliche: «La poesia nondovevaperforzatrattaredi gestaeroiche...Potevaancheso-migliare alla voce di qualcuno che parlava. Poteva descrivere eventi personali».

Un soggetto in versi

È Sullivan, dunque, a fare di Frankunpoeta, suggerendogli, in primo luogo,di abituarsi alla propriacondizione,poichéèal-lora che «l’immaginazione tor-na libera» e diventa possibile, dal fondo di un polmone d’ac-ciaio, immaginare la neve In Australia guardando un soffit-to. Lo stesso Sullivan conse-gnerà a Frank, alla vigilia del-la sua morte, pochi versi che suonano quasi come una mise

en abyme dell’intera vicenda:

«La tragedia è rimasta a casa / con le nostre madri e i nostri padri /… / Alla fine siamo tutti orfani». Lasciando l’ospedale degli adulti per il Golden Age, Frank è pronto a raccogliere il testimone di Sullivan. In Elsa riconosce la sua musa e il sog-getto privilegiato dei suoi ver-si:la lorodelicata storia d’amo-re si apd’amo-re un varco nella malat-tia, nonostante lo spaesamen-to e la sofferenza.

WELTY

JOAN LONDON

Sullo sfondo di una ricostruzione minuziosa

degli anni cinquanta in Australia, un romanzo

che affronta con grazia la malattia, ambientato

nel Golden Age, sanatorio pediatrico

realmente esistito: «L’età dell’oro», da e/o

Ron Mueck, «Woman with Shopping», 2013 di LUCA SCARLINI

D

opo vari titoli di poe-sia, Margaret Atwo-od debuttò alla nar-rativa nel 1969, con il romanzo La donna

da mangiare, che

rientrava nei circui-ti temacircui-tici del fem-minismo nordamericano. La vicendaerainfatticentratasul-la figura di Marian, che decide di usare l’anoressia come ar-ma di protesta contro il fidan-zato Peter, dal quale si sente usata, ovvero «mangiata».

Nel 1976 l’autrice canadese pubblicò poi Lady Oracolo, che in una rivolta dell’immagina-zione presentava la protago-nista Joan Foster come una donna che finge di essere morta per trovare la quiete necessaria a scrivere con cal-ma i rocal-manzi rosa che adora. Quelle fiction romantiche so-no infatti la sua massima pas-sione e l’oggetto della violen-ta ripugnanza del marito, im-pegnatissimo intellettuale di sinistra.

Un decennio dopo, nel 1985, uscì quello che resta il

suopiùriuscitoromanzo,Ilrac-contodell’ancella, subito accolto

da non poche controversie ne-gli Stati Uniti. La ricorrente tensione verso la prosa poeti-ca di Margaret Atwood giun-ge, in questa scrittura distopi-ca, all’apice confrontandosi con la lingua oracolare, profe-tica, della Bibbia di Re Giaco-mo e citando peraltro esplici-tamente nel titolo il modello deiCanterburyTales diGeoffrey Chaucer.

Erano gli anni in cui le cro-nache americane registrava- noquotidianamenteatti,spes-so violenti,del movimentoan-tiabortista, che attaccava con le armi gli ospedali dove si ac-cettava di effettuare l’inter- vento,inneggiando:«GesùCri-sto è generale/ solo lui deve re-gnare». Il 15 giugno del 1984 il Women’s Health Center dell’Alabama subì un grave at-tacco, mentre i telepredicato-ri insistevano istetelepredicato-ricamente sul tema.

Nella vivace traduzione di Camillo Pennati,Il racconto dell’ancella arrivò in Italia

nel 1988 da Mondadori, e ora

quellaversionevieneopportu-namente riproposta da Ponte alleGrazie(pp. 400,€15,00)in coincidenza con il successo della serie televisiva ideata da Bruce Miller per Hulu Produc-tions, che arriva a distanza di ventisetteannidallapreceden-te trasposizione cinematogra- ficadiVolkerSchlöndorff,sce-neggiata da Harold Pinter, quando il libro peraltro negli Stati Uniti venne presentato come una specie di profetico manifesto anti-Trump.

Dopo una esplosione nucle-are i puritani più estremi (non poche, peraltro, le assonanze conilclassicodellafantascien-za distopica Le crisalidi di John Wyndham,ripropostoda Beat nel 2015) hanno preso il pote-re assoluto nella cupa landa di Gilead,doveunaorganizzazio-ne che si definisce «I figli di Ja-cob» ha eliminato il governo legittimo. Le ancelle, tra le poche donne ancora in grado di fare figli nonostante le ra-diazioni che hanno contami-nato l’area, debbono ubbidi-re agli ordini delle seveubbidi-re «zie», adibite a prepararle all’atto sessuale con i capi del-la comunità. Per questo è ne-cessario l’aiuto delle mogli, incapaci di procreare, cui si chiede di partecipare a sini-stre nonché grottesche ceri-monie di accoppiamento.

Malgradol’ossessioneripro-duttiva, ribadita dalla nuova teologia, esistono in realtà lo-cali dove trionfano le Jezebel, sacerdotesse del sesso clande-stino che lo stato relega in bor-delli nascosti per intrattenere l’élite e gli ospiti stranieri. In questa favola nera, che si con-clude con una fuga disperata e con la rivalsa del desiderio del- laprotagonistacontrol’ipocri-siafurente della nuovareligio-ne di regime, l’elemento di maggiore interesse è l’inven-zione dell’ossessiva retorica delle autorità, che dividono le persone in categorie astratte o le costringono con la violenza a diventare figure di una sini- stramodernasacrarappresen-tazione, espressa nei termini sonanti di un a lingua barocca e oracolare. L’adesione a un

immaginariocensoriodaLette-

rascarlattasitraduceinunidio-maritmico,battente,a cui cer-ca disperatamente di sfuggire la protagonista.

TORNA DA PONTE ALLE GRAZIE, «IL RACCONTO DELL’ANCELLA»

di FRANCESCA BORRELLI

A

ffezionarsi ai propri personaggi, presumi- bilmenteinragionedel-lagratitudine per i buo-ni servigi dispensati nelromanzoincuiface- vanolaloroprimaappa- rizione,ètantopiùperi-colosoquanto più fortunata è stata la loro entrata in scena. Quando J. M. Coetzee inventò, nell’Infanzia di

Gesù (Einaudi, 2013) la figura di un

bambino venuto da non si sa dove, che ammiccava discretamente e con guizzi di ironia alla figura del Redentore (in nulla peraltro rical-candone la vita) aveva destato stu-pore e ammirazione; ma ora che ne riprende la storia inI giorni di scuola di Gesù (traduzione di

Ma-ria Baiocchi, pp. 224, e 19,00) ci si domanda quale urgenza lo abbia motivato.

Difficilmente,chinonhalettoil romanzo precedente potrà orien-tarsi sin dall’inizio, perché Coet-zee annaspa nell’infilare goffa-mentequae làflash-backnonsem-pre illuminanti. Dunque, varrà la pena ricordare che le due figure principali, l’uomo chiamato Si-món e il bambino chiamato David, nel romanzo precedente erano ap- prodatiallacittàdiNovilla,icuiabi-tanti avevano cancellato i loro ri- cordiedisdegnatoognilegamesen-timentale, provenienti da un im- precisatodeserto.Laloroconoscen-za era avvenuta sulla nave che li portava alla nuova destinazione, e dal momento che il bambino ave-va perso il biglietto legato al collo, dove è probabile si dicesse qualco-sa circa i suoi genitori, Simón lo avevapresoconsé,pazientemente consegnandosi a una duplice mis- sione:proteggerloeeducarlo,non-ché ritrovarne la madre, convinto che pur non avendola mai vista, la avrebbe riconosciuta perché qual-cosa nel suo animo, o in quello del bambino,sarebbeintervenutoain-viare loro un segnale.

La donna era stata trovata: un moto irrazionale di Simón aveva fatto cadere la scelta sulla viziata, anaffettiva,frivolaInés,chemai ri- cambiandodiungestogentileilpo-ver’uomo, si era votata tuttavia al- lacausadelbambino,dicuituttola-sciava presupporre che non fosse la madre, come il piccolo David nonmancaapiù riprese dipuntua-lizzare, nella sua irritante antipa-tia, ciò che ne fa un personaggio se non altro interessante e intonato al mood narrativo di Coetzee.

Nel nuovo romanzo, la necessi-tà di scappare alle autorinecessi-tà che po-trebbero identificarli ha portato i tre profughi a Estrella, cittadina di provincia dove il piccolo tiranno Davidpretendedi frequentareuna scuola di ballo: sarà questa la quin-ta di un delitto, il cui interesse si ri-solvetutto nel personaggio meglio riuscito del romanzo, l’improvvi- doeverbosocustodeDmitri,–inca-pricciato della signoraArroyo, mo-glie del direttore della scuola – che trasformerà il suo sogno d’amore in un incubo, quando con dita esa-geratamente passionali stringerà troppo forte il collo di lei.

IL SEQUEL, DA EINAUDI

J. M. Coetzee

arranca dietro

il piccolo David:

«I giorni

di scuola di Gesù»

Nell’accaldato

Mississippi,

tentazionidivita

Come per altri scrittori del Sud, anche

per Eudora Welty il senso del luogo è l’anima

generatrice della storia: da Racconti edizioni,

«Una coltre di verde», la integrale della prima

raccolta della scrittrice, datata 1941

Un ritratto della scrittrice americana Eudora Welty; sotto, «Il racconto dell’ancella», 1990, diretto da Volker Schlöndorff su sceneggiatura di Harold Pinter, tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood

Ossessivaedistopica,

lafavolanera

diMargaretAtwood

Tavolozza

per un apprendistato,

tra varianti dialogiche

e scenografie

rurali e cittadine

autrici

americane

Unamoreadolescenziale

ai tempi della poliomielite

scrittori

dall’Australia

(4)

LÉVY-BERTHERAT

Lettereedestasi,

dossieraperto

di FRANCESCO STELLA

U

no dei luoghi comuni piùtritieinfondatisul Medioevo è che alle donnefosseimpossibi-le studiare, scrivere, incideresullavitapub-blica. A differenza del millenniogreco-roma-no, nel quale le personalità intel-lettuali femminili si contano sul- leditadiunamano,quellomedie-vale ha avuto invece poetesse, epistolografe,musiciste, viaggia-trici, drammaturghe, teologhe, autriciditrattatimedicienatura-listici, mistiche, oltre che donne di potere smisurato e di fortissi-ma personalità politica e religio-sa (Matilde di Canosreligio-sa, Eleonora d’Aquitania e tante altre) inim- maginabilinelmondoantico.Co-me ha ricordato Ludovico Gatto nel suo Le grandi donne del

Medioe-vo, «la storiografia più recente ha

bandito vieti stereotipi per af-frontare la questione delle don- neconpiùobiettività»,riferendo-si ai rilanci della questione fem- minilemedievalepropostidaDu- by,Pernoud,Skinner,Perrot,Ber-tini, Lazzari e altri/e; ma nel cam-po della letteratura mediolatina sono fiorite iniziative spesso po- coconosciuteancheallamedievi-stica professionale, come l’archi-vio digitale Epistolae, curato alla Columbia University da Joan Fer-rante fino al 2014, che raccoglie centinaiadiletterescrittenelMe-dioevo da o per donne. Se nel 1984KatharinaM.Wilsonospita-va nella sua antologia Medie1984KatharinaM.Wilsonospita-val

Women Writers 15 autrici, nel

2011 un progetto presentato da Patrizia Stoppacci ai programmi di finanziamento della Commis-sione Europea e ancora inedito ne individuava circa 150 nel solo ambito latino, in un panorama che ovviamente restava a domi-nanza maschile – ma non molto diversamente da quanto avveni-va nell’Illuminismo e ancora nel primo Novecento e, in ampie re-gioni e culture del mondo, anco-ra oggi. Il cliché ha lasciato emer-gere dall’oscuramento dei luo-ghi comuni solo gigantesse del firmamento culturale come Ro- svitadiGandersheim(Xsec.),Ilde-garde di Bingen, Eloisa, la filoso-fa amante e corrispondente di Abelardo (XII), e incampo france-se Christine de Pizan. Da pochi mesi si può contare sulla tradu-zioneitalianadel trattato gineco-logico di Trotula, salernitana dell’XI secolo. Ma per tre o quat-tro nomi che varcano la barriera dei pregiudizi, quanti restano e resteranno ignorati per forza d’inerzia?

Una di quelle che non è stato possibile oscurare è Caterina Be-nincasa, nata a Siena probabil-mente nel 1347, ventiquattresi-ma di venticinque figli e morta proprio a trentatre anni, nel 1380, dopo una vita intensissima disofferenze,battagliecivili,reli-giose e politiche, esperienze estreme e slanci ideali grandiosi nella loro ambizione quanto in-genui nella loro base analitica, priva di una comprensione chia-radeimeccanismieconomiciedi potere che stavano dietro le posi-zioni di papi e sovrani e che non potevano essere modificati solo sullaspintadiprincipimorali.Te-stimone impaurita di visioni cri-stiche fin da bambina, a quindici anni aveva deciso di fare voto di castità dopo la morte per parto della sorella Bonaventura, nome tragicamenteantifrastico.Osteg-giata dalla famiglia per la sua vo-cazione (come accadeva spesso,

fa notare Gatto, sia alle donne che agli uomini) e trattata come una pazza, si creò nel mutismo asociale dell’adolescenza una «cella» interiore che restò sem-pre il suo rifugio, anche quando i genitori cambiarono strategia concedendole una stanza perso-nale per la meditazione e portan-dola a curarsi alle terme che oggi si chiamano Bagni Vignone.

Peresercitare lasua religiosità

itineranteinformealmenoappa-rentemente regolari aderì alla confraternita femminile dei do- menicani(lecosiddetteMantella-te), veste bianca e mantello nero, laviapiùleggeraeautonomapos-sibile per impegnarsi in un ordi- ne,chenoncomportavavitadico-munità né particolari obblighi formali.La suaanoressiaradicale (sialimentavadiacquaediunim-

pastodi«erba»chespessovomita-va), la sua insonnia, le sue visioni cruente(colcuorediCristoestrat-to dal suo corpo e trapiantacruente(colcuorediCristoestrat-to nel proprio, bevendone il sangue), il sospetto che nascondesse le stig-mate e il suo carisma di guaritri-ce del corpo ma soprattutto dell’anima (con consigli e collo-qui ripetuti fino alla risoluzione del problema) le crearono una fa-ma di santità che non si limitò al-la consoal-lazione di marginali

del-la sua città ma, dopo una visione incui Cristola invitava ad andare «fra la gente», si applicò allo sce-nario politico: prima attaccando aspramente la conflittualità del-le fazioni comunali senesi, poi criticando il degrado della Chie- sa,conl’intentodiplacarnelaris-sosità e favorire il ritorno del pa-pato a Roma, garanzia di una più libera «internazionalità», e infi-ne incoraggiando

l’organizza-zione di una crociata contro i Turchi, che non si realizzerà mai. Talvolta il suo intervento di ambasciatrice era richiesto, ma più spesso era guardato con so-spetto dalle autorità signorili o comunali a causa della sua asprezzaedellafedeltàallaChie-sa, che era corpo sociale ma an-che entità politica.

Tutte queste relazioni e i loro retroscena sono descritti con chiarezza e rigore da André Vau-chez, uno dei massimi esperti di agiografia medievale, in Cateri-na da SieCateri-na UCateri-na mistica

trasgressi-va (Laterza «i Robinson / Letture»,

tr. L. Falaschi, pp. 228, e 20,00), che fa il punto delle conoscenze su questa tormentata personali-tà. Come si concretizzava la sua azione? Soprattutto scrivendo: Caterina produsse il più gigante-sco epistolario femminile (e uno dei più voluminosi in assoluto) che ci sia rimasto da quell’epoca: 383 lettere in volgare senese, di cui 8 conservate in minuta (non di sua mano ma sicuramente di sua dettatura). Questo non signi-fica che non potesse scrivere

per-ché donna: significa che, nel

Me-dioevocome inaltre epoche anti- cheemoderne,lascritturaepisto-lare era un’attività professionale anche quando gli autori erano maschi, e la delega della sua ese-cuzione non conseguiva da anal-fabetismo. «Questa lettera, e un’altra ch’io vi mandai – confes-sa al suo consigliere spirituale e poi biografo Raimondo da Capua –hoscrittedimiamanoinsul’Iso-la del–hoscrittedimiamanoinsul’Iso-la Rocca, con molti sospiri e abbondanzia di lagrime… consi-derando la Providenzia … la qua-le…ha provedutocon darmi l’at-titudinedello scrivere,acciocché discendendo dall’altezza, avessi un poco con chi sfogare il cuore, perché non scoppiasse». Addirit-tura ci sono testimonianze di suoi cancellieri che scrivevano contemporaneamente tre lette-re diverse sotto dettatura simul- tanea,alternataaestasiimprovvi-se, dell’instancabile Caterina. Si rivolse a papi, signori, re e prela-ti, comandanti militari e gover-nanti locali, non sempre si sa con qualeaccoglienza–equalchevol-ta irruppe nelle loro assemblee, sempre ascoltata con rispetto e diffidenza,perfarsentireilsuori-chiamo: ma qualunque fosse la reazione del destinatario, le co-pie che lei ne conservava aveva-no una circolazione secondaria che creava comunità di ascolto e propagazione efficaci quanto un sistemaradioaconsolidarnel’au-torità magisteriale.

L’edizionediquestelettere,pa-trimonio prezioso e precoce del-la prosa nazionale, come dell’al-tra sua opera Dialogo della divina

Provvidenza,èunodeiproblemiin-soluti della filologia italiana. L’Istituto di Studi Italiani per il Medioevo ha in corso da tempo un grande progetto di edizione critica, basato sui 55 manoscritti noti più altri 10 scoperti di recen- te,conindividuazionediquelliri- salentiallamanodiunodeisegre-tari di Caterina, Neri di Landoc-cio Pagliaresi. Ma si tratta di un’operazione scoraggiante e complessa anche per la difficoltà diconcordareunmetodoperope-rare scelte testuali in una lingua che era in formazione e non ave-va ancora raggiunto uno stan-dardgrafico riconosciuto. Grazie anche a queste lettere Caterina fu oggetto, da viva e dopo la mor-te,diuncultolentoa crescerema vivissimo, che ebbe i suoi punti

di MARIA CHIARA GNOCCHI

«D

i gantse velt iz eyn shtot, il mondo intero è una cit-tà: è un proverbio yiddish che si legge anche al contrario, ovvero, una città può rappresentare un mondo. Sta in queste paro-le il lascito dello zio Daniel al-la pronipote Hélène, appena arrivata a Parigi per studiare archeologia: trascritto in ca-ratteri ebraici, il proverbio è nascosto nella cornice di un quadro appeso alla parete del-la mansarda che lo zio le ha prestato. Dovrà però passare del tempo perchéHélène capi-sca il senso di quel messaggio, e anche per il lettore la scoper-ta sarà graduale.

IViaggidiDanielAsher,ro-manzo d’esordio di Déborah Lévy-Bertherat, brillantemen-te tradotto da Margherita Bot-to per Einaudi (pp. 160, e 17,50) racconta l’indagine ap-passionata che una ventenne conduce attraverso i segreti di famiglia e le pieghe della Sto-ria, grazie al potere della lette-ratura e soprattutto della fin-zione che la nutre.

Da Parigi agli Stati Uniti

Lo zio di Hélène, un vecchio gi- ramondoeccentrico,trasanda- to,infantile,scrive,conlopseu-donimo di H. R. Sanders, ro-manzi d’avventura ispirati ai suoi viaggi. Romanzi cui peral-tro la ragazza non si è mai inte-ressata, così come non ha mai prestato attenzione alle diver-se pietre che lo zio le porta do-po ogni esplorazione in giro per il mondo. Ma a un certo punto qualcosa cambia, e nel tentativodidissiparel’alonedi mistero che avvolge lo zio, Hélène intuisce che la sua pro-duzione narrativa, apparente-mente proiettata verso l’altro-ve, in una dimensione fittizia, è intimamente legata al «qui e ora», a vicende dolorosamente reali. Archeologa, Hélène deve

scavare in profondità, alla ri-cerca di segni del passato; deve però anche assumere la legge-rezza necessaria per calarsi in una fiaba. Come Pollicino se- gueisassolini–lepietrericevu-te – per rintracciare il cammi-nochelaporterà acasa, ovvero alle sue origini.

Un periplo complesso con-durrà la studentessa attraver-so le vie di Parigi, poi in Au-vergne e per finire negli Stati Uniti. Troverà però la soluzio-ne al mistero proprio soluzio-nel

punto da cui era partita. E se lo zio non avesse viaggiato al-tro che nel tempo della me-moria e nello spazio di una Parigi ormai scomparsa? Di

gantse velt iz eyn shtot. Pollicino

si riscopre Alice.

Da un lato, il romanzo di Déborah Lévy-Bertherat è pie-no di luoghi comuni (la man-sarda che dà sui tetti di Parigi, i segreti di famiglia con radici nella storia dell’Occupazione, le traversate della memoria; dall’altro, questi stessi luoghi comuni appaiono sapiente-mente scelti e disposti in una rete di rimandi intertestuali che ha uno scopo preciso: sug-gerire che nulla è vero quanto la finzione. Il dialogo tra lette-ratura e realtà eccede lo spazio propriamente testuale ed è suggeritofindalparatesto,che presentaunasituazioneallimi- tedellametalessi:delledueepi-grafi che aprono il volume, la prima è tratta da un romanzo

fittizio di H. R. Sanders, men-

trelasecondaètrattadalRobin-son Crusoe di Defoe, autore

rea-le(anchese –coincidenza?– ha raccontato di mondi lontani senza mai spostarsi da Lon-dra). E d’altronde, il vero co-gnome dello zio, che tradisce le sue origini, è suggerito dallo pseudonimo che assume scri-vendo: H. R., in francese, si leg-ge come Ascher.

Il discrimine tra realtà e fin-zione è talvolta più sottile. Per esempio, viene descritto fin dalle prime pagine un quadro dell’artista russo-francese ChaïmSoutine,Laragazza con il

candelabro, di cui Hélène trova

una copia nella sua stanza. Il fi-danzato lo riconosce ma preci-sa di non averlo mai visto, di averne solo «letto la descrizio-ne in un romanzo». Il romanzo è firmato da H. R. Sanders e se il fidanzato non ha mai visto il quadro è perché Daniel Asher lo tiene nascosto; ma il

riferi-mento è ambiguo, perché pur avendo un autore reale (Souti-ne), il quadro non esiste se non nella fiction firmata Déborah Lévy-Bertherat,e quindianche noi, lettori, siamo costretti a leggerne solamente «la descri-zione in un romanzo».

Già trasformato in un suo personaggio da Roald Dahl, nel 1961, Soutine sembra viag-giare molto nella narrativa in-ternazionale: un suo quadro – anche questa volta immagina-rio – costituisce, per esempio,

il filo conduttore del romanzo storico di Ellen Umansky The

FortunateOnes,

del2017,tradot-to da Newdel2017,tradot-ton Compdel2017,tradot-ton con il titolo La ragazza del dipinto.

Moltissimisonoirimandiin-tertestuali nei Viaggi di Daniel

Ascher: oltre alle fiabe, si allude

a Robinson Crusoe, a Moby Dick, ai raccontidiE. A. Poe(unodeiro-manzidiH. R. Sanderssiintito-la La caduta delSanderssiintito-la casa degli

Ascher, echeggiando Usher). Le

ricerche di Hélène tra le vie di Parigi fanno pensare alle inda-gini di Patrick Modiano,in par-ticolare quella volta a riporta-re alla luce Dora Bruder, cattu-rata dai nazisti durante la se-conda guerra mondiale.

Quel che le sta alle spalle

Romanzodelleorigini,roman-zogenealogico? Romanzo difi- liazione,allaPierreMichon,al-la Pierre Bergounioux? Di cer-to Déborah Lévy-Bertherat è consapevolediquestatradizio-ne visto che insegna letteratu-re comparate all’École norma-le supérieure di Parigi, e vi iscrive il suo romanzo senza temere qualche déjà-vu. Però i riferimentipiù pressanti sono a una letteratura meno recen-te, per esempio al Perec di W o

il ricordo d’infanzia, che nasce

precisamente dall’intreccio sapiente di memoria, Storia e finzione, cui Lévy-Bertherat fa anche lei riferimento; ma con una differenza sostanzia-le: nei Viaggi di Daniel Ascher la

fiction non racconta la parte

piùterribile della storia, come in W o il ricordo d’infanzia: anzi, è impregnata di sogni, di fiabe e di avventure, ed è la sola di-mensione possibile per vivere pienamenteunavita altrimen-ti compromessa. Del resto, il romanzodi DéborahLévy-Ber-therat non è (solo) indirizzato a lettori strumentati: certa-mente è anche una riflessione sul potere della letteratura, ma si può leggere come un qualsiasi romanzo d’avventu-ra e di formazione, forse un po’ inverosimile, ma sicura-mente godibilissimo.

Sabri Louatah immagina una Francia

governabiledauncandidatoalgerino

SANTA CATERINA

medioevo

al femminile

di PAOLO TAMASSIA

«N

on sono un auto-re fran- cesecon- tempo-raneo»: Sabri Louatah nonintenderivendicarelasua origine cabila, vuole piuttosto dire che si sente uno scrittore dell’Ottocento, alla Balzac, o unautoreamericanoallaFran-zen, non legato alla sua lingua

né alla sua epoca. Nella sua scrittura è infatti evidente l’ambizione di costruire un af-fresco con una folta galleria di personaggi, capaci di restitui-re le dinamiche vigenti nella società attuale. Ma basta inol-trarsi nella lettura del primo volume della sagaI Selvaggi

(Mondadori, traduzione di Francesca Mazzurana, pp. 218, e 19,00) unico finora tra-dotto, per comprendere che la narrazione – con il suo ritmo incalzante e il sovrapporsi di storie parallele – rivela anche

un’influenzadeltuttocontem-poranea: quella esercitata dal-le serie americane.

Ambientata nella Francia odierna,la storia prende avvio dall’angolo visuale di una fa-miglia cabila (composta da tre generazioni:la«nonnina»Kha-lida con i suoi otto figli e tredi-ci nipoti) e ha inizio il giorno dei preparativi per le nozze tra Slim e una ragazza araba. Le tensioni familiari dovute all’evento imminente si lega- nofindasubitoaquelledell’in-

teropaese,chesitrovaingran-de apprensione per il ballot-taggio delle presidenziali in cui si affrontano Sarkozy e Chaouch, un candidato di ori-gine cabila.

Il conflitto tra differenti vi-sioni del mondo si polarizza soprattutto nelle opposte per- sonalitàdiFouad,attoredisuc-cesso in una popolare teleno-vela, e suo fratello Nazir, om-broso personaggio che mani-polerà il cugino Krim spingen-doloa commettere un attenta-to terrorista. Da una parte il ri-sentimento per la mancata in-tegrazione; dall’altra una ten-sione dialettica mirata a co-struire un futuro privo di con-trasti razziali. Raouf, uno dei numerosi cugini, invita quei membridellafamigliaconvin-ti della differenza tra cabili e arabi a riconoscersi piuttosto come francesi: «Scusate ma

Chaouch non è né cabilo né arabo, è francese! Come te, co- meme,cometuttioquasiipre-senti attorno a questo tavolo». Foaud è daccordo, sebbene per lui la nazionalità non con-sista in alcunché di sostanzia-le, essendo piuttosto un fatto simbolico con ricadute reali: «essere francesi significa ave-re una carta d’identità france-se e i diritti che ne confrance-seguo- conseguo-no! Punto e basta. L’identità nazionale è un problema di prefettura».

La generazione di chi ha vis-suto le discriminazioni degli anni settanta, e non si aspetta nulladallacandidaturadiCha- ouch,senonaltroperlacertez- zacheifrancesinonammette-rebbero la sua vittoria, resta impermeabile a qualunque barlume di fiducia. Proprio contro questa rassegnazione

lavora la mente di Fouad: «La vita è suspense. Le persone ti incasellano e tu credi che sia per sempre. È come se ti aves-sero programmato per essere qualcuno,iltuodoveredifron-te a qualcuno,iltuodoveredifron-te squalcuno,iltuodoveredifron-tesso è di ... sottrarti al destino», ovvero a quel

mek-toub che gli antenati avevano

dovuto subire.

Strano che un autore impe-gnato in questi temi abbia più volte dichiarato: «Non sono uno scrittore politico». Forse le sue parole intendono evi-denziare l’intenzione di scar-tare da idee preconcette, ten-tando di restituire la vita così com’ènellasocietàfrancesedi oggi, anche grazie a una lin-gua modellata su quella delle

banlieues (spesso normalizzata

dalla traduzione), e infarcita diespressionicabile(perfortu-na rimaste in origidiespressionicabile(perfortu-nale).

IL PRIMO VOLUME DELLA SAGA «I SELVAGGI», UN CASO EDITORIALE TRADOTTO DA MONDADORI

Archeologiadiunaesistenzaumana

«I viaggi di Daniel

Asher», primo

romanzo di Déborah

Lévy-Bertherat,

da Einaudi

Una ventenne

e lo zio affabulatore,

che scrive libri

d’avventura: viaggio

nel segreto famigliare

Annette Messager, «Motion/emotion», 2014

André Vauchez fa il punto, per Laterza,

sulla tormentata personalità della mistica

senese: autrice di un gigantesco epistolario

SEGUE A PAGINA 8

esordienti

francesi

Neroccio di Bartolomeo de’ Landi, statua di Santa Caterina in legno policromo, part., 1475, Siena, Oratorio della Tintoria

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