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Academic year: 2021

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TestoeSenso ISSN 2036-2293 DOI (in attesa di assegnazione) pp. 01-06 (21: 2020)

Gli anni di Giovanni Macchia

Silvia Cammertoni

Giovanni Macchia, Gli anni dell’attesa, Milano, Adelphi, 1987, pp. 235.

Gli anni dell’attesa sono quelli della formazione, meditati nella forma di un saggio che si costituisce come il risultato di un lavoro di ripresa interiore. La legge interna di questo testo, dove saggio e narrazione autobiografica si sovrappongono, è l’esperienza che si qualifica in una precisa situazione emozionale e storica: l’attesa, appunto. Qui sono ammessi anche i più distratti, a loro Macchia si spiega apertamente quando, nelle prime pagine, scrive: «Mi trovavo nella situazione descritta in una famosa lirica di Baudelaire. Ero anch’io il bambino avido dello spettacolo e che odia il sipario. Eppure, ha il piacere e il terrore di ciò che la tela nasconde, delle terribili e affascinanti cose che gli toccherà di vedere. E intanto non può far altro che attendere»1.

La grande saggistica non dissimula la componente soggettiva, «il che forse è un’altra modalità di “sfondamento” della letteratura, di irruzione della vita nella scrittura critica»2

come scrive Giuliana Benvenuti a proposito del racconto e dell’autobiografia nell’ultimo Serra. Il libro diventa un luogo carico di passioni, aneddoti, rimandi alla storia, alla musica e al teatro, in cui si esaltano sentimenti, emozioni e relazioni che prendono corpo nei maestri, negli amici e nei colleghi le cui figure vengono ritratte magnificamente talvolta con l’esattezza di personaggi, altre volte sfumate come fantasmi.

L’incontro con questi intellettuali è stato decisivo negli anni dell’università, punti di riferimento in una Roma indaffarata e distratta, ma complice nel formare i «giovani leoni»

di Palazzo Carpegna3: cosa li aveva spinti a sacrificarsi alla letteratura? Una convinzione

assurda e inestinguibile che poteva essere talvolta motivo di imbarazzo, ma mai di pentimento. La facoltà di Lettere rappresentò il luogo delle passioni fondamentali, che non 1MACCHIA G.,Gli anni dell’attesa, Milano, Adelphi, 1987, p. 29.

2CANTARUTTI G.,AVELLINI L.,ALBERTAZZI S. (a cura di), Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario, Bologna, Il Mulino,

2007, p. 103.

3 Macchia si rivolge ai pochi ragazzi della facoltà di Lettere, una comunità costituita in gran parte da donne, e si chiede: «che cosa mai aveva spinto i pochi giovani leoni che frequentavano Palazzo Carpegna ad iscriversi ad una facoltà che non prometteva né fama né guadagni e in cui l’insegnamento universitario, una volta conseguita la laurea, era enormemente distante, irraggiungibile?» (in MACCHIA G.,op. cit, pp. 19-20).

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erano tuttavia costrette nell’angusto perimetro di un’aula, ma libere di vagare per le strade della capitale. Non c’è separazione tra università e città né contrapposizione tra il mondo dei desideri e delle passioni e il mondo dello studio e del dovere. Come infatti scrive Macchia: «Non bisognava credere che in un’aula fosse rinchiuso il cupo senso del dovere con il suo carico di scienza, degli onesti e difficili strumenti, e fuori fosse il divertimento, il piacere, la gioia, il riso, quel gusto della vita che il bravo studente, come nella triste commedia di Nino Oxilia, avrebbe dovuto poi rimpiangere»4. Nessuna cupezza, dunque,

ma nemmeno edonismo: il piacere in letteratura nasce dal pessimismo più atroce.

La prima delle sette parti in cui è diviso il libro, è l’occasione per riflettere sul momento in cui il suo sguardo si è rivolto verso i grandi scrittori della letteratura francese. Individuare nel professor Pietro Paolo Trompeo l’unica causa sarebbe semplicistico, dal momento che erano quegli stessi libri, cui si dedicava sempre più, a illuminare «una quantità di cose infinite, lontane e diverse» che proprio per effetto della loro lontananza divenivano meravigliose. È però vero che l’incontro con Baudelaire si deve proprio a Trompeo che, alla fine del 1932, portò in classe un’edizione preziosa dei Fiori del Male. In queste pagine l’autore esalta la pigrizia virtuosa di Trompeo che si definì un “lettore vagabondo” sulla scorta dei giudizi ripetuti sulla sua attività critica, ma che se vagabondo fu, lo fu nei modi, non nella sostanza.

L’occasione, la freschezza e la possibilità dischiuse dai frammenti di un’esperienza letteraria fedele e appassionata, resero forse lo scrivere un errare, ma Trompeo scelse Stendhal e Manzoni come compagni d’avventura nel suo vagabondaggio. Macchia scrive che «forse il più bel libro di Trompeo era lui, Trompeo»5: in virtù della sua benevolenza,

della serenità e del senso di attesa che metteva in tutte le cose fu per i suoi allievi un maestro, perché fu innanzitutto un amico.

Il nome di Cesare De Lollis emerge dalla densa nebbia di prestigio che appanna la sua opera. Appartenente a una generazione di critici che amavano definirsi “non specialisti”, De Lollis sfuggì a ogni velleità, ristrettezza o tentazione edonistica indotta dalla specializzazione disciplinare e mantenne uno spirito curioso e giovane. La giovinezza, in questo libro, non solo viene rievocata come esperienza, ma anche ammirata come qualità nella scrittura.

L’insofferenza per lo specialismo e la giovinezza, sono quindi due dei tratti comuni a tutta un’area critica del Novecento italiano, era la generazione della Cultura, un termine approssimativo ma che indicava una koiné «[…] esprimeva quegli ampi e illimitati interessi

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e li legava insieme come il contenuto nella forma generale di un’indagine […]»6. Questo

modello di Cultura era mediato dall’estetica. E, in Italia, l’estetica era l’estetica di Croce che venne poi assorbita entro il tessuto della filologia e quello che a tanti parve un indebolimento se non una distruzione, per Macchia fu anzi un miglioramento e un rafforzamento che portò all’affermarsi della figura del critico-filologo, quali furono, tra gli altri, Neri e Benedetto. Ma negli stessi anni lo sfumarsi dei confini della cultura universitaria portò al diffondersi di un nuovo gusto di cui i principali responsabili furono i critici-lettori: scrittori, uomini di cultura e lettori privati che espressero il loro interesse soprattutto verso la letteratura contemporanea. Sulle riviste militava una critica forse ancora disordinata, ma di certo autentica e ricettiva, quello che importava è che la critica, mutevole e fallimentare, oggetto di culto o di biasimo, si liberasse di programmi e di mode per discutere delle opere. D’altronde «[…] l’attività critica non è solo scienza e prassi istituzionale: è un’impresa individuale a rischio non calcolabile, che nessuna teoria e nessun metodo saranno mai in grado di garantire e proteggere dal fallimento e dall’errore»7. Allora: «Se la fatica è incessante ed i limiti malfermi e insicuri, se domani essi

verranno ancora una volta rovesciati da chi seguirà nella costruzione di quella muraglia cinese che è la critica, basterà averli segnati, per lasciare almeno un’immagine fugace di noi nel nostro tempo»8.

A mano a mano, Macchia si svincola dall’ambiente universitario e parla di altri saggisti: Emilio Cecchi, Mario Praz, Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Praz viene subito giustificato per la difficoltà che può suscitare nel lettore ad andargli incontro in uno slancio d’affezione. La sua scrittura densa, articolata, citazionistica mette a distanza solo a una lettura superficiale, perché «Si assiste ad una splendida fioritura di doni, ad una prodigalità difficilmente riscontrabile oggi, in cui si preferisce apparire avari anziché poveri»9, tutto offre Praz al suo lettore ed è questa la vera capacità di donare.

L’antiromanticismo di Praz si manifesta nel fascino per l’artificio e nel gusto per il particolare e l’eccezionale, che esaltavano la snellezza e il vigore della sua erudizione «[…] che può significare la morte o la vita di uno scrittore, una fiamma che lo alimenti o che lo bruci»10. È un critico laico e mondano, si cala nella storia particolare, è un critico di

rapporti. Getta uno sguardo mobile sul libro e sull’oggetto, i quali, sebbene costantemente in gara per catturare la sua attenzione, sono partecipi di uno stesso segreto. L’oggetto è un testimone muto, pur percependo la sua ansia di parlare, il critico non riesce a strappargli la 6 Ivi, p. 58.

7CANTARUTTI G.,AVELLINI L.,ALBERTAZZI S., op. cit., p. 39.

8MACCHIA G.,op. cit., p. 71. 9 Ivi, pp. 121-122.

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confessione. Solo il libro può interpretarne i segni, intenderne la storia, svelarne il mistero, insomma, salvarlo dal silenzio.

La figura di Cecchi viene introdotta proprio dal carteggio con Praz, questo scambio di lettere testimonia un’amicizia nata dal bisogno del più giovane di un esempio di uomo e di scrittore. Il modello che Cecchi poteva offrire era quello della misura, il suo emblematico Corse al trotto fu proprio l’elogio, in letteratura, dell’andatura naturale, il cui raggiungimento poteva e doveva avvenire anche attraverso l’esercizio dello stile. L’esercizio implica l’impegno al perfezionamento, la disponibilità alla cura, a prendersi il tempo che la contemporaneità ha polverizzato per arrivare a un’idea di critica come un correre incontro alle occasioni, al fondo misterioso della realtà percepita.

In questo libro pieno di luce, la serenità delle memorie fin qui collezionate è turbata dal suicidio, la più spaventosa delle nubi. L’articolo di Cecchi dedicato a Michelstaedter dispone non solo al ricordo di un dramma ma anche a una riflessione che incide tagli profondi come colpi d’ascia su tutti quei giovani baciati dal talento, ma incapaci di cavarsela. Quando sei giovane il futuro è lontano e astratto. A Michelstaedter non interessava il futuro, bensì l’eternità che il futuro nega.

Se ci è dato sperimentare una forma di libertà, questa è nel rapporto con il proprio lavoro, e Cecchi ci ha offerto il dono della consuetudine, la sola a stabilire un rapporto diretto capace di superare l’ammirazione in favore di un senso di famigliarità, di un senso di necessità e di utilità che scaturisce dalla pagina. Perché se un significato si può trovare è nella drammatica ricerca della misura entro cui salvare l’esperienza, salvarla dal silenzio che trascina tutte le cose dette o pensate e dimenticate. Macchia non manca di ricordare Giacomo Debenedetti, per cui la libertà nel rapporto con il lavoro si esprimeva nell’insegnamento, più diretto di qualunque atto critico, come non dimentica la vertigine del viaggio immaginario di Sergio Solmi, meditata con malinconia nei Saggi sul fantastico. Forse la scelta è meno strana di quanto possa sembrare: la malinconia e l’insofferenza verso la realtà presente si rifugiano non solo nel ricordo, ma anche nella fantasia.

Una certa insofferenza da parte di Macchia la leggiamo nell’appendice, provocata dalla semplificazione del linguaggio cui hanno contribuito i mezzi di comunicazione di massa. Oggi, per noi, è un discorso acquisito, nel 1964 Macchia esprime per punti le preoccupazioni legate ai recenti cambiamenti e scrive: «La nostra epoca è malata di questo cancro dello sguardo, di cui tutti noi abusiamo […] Vivere con il visibile. Ma chi pensa più all’invisibile?»11. Si interroga, quindi, sulla reazione dello scrittore come spettatore, come

produttore e come personaggio, sul problema del rapporto tra diffusione dell’opera e memoria dell’opera, sul paradosso della diffusione dell’opera e del mancato

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riconoscimento dell’autore e sul cambiamento del mercato, ma sempre evitando le pose da intellettuale aristocratico, perché tutto può diventare espressione di cultura e verità.

Le pagine degli Anni dell’attesa inclinano alla nostalgia, percorse dalla tensione dell’energia e della speranza, è proprio questa tensione nostalgica, suggestionata dalla riflessione sull’attesa, il sentimento che pervade il lettore. Tuttavia, nemmeno gli aneddoti più intimi sono ombreggiati dalle palme dell’idolatria, infatti, Macchia dichiara di abbandonare ogni forma di culto nella strada che conduce alla conoscenza e, se un culto vi è, è rivolto ai numi famigliari cui sono consacrati altari tra le rovine in cui riverbera l’eco della memoria. In queste pagine troviamo l’ironia e la confidenza, il riserbo e l’ossessione ad animare il passato e l’avvenire, la fantasia e la storia, sono pagine che compongono il racconto di un’esperienza sentimentale e conoscitiva, ma senza sentimentalismo.

Senza mai scrivere di sé, Macchia ci rivela la sua poetica, perché non c’è niente di più personale che parlare dei propri maestri. Eppure, le immagini che accende nel lettore si spengono subito dopo, esse non hanno l’intensità del ricordo e lasciano un senso di fascinazione e di invidia. Questo sentimento è essenzialmente legato a un desiderio inappagabile del passato. Macchia, invece, ha conosciuto quel tempo, percepisce la distanza tra ciò che è stato e ciò che è, le persone, gli eventi e le relazioni scivolano indietro e non rimane che contemplarli: questa è la nostalgia.Questa distanza che viene a crearsi può essere coperta dalla nostalgia o dalla memoria, le due non sono necessariamente legate, ma neanche si escludono l’una con l’altra, perciò il nodo di contraddizione che le lega nel libro non riesce a sciogliersi.

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