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Comunicare altrimenti. Antidoti per una comunicazione civile

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Academic year: 2021

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(1)

DESIGN DELLA COMUNICAZIONE |

SAGGI

|

07

A CURA DI VALERIA BUCCHETTI

PREFAZIONI DI GIUSEPPE GUZZETTI

E PIERFRANCESCO MAJORINO

CONTRIBUTI DI

GIOVANNI BAULE

MASSIMO BRICOCOLI

VALERIA BUCCHETTI

EMANUELA LOSITO

COSIMO PALAZZO

PAOLO PANZUTI BISANTI

MARCO QUAGGIOTTO

STEFANIA SABATINELLI

UMBERTO TOLINO

PAMELA VISCONTI

LE FUNZIONI SOCIALI

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Copyright © 2017 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. ISBN 978-88-917-6072-2 Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 2023 2024 2025 2026

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a cura di Valeria Bucchetti

Un’interfaccia per il welfare

Le funzioni sociali del design della comunicazione

Prefazioni di Giuseppe Guzzetti e Pierfrancesco Majorino

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Indice

Un’interfaccia per il welfare

Prefazione I | 9 Giuseppe Guzzetti Prefazione II | 13 Pierfrancesco Majorino Introduzione | 15 Valeria Bucchetti Parte prima

Pensare e progettare la comunicazione per il welfare

Comunicare altrimenti. Antidoti per una comunicazione civile | 23

Giovanni Baule

Welfare di tutti: una visione, un progetto | 35

Emanuela Losito, Cosimo Palazzo

I luoghi del welfare | 45

Massimo Bricocoli, Stefania Sabatinelli

Il Design della comunicazione per il welfare | 55

Valeria Bucchetti

Comunicare il welfare. Segni e grammatiche visive | 71

Pamela Visconti

Servizi digitali per il territorio urbano. Progettazione integrata per spazi ibridi | 83

Marco Quaggiotto

Comunicazione digitale: tra advertising e social media | 93

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Parte seconda

Il progetto come generatore di teoria

01. Design della comunicazione e co-progettazione | 106

Pamela Visconti

02. Un segno variabile, un’identità dinamica | 124

Umberto Tolino

03. Per un’esplorazione del segno | 140

Valeria Bucchetti, Pamela Visconti

04. Dal manual al toolkit: strumenti di servizio | 150

Paolo Panzuti Bisanti

05. Oltre il sito vetrina | 162

Paolo Panzuti Bisanti

06. L’identità degli spazi: una costruzione collettiva | 172

Pamela Visconti

07. Il sistema nella terza dimensione | 184

Valeria Bucchetti

08. Una campagna per la città | 194

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giovanni baule

Politecnico di Milano

Dipartimento di Design

Comunicare altrimenti

1

.

Antidoti per una comunicazione civile

Un equivoco, o meglio, un diffuso malinteso grava sulla comunica-zione, anche quando la si circoscriva alla comunicazione progettata, al design della comunicazione come disciplina e professione, e dunque allo specifico campo della progettazione di sistemi e artefatti comu-nicativi. Grava, e con una certa ragione, quel malinteso: a motivo di un dato inoppugnabile che riconosce, come conseguenza degli eccessi e della preminenza del comunicare, una diffusa riduzione della consi-stenza delle cose e dei fatti fino alla loro presunta irrilevanza in favore di un sistema delle apparenze; apparenze che, via via, assumerebbero un ruolo preponderante, se non sostitutivo e surrogatorio della

real-tà. Da qui discendono gli scenari, in massima parte fondati, come

ven-gono restituiti da fonti e ambiti diversi, dalla critica di stampo sociale fino ai media studies; mirano a inquadrare, nelle sue connotazioni an-che estreme, la società della comunicazione2 e le sue intrinseche corto-circuitazioni, a partire dall’idea di spettacolo sociale, come individuato da Debord, fino alle ipotesi di una generale vetrinizzazione del sociale (Codeluppi 2007).

Da questo quadro discende una costante critica alla comunicazione

tout court e alle sue forzature, al di là di una netta demarcazione della

comunicazione massmediatica, al di fuori di delimitazioni d’area e, in particolare, di una riconoscibile distanza dello specifico campo della comunicazione progettata, o design della comunicazione, campo cer-to distincer-to ma pur sempre tangente alla massmedialità.

Vanno tuttavia riconosciuti elementi che fanno apparire certe forza-ture o aberrazioni della comunicazione massmediatica non troppo

1. Il titolo di questo contributo è adottato in consonanza con il recente Pensare

altri-menti di Diego Fusaro (Einaudi, Torino 2017), in parziale, ma tutt’altro che formale

sinto-nia con il punto di vista dell’autore.

2. Al di là dell’originale accezione in Debord, l’utilizzo esteso del termine “società della comunicazione”, con tutto il suo sovraccarico semantico, vuole sottolineare la centralità delle pratiche comunicative e dei dispositivi che le supportano fino a diventare principali strumenti di costruzione della realtà sociale.

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distanti da luoghi comuni assimilati dalla comunicazione di progetto quando elabora i propri dispositivi e sistemi: pensiamo, tra gli altri, a una certa assunzione acritica dei paradigmi della rete, alla sottomis-sione ai postulati della new economy (Perniola 2004: 23), all’idea della massima interscambiabilità di linguaggi e di formati al di fuori di una verifica delle pertinenze, all’adesione assoluta a un’indiscussa supe-riorità dell’universo della comunicazione (Perniola 2004: 24).

1. Circostanze

Gli elementi attualmente in gioco, a rischio di una potenziale riduzio-ne di ruolo e di spessore del design della comunicazioriduzio-ne, ma anche della comunicazione audio-visiva in generale, sono diversi e conver-genti. Ne possiamo individuare alcuni tra i principali.

Il primo elemento può essere riconosciuto in quella che è stata in-dicata come indifferenza referenziale. Scrive Pietro Montani: “La mia idea è che uno degli effetti tendenziali delle nuove tecnologie della visione sia quello di progettare (alla lettera: di proiettare, di metterci davanti agli occhi) un mondo indifferente”. Secondo l’autore, le “stra-tegie di programmabilità (Manovich 2002: 76 sgg.) della prestazione referenziale rese disponibili dalle tecniche digitali orientano poten-temente i comportamenti sia dei produttori che dei consumatori di immagini verso l’indifferenza…”. L’infinita manipolabilità delle im-magini digitali produrrebbe infatti, per estensione, un oggetto della comunicazione sempre più distante da qualunque vincolo di realtà: a partire da un dato tecnico incontrovertibile, le ricadute si amplifica-no in termini di atteggiamenti, di culture, di saperi. “Il presupposto dell’indifferenza referenziale (…) mantiene tecnicamente aperta l’i-dea delirante di un mondo in-differente e di un archivio documentale programmabile a piacere”, dove “il gioco innocente con le immagini digitalizzate si sovrappone alla loro natura di traccia, riducendone ra-dicalmente la pertinenza e l’interesse” (Montani 2010: 23).

Un secondo aspetto, per molti versi connesso al primo, è il tenden-ziale affermarsi di una sorta di generalizzata neolingua, simile, per caratteristiche e sorte finale, a quella immaginata da George Orwell (Orwell 1949). Il fine specifico della neolingua (Newspeak), la lingua artificiale descritta in Nineteen Eighty-Four, era non solo quello di for-nire un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma quello di rendere impossibile ogni

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altra forma di pensiero, tramite la semplificazione e la riduzione di vocaboli3. L’omologazione dei linguaggi visivi, così come quello delle

lingue scritte e parlate – basti ricordare l’omologazione delle lingue nazionali in favore di una anglicizzazione a basso standard in nome

di un’equivocata internazionalizzazione4 – viene promossa tramite

stereotipi verbo-visivi, template, automatismi preformanti: configu-ra un processo di appiattimento, di riduzione qualitativa in fase di scrittura-progettazione e in fase di ricezione che va necessariamente messo in conto alla comunicazione diffusa e ai suoi dispositivi. Parto-no dalla riduzione e dall’impoverimento linguistico forme di aneste-sia collettiva che hanno il proprio epicentro in forme comunicative cristallizzate.

Un terzo aspetto coinvolge direttamente il design della comunicazio-ne ma anche il design comunicazio-nel suo insieme. Il senso stesso della comunica-zione è messo radicalmente in questione dalla pressante richiesta di fungere da copertura per l’incompiuto, da mascheramento per l’im-presentabile, con una funzione sostanzialmente propagandistica che riduce la funzione comunicativa stessa a maschera, a quinta decora-tiva, a proiezione per eventi di facciata. Da qui l’equivoco che farebbe della comunicazione un vestito disponibile per ogni occasione, un paravento con il quale l’immagine progettata si manifesta al di fuori di una continua, responsabile verifica della sostanza delle cose. Lo

styling comunicativo comporta poi, a sua volta, una costante rincorsa

a esibizionismi formali, a effetti speciali dentro un’inarrestabile deri-va del comunicare.

Al fondo di tutto questo agisce il mito dell’estetizzazione genera-lizzata che ha fatto parte, e probabilmente fa parte ancora, di molta cultura del design. Va messo in relazione con l’uso di un mezzo di comunicazione estetico, sul quale finisce per fondarsi, tra l’altro, il codice dell’odierna politica plebiscitaria e delle derive populiste (Ge-novese 2016): riproduce all’infinito immaginari collettivi, utopie di stampo puramente tecnologico, emozioni consumistiche, consumi-smo visivo, dove etica e estetica prendono strade diverse e opposte.

3. Una sezione del Ministero della Verità (uno dei quattro ministeri che controllano l’O-ceania) lavora incessantemente alla Neolingua riducendo drasticamente il numero di pa-role (la Neolingua è infatti l’unico linguaggio in cui il numero di papa-role si riduce di anno in anno invece di aumentare) e semplificando i costrutti verbali.

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La logica del camouflage, tattica di mascheramento che sottende la dissimulazione come metodo e il nascondimento come fine5,

coin-volge primariamente il campo del visivo fino a produrre vere e pro-prie retoriche di cosmesi in tutti i campi: basti pensare alle retoriche adottate da certa progettazione urbanistico-architettonica fondata sull’uso dell’elemento arboreo come cosmesi all’impatto insosteni-bile dell’edificazione urbana. In una dimensione di estrema diffusio-ne, la logica del camouflage comunicativo finisce per estendersi fino a interessare una dimensione di camouflage sociale.

2. Controtendenze

In netta controtendenza con il quadro descritto, il design della comu-nicazione sa e può mettere in atto forme di comucomu-nicazione progettata che, per modi e linguaggi, possano deviare dai depositi visivi e dalla sudditanza alla quotidiana semantica delle apparenze, mettendo al centro il ruolo della comunicazione nella costruzione sociale della realtà. Proprio per le considerazioni fin qui fatte, il design della co-municazione, per sua natura, non può sfuggire – ma potremmo dire, si posiziona obbligatoriamente in prima fila – alla più generale rifles-sione sulla dimenrifles-sione epistemologica del design: in ragione del fatto che le pratiche progettuali che lo interessano contribuiscono diret-tamente alla costruzione e alla diffusione di informazioni, significati, immaginari, esperienze.

Ogni progetto, e in particolare un progetto che si misura con la di-mensione sociale, rappresenta un’occasione per mettere a fuoco, ridefinire il posizionamento stesso della comunicazione progettata. Non la comunicazione corrente veicolata dai media di massa, ma la comunicazione preposta a progettare immagine, identità, messaggi orientati all’identificazione di temi e istituzioni in ambito civico; ri-gettando la natura compromissoria delle infinite richieste di cosmesi valoriale, strumentali alle quotidiane politiche del compromesso co-municazionale.

La comunicazione per il sociale ha sperimentato fino ad oggi un dop-pio binario. Da una parte la comunicazione o grafica di pubblica utilità, alla quale si fa riferimento più dettagliato in queste pagine (Bucchet-ti 2017): circoscrivibile alla prima fase di costruzione delle

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mie locali, ha avuto un’impronta decisamente autoriale nell’elabora-zione di identità visiva per istituzioni e campagne istituzionali con la messa in opera di linguaggi visivi sperimentali, pur necessariamente all’interno del paradigma comunicativo della comunicazione grafica a stampa. Fortemente identificabile sul piano dei linguaggi visivi, ha caratterizzato il profilo di una generazione di progettisti e ha lasciato testimonianza di artefatti di grande qualità, dimostrando la compa-tibilità del tema con la portata creativa degli esiti comunicativi; ha fondato soprattutto l’ipotesi di una comunicazione locale, nata, fina-lizzata e radicata in un territorio. La scala territoriale ha messo in discussione la logica delle campagne comunicative nazionali ipotiz-zando la dimensione locale come una misura portante del progetto di comunicazione.

All’opposto come logica d’intervento e area professionale degli attori coinvolti, il ‘tema sociale’ si è innestato nel campo pubblicitario in-teressando la scala delle campagne governative, dunque dentro una dimensione di produzione e diffusione a scala nazionale: un’area di prodotti di comunicazione che va sotto il nome di pubblicità

pro-gresso6. Si tratta in questo caso di un prezioso crogiolo di tecniche e

linguaggi comunicativi capace anche di sperimentare sfumature e grammatiche esperte impensabili ad altre scale, tuttavia non esente dalla reiterazione di cliché di estrazione pubblicitaria e da una tenden-za alla spettacolariztenden-zazione. Il paradigma comunicativo adottato è circoscritto quasi esclusivamente allo spot televisivo, solo di recen-te con un affaccio sperimentale ai new media. Il riuso delle retoriche persuasive proprie del linguaggio pubblicitario rivela tuttavia i propri limiti non riuscendo a superare l’obiettivo di una cauta, generalizzata sensibilizzazione sui temi programmati.

Come buona parte degli approcci derivati dagli assunti del marke-ting della comunicazione, di principio estraneo a una riflessione intorno alla dimensione retorica incorporata nei linguaggi e nei for-mati, l’adozione di determinate scelte estetiche e retoriche tende a riprodurre e confermare modalità che appartengono ad altro scopo del comunicare. Senza porre in discussione le forme comunicative destinate all’ordine simbolico dei consumi e alle indiscusse ragioni

6. Cfr. <https://www.pubblicitaprogresso.org>. Sul tema cfr. Contri 2017, e in particola-re ‘Il sociale irrompe nella pubblicità’, p. 157 sgg.

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del mercato da cui hanno origine e lavorando con i medesimi proces-si produttivi, sembrano riproporre retoriche della persuaproces-sione tutte interne all’ambito dei linguaggi visivi egemoni. Di fronte alla perva-sività dei linguaggi visivi si porrebbe invece il compito di elaborare dispositivi in grado di decostruire il sistema comunicativo che quei linguaggi creano.

Mettere in atto contro-retoriche e prospettive critico-espressive all’interno del design della comunicazione richiede di incorporare al-cune posizioni acquisite nel tempo e di far riferimento ad alcuni punti di forza, prima tra tutti la componente critico-riflessiva delle pratiche progettuali. Quando parliamo di attitudine critica propria della cul-tura del progetto intendiamo un filtro, o meglio, un sistema di filtri che il progettista mette in atto in senso riflessivo e, con movimento contrario, in senso auto-riflessivo per scomporre analiticamente e poi ricomporre gli elementi costitutivi del progetto. Le considerazio-ni a più voci che nascono nel vasto ambito del design critico7 e del suo

derivato anglosassone, il critical design, si offrono a diverse soluzioni. Cultura del progetto è allora una postazione dotata di pensiero, una piattaforma avanzata, un punto di vista privilegiato che tuttavia non può fermarsi alla contemplazione di una visione senza un approdo artefattuale, attestandosi sulla presunzione di un potere demiurgico sulle cose in tutto simile a una competenza parapolitica. La costan-te traduzione di principi e strumenti critici non può non calarsi nella pratica progettuale propria del design.

Diversamente, prevale il mito di un design demiurgico che nella

sto-ria e nelle culture del progetto ha radici ottocentesche con Ruskin e Morris8: una sorta di paradossale volontà di potenza disciplinare che

collocherebbe il progettare, in quanto sapere e strategia trasversale, al di sopra di tutte le altre discipline, sorvolando il campo della pro-gettualità nella sua generalità, indipendentemente e al di sopra delle sue specifiche articolazioni. Considerando esclusivamente la scala meta-progettuale si riducono al minimo la dimensione e la portata degli esiti artefattuali, che, se pur in chiave sperimentale, con la pro-pria specificità apportano di continuo suggestioni critiche dentro un

7. Cfr. Baule 2015.

8. Su limiti e rischi di un ruolo dirigistico del design in chiave di puro volontarismo etico-politico, cfr. ad es. Pasca, Il design oggi, in particolare il paragrafo ‘Storia e teorici del design’ (Pasca 2008: 131). Sulle ipotesi di un design senza artefatti, cfr. De Fusco (De Fusco 2008).

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costante processo riflessivo. La sperimentazione progettuale confi-gura infatti, a sua volta, un apporto rilevante anche sul piano teorico, con ricadute sul piano epistemologico. Le pratiche critiche del design pongono istanze e allo stesso tempo sostengono un approccio pro-gettuale rivolto alla messa a fuoco di possibili soluzioni.

3. Antidoti

Alcuni elementi, più di altri, sembrano segnare in modo significativo le specificità del progetto di comunicazione.

Un primo aspetto riguarda la dimensione performativa propria della generalità degli artefatti comunicativi. La specifica natura perfor-mativa degli artefatti visivi – altrimenti identificata come agency (Mitchell 2009; Gell 1998; et al.) – è elemento fondante il design della comunicazione. Comporta non solo l’esecuzione di una funzione o la proposizione di contenuti informativi, ma un’estesa produzione di significati: sostiene culture e sistemi di valori, incide con modi propri sui comportamenti sociali, dunque su quella che definiamo costruzione sociale della realtà. La rappresentazione di una proble-matica sociale, ad esempio, comporta di necessità una partecipazio-ne alla costruziopartecipazio-ne della problematica di riferimento. La traduziopartecipazio-ne

visiva (Baule 2016) che il design mette in atto incide sui modi e sulla

sostanza stessa di quella problematica, sui modi di ricezione e sulle esperienze che ne seguono.

Alla componente performativa si lega strettamente il principio della comunicazione come accesso. Il design dell’accesso, così possiamo sin-teticamente definirlo, è parte fondante del design della comunicazio-ne; il progetto della comunicazione, infatti, ‘mette in figura’ le forme di accesso a un contenuto, all’informazione. Il design dell’accesso concentra l’attenzione sulla fase di ingresso, sul momento di passag-gio che rende concreti il diritto, la possibilità e le modalità con le quali accedere a un contenuto. È il baricentro su cui si focalizza l’essenza di un atto comunicativo, ma anche il passaggio che ne decreta l’esito. Il design della comunicazione, considerato dallo specifico punto di vista del design dell’accesso, accentua il proprio ruolo di facilitatore e rende possibile, grazie alla propria funzione registica e di mediazio-ne, l’accesso a contenuti comunicativo-informativi da una prospet-tiva funzionale e simbolica, permettendo alle diverse fasce di utenza di agire in contesti in continua evoluzione e per questo sempre più complessi: consente di interagire con diverse tipologie di dispositivi

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– analogici e digitali; aiuta a comprendere e a relazionarsi con oggetti tridimensionali, spazi fisici e spazi virtuali; facilita l’organizzazione, la diffusione, la condivisione del sapere; favorisce nuovi modelli di apprendimento.

Il design dell’accesso comunicativo va dunque oltre un ruolo stret-tamente funzionale, quantitativamente misurabile: l’accessibilità diviene elemento qualitativo, esperienza comunicativa che fissa i valori di insieme che contribuiscono a definire la qualità stessa di un ‘contenuto’. In quanto design dell’accesso, la comunicazione proget-tata svolge a fondo il proprio compito di tipo trasformativo e, attra-verso gli artefatti e i sistemi progettati, è in grado di guidare le scelte e i comportamenti dei destinatari, modificando la percezione che essi hanno della realtà in cui operano; fino ad assumere, richiamando le responsabilità sociali del progettista, una funzione di sensibilizzazio-ne verso problemi ed emergenze di natura sociale, ambientale, … Connesso al principio dell’accesso comunicativo si conferma poi, comune a tutte le culture del progetto, la componente partecipativa come dimensione irrinunciabile dei processi progettuali. La

compo-nente partecipativa, di radicata tradizione disciplinare, si pone come dimensione inscindibile del progetto. Mentre il progetto si interroga e interroga l’oggetto della propria comunicazione, si fa a sua volta interlocutore, instaura un dialogo – lo spazio dialogico del progetto: è un interlocutore non sempre comodo, e così dovrebbe essere, in quanto pone a sua volta domande. Non è solo il passivo consulente per la maggiore o miglior efficacia di qualsiasi discorso; si inserisce ‘sospettoso’ nella domanda di progetto per cogliere di quale strate-gia complessiva, e non solo stratestrate-gia comunicativa, entri far parte. Il progetto è partecipato o non è progetto; un progetto di comunica-zione che segue ‘a cose fatte’ e restituisce in bella copia un tema pre-confezionato è solo styling e mascheramento.

Un terzo aspetto riguarda la nuova dimensione territoriale della co-municazione. La dimensione territoriale, o più precisamente, lo

spa-tial turn nel design della comunicazione (Baule e Quaggiotto 2015)

indica la costante connessione dell’atto comunicativo con i luoghi fisici, con le strategie territoriali, una prospettiva che sul piano degli studi e della progettazione indichiamo con il nome di design della

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Spatial turn è il termine introdotto da Edward W. Soja (Soja 1996); lo

utilizza a metà degli anni ’90 per sottolineare l’importanza della cate-goria ‘spazio’. Numerose discipline hanno confermato questa nuova centralità: dagli studi letterari agli studi storici. Il principio alla base dello spatial turn è l’assenza di conflitto tra spazi reali e spazi imma-ginari. Lo spazio fisico (First space) e lo spazio mentale (Second

spa-ce) sono categorie necessariamente complementari: lo spazio deve

essere inteso come reale e immaginato al tempo stesso (Thirdspace). Si può dunque affermare che lo spatial turn non investa solo le disci-pline geografiche allargandone lo spettro e estendendolo a buona parte del campo umanistico – come lo spatial turn in campo lettera-rio (Westphal 2009) –, ma che possa registrare ricadute su altre aree disciplinari, e sul design della comunicazione in primo luogo. Il pa-radigma dello spatial turn e il principio di Thirdspace accanto alle tec-nologie di geolocalizzazione trasformano gli artefatti comunicativi in artefatti geolocalizzati, modificando di conseguenza lo statuto com-plessivo della comunicazione. È infatti sul piano delle tecnologie del-la comunicazione che del-la forma di geolocalizzazione generalizzata e

diffu-sa, oggi in atto, stabilisce di fatto una connessione profonda tra agire

quotidiano, flussi, contenuti, dati, esperienze, narrazioni e un loro immediato e costante posizionamento geo-spaziale. Lo spatial turn nella progettazione, produzione e fruizione di comunicazione con-ferisce una nuova dimensione al design della comunicazione, intro-ducendo una nuova attenzione al territorio come erogatore di infor-mazioni, una sensibilità diffusa per il territorio come giacimento di culture e potenziale generatore di risorse comunicative. Possiamo di conseguenza parlare anche di territorializzazione della comunicazione. Nel caso della proposta progettuale oggetto di questo volume, la

mar-chiatura segnaletica o di orientazione, con tutta la sua articolazione

crossmediale, va oltre la semplice immagine di identità istituzionale. Comporta una particolare traduzione visiva che indica un luogo den-tro una costellazione di luoghi, un servizio denden-tro un insieme di servi-zi, segnala qualcosa e dove allo stesso tempo, uno stato di identità geo-localizzato. Parla di accesso, accompagna e mostra un punto di soglia. È grafica attiva: agisce in quanto comunicazione operativa, induce ad azioni complesse, non semplificative o riducibili a una piatta gram-matica visiva. Ha una valenza programgram-matica e di conseguenza reca con sé una sorta di proiezione nel tempo. È in stretta dialettica con

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i fatti e gli atti compiuti: sulla scia dei progetti partecipativi,

costru-isce un equilibrio tra prestazione referenziale e prestazione costruttiva della funzione comunicativa, che, anche in questo caso, rappresenta e interpreta allo stesso tempo, riproduce e interroga. Coniugando per-formatività, partecipazione, territorializzazione, propone un cam-mino in controtendenza, che è poi il senso del progettare, dentro una conclamata esigenza di ridimensionamento degli stili dell’iper-comunicazione. Si accompagna a un riposizionamento disciplinare dove la funzione critica opera sul mondo ma agisce anche a livello intradisciplinare.

Alla ricerca di un affrancamento dall’omologazione obbligata cui sembrerebbe condannata e alla ricerca di ‘zone decontaminate d’e-spressione’ (Balzola e Rosa 2011), praticando la comunicazione pub-blica e assumendo il valore di fruizione9, la comunicazione di

proget-to può trovare un valido antidoproget-to alle reproget-toriche dell’estetizzazione. Attorno a un segno, a un sistema comunicativo che si fa prassi sociale, comunicazione situata, consonanza con il territorio praticato, com-ponente delle infrastrutture della socialità (Consonni 2017), c’è la mi-sura del suo essere comunicazione civile.

9. Sui criteri di valutazione di un’opera, sia pur in campo artistico, Noel Carrol (Carrol 2008) distingue il valore di riuscita (success value) dal valore di fruizione (reception value). Sulla necessaria interdipendenza dei due valori, cfr. Bertram (Bertram 2017: 157 sgg.).

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