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"La scienza nella letteratura postmoderna: verso una cultura terza? I casi Banville, Winterson, Stoppard e Frayn"

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Abstract

Science has increasingly become a main focus in British contemporary fiction: with reference to some works by widely known writers – like the so-called “Science Tetralogy” by the Irish John Banville, Doctor Copernicus: A ovel (1976), Kepler (1981), The ewton Letter: An Interlude (1982) and Mefisto (1986), or the more recent novel Gut Symmetries (1997) by Jeanette Winterson – this study aims to illustrate the complex and dynamic process through which literature is ever more being connected with important scientific concepts and/ or theories. The aspect is not restricted to fiction: as far as drama is concerned for instance, two much applauded works by the modern dramatists Tom Stoppard and Michael Frayn are here dealt with – Arcadia (1993) and Copenhagen (1998), respectively. There is evidence that science has, at least to some extent, gained access to poetry too.

By reshaping the central idea of third culture originally proposed by Charles Percy Snow – the theorist of the “two cultures debate” – this study thus attempts to outline a “new situation” in which science and literature may be opponents no longer. This situation should properly be labelled (and defined) as the postmodern situation.

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Key-words

(To Save) Appearances: expression used in classical astronomy in order to make a planetary model and/ or theory fit the observed data. In a contemporary context, what limits human desire for absolute knowledge.

Banville John: contemporary Irish journalist and writer, who also uses the pseudonym of Benjamin Black in most of his crime stories. His novels reveal his great indebtedness to European tradition – including Mann, Goethe, Proust and Kleist – along with a constant recycle of more “local” models (like Joyce and Beckett).

Chaos Theory: scientific theory whose applications range over a large number of different disciplines – such as mathematics, physics, biology and economy. One of its tenets is Lorenz’s sensitivity to initial conditions (also known as “butterfly effect”) which prevents any system from being accurately predictable.

Frayn Michael: contemporary British journalist, dramatist and fiction writer, who has long devoted himself to the study of Wittgenstein. Despite apparently frivolous, his dramatic works betray the fact that they are concerned with philosophical (and moral) problems.

Indeterminacy: term used by Patricia Waugh in order to define the particular philosophical (and cultural) disposition of postmodernity. Significantly, it is drawn by a scientific concept – i. e. Heisenberg’s Uncertainty Principle.

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Quantum Mechanics: scientific theory whose aim is to explain (and to predict) the behaviour of atomic and subatomic particles. It includes the so-called Copenhagen Interpretation – with Heisenberg’s Uncertainty Principle and Bohr’s Complementarity Principle.

Postmodern: both what is mere contemporary and what proceeds to a re-thinking of modernity (in a more philosophically and culturally stressed connotation).

Scientific Revolution: a series of innovations, findings and developments which took place in the period between the publication of the Copernican De revolutionibus (1543) and the Newtonian Principia (1687). It is generally considered as the beginning of modern (scientific) thought – and therefore a primary issue in a postmodern view of nature and human being.

Stoppard Tom: contemporary British dramatist and screenwriter, who was born in Czechoslovakia. His dramatic works are famous for their stylistic exuberance and the various kinds of intertextual (and interartistic) references they imply.

String Theory: scientific theory that attempts to reconcile quantum mechanics and general relativity, by assuming oscillating lines (called “strings”) to be the fundamental elements of matter. It has often been identified as the new, possible TOE (or Theory of Everything).

Winterson Jeanette: contemporary British writer, whose commitment is not only artistic but, in a sense, political. Winterson’s lesbianism makes her works especially involved in problems concerning gender, suppression and/ or discrimination.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Scuola di Dottorato in Discipline Umanistiche Dottorato di Ricerca in Letterature Straniere Moderne

Tesi di Dottorato:

La scienza nella letteratura postmoderna: verso una cultura terza?

I casi Banville, Winterson, Stoppard e Frayn

S.S.D. L-LIN/10

Tutor: Dott. FAUSTO CIOMPI

Candidato:

VENANZIA BRILLARELLI

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Indice

Introduzione……….p. 1

Analitici e Continentali………..p. 12

Verso la terza cultura……….p. 20

La tetralogia scientifica di John Banville………..p. 40

La struttura……….p. 43

Oltre le apparenze: le “verità” dell’arte………...p. 72

Gut Symmetries di Jeanette Winterson………..p. 90

La struttura……….p. 93

Le simmetrie dello stomaco pensante………...p.97

Arcadia di Tom Stoppard………p. 112

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Contro il determinismo: la “fine” della fine………p. 125

Copenhagen di Michael Frayn………p. 137

La struttura………...p. 138

Una sola metafora quantistica: la “Wanderung” e la “darkness of soul”……….p. 150

Bibliografia………..p. 161

Indice delle tavole

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Introduzione

Nel maggio del 1959, Charles Percy Snow tiene una conferenza a Cambridge nel corso della quale contrappone la cultura scientifico-tecnica a quella letterario-umanistica.1 Per “cultura” Snow intende sia un processo di formazione intellettuale, sia l’espressione di valori propri di una comunità, legata ad un determinato ambiente e con una serie di interessi, abitudini e modi di vita condivisi – in linea con un’accezione puramente antropologica del termine.2 Più che ad una rappresentazione dei vizi e delle virtù che contraddistinguerebbero ciascuna polarità, l’intervento di Snow mira comunque ad una denuncia della frattura che affligge (ed indebolisce) il sapere, nei paesi industrializzati dell’Occidente. Tale frattura è tanto più dannosa in quanto la società contemporanea, seppur plasmata dalle innovazioni introdotte grazie alla scienza e alla tecnica, risulta guidata da classi dirigenti solitamente formatesi sulla cultura letterario-umanistica – col rischio che la società medesima si orienti in senso a-scientifico, per non dire anti-scientifico.3 Vale la pena precisare che l’analisi condotta da Snow risente del particolare momento storico in cui si colloca: la rivalità con l’Unione Sovietica e il possibile affacciarsi, sulla scena mondiale, di nuove potenze industriali come la Cina sottolineano l’urgenza, per l’avanzato Occidente, di affrontare la questione delle due culture. E di affrontarla alla radice – attraverso ad esempio, come indica lo stesso Snow, la riforma del sistema scolastico. Se si tratta di conservare un certo prestigio a livello internazionale, aiutando altresì i paesi in via di sviluppo nel loro difficoltoso cammino di crescita, il potenziamento delle scienze, e in particolare di quelle applicate, appare in effetti indispensabile. Senza contare che anche un “aggiornamento” scientifico delle classi dirigenti

1

Si veda C. P. Snow, The Two Cultures and a Second Look: An Expanded Version of The Two Cultures and

the Scientific Revolution, tr. it. di A. Carugo, Milano: Feltrinelli, 1975 (1963).

2

Cfr. ibidem, pp. 64 e ss.

3

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le aiuterebbe a capire (e quindi ad amministrare) meglio il mondo di cui sono chiamate a rispondere. Un mondo, tutto sommato, “scientifico”.

Per quanto dettata da circostanze storiche precise, la contrapposizione avanzata da Snow riprende discussioni addirittura millenarie: il dibattito sulle due culture rappresenta soltanto una tappa – e, come si vedrà più avanti, nemmeno la più recente – del lungo tragitto che conduce, nell’era della postmodernità, a quella esasperata settorializzazione del sapere osteggiata su più fronti. Scienza e letteratura rappresentano i due poli estremi attorno ai quali si radicalizzano problematiche vecchie di secoli, e che qui, per ovvie necessità di sintesi, vengono ricondotte a pochi punti essenziali.

a – Il primo concerne il rapporto col passato o, meglio, con l’autorità. In un’opera di discreto successo, Alfred Rupert Hall indica, come rivoluzione scientifica par excellence, il complesso di innovazioni, avanzamenti conoscitivi e riformulazioni metodiche che si verifica fra il 1500 e il 1800. 4 Negli ultimi anni, i momenti fondamentali di tale rivoluzione sono stati circoscritti a due episodi specifici: l’apparizione postuma del De revolutionibus di Copernico (1543) e la pubblicazione dei Principia di Newton (1687). Nello stringersi attorno alle figure chiave di Copernico, Keplero, Galilei e Newton, questa ri-definizione temporale non esclude tuttavia alcuni instancabili propulsori del “nuovo” metodo scientifico quali Bacon e Descartes. Ed è questo il nodo cruciale. Il limite a quo stabilito originariamente da Hall intreccia le sorti della rivoluzione scientifica cinque-seicentesca con quelle del tardo Umanesimo e del Rinascimento – tant’è che la teoria eliocentrica di Copernico attinge ad esempio, come rilevano numerosi storici della scienza, al culto del Sole ficiniano, a sua volta di derivazione ermetica e platonica (o neoplatonica). L’umanista, al pari del mago rinascimentale, guarda al passato come ad una mitica età aurea da conoscere, investigare e con la quale misurarsi. Ovviamente, il rigore filologico dell’uno contrasta con la varietà e l’indeterminatezza dei metodi impiegati dall’altro. Resta il fatto che la ricerca del sapere si attua prevalentemente sul piano della reverenza nei confronti dell’antichità e del conseguente tentativo di aemulatio.5

Che la visione dei protagonisti (diretti o indiretti) della rivoluzione scientifica menzionata da Hall sia non solo differente bensì diametralmente opposta, si dimostra con relativa facilità. Senza spostarsi dal suolo britannico, il ovum Organum baconiano (1620) contiene, nel suo

4

Si veda A. R. Hall, The Scientific Revolution, 1500-1800: The Formation of the Modern Scientific Attitude, tr. it. di G. Panzieri, Milano: Feltrinelli, 1976 (1954).

5

Cfr. P. Rossi, Immagini della scienza, Roma: Editori Riuniti, 1977, pp. 43 e ss. Sul tema della rivoluzione scientifica cinque-seicentesca, si veda inoltre, sempre dello stesso autore, La nascita della scienza moderna in

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celebre frontespizio, la raffigurazione di una “trasgressione”: un imponente veliero si appresta, con mirabile ardimento, ad oltrepassare le colonne d’Ercole – limite ultimo posto dalla classicità (e poi dal Medioevo) allo scibile umano. Con ogni probabilità, l’impresa non è solitaria visto che, sullo sfondo, si intravede una seconda imbarcazione. “Multi pertransibunt et augebitur scientia” recita il testo – ricalcato sulla profezia di Daniele (12:4) – che funge da motto al frontespizio. In molti compiranno la temibile traversata e il sapere sarà così incrementato. Nulla a che vedere con l’altro, scriteriato viaggio, sempre aldilà delle colonne d’Ercole, narrato da Ulisse nella Commedia dantesca: “de’ remi facemmo ali al folle volo” (Inferno, XXVI, v. 125). La densità metaforica del verso rende, oltre alla trepidante concitazione di Ulisse e compagni alla vista del monte del Purgatorio, anche – ad un livello superiore di astrazione – la rarefatta fuggevolezza dell’ingegno umano. Difficile da inibire, difficile da contenere. Eppure, la riforma epistemologica progettata da Bacon attraverso il ovum Organum (e non solo) si inserisce in un grandioso schema teologico, tipico del tempo, che è ancora residuo del Medioevo di Dante.6 Il vascello del frontespizio baconiano non sta commettendo alcuna infrazione: l’ampliamento della conoscenza può (e deve) essere lo scopo principale dell’individuo. L’unico, addirittura, in grado di riscattarlo dopo la caduta di Adamo.

Dunque, nonostante auspichi una netta separazione tra fisica e metafisica, tra filosofia della natura e teologia, Bacon non nega, per questo, un possibile valore salvifico al sapere. Ma, per giungere alla vera redenzione, occorre che l’uomo si liberi anzitutto degli idola, delle false immagini in grado di ostacolare il suo approccio conoscitivo al mondo naturale. Di queste false immagini, le più pericolose sono proprio quelle tramandate in eredità dal passato. Ossia, da talune dottrine filosofiche come il platonismo o l’aristotelismo. Quest’ultimo è specialmente inviso a Bacon perché reo di una duplice “colpa”: quella di mescolare elementi di teologia a elucubrazioni di carattere cosmologico – da cui il Primo Motore aristotelico, prontamente identificato dalla Scolastica con Dio; e quella, ben più grave, di pretendere che la totalità della natura possa essere racchiusa entro pochi principî astratti. L’intellettualismo aristotelico sarebbe, secondo Bacon, indice di un atteggiamento narcisistico diffuso nel mondo classico, per cui si tende ad imprimere il proprio sigillo sulla natura senza osservarla e/ o studiarla nella sua complessa realtà. In breve, ci si innamora delle immagini deformate, false per l’appunto, frutto della propria mente, e le si trasmette, in virtù del prestigio di cui si gode, ai posteri – i quali, nell’accettarle passivamente, non fanno che reiterare tale peccato

6

Cfr. P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli: Morano, 1971, pp. 53 e ss. Si veda, inoltre, E. M. Tillyard, The Elizabethan World Picture, London: Chatto and Windus, 1950.

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originale. Dagli idola si passa all’idolatria.7 Conscio di ciò, il “nuovo” sapiente baconiano rifiuta, di conseguenza, qualsiasi forma aprioristica di autorità, accostandosi all’investigazione della natura coi soli mezzi messigli a disposizione da Dio: i sensi e, ovviamente, la ragione.

È dallo stretto contatto con la dimensione empirica dell’hic et nunc che deriva la sempre crescente attenzione nei confronti del presente (e del futuro). Le continue sfide legate all’indagine del mondo naturale presuppongono, da parte dello studioso, il coraggio di emanciparsi dal giogo della tradizione e di menare vie alternative, mai esplorate prima. Di traversare quelle colonne d’Ercole che non riescono a delimitare il campo complessivo della conoscenza – almeno, non più. Scrive Snow: “gli scienziati hanno per natura il futuro nel sangue”.8 Come si diceva in precedenza, non è una descrizione grottesca volta a rimarcare la separazione delle due culture, bensì la constatazione di un’abissale diversità nei rispettivi modi di concepire il sapere. In un testo di qualche anno fa, Marc Fumaroli arriva a sfumare i confini della tradizionale querelle tra Antichi e Moderni – iniziata in Italia con l’Umanesimo e poi proseguita in Francia e, in parte, in Inghilterra fra Sei e Settecento – ritenendola in qualche misura ancora aperta ai giorni nostri.9 La modernità sarebbe per Fumaroli, sulla scorta dei suoi molteplici “-ismi” (come storicismo, progressismo, scientismo o futurismo), ancora oggetto di cieca esaltazione o, più spesso, di feroce biasimo. Il dato interessante è che le due immagini metaforiche che danno il titolo al testo, e che sono attinte da The Battle of the Books di Swift (1704), si riallacciano alle differenti posizioni, nei confronti del passato, assunte dalle due culture. Gli Antichi rassomiglierebbero a delle api nel loro sforzo ripetuto di ricavare miele – definibile come bellezza sia in senso poetico sia in senso morale – a partire da materiali preesistenti. “Per Swift, come per Platone e Virgilio prima di lui, le api erano le Muse, figlie della Memoria […]” scrive Fumaroli.10 “Creare” è quindi sinonimo di “trovare” e “ri-trovare” lungo i corridoi eterni ed immutabili della tradizione. Per contro, i Moderni sarebbero equiparabili a dei ragni – predatori, individualisti, contrari all’idea di sottostare ad un patrimonio culturale comune, quantunque autorevole. Le loro trame, bellissime ed intricate, scaturirebbero esclusivamente dalle loro viscere. Come precisa ancora Fumaroli, nella prospettiva swiftiana questi aracnidi moderni sono in primis cartesiani: “la metafisica e la scienza di [Descartes] hanno dotato l’‘io’ che canonizzano di un metodo per sostituire a un mondo creato un mondo costruito, ai doni delle Muse e della Memoria le conquiste della

7

Cfr. P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, cit., pp. 58 e ss.

8

C. P. Snow, op. cit., p. 11.

9

Si veda M. Fumaroli, Les abeilles et les araignées, tr. it. di G. Cillario e M. Scotti, Milano: Adelphi, 2005 (2001).

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scienza […]”.11 Evitando l’automatica sovrapposizione api/ letterati e ragni/ scienziati, smentita fra l’altro dalla successiva inversione di significato che investe i due simboli,12 è comunque innegabile il ruolo ricoperto dalla scienza (e dal suo rapporto controverso con l’autorità) nello sviluppo della modernità.

Allorché, in pieno Illuminismo, si consolida l’idea di una funzione emancipatrice della ragione, questo aspetto risalta con forza persino maggiore. In un noto scritto del 1784, Kant condensa lo spirito illuminista in un’unica formula: uscita dallo “stato di minorità” – laddove quest’ultimo designa, come chiarisce Michel Foucault, la volontà di accettare l’autorità altrui in settori dell’esistenza umana in cui, al contrario, sarebbe possibile affidarsi all’intelletto.13 Fra i miti, le leggende e le superstizioni che i philosophes sperano di debellare sotto l’effetto rischiarante di quest’ultimo, compare significativamente pure la religione. Dalla distinzione baconiana tra filosofia della natura e teologia alla visione materialistica (ed anti-religiosa) di Voltaire e compagni si è prodotto, a ben vedere, un mutamento profondo: sia la rivoluzione scientifica cinque-seicentesca sia l’Illuminismo rientrano fra le possibili cause che vengono generalmente addotte per motivare l’insorgere della modernità – in considerazione del comune rigetto della tradizione.14 Tuttavia, almeno per quel che concerne Bacon, l’impresa scientifica è ancora in sintonia coi dettami del Cristianesimo: conoscere in maniera approfondita la natura vuol dire non solo omaggiare il suo Creatore, bensì tornare a godere di quella posizione di rilievo antecedente al fallo adamitico – quando l’uomo esercitava il proprio dominio sulle altre creature, conferendo a ciascuna di esse un nome. L’“illuminata” emancipazione proposta dai philosophes ricorda invece la tentazione del serpente: mangiare dall’albero del bene e del male corrisponde all’empio desiderio di sostituirsi a Dio. E di decidere per sé cosa è giusto e cosa non lo è – magari avvalendosi dell’uso del raziocinio.15 Insomma, durante il secolo dei Lumi si allunga di nuovo, sulla figura positivamente prometeica dello scienziato baconiano, un’ombra faustiana. Non più quella dei vari astrologi,

11

Ibidem, p. 259.

12

Fumaroli ricorda come, nel 1714, venga pubblicata a Londra The Fable of the Bees del calvinista Bernard de Manderville – una rappresentazione cinica e dissacrante della “nuova” società borghese. Qui le api divengono, a causa dell’industriosità che le caratterizza, emblema dell’utilitarismo e del greed (menzionato nel sottotitolo) tipici di tale società. Analogamente, in una lettera a John Hamilton Reynolds del febbraio 1818, John Keats rifiuta l’identificazione swiftiana poeta/ ape proprio per l’insensato affaccendarsi di quest’ultima. Il poeta deve, secondo Keats, non correre avanti e indietro in cerca di chissà quale ispirazione, bensì restare fermo, ricettivo – in contatto con le proprie sensazioni ed emozioni. Trasposta in ambito esclusivamente poetico, la “passività” esaltata da Keats si avvicina cioè, sempre per Fumaroli, più all’immagine swiftiana del ragno. E alla sua capacità di attingere le proprie risorse dal “di dentro” (cfr. ibidem, pp. 260-67).

13

Si veda I. Kant, “Risposta alla domanda : ‘Che cos’è l’Illuminismo?’”, in N. Bobbio – L. Firpo – V. Mathieu (a cura di), Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, Torino: Utet, 1965, pp. 141-49. Si veda, inoltre, M. Foucault, “Qu’est-ce que les Lumières?”, in Magazine littéraire, 309 (1993), pp. 63-73.

14

Cfr. G. Chiurazzi, Il postmoderno, Milano: Mondadori, 2002, p. 4.

15

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alchimisti o maghi rinascimentali aspramente criticati sempre da Bacon per i loro metodi poco scientifici, ma quella, assai più tenace ed insidiosa, della modernità.

b – Il secondo punto ha a che fare con la capacità della scienza di intervenire materialmente sulla vita dell’uomo tramite la tecnica – da cui il connubio scienza/ tecnica ribadito anche da Snow. La stessa rivoluzione scientifica cinque-seicentesca si contraddistingue, sin da subito, per due tratti fondamentali: la “forza del pensiero razionale” e la fiducia in una “prassi trasformatrice della natura”.16 In un interessante contributo apparso originariamente in Critique nel 1948, Alexandre Koyré bolla la visione del mondo naturale sviluppata dai classici, in particolare dai greci, come pressappochistica.17 A fronte dei notevoli traguardi raggiunti nel campo delle matematiche e dell’astronomia, la fisica classica risulterebbe per Koyré deludente – se non addirittura inesistente. Si prenda quella aristotelica: i quattro elementi cosmogonici (terra, acqua, aria e fuoco) si combinano in modo differente a formare i vari corpi terrestri. Al contrario delle sfere celesti, la cui incorruttibilità è garantita da quella sorta di quinta essenza che è l’etere. I corpi terrestri sono soggetti a moti rettilinei (naturali o accidentali), mentre le sfere celesti si muovono con moto circolare. La tipologia di moto dipende dall’essenza del corpo: il moto rettilineo naturale del fuoco è legato, ad esempio, alla sua spontanea tendenza a salire verso l’alto. In sintesi, la fisica aristotelica può dirsi gerarchica e “qualitativa”: le essenze servono a mantenere la netta separazione, di ascendenza platonica, tra sfere celesti e mondo sublunare.

Ciò implica una descrizione della realtà effettivamente grossolana e approssimativa, a causa dell’impossibilità di misurare con precisione gli aspetti qualitativi di un corpo. E dall’inesistenza della fisica classica deriverebbe, sempre secondo Koyré, l’inesistenza della tecnica classica – in unione ad un evidente disprezzo per il lavoro meccanico, ritenuto servile e pertanto riservato agli schiavi. Come sottolinea anche Heidegger in una nota conferenza, la techne greca non fabbrica, semmai dis-vela.18 Ossia, nel suo significato etimologico il termine “tecnica” è assolutamente estraneo alle successive implicazioni da esso acquisite nel tempo. È solo nel Medioevo, e ancor più nel Rinascimento, che il lavoro meccanico riacquista difatti una sua dignità. Ma l’artigiano medievale o rinascimentale non è uno scienziato. La subordinazione della tecnica rispetto alla fisica – caratterizzata da un grado di astrattismo minore in confronto a quello dell’aritmetica e/ o della geometria – si manifesta proprio nella

16

Ibidem, p. 8.

17

Si veda A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. Tecniche, strumenti e filosofia

dal mondo classico alla rivoluzione scientifica, tr. parziale di P. Zambelli (titolo originario dell’intero volume Études sur l’histoire de la pensée philosophique en Russie), Torino: Einaudi, 1967 (1950).

18

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diversità degli strumenti realizzati prima e dopo la rivoluzione scientifica del XVII secolo. Koyré cita, fra i vari esempi, quello dell’orologio. La competenza meccanica raggiunta dagli orologiai medievali è tale da consentire la costruzione di complesse apparecchiature, capaci di riprodurre la marcia dei pianeti o di mettere in moto figure umane – con tanto di carillon di campane a scandire le ore.19 Il punto è che tali apparecchiature non riescono, nonostante tutto, ad indicare il tempo con precisione. L’orologio moderno (quello cronometrico) è il prodotto della cultura scientifica cinque-seicentesca e della sua necessità di disporre di un esatto strumento di misurazione temporale. Non più meri utensili, sebbene capolavori di meccanica, confinabili ancora nel regno del pressappochismo – che si estende ben aldilà dell’età classica – ma veri e propri congegni di precisione, messi a punto seguendo rigorose leggi fisiche (e matematiche). Per riprendere le parole di Koyré, con la rivoluzione del XVII secolo “lo strumento diventa incarnazione dello spirito, materializzazione del pensiero”.20 Sottointeso, scientifico.

Il graduale impiego di questi dispositivi tecnici nello studio della natura provoca ben presto non solo la fine della visione gerarchica e qualitativa tipica di Aristotele, ma anche l’inizio di una seconda visione – “quantitativa”.21 L’universo diventa esso stesso un gigantesco strumento, le cui parti possono essere studiate e misurate in base a determinate caratteristiche fisiche. Per di più, in una logica squisitamente meccanicistica la conoscenza delle cause permette di agire sugli effetti. Di manipolare i processi naturali quel tanto che basta a produrre cospicui vantaggi per l’essere umano. Sulla scia di Bacon, sapere rima con potere. La preferenza accordata dall’autore inglese al metodo induttivo rispetto a quello deduttivo, alla pratica rispetto alla teoria – assieme al suo interesse per gli strumenti costruiti nel XVII secolo, fra cui il telescopio col quale Galilei effettua importanti scoperte astronomiche – ne fanno anzi, agli occhi dei posteri, uno dei primi sostenitori della tecnica. Quella “vera”, quella che fabbrica. Sennonché, come precisa opportunamente Paolo Rossi, le catastrofiche conseguenze che si accompagnano oggi al tema del dominio della natura – e che includono sconvolgimenti climatici, razzia delle risorse planetarie disponibili, distruzione ed estinzione di intere specie animali e vegetali – poco hanno a che fare col pensiero baconiano. Per Bacon, la natura va sì modificata a seconda delle esigenze dell’individuo, ma essa rimane pur sempre

19

Cfr. A. Koyré, op. cit., pp. 68 e ss.

20

Ibidem, p. 101.

21

Per quel che concerne l’avvento del meccanicismo, si veda E. J. Dijksterhuis, The Mechanization of the

World Picture, tr. ingl. di C. Dikshoorn, Oxford: OUP, 1961. Sull’impiego delle macchine durante la rivoluzione

scientifica cinque-seicentesca (e oltre), si veda invece P. Rossi, I filosofi e le macchine: 1400-1700, Milano: Feltrinelli, 1971.

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il “libro di Dio”, da trattare con rispetto e devozione. L’immagine di un Bacon accanito difensore della tecnica è quindi un’ulteriore proiezione della modernità: come dimostra uno scritto del 1609 menzionato sempre da Rossi, nessuno più dell’autore inglese è consapevole delle insidie che si celano nelle capacità creative (e “creatrici”) dell’uomo – paragonabile ad un Dedalo redivivo. Come il labirinto da questi eretto per tenere rinchiuso il Minotauro, la tecnica è provvista, in altre parole, di una sua duplicità. Essa può essere protezione contro il male. E, nel contempo, sua dimora.22

La pericolosità della tecnica, al servizio della scienza, emerge in maniera completa dal XIX secolo in avanti. Le due rivoluzioni industriali – il più delle volte considerate assieme – segnano l’avvento definitivo della (famigerata) modernità. Ma esiste una differenza importante. Come suggerisce ancora Koyrè, mentre la prima rivoluzione industriale disattende palesemente le aspettative nutrite dagli esponenti della cultura scientifico-tecnica nei confronti della macchina – e della sua capacità di liberare l’uomo dalla soggezione delle forze naturali (il cosiddetto sogno cartesiano) – la seconda, prendendo spunto dalla prima, elimina i difetti e potenzia i pregi. Ossia, la prima rivoluzione industriale crea gli scenari inquietanti degli agglomerati di case operaie nelle zone minerarie di Manchester o Glasgow, dominati da sporcizia e bruttura – sia fisica sia morale (soprattutto a causa dell’impiego di donne e bambini nei processi produttivi).23 Non così accade per la seconda. Essa determina un miglioramento delle condizioni di vita a tutti i livelli sociali: l’alfabetizzazione, ad esempio, è uno dei risulti più immediati ricollegabili alla diffusione di benessere e ricchezza nei paesi industrializzati dell’Occidente. Scrive Koyré: “la macchina dell’età elettrica (o elettronica) si contraddistingue per la sua precisione, la sua pulizia e il suo automatismo quasi completo, che trasforma l’operaio da servitore in sorvegliante”.24 In breve, nel corso dell’Ottocento – anche per via dei cambiamenti tangibili prodotti con le due rivoluzioni industriali – si va costruendo il mito del progresso, cifra stessa della modernità. Sempre in questo secolo, il divario fra le due culture si acuisce irreparabilmente, portando alla crisi novecentesca. Se gli scienziati hanno per natura il futuro nel sangue, i letterati sono, ancora su indicazione di Snow, intrinsecamente “luddisti”.25 Nella loro difficoltà ad andare oltre le “ciminiere fumanti”,26 essi

22

Cfr. P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, cit., pp. 67 e ss.

23

Cfr. A. Koyré, op. cit., pp. 50 e ss.

24

Ibidem, p. 57.

25

C. P. Snow, op. cit., p. 22.

26

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si riconfermano discendenti del passato, della classicità. Dell’otium litterarum contrapposto al vile utilitarismo borghese.27

c – Il terzo ed ultimo punto riguarda la (presunta) oggettività del sapere perseguito dalla cultura scientifico-tecnica. Quando Bacon si scaglia con veemenza contro astrologi, alchimisti e maghi rinascimentali, la sua polemica tende ad un fine preciso: ridurre, fino ad azzerarlo, l’influsso ancora esercitato da queste discipline occulte sulla cultura coeva. Proprio perché tale influsso non costituisce un mero aspetto folkloristico bensì un vero e proprio motore della conoscenza, l’autore inglese si assume l’arduo compito di presentare il “nuovo” metodo scientifico come valida alternativa al sapere magico – che pure continua a sopravvivere almeno fino alla fine del XVII secolo.28 E spesso fra i cosiddetti scienziati. Ad ogni modo, ciò che più differenzia l’universo della magia dalla nuova scienza è l’élitarismo dell’uno contro l’universalità dell’altra. Il sapere magico ha carattere fortemente segreto, al punto che la sua diffusione presso il volgo è da scongiurarsi con qualunque mezzo. Il mago incarna un essere eccezionale, la cui perfezione è indice del compimento di un lungo tragitto fatto di fatica ed isolamento. Come sottolinea Rossi, il tema della segretezza e quello della difficoltà sono intimamente connessi: i testi “sacri” del passato – non quelli della classicità, come per gli umanisti, ma quelli inclusi nel Corpus Hermeticum, che ha vastissima diffusione nel Cinquecento e viene generalmente attribuito al leggendario Ermete Trismegisto – racchiudono una verità nascosta, sepolta dal tempo e celata fra le righe.29 Nessuno può dire al mago come riportarla alla luce: sta a lui trovare da solo la chiave, custodendola gelosamente.

Nell’epoca della rivoluzione scientifica, si fa strada per contro un altro metodo di accesso al sapere, per cui non si rende necessaria l’appartenenza ad alcuna cerchia ristretta di eletti. Rossi parla significativamente di “eguaglianza delle intelligenze”:30 nello studio della natura è più che sufficiente fare appello alla ragione (e ai sensi) insiti in ciascun individuo. È da questa universalità che deriva la pretesa di oggettività del sapere scientifico – i cui risultati, le cui tecniche, le cui procedure sono, almeno in teoria, sotto gli occhi di tutti. Facilmente verificabili ed altrettanto facilmente acquisibili. Nel ovum Organum, Bacon pone l’accento

27

Si pensi al rovesciamento che interessa le due immagini metaforiche delle api e dei ragni menzionato in precedenza. Scrive Fumaroli: “da […] animale […] escrementizio, egoista e predatore, il ragno era diventato, nel corso dell’Ottocento, il simbolo […] del grande lirismo individuale moderno, [in grado di dispiegare], al di sopra del mondo decaduto dal divino, la tela ‘meravigliosa’ di una Bellezza di cui soltanto il ragno possiede il segreto” (M. Fumaroli, op. cit., p. 267). In altri termini, a condannare per sempre le api – decretando invece la fortuna dei ragni – è un’operosità che, nel secolo delle due rivoluzioni industriali, non può non essere letta in chiave negativa. Non a caso, fra i ragni “lirici” citati da Fumaroli compaiono il romantico Keats e il simbolista Mallarmé.

28

Cfr. P. Rossi, Immagini della scienza, cit., pp. 92 e ss.

29

Cfr. ibidem, pp. 72 e ss.

30

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proprio sul potere livellante del metodo scientifico: sono gli uomini di ingegno, quelli più dotati intellettualmente, ad incorrere più frequentemente in errore – vittime, più o meno inconsapevoli, delle proprie costruzioni mentali. Con le sue regole precise e le sue dimostrazioni certe, l’indagine scientifica limita pertanto le libere (e selvagge) incursioni del pensiero, costringendo ogni singola intelligenza su un medesimo piano.31 Mentre da un lato l’affermarsi di canoni metodologici “pubblici” accelera il dissolversi della visione settaria ed esclusivista maturata in ambito magico, dall’altro esso assicura alla scienza stessa una rapida istituzionalizzazione.32 Scrive Rossi: “l’impresa scientifica non assomiglia in nulla ad una incomunicabile esperienza mistica e non richiede né il richiamo ai misteri né un ‘religioso silenzio’”.33 La scienza è cioè una pratica sociale che coinvolge, se non l’intera collettività, almeno quella che oggi viene designata come “comunità scientifica”.

Durante il XIX secolo, nel clima ottimistico favorito dall’ideologia progressista, l’oggettività del sapere scientifico viene a coincidere con la Verità – il Verbo moderno in grado di scalzare le ultime illusioni ancora cullate dalla Chiesa. Nel minare del tutto le fondamenta della concezione creazionistica dell’origine del genere umano, l’evoluzione per selezione naturale proposta da Darwin, ad esempio, rafforza l’idea di perfezionamento connessa con quella di progresso. Ossia, nella dura lotta per la sopravvivenza l’uomo evolverebbe tanto fisicamente quanto moralmente. Sennonché, l’interpretazione che del darwinismo viene data risulta spesso fuorviante: il concetto di ereditarietà (e cumulabilità) dei caratteri utili acquisiti è, sostanzialmente, di stampo lamarckiano. In linea con la sintesi fra gli studi di Darwin e quelli di Mendel compiuta attorno agli anni Trenta del XX secolo (il cosiddetto neodarwinismo), è possibile affermare invece che una qualunque variazione – sia essa positiva, negativa o neutra – viene passata alla prole solo se colpisce le cellule germinali, deputate alla riproduzione.34 La natura non ha alcun progetto prestabilito, tantomeno di carattere morale: l’uomo è un mero “veicolo” delle proprie cellule riproduttive – o, secondo una visione più aggiornata avanzata dal biologo evoluzionista Richard Dawkins, autore di The

31

Cfr. ibidem, pp. 96 e ss.

32

Si prenda la Royal Society: il nucleo originario è composto da alcuni scienziati, capitanati da Christopher Wren, che fondano a Londra, nel 1645, il College of Philosophy. L’investitura “reale” avviene subito dopo la Restaurazione, nel 1662 (cfr. R. D. Haynes, From Faust to Strangelove: Representations of the Scientist in

Western Literature, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1994, p. 30).

33

P. Rossi, Immagini della scienza, cit., p. 106. Sui rapporti fra scienza e magia alle origini della rivoluzione scientifica cinque-seicentesca, si veda poi, sempre dello stesso autore, Francesco Bacone. Dalla magia alla

scienza, Bari: Laterza, 1957.

34

Cfr. L. Terrenato, “L’evoluzionismo e l’equivoco tra ereditarietà biologica ed ereditarietà culturale”, in V. Gentili – P. Boitani (a cura di), L’età vittoriana: l’immagine dell’uomo fra letteratura e scienza, Atti del IV Congresso dell’AIA: Perugia, 1981, pp. 1-30, qui pp. 4-10.

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Selfish Gene (1976), dei propri geni.35 Per riallacciarsi a quanto detto sopra, anche la Verità diventa così terreno di scontro fra le due culture: Nietzsche intravede nel culto positivistico della Verità il bisogno di rassicurazione conseguente alla “morte di Dio”. La metafisica cristiana lascerebbe il posto ad una sorta di metafisica dell’intelletto, definibile come tentativo di un dominio razionale dell’esistenza. Prima di lui, un altro grande pensatore, Arthur Schopenhauer, aveva evidenziato il carattere problematico del processo conoscitivo. Quel medesimo raziocinio esaltato dagli esponenti della cultura scientifico-tecnica scivolerebbe sulla superficie delle cose senza toccarne l’intima essenza. Senza squarciare il velo di Maya che le separa dal soggetto – e che fa sempre della scienza soltanto una “rappresentazione”.

In conclusione, rigetto dell’autorità, dominio della natura e pretesa di oggettività (e anzi di verità) sono le componenti fondamentali dell’immagine moderna della scienza – contro le quali la cultura letterario-umanistica si scaglia a più riprese. Nonostante si tratti di una visione solo parzialmente corrispondente alla realtà – come si è cercato di argomentare con l’aiuto di autorevoli storici della scienza quali Rossi e Koyré – gli attacchi nei confronti della cultura scientifico-tecnica si protraggono per tutto il XX secolo. Specialmente la questione del rapporto fra soggetto ed oggetto arriva a travalicare i confini dell’epistemologia scientifica, imponendo quasi ad ogni singolo sapere, agli inizi del Novecento, un ripensamento del proprio ruolo e della propria funzione. Essendo, almeno per definizione, il “sapere dei saperi”, l’elemento aggregante i diversi compartimenti dello scibile – inesorabilmente separati dopo l’insorgere della modernità – la filosofia è quella che più risente del “fenomenismo”. Scettico nei confronti di qualsiasi origine, come sostiene Paul Sheehan, il postmoderno è particolarmente ossessionato dalla fine: la fine della storia, la fine della modernità e, per l’appunto, la fine della filosofia.36 Ad infliggerle il colpo mortale è proprio la complessa dinamica soggetto/ oggetto che ha luogo nel corso del XX secolo – e che, persino all’interno della corrente analitica, tradizionale baluardo della scienza e della tecnica, porta ad un decisivo ridimensionamento di entrambe.

35

Cfr. J. Brockman (ed.), The Third Culture: Beyond the Scientific Revolution, tr. it. di L. Carra, Milano: Garzanti, 1999 (1995), pp. 63 e ss. Si veda, inoltre, R. Dawkins, The Selfish Gene, Oxford: OUP, 1976.

36

Cfr. P. Sheehan, “Postmodernism and Philosophy”, in S. Connor (ed.), The Cambridge Companion to

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Analitici e continentali

Il dibattito sulle due culture si riproduce, in filosofia, con l’antitesi analitici/ continentali. Se da un lato il sapere filosofico viene visto come subordinato alla scienza (e in particolare alla logica matematica) – da cui mutua gli strumenti metodologici – dall’altro ciò che viene messo in risalto è, per contro, una certa somiglianza con le “scienze dello spirito”. Con quelle discipline che, in accoglimento del pensiero di Wilhelm Dilthey, rinunciano alla pretesa di oggettività accampata dalle scienze naturali – per occuparsi, più approfonditamente, dei temi che toccano l’individuo da vicino. Le scienze dello spirito di cui parla Dilthey sarebbero, in altre parole, le discipline umanistiche.37

Nel ricostruire, in maniera puntuale, la storia dell’antitesi analitici/ continentali, Franca D’Agostini ne situa l’inizio attorno agli anni Trenta del XX secolo: è in questo periodo che si sviluppano difatti il Positivismo logico (o Neopositivismo) mitteleuropeo – coi Circoli di Vienna e di Berlino e la Scuola di Leopoli-Varsavia – e i lavori dei primi analitici di Cambridge (Russell e Moore).38 Ma, cosa più importante, è in questo periodo che l’esigenza di ri-definire il campo della filosofia si fa più pressante. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, sulla scia del Positivismo vero e proprio, le scienze naturali e le nuove scienze sociali operano un progressivo smembramento del sapere filosofico: le grandi questioni di cui esso da sempre si era occupato – la verità, la conoscenza, la morale, l’uomo e così via – vengono ripartite fra discipline distinte ed autonome, caratterizzate da un alto grado di “specificità” (e quindi di competenza).39 Insomma, nel quadro frammentario e frammentato tipico della modernità – e successivamente ereditato dall’epoca contemporanea – la filosofia entra definitivamente in crisi. Le differenti posizioni assunte di fronte a questa impasse filosofica danno vita alle due distinte correnti or ora menzionate.

In ambito analitico, prevale la tendenza a salutare lo sviluppo della scienza e della tecnica come proficua occasione di rinnovamento della prassi filosofica: prendendo a prestito le procedure della logica matematica, tale prassi verrebbe a coincidere con una rigorosa analisi linguistica, volta perlopiù allo smascheramento di ambiguità e/ o contraddizioni. Si prenda il Tractatus logico-philosophicus (1922) di Ludwig Wittgenstein: qui la tradizione filosofica viene rivista alla luce dei principî della logica, per l’appunto, e del senso comune. Si scopre così che molti “errori” tramandati in eredità dal passato sono semplicemente di natura

37

La distinzione risale, in realtà, a John Stuart Mill. (cfr. F. D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla

filosofia degli ultimi trent’anni, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1997, p. 24).

38

Cfr. ibidem, pp. 213-14.

39

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grammaticale; la D’Agostini ricorda l’esempio wittgensteiniano della parola “è”, adoperata sia come “segno di eguaglianza”, in proposizioni del tipo “a è (uguale a) b”, sia come “espressione di esistenza”.40 “La logica […] rigorizza e chiarifica i pensieri”, scrive ancora la D’Agostini, “[…] il senso comune li lega al concreto, alle opportunità della vita”.41 È l’antimentalismo di Gottlob Frege a segnare comunque la prima svolta del pensiero analitico rispetto a quello continentale. Partendo dalla distinzione kantiana tra mondo soggettivo dell’esperienza e mondo oggettivo dei fatti, Frege postula l’esistenza di un “terzo regno”, composto dai cosiddetti oggetti logici – ossia i “contenuti” del pensiero. Questi costituirebbero il centro debito della filosofia (almeno di quella analitica), in quanto saldamente ancorati alla realtà, eppure estranei all’influsso di determinati fattori soggettivi (quali gli stati d’animo di un individuo e/ o le sue costruzioni mentali “private”).42 A ben vedere, l’antimentalismo di Frege è fondamentale per comprendere l’antitesi analitici/ continentali: una volta bandita la sfera della soggettività – il cui studio viene affidato ad altre discipline (psicologia in primis) – la filosofia analitica smette in effetti di curarsene, continuando a riporre una sincera fiducia nella nozione di oggettività scientifica.

Diversamente accade in ambito continentale – ove, da Husserl in poi, il “problema” del soggetto resta il nodo cruciale dello sviluppo filosofico. Già in Dilthey, si intravede la non volontà di impostare la prassi filosofica secondo i nuovi parametri imposti dalla scienza (si pensi all’opposizione scienze dello spirito/ scienze della natura). Husserl spinge l’argomento al limite estremo, facendo della sua fenomenologia un tentativo di ricollocamento della filosofia – “portatrice” di una razionalità altra rispetto a quella scientifica – in un mondo completamente “matematizzato”. L’avvento della scienza e della tecnica non solo non viene accolto positivamente (come fra gli analitici), ma esso rappresenta addirittura una minaccia. Nell’ultimo Husserl, la (supposta) oggettività scientifica diventa sfacciato oggettivismo, ossia la “concezione dell’essere come mero insieme di cose manipolabili e misurabili”,43 a livello sia teorico sia pratico. Asservita alla scienza ed incapace di “de-matematizzare” il mondo da essa creato, la filosofia rientra parimenti nel mirino di Husserl: se è vero che non esiste dato che non sia intenzionato (nel senso di costituito dalla coscienza), “l’impurità dell’io”, ancora

40 Ibidem, p. 29. 41 Ibidem, p. 28. 42

La D’Agostini porta il seguente esempio: “[…] se un punto della Terra si trova sopra o sotto l’Equatore è un fatto oggettivo, e tuttavia noi non possiamo vedere l’Equatore, né camminarci sopra” (ibidem, p. 143). Il “terzo regno” di Frege è un regno linguistico, un regno dei “significati”.

43

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riprendendo le parole della D’Agostini, va difesa “contro l’ordine astratto dei sistemi filosofici e scientifici”.44

La dura lotta intrapresa dai continentali nei confronti della cultura scientifico-tecnica dimostra quanto il fenomenismo sia radicato nel pensiero europeo. “L’idea (di derivazione idealistica e kantiana) di una contaminazione soggettiva dei dati d’esperienza”45 fa sì che la neutralità delle scienze naturali appaia semplicemente illusoria agli occhi dei filosofi del Vecchio Continente. Ed è proprio quest’inganno che essi chiamano metafisica – “quel modo di pensare che postula il fronteggiarsi speculare di un io e di un mondo reale, di un soggetto pensante e una natura più o meno ‘inerte’ […]”.46 Al contrario, in ambito analitico il termine “metafisica” sta ad indicare quelle proposizioni scorrette, capaci di trascendere l’esperienza comune e/ o ciò che la scienza definisce come reale.47 Uniti nell’individuazione delle problematiche, analitici e continentali si discostano, ancora una volta, nel modo di intenderle e trattarle. Si pensi agli “errori” del passato che Wittgenstein si propone di emendare col ricorso (congiunto) alla logica e al senso comune: specialmente quest’ultimo testimonia dell’atteggiamento antimetafisico come concepito dagli analitici. Pragmatismo e rigetto dell’autorità rafforzano il sodalizio con la scienza. Più complessa è la visione continentale, per cui l’opposizione soggetto/ oggetto implica il bisogno di trascendimento, da parte del primo, della mera apparenza del secondo. Trascendimento però impossibile, a causa dei motivi sopra esposti. Nel favorire, nonostante tutto, l’idea di un’accessibilità immediata (e a-problematica) della realtà empirica, la scienza si configura – almeno nella prospettiva continentale – non come mezzo di superamento della metafisica, bensì come sua tacita alleata.48

Il tema husserliano dell’oggettivismo riscuote anzi un certo successo, ripresentandosi – seppur in forme diverse – sia in Heidegger sia negli esponenti della Scuola di Francoforte. Malgrado condivida la descrizione fornita da Husserl di un mondo matematizzato, Heidegger rintraccia una sorta di continuità fra scienza e filosofia. La scienza sarebbe cioè la versione “moderna” della filosofia, mossa da una “volontà di potenza” tipicamente nietzschiana. Fra gli enti, l’uomo è difatti quello dotato del più alto grado di consapevolezza dell’essere – del quale è parte inalienabile. Da qui il Da-Sein, espressione usata sempre per designare l’uomo e 44 Ibidem, p. 92. 45 Ibidem, p. 83. 46 Ibidem, p. 123. 47 Cfr. ibidem, p. 124. 48

Scrive la D’Agostini: “[…] nella tradizione continentale l’atteggiamento metafisico (secondo una definizione in uso a partire dall’idealismo) è il contrassegno di un pensiero della separatezza, del soggetto contrapposto all’oggetto, della realtà contrapposta all’apparenza; nella tradizione neopositivistica e analitica la metafisica è il sistematico disconoscimento della separazione tra scienza ed esperienza emozionale, tra linguaggio e realtà, tra questioni di senso e di fatto, tra credenze, desideri (pretese, intenzioni, volizioni) ed esperienze osservative […]” (ibidem, p. 125).

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generalmente tradotta come “Esserci”. L’uomo è l’essere che “c’è” o, meglio, che è conscio di “esserci”.49 Ed è, per l’appunto, questo alto grado di consapevolezza che lo porta a sviluppare manie di grandezza – che lo porta a credere, falsamente, di poter disporre degli altri enti. Con Heidegger, la critica husserliana della scienza si tramuta in critica della tecnocrazia.50 Nella conferenza citata in precedenza, il filosofo auspica, non a caso, un ritorno (anacronistico) alla tecnica intesa nel suo significato etimologico. Ad una techne che, senza “[reificare] le cose in oggettualità”,51 ne dis-veli piuttosto l’essenza più profonda. Anche gli esponenti della Scuola di Francoforte rilevano uno stretto rapporto della modernità col passato, ma si tratta perlopiù di un rapporto di “pervertimento”. La razionalità scientifica e strumentale che domina la società moderna sarebbe, in altre parole, il risultato del fallimento del progetto avviato dai filosofi illuministi nel corso del XVIII secolo. Nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) – uno dei testi base del pensiero francofortese – Adorno e Horkheimer denunciano gli esiti irrazionali cui è giunta la corrotta ragione moderna, con le guerre e i campi di sterminio. La “dialettica” del titolo è una sorta di auto-contraddizione, che spingerebbe gli ideali di verità ed emancipazione promulgati dai philosophes verso il loro esatto contrario. Dunque, la soluzione avanzata dai francofortesi concerne un ruolo critico da attribuire alla filosofia – la sola capace di smentire, in maniera sistematica, le false verità prodotte dalla modernità.52 Ritenendo la filosofia “inglobata”, per così dire, nella scienza, Heidegger fa riferimento invece ad un pensiero altro – che riesca ad esprimere una razionalità diversa da quella strumentale della scienza (di natura prevalentemente estetica).53

Com’è prevedibile, smorzata la tensione venutasi a creare a cavallo fra i due conflitti mondiali, si assiste, negli anni Sessanta del Novecento, ad un importante cambiamento, il cosiddetto linguistic turn – che getta le basi per quella fine (la fine della storia, la fine della modernità, la fine della filosofia) da cui scaturirebbe il postmoderno. Il “problema” del soggetto è affrontato, essenzialmente, entro due ambiti: l’antisoggettivismo strutturalista e poststrutturalista, e l’ermeneutica di Gadamer. Raccogliendo la concezione fenomenologica dell’io compromesso nei dati d’esperienza e quella heideggeriana dell’io sovrastato dall’essere, Gadamer ipotizza l’esistenza di un altro soggetto – l’io ermeneutico – che,

49

“In lui […] è il ‘ci’, il ‘da’, ossia la concreta situazione storica in cui le cose appaiono, e vengono all’essere” (ibidem, p. 135).

50

Cfr. ibidem, pp. 95-97.

51

P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, cit., p. 14. La distinzione techne/ tecnica mostra tutta la conflittualità delle due culture: strettamente legata ad un’altra espressione – poìesis – la techne greca indica in effetti un’“arte”, un’abilità nel fare qualcosa che non sia strettamente “materiale”.

52

Cfr. F. D’Agostini, op. cit., pp. 33-34. In maniera alquanto interessante, la D’Agostini mostra come la tesi dell’autocontraddizione di Adorno e Horkheimer sia molto simile a quel “legame profondo e perverso che la ragione moderna intrattiene con la follia”, descritto da Michel Foucault in Storia della Follia (1960) (ibidem, p. 33).

53

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nell’accostarsi al mondo come al testo, si porta dietro una serie di “pregiudizi”, in grado di inficiarne la neutralità.54 Lungi dal costituire un intralcio, i pregiudizi gadameriani sono anzi una condizione fondamentale della conoscenza, in quanto creano un orizzonte di aspettative entro il quale si inserisce la ricezione di un evento e/ o di un’opera – di modo che proprio le aspettative “di partenza” del soggetto possano essere ulteriormente confermate o invece smentite. Il circolo ermeneutico è impensabile in mancanza dei pregiudizi. E il pregiudizio più accecante ha a che fare con l’assenza di pregiudizi.55 L’ermeneutica di Gadamer mostra quindi come la filosofia continentale propenda sempre più per una dissoluzione del “problema” del soggetto nel linguaggio. Nello Strutturalismo francese, il soggetto viene visto come ostacolo all’emergere delle strutture, “ossia di quei tratti invarianti che caratterizzano società, mondi, individui, testi”;56 mentre nel Decostruzionismo derridiano – che ha carattere poststrutturalista – la scomparsa del soggetto a favore del linguaggio porta alla scomparsa della “voce” a favore della scrittura. Ossia, il testo finisce col divenire qualcosa di “impersonale”, che domina l’autore proprio come l’essere/ linguaggio aveva dominato l’individuo (sia in Heidegger sia in Gadamer).57 Si arriva, in questo modo, alla totalizzazione del fatto letterario che è tratto distintivo dell’epoca contemporanea. Scrive Paul de Man: “la letteratura è ovunque; ciò che chiamiamo antropologia, linguistica, psicoanalisi non è null’altro che il riaffiorare della letteratura”.58

Inaspettatamente, anche in ambito analitico si registra una svolta in senso linguistico, con la differenza che qualunque tematica di tipo ontologico viene qui tralasciata. Già nel secondo Wittgenstein, il primato inizialmente conferito alla logica risulta attenuato: ciò che si impone – a distanza di tempo dalla pubblicazione del Tractatus – è il concetto di “gioco linguistico”. Ogni enunciato avrebbe significato all’interno del particolare gioco di cui condivide norme e regole. Queste sono assolutamente “locali”, per cui è l’uso che degli elementi linguistici viene fatto a decretare la loro appropriatezza.59 La teoria wittgensteiniana dei giochi linguistici argina l’angoscia neopositivistica rispetto alla metafisica – legata non più alla a-referenzialità di certe proposizioni, bensì al loro utilizzo (improprio).60 Essa sottolinea, inoltre, come l’esistenza di una realtà empirica aldilà del linguaggio resti del tutto plausibile per i filosofi analitici. Né il soggetto né, tanto meno, il mondo esterno si trovano ad essere “risucchiati” nel 54 Cfr. ibidem, pp. 98-99. 55 Cfr. ibidem, p. 100. 56 Ibidem, p. 105. 57 Cfr. ibidem, p. 108. 58

P. de Man, Blindness and Insight: Essays in the Rhetoric of Contemporary Criticism, tr. it. di E. Saccone, Napoli: Liguori, 1975, p. 20.

59

Cfr. F. D’Agostini, op. cit., p. 30.

60

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vortice linguistico – come accade, per contro, in ambito continentale. Ciò conduce ad una graduale apertura, da parte della filosofia analitica, a questioni tradizionalmente escluse dall’antimentalismo fregiano. Con la svolta pragmatica, ad esempio – che si colloca più o meno negli stessi anni dell’intervento di Snow – l’intenzionalità dei parlanti viene egualmente presa in considerazione (si pensi alle opere di Austin o Searle).61 Un esito recente della “pragmatizzazione” che investe il mondo anglosassone riguarda significativamente le scienze cognitive – le quali, attingendo ad un bacino comune ove confluiscono gli studi condotti nel campo dell’Intelligenza Artificiale, la logica computazionale, la psicolinguistica (di derivazione chomskiana), le neuroscienze e così via, tendono ad un “progetto di reificazione del pensiero”.62 Scrive sempre la D’Agostini: “capire il funzionamento del linguaggio significa capire i processi che stanno alla base delle competenze comunicative […]”.63 E, essendo tali processi prevalentemente mentali, lo sbocco più naturale è verso lo psicologismo. Uno psicologismo non soggettivo, bensì scientifico.

Ma è nell’epistemologia popperiana e postpopperiana che la filosofia analitica giunge alle conclusioni più inattese. Va detto che gli stessi esponenti del Circolo di Vienna si interrogano, dando spesso vita a dei contrasti interni, sui criteri di valutazione di una proposizione e/ o di una teoria scientifica. Stando alla definizione “classica” di metafisica, è privo di significato qualunque enunciato non verificabile empiricamente. Tuttavia, mentre per le “verità di fatto” il vaglio empirico è attuabile (e anzi opportuno), per quelle analitiche – “modellate su principi logici universali”64 – esso risulta inservibile. E questo è solo uno dei numerosi problemi che la scuola neopositivistica si trova a dover fronteggiare. In The Logic of Scientific Discovery (1934),65 Karl Popper sottolinea la disparità che intercorre fra il principio di “verificabilità” e quello di “falsificabilità”.Se, per verificare una teoria, ripetute osservazioni empiriche non sono sufficienti, ne basta però una sola per smentire la teoria stessa. Il principio di falsificabilità ha cioè maggiore potere rispetto a quello di verificabilità.66 È solo resistendo a qualunque confutazione che una teoria scientifica si dimostra valida. E la sua scientificità poggia proprio sulla sua (eventuale) possibilità di essere confutata. Scrive Rossi: “una teoria si dice scientifica in quanto, contrariamente ai sogni e alle fantasie, essa può essere

61 Cfr. ibidem pp. 113 e ss. 62 Ibidem p. 116. 63 Ibidem, p. 158. 64 Ibidem, p. 450. 65

Si veda K. R. Popper, The Logic of Scientific Discovery, tr. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi, 1970 (1934).

66

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smantellata empiricamente”.67 L’approccio “critico e non autoritaristico”68 di Popper agevola i lavori, dalla portata ben più “sovversiva”, di Kuhn e Feyerabend.

Nel famoso The Structure of Scientific Revolutions (1962),69 Thomas Kuhn mette in discussione l’esistenza di un metodo unico di valutazione delle teorie scientifiche. Nell’introdurre la sua opera, egli accenna ai limiti, nello studio della scienza, di una concezione storiografica tradizionale: “descrivere e spiegare la congerie di errori, miti e superstizioni che hanno ostacolato un più rapido accumularsi degli elementi costitutivi dei testi scientifici moderni”70 può rivelarsi impegnativo, allorché la distinzione tra scienza e folklore, tra fisica e metafisica non si presenta così netta – come avviene sovente nella storia della scienza, specialmente delle origini. In altre parole, lo sviluppo scientifico non segue una logica cumulativa, ma è piuttosto discontinuo. A lunghi periodi di “scienza normale” – durante i quali gli sforzi della comunità scientifica sono volti al consolidamento di paradigmi condivisi – se ne alternano altri, improvvisi e straordinari, che determinano una radicale trasformazione dell’immaginazione scientifica. La sostituzione dei vecchi paradigmi con dei nuovi. Questo è ciò che Kuhn chiama rivoluzione scientifica.71 Particolarmente interessante è però la sua definizione di “paradigma” – solo parzialmente sovrapponibile a quella di schema o modello. Uno schema implica difatti una qualche riproduzione (come nei paradigmi dei verbi latini); il paradigma kuhniano è, per contro, “una promessa di successo”.72 L’avvio di una serie di scoperte finalizzate ad una maggiore esplicazione del paradigma medesimo. Da

67

P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, cit., p. 385.

68

Ibidem, p. 385.

69

Si veda T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, tr. it. di A. Carugo, Torino: Einaudi, 1978 (1962). 70 Ibidem, p. 20. 71 Cfr. ibidem, pp. 23 e ss. 72

Ibidem, p. 44. Una funzione analoga parrebbe essere svolta da una classe particolare di metafore scientifiche che Richard Boyd, in un testo realizzato in collaborazione con lo stesso Kuhn, definisce come

costitutive delle teorie che esprimono. A dispetto di quanti tuttora si oppongono ad un uso metaforico del

linguaggio nella scienza, tali metafore rappresenterebbero cioè uno stadio preliminare fondamentale, nella costruzione delle teorie cui sono riconducibili. Un’espressione come “buco nero” – esempio fornito sempre da Boyd – consente un primo accesso epistemico al fenomeno, senza tuttavia designarlo in maniera precisa. Ed è proprio questa “vaghezza” (metaforica) a favorire una maggiore esplorazione del fenomeno stesso. Come nel caso del paradigma kuhniano, vengono fissati dei punti di riferimento generali che stimolano il lavoro dello studioso, evitando di vincolarlo troppo. (Si veda R. Boyd – T. S. Kuhn, Metaphor in Science, tr. it. di L. Sosio, Milano: Feltrinelli, 1983 (1979)). Sulla stessa linea si pone Ezio Raimondi, il quale, nel ritenere le nozioni di modello e/ o metafora impiegate nella scienza un’ulteriore conferma dell’impianto retorico di quest’ultima, equipara certe procedure dell’indagine scientifica a quelle dell’ermeneutica letteraria. Scrive Raimondi: “la distanza tra immagine e linguaggio o disegno e resoconto aiuta a comprendere che la conoscenza del mondo non è un aggregato di elementi e di materiali sensibili, ma un sistema di proposizioni che determinano un significato sulla base di ciò che è già conosciuto, dal momento che gli eventi e gli oggetti non possono essere significanti per se stessi. Solo il linguaggio è capace di descrivere qualcosa che ha un senso […]. Se per l’appunto si considera una teoria fisica, la sua funzione sembra quella di fornire dei modelli entro cui i dati divengono intelligibili, al modo di una Gestalt, di una forma intellettuale che rende possibile la percezione di certi fenomeni in rapporto ad altri come un insieme di conclusioni alla ricerca di una premessa. Perciò una filosofia della natura è una continua, paziente battaglia concettuale per adattare ogni nuovo rilievo del fenomeno entro un modello di spiegazione […]. (E. Raimondi, Scienza e letteratura, Torino: Einaudi, 1978, pp. 34-35).

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qui la tesi di incommensurabilità delle teorie scientifiche: appartenendo a paradigmi diversi – che, un po’ come i giochi linguistici di Wittgenstein, prescindono l’uno dall’altro – esse non possono essere giudicate secondo un metodo unico di valutazione. Anche se si tratta di un metodo altamente celebrato dalla tradizione.

In Against Method (1970),73 Paul Feyerabend affonda ulteriormente il colpo nel corpo già agonizzante della scienza. Non solo il razionalismo critico à la Popper rischierebbe di demolire una teoria all’istante – negandole la possibilità di una qualsiasi evoluzione futura – ma esso costituirebbe persino uno di quegli standard metodologici eccessivamente “rigidi”, che sono da impedimento allo sviluppo scientifico. La complessità e l’imprevedibilità di quest’ultimo fanno sì che lo scienziato “opportunista”74 – capace di passare velocemente da un metodo all’altro – abbia in effetti più probabilità di successo. “Per il progresso scientifico, l’idea di una metodologia [in grado di] fornire principi saldi, immutabili e del tutto vincolanti non funziona”.75 Nemmeno l’induttivismo – tanto caro alla tradizione epistemologica anglosassone – si dimostra infallibile. Altrimenti, i detrattori di Copernico avrebbero avuto vittoria facile, nel sostenere che il moto terrestre è semplicemente smentito dal senso comune.76 Insomma, quel che arriva, tramite l’opera di Feyerabend, è il senso dell’opportunità di un anarchismo metodologico, includente la contro-induzione.

Verso la terza cultura

Le prospettive sinora delineate – una di carattere storico, l’altra filosofico – hanno essenzialmente lo scopo di mostrare come la postmodernità prenda avvio da un cumulo di macerie. La fine della filosofia, connessa con quella della storia e della modernità, ha a che fare non tanto col trionfo dei settorialismi (più o meno scientifici), quanto con la dissoluzione di ciò che Jean-François Lyotard chiama “meta-racconti” o “grandi racconti”.77 Quelle interpretazioni teleologiche dello sviluppo storico – tipiche della seconda metà dell’Ottocento – che altro non sono se non trasposizioni, in ambito profano, della dottrina cristiana della

73

Si veda P. K. Feyerabend, Against Method: Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, tr. it. di M. De Stefanis, Milano: Lampugnani Nigri, 1973 (1970).

74

Ibidem, p. 9.

75

Ibidem, pp. 15-16.

76

Cfr. ibidem, p. 58. L’esempio viene fornito dallo stesso Feyerabend.

77

Si veda J-F. Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, tr. it. di C. Formenti, Milano: Feltrinelli, 1981. Altro testo immancabilmente associato a quello di Lyotard (seppure agli antipodi) è F. Jameson, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, Durham: Duke University Press, 1991.

(26)

Provvidenza.78 Al disegno divino si sovrappongono, di volta in volta, l’ordine razionale hegeliano, la lotta di classe marxista – e, neanche a dirlo, il perfezionamento scientifico-tecnico positivistico. Ossia, il mito del progresso. Come a dire che, con la destituzione del magico e/ o del religioso operata dalla scienza, sta ad essa (e alla storia) farsi carico delle nuove speranze dell’umanità. Ma, una volta che queste vengono inesorabilmente infrante (con le guerre, i nuovi orientamenti filosofici e culturali, e così via), si registra un’automatica perdita di valore. La postmodernità è cioè l’epoca del pensiero debole – della consapevolezza della fine, fra le altre cose, anche della ragione. E della scienza che di essa si avvale.79

Se a queste riflessioni si aggiungono gli esiti dell’epistemologia post-positivistica si capisce il motivo per cui Rossi nota, con mal celato disappunto, il dilagare di varie forme di irrazionalismo a cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta del Novecento. Quella che lui stesso definisce una sorta di rivolta neoromantica.80 La nozione kuhniana di paradigma risente, a ben vedere, di fattori a-scientifici (e quindi non neutrali) di carattere culturale e/ o storico. Kuhn tenta nel tempo di migliorarla, ed altri studiosi – da Lakatos a Hacking – ne forniscono delle versioni alternative (tipo “programma di ricerca” o “stile di ragionamento”). Il punto è che il paradigma kuhniano chiama in causa, nuovamente, quell’opposizione storia/ teoria alla base della distinzione proposta da Dilthey fra scienze dello spirito e scienze della natura (le scienze dello spirito sarebbero non solo ad impianto umanistico ma, più specificamente, storico).81 Nel caso di Feyerabend poi, il “problema” dell’induttivismo o, meglio, dell’empirismo scardina del tutto il venerando sistema della sperimentazione, su cui si fonda il metodo scientifico. Un metodo collaudato nel corso di secoli. Come si vedrà più avanti, specialmente le tesi di Feyerabend ben si addicono però alla nuova situazione in cui versa il postmoderno a partire dagli anni Novanta del XX secolo. Nell’insolito mondo descritto dalla meccanica quantistica – una delle scoperte scientifiche più “postmoderne”, che numerosi scrittori contemporanei utilizzano come spunto – ogni regola dettata dal senso comune si trova ad essere inesorabilmente negata. Per il momento, ci si limita qui ad osservare come il primo degli autori presi in considerazione nelle pagine a seguire si avvicini alla rivolta neoromantica

78

Cfr. G. Chiurazzi, op. cit., pp. 6 e ss.

79

Si veda G. Vattimo, Il pensiero debole, Milano: Feltrinelli, 1983.Si veda inoltre, sempre dello stesso autore,

La fine della modernità, Milano: Garzanti, 1985.

80

“Oggi Böhme, Paracelso, maghi, alchimisti e sciamani sono i nuovi ‘eroi del pensiero’ e i simboli della modernità” (P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, cit., p. 26).

81 Cfr. F. D’Agostini, op. cit., p. 176. Si veda, inoltre, I. Lakatos – A. Musgrave (eds.), Criticism and the

Growth of Knowledge, Cambridge: CUP, 1970. Si veda, infine, I. Hacking, Representing and Intervening: Introductory Topics in the Philosophy of atural Science, Cambridge: CUP, 1983.

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