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Braudel: le diversità salveranno il mondo

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Academic year: 2021

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Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Bompiani, Milano 2001, pp. 555, £ 42.000, Euro 21,69

“L’unica cosa che mi appassiona nel nostro mestiere è ciò che esso spiega della vita degli uomini quale si va intessendo sotto i nostri occhi, con acquiescenze e reticenze, rifiuti, complicità e abbandoni di fronte al cambiamento e alla tradizione”. Fernand Braudel (1902-1985), il grande storico francese, autore di opere fondamentali come Civiltà e imperi nell'età di Filippo II, ha sempre mantenuto intatta questa onnivora curiosità per l’uomo e le sue vicende. Lo testimonia anche questa nuova edizione in un unico volume dei suoi Scritti sulla storia che raccoglie, accanto a testi di carattere metodologico, alcuni esempi di ricerche “sul campo”, tra i quali, oltre al noto saggio sui prezzi in Europa dal 1450 al 1750, si segnalano le concise, ma interessanti biografie di Carlo V e del figlio Filippo II (redatte a scopo divulgativo, ma in uno stile sempre suggestivo e ricco di immagini) e soprattutto la testimonianza autobiografica intitolata La mia formazione di storico.

Come osserva nella sua introduzione Alberto Tenenti, fin dagli anni giovanili di insegnamento nell’università di Algeri e in Brasile Braudel affianca, alla ricerca negli archivi, la frequentazione costante di di geografi, antropologi e sociologi. E’ in questa fase che matura in lui il profondo convincimento che la storia come disciplina non potesse in alcun modo rinchiudersi in se stessa, ma che necessitasse di un costante confronto con tutti i tipi di sapere che hanno per oggetto comune la vita dell’uomo.

Contestando la legittimità della pretesa all’autosufficienza intellettuale, più o meno coscientemente insita in ogni singola scienza sociale, Braudel ha lucidamente presenti i numerosi problemi che si vengono a creare. Alla base della ricostruzione storica occorre dunque porre una visione pluridimensionale (che consideri la dimensione culturale, ma anche quella economica, sociale, delle istituzioni) e contemporaneamente opporsi (sulla scia degli insegnamenti di Lucien Febvre, cui succederà sulla cattedra di Storia della civiltà moderna al Collège de France e, dal 1956, alla direzione della rivista “Annales”) alla riduzione della storia a racconto di vicende prevalentemente politiche, diplomatiche o militari. D’altra parte, Braudel è convinto che, nel rapporto con le altre scienze umane (categoria alla quale appartiene anche la stessa storia, scienza suia pure particolare “complesso di curiosità, di punti di vista, di possibilità, cui altri si aggiungeranno ancora domani”), il nodo centrale consista non tanto nella ricerca di un linguaggio comune, ma nella differente concezione del tempo, dimensione fondamentale della vita collettiva e coordinata obbligatoria per ogni tipo di analisi, costituendo non soltanto la sostanza del passato, ma anche il tessuto della vita sociale attuale. Il tempo (che, per lo storico “si avvinghia al suo pensiero come la terra alla zappa del giardiniere”) è per Braudel qualcosa di complesso, articolato e stratificato, che racchiude una

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molteplicità di tipi di durata: a) la lunga durata, il cambiamento quasi impercettibile, il lentissimo mutamento, alla luce dei rapporti dell’uomo con l’ambiente che lo circonda. E’ la dimensione della “struttura”, ciò che sostiene e costituisce il meccanismo di una determinata realtà, reggendo al di là della vita dei singoli e degli Stati b) la durata media o, per usare la terminologia braudeliana, la congiuntura, che si può anche estendere al globo intero, ma che incide solo su una fase, un momento di sviluppo c) il tempo dell’avvenimento, saltuario e sporadico nella sua singolarità e come tale inadatto a essere ricondotto a ritmi o leggi costanti. Compito principale della ricerca storica sarà proprio quello di individuare i rapporti tra strutture, congiunture, avvenimenti. La storia diventa quindi, in conclusione, una “dialettica della durata: tramite questa, è uno studio del sociale, di tutto il sociale, e dunque del passato e del presente, entrambi inseparabili”.

Uno dei pregi della raccolta è però quello di mostrare Braudel non solo come maestro di metodologia storica, ma anche alle prese con questioni concrete. Se così non fosse, afferma lo stesso storico francese, la storia verrebbe forse meno a uno dei suoi compiti, che è anche quello di fornire una risposta agli angosciosi problemi del presente, alle sue “responsabilità terribili, ma anche esaltanti … Le catastrofi rappresentano in ogni caso l’imperativo di ripensare l’universo”. Parole scritte nel 1950, ma che assumono un connotato tanto più attuale quanto più Braudel si interroga sul significato di categorie come civiltà, cultura, religione. Due celebri antropologi americani, Kroeber e Klukhohn, avevano enumerato, in una ricerca degli anni ’50, 161 definizioni del termine cultura; un grande storico inglese, Arnold Toynbee, ha individuato, nella storia dell’umanità, 21 o 22 civiltà (al confronto, il tanto citato Huntington dello Scontro delle civiltà è decisamente un semplificatore). Ma, in fondo, posto il problema della definizione, non è questo ciò che sta veramente a cuore a Braudel. Altro è ciò che gli interessa, coerentemente con tutto il suo percorso e le sue curiosità di storico: “L’avvenire non è una strada unica. Dunque: rinunziare al lineare. Né credere che una civiltà, perché originale, costituisca un mondo chiuso, indipendente, come se ciascuna di esse fosse un’isola in mezzo a un oceano, mentre le loro convergenze, i loro dialoghi sono essenziali e, sempre, esse condividono, tutte o quasi, un ricco fondo comune … Esiste, e le si dia l’etichetta che si preferisce, una civiltà francese, tedesca, italiana, inglese, ciascuna con le sue tinte e le sue interne contraddizioni. Studiarle tutte sotto il termine generale di civiltà occidentale mi sembra troppo semplice”. C’è di più: “l’Occidente ha profittato, tra le altre civiltà, della sua posizione all’incrocio d’innumerevoli correnti culturali. Ha ricevuto nel corso dei secoli e da tutte le direzioni, anche dalle civiltà scomparse, prima di essere in grado a sua volta di dare, di brillare … Quel che noi storici conosciamo forse meglio di ogni altro osservatore del sociale è la fondamentale diversità del mondo. Bisognerebbe interessarsene fin dalla scuola, ma ogni popolo si compiace troppo a considerarsi nel proprio specchio, escludendo gli altri. In realtà questa preziosa

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conoscenza resta abbastanza rara; essa costringerebbe a considerare tutti i gravi problemi dei rapporti culturali, la necessità di trovare tra civiltà e civiltà dei linguaggi accettabili che rispettino e favoriscano posizioni diverse, non del tutto riducibili le une alle altre”.

Vi è un’altra questione di stretta attualità per la quale la lezione di Braudel ci può essere di una qualche utilità: “Tutti gli osservatori, tutti i viaggiatori, entusiasti o indispettiti, ci parlano della sempre crescente uniformazione del mondo. La terra non cessa di restringersi e, più che mai, ecco che gli uomini sotto uno stesso tetto, costretti a vivere insieme, gli uni sugli altri”. Come non riconoscere in queste parole una descrizione, alla fine degli anni ’50, di alcuni effetti di quella che da alcuni anni chiamiamo “globalizzazione”? Una descrizione dei suoi effetti, ma anche dei problemi che porta inevitabilmente con sé: “La civiltà non si distribuisce in modo eguale; essa ha diffuso delle possibilità, delle promesse, suscita bramosie, ambizioni. In realtà, s’è instaurata una sorta di gara, che avrà i suoi vincitori, i suoi attardati e i suoi perdenti. Aprendo il ventaglio delle possibilità umane, il progresso ha in tal modo ampliato anche la gamma delle differenze. La vita è spesso contraddittoria: il mondo subisce una violenta spinta verso l’unità, pur restando al tempo stesso profondamente diviso. Così era già ieri: come che sia, unità ed eterogeneità coesistevano”: Unità e diversità, ma anche accesso alla ricchezza, alle nuove forme di conoscenza: “Queste tecniche saranno al servizio di minoranze, di tecnocrati o al servizio di tutti e quindi della libertà? Una lotta feroce, cieca è ingaggiata sotto diversi nomi, su diversi fronti”. E’ un panorama per molti versi cupo, quello della modernità descritta da Braudel. Ma il vecchio storico non rinuncia neppure in questo caso ad una nota di ottimismo, che sembra quasi derivare da una fiducia di “lunga durata” nell’uomo e nelle sue risorse: “Un umanesimo è un modo di sperare, di volere che gli uomini siano fraterni gli uni nei confronti degli altri e che le civiltà, ciascuna per suo conto e tutte insieme, si salvino e ci salvino. Significa accettare, auspicare che le porte del presente si aprano largamente sull’avvenire, al di là dei fallimenti, delle decadenze, delle catastrofi predette da strani profeti (i profeti appartengono tutti alla letteratura nera). Il presente non può essere quella linea d’arresto che tutti i secoli, carichi di eterne tragedie, vedono davanti a sé come un ostacolo, ma che la speranza degli uomini, da quando ci sono degli uomini, non cessa di superare”.

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