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Sirene greche e nāman sanscrito. Le δυνάμεις della parola indoeuropea

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Academic year: 2021

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(1)

Dottorato in Linguistica generale, storica, applicata, computazionale e delle lingue moderne (italiano, inglese, francese, spagnolo, tedesco)

(L-LIN/01)

Sirene greche e nāman sanscrito.

Le dun£meij della parola indoeuropea

RELATORI CANDIDATO

Prof. Pierangiolo Berrettoni Veronica Valenti

Prof. Saverio Sani

PRESIDENTE Prof. Alessandro Lenci

(2)

SIRENE GRECHE E NÅMAN SANSCRITO.  

LE DUNAMEIS DELLA PAROLA INDOEUROPEA 3  

Semantica di *seh2-/sh2- e dynamis della parola indoeuropea 4  

1 Indizi testuali 4  

1.1 Lo scambio amebeo primo 4  

1.2 Indizi testuali ulteriori 15  

1.3 Figure foniche 19  

1.4 Scopo della Geworfenheit 25  

2 Indizi lessicali 27  

2.1 Tanû- 27  

2.2 La questione di o‡mh, oŜmoj 36  

2.3 Il canto di Neƒa 47  

3 Semantica di *seh2-/sh2- e Sirene 50  

Acquoreità della parola indoeuropea 60  

1 Indizi testuali e lessicali 60  

2 Ulteriori indizi lessicali 67  

2.1 Odisseo/Outij 67  

2.2 ¸‚i e rasa 77  

2.3 Eracliteo ·e‹n 80  

2.4 ·uqmÒj 83  

3 Nåman e la dimensione verbale 89  

3.1 Introduzione 89  

3.2 Nåman: l’acquoreo scorrere del pensiero 91  

3.3 Tripartizione del ‘verbale’: såman, nåman, dhåman 94  

3.4 Dhåman: il ‘significante’ 96  

3.5 Parola e pataµga 105  

3.6 RV X, 125 e brahman 109  

3.7 RV I, 164, 45 e i quattro quarti della parola 113  

4 Homo loquens: manu‚a e puru‚a 114  

4.1 Parola genna‹on del Puru‚a 121  

Linguaggio genna‹oj 124  

1 Linguaggio genna‹oj vedico 129  

1.1 Semasiofonologia e riattualizzazione della parola-frase 137  

1.2 ™nšrgeia della parola del Puru‚a 141  

2 Linguaggio genna‹oj sumerico 143  

2.1 Reciproco nominarsi di cielo e terra 147  

2.2 Bal e la dialogicità 148  

2.3 Dur 151  

2.4 Casistica di segni 152  

2.5 Elogio dell’arte scribale e autonomia del sapere 153  

2.6 Centralità della parola 154  

2.7 Dialogicità e atto 154  

2.8 Acquoreità della parola e percezione somatopsichica 159  

3 Tipologia non-accusativa 163  

3.1 Lingua vedica e tipologia non-accusativa 163  

3.2 Weltanschauung ed ergatività 165  

4 Linguaggio schizofrenico 167  

5 Conclusioni 173  

(3)

Sirene greche e nåman sanscrito.

Le

dun£meij

della parola indoeuropea

Nel corso del lavoro, onde definire le dun£meij della parola indoeuropea, si guarderà essenzialmente a due aree semantiche, quella di ‘legare, connettere’, ben rappresentata dalla base *seh2-/sh2- (propria, ad esempio, di o‡mh, oŜmoj, ishamai-, sāman), e quella

dell’acquoreità descritta dalle basi *(h1)ers-/(h1)res- (propria di ár‚ati e rása) e *sreu-

(propria di ·šw e ·uqmÒj).

Tali basi risulteranno essere tra loro correlate dal loro afferire all’ambito della verbalizzazione, della dynamis della parola indoeuropea quale viene a delinearsi considerando materiale prevalentemente vedico, pur non prescindendo dall’apporto di ittita e greco.

Dall’analisi di tali basi si pensa di poter trarre elementi onde avanzare proposte etimologiche per due termini, l’uno proprio del mondo greco, Seir»n, l’altro del mondo vedico, nāman, che risulterà elemento della triade sāman, nāman, dhāman. Tale tripartizione nella designazione della sfera verbale risulterà rapportabile alla tripartizione manas, mantra, jihvā e in grado di informare di sé la designazione dell’essere umano quale manu‚a e puru‚a, che a sua volta sarà portatore di quel linguaggio che si definirà linguaggio genna‹oj.

L’analisi di ciascuna base consta essenzialmente di due momenti, si intende, infatti, considerare indizi sia testuali sia lessicali ed è guardando ad entrambi che si cercherà innanzitutto di trarre tracce della contiguità fra semantica di *seh2-/sh2- e parola

(4)

Semantica di

*

seh

2

-/sh

2

- e dynamis della parola indoeuropea

1 Indizi testuali

1.1 Lo scambio amebeo primo

Relativamente agli indizi testuali si considera lo scambio fra Urvaç⁄ e Pur¨ravas di

RV X, 95, valutando la possibilità di una lettura quale allusione allo scambio amebeo

primo volto a ricongiungere cielo e terra, originariamente uniti, ma scissi in seguito allo iato cosmogonico.

In RV X, 95, 1 si ha un invito a Urvaç⁄ da parte di Pur¨ravas a quello che si può genericamente definire scambio di parole:

hayé jā́ye mánasā tíṣṭha ghore vácāṃsi miśrā́ kr̥ṇavāvahai nú / ná nau mántrā ánuditāsa eté máyas karan páratare canā́han //

«Orsù, o donna - ma fermati, crudele! – scambiamoci parole con il cuore! Se questi nostri pensieri restano inespressi non ci porteranno una grande gioia che possa durare fino a un giorno lontano!» 1.

Guardando ad alcuni dei termini che concorrono al costituirsi della prima stanza, è possibile cogliere un connotarsi poetico di tale scambio verbale. I termini implicati sono lo strumentale mánaså, che rinvia ad una fase di pura produzione eidetica, mántrå

ánuditåsa, fase nella quale si assiste alla verbalizzazione del pensiero, e vácas- (vâc-) k®-, fase della jihvā, dell’attualizzarsi fonico del pensiero verbalizzato.

Nell’invito di Pur¨ravas a Urvaç⁄ sono, quindi, efficacemente tratteggiati i momenti fondamentali della dinamica della creazione poetica vedica e la poesia si configura essere, a un tempo, sia forma, sia oggetto di se stessa tanto che il passo può legittimamente considerarsi antico «esempio di espressione metateatrale»2.

Ulteriore indizio della centralità della parola poetica in RV X, 95 si desume dalla lettura del verbo p®~åti nella quinta strofe:

tríḥ sma mā́hnaḥ śnathayo vaitasénotá sma mé 'vyatyai pr̥ṇāsi / púrūravó 'nu te kétam āyaṃ rā́jā me vīra tanvàs tád āsīḥ //

1

La traduzione dei passi è mia, dove non diversamente specificato come in questo caso e per l’intero inno X, 95 in cui è tratta da S. Sani (a cura di), ¸gveda. Le strofe della sapienza, Venezia 2000. Altro testo al

quale si guarda per la traduzione di passi del decimo libro del ¸gveda è R. Ambrosini, Dal X libro del ¸g-veda, Pisa 1981.

2 R. Lazzeroni, RV, X, 95, 1: invito al dialogo o esortazione alla poesia?, «SSL» XVIII (1978), pp. 171

ss., ora in Scritti scelti di Romano Lazzeroni, a cura di T. Bolelli e S. Sani, Pisa 1997, pp. 129-134, dimostra come l’invito di Pur¨ravas sia invito al canto amebeo; si interessa all’inno anche R. Ambrosini, Dialogo e narrazione nel ¸g-Veda e nell’epos omerico, in Strutture e parole, Palermo 1970, pp. 47-85.

(5)

«Sì, tre volte al giorno mi penetravi con il tuo membro, ma ora tu fai offerte a me che non voglio. O Pur¨ravas, allora io accontentavo il tuo desiderio; allora, o maschio, eri il re del mio corpo!».

Utile è il confronto fra RV X, 95, 5 e RV VII, 32, 8: sunótā somapā́vne sómam índrāya vajríṇe /

pácatā paktī́r ávase kr̥ṇudhvám ít pr̥ṇánn ít pr̥ṇaté máyaḥ //

«Pressa il Soma per Indra, bevitore di Soma, portatore di vajra! Prepara cibi cotti: induci in lui accrescimento, perché solo chi offre è motivo di gioia per chi offre».

Si ha, qui, il duplice ricorso al verbo p®~åti, la constatazione che «solo chi offre è gioia per chi offre» e la presenza del termine mayas in relazione all’effetto dell’offerta. Similmente in RV X, 95, 1 si ha il ricorso al termine mayas in relazione all’offerta, in particolare offerta di parola poetica. Si prepara così l’humus per l’interpretazione di

p®~åti che in RV X, 95, 5 proprio alle parole scambievoli farebbe riferimento: p®~åti è

da ricondursi all’ideologia dello scambio da null’altro attivata se non dall’offerta di parola poetica3.

Parrebbe, invece, contraddire l’attribuzione di un ruolo centrale allo scambio di parole il profilarsi di un rifiuto all’invito di Pur¨ravas da parte della ninfa sia in RV X, 95, 5, proprio in concomitanza con il verbo p®~åti, sia in RV X, 95, 2:

kím etā́ vācā́ kr̥ṇavā távāhám prā́kramiṣam uṣásām agriyéva / púrūravaḥ púnar ástam párehi durāpanā́ vā́ta ivāhám asmi //

«Perché dovrei scambiare parole con te? Sono andata via, come la prima fra le aurore! O Pur¨ravas, tornatene a casa: io ormai sono per te irraggiungibile come il vento».

La portata della negazione di Urvaç⁄ è, però, di necessità, da ridimensionarsi: alla strofe 2, luogo del rifiuto, seguono sedici stanze di inno dialogato, mentre a RV X, 95, 5 segue la sesta stanza che collega intrinsecamente alla parola poetica la figura di Urvaç⁄ in forza della sua appartenenza alla schiera delle Ninfe i cui nomi alludono alla dinamica della creazione poetica, richiamandone momenti o tratti4:

yā́ sujūrṇíḥ śréṇiḥ sumnáāpir hradécakṣur ná granthínī caraṇyúḥ / tā́ añjáyo 'ruṇáyo ná sasruḥ śriyé gā́vo ná dhenávo 'navanta //

3

Cfr. S. Sani, Registri temporali e struttura narrativa: esegesi di RV. X, 95, 5, «SSL» XVIII (1978), pp. 179-197, in particolare pp. 193-197, che confuta il valore erotico del termine.

4

Cfr. D. Maggi, Contributi all’interpretazione di Urvaç⁄ e Pur¨ravas (RV X, 95): una raffigurazione di

(6)

«La schiera delle ninfe dal bello splendore che, amiche fra loro, recitano inni, che conoscono i legami dei versi, come il poeta che ha l’occhio rivolto verso il lago dei suoi mondi interiori, e che si muovono veloci, sono corse via tutte a gara come i rosei belletti dell’Aurora e, come vacche da latte, hanno fatto risuonare la loro voce».

Per quanto non sia da trascurarsi il rifiuto di Urvaç⁄, pare, quindi, non sia da leggersi quale negazione volta allo scambio di parole in sé, tant’è che lo scambio avviene. Il rifiuto della ninfa è da considerarsi, piuttosto, volto a un determinato tipo di verbalità rappresentata da Pur¨ravas, che può cogliersi quale portatore di una verbalità stanziale. Fin da RV X, 95, 1, con l’appello volto a Urvaç⁄ a interrompere la fuga, emerge chiaramente come la posizione di Pur¨ravas consista essenzialmente in un opporsi al nomadismo. Significativo è da considerarsi sia il fatto che l’appello a fermarsi è contenuto nell’incipit dell’invito di Pur¨ravas allo scambio di parole che si connota, quindi, di stanzialità, sia il fatto che l’appello, in una sorta di Ringkomposition, ricorre pure in RV X, 95, 17, ossia al termine dello scambio amebeo a decretare l’immutato carattere di Pur¨ravas:

antarikṣaprā́ṃ rájaso vimā́nīm úpa śikṣāmy urváśīṃ vásiṣṭhaḥ / úpa tvā rātíḥ sukr̥tásya tíṣṭhān ní vartasva hŕ̥dayaṃ tapyate me //

«Anche se riempie lo spazio intermedio, anche se percorre misurandoli gli spazi celesti, io che di tutti sono il migliore, voglio avere Urvaç⁄ per me. Che a te venga gioia per questa tua buona azione: torna indietro, il cuore mi brucia».

Che a connotare la figura di Urvaç⁄ sia, invece, il nomadismo, si desume non solo dalla sorte che la vede in una costante fuga, ma anche da RV X, 95, 2: Urvaç⁄ stessa dice di sé duråpanâvåta ivåhám, difficile a raggiungersi come il vento. Non di rado i venti si configurano quali Sänger come nel caso di RV I, 85, 2:

tá ukṣitā́so mahimā́nam āśata diví rudrā́so ádhi cakrire sádaḥ / árcanto arkáṃ janáyanta indriyám ádhi śríyo dadhire pŕ̥śnimātaraḥ //

«Essi (i Marut), dopo essersi rinvigoriti, hanno ottenuto la grandezza: i figli di Rudra hanno posto in cielo la loro sede. Cantando il loro canto e generando a Indra il suo potere, i figli di P®çni si sono acquistati gloria».

(7)

In RV X, 95, 2, in forza della connessione vedica fra vento e parola5, si ha la proposta di una parola aerea, una verbalità in costante movimento come il vento, una verbalità, appunto, nomadica.

Nella sesta stanza, poi, delle ninfe si dice «che si muovono veloci», specificando come intrinsecamente dinamica, mobile, costantemente in fieri sia la parola, della quale è portatrice Urvaç⁄. Nel momento in cui in RV X, 95, 6 si legge che le ninfe, «come vacche da latte, hanno fatto risuonare la loro voce», si ha, inoltre, la possibilità di sottolineare la pertinenza della dimensione fonica alla schiera di Urvaç⁄. Se si considera il configurarsi dei Marut quale schiera di vacche in RV II, 34, 13 e V, 65, 5, si può cogliere nell’immagine di RV X, 95, 6 un’allusione ai Marut6: il passo permette di riconfermare la contiguità di Urvaç⁄ con il vento, in particolare con i Marut, ai quali la poesia è strettamente legata7.

Una volta che si è colto come la verbalità di Urvaç⁄ e quella di Pur¨ravas si connotino rispettivamente di nomadismo e stanzialità, si cerca di individuare ulteriori tratti della loro fisionomia, considerando come l’intero inno RV X, 95 sia intessuto di arte allusiva. Si incontrano, infatti, nel corso dell’inno, diverse espressioni iperboliche che inducono a postulare che si è in contesti nei quali si attualizza l’arte allusiva8. È possibile rapportare la fraseologia e, in particolare, le peculiarità fraseologiche che caratterizzano Pur¨ravas alle rappresentazioni di Indra, mentre è possibile rapportare la fraseologia che interessa Urvaç⁄ alle descrizioni dell’Aurora e dei Marut.

Il verbo çnath è verbo tipicamente indraico come risulta da RV VI, 60, 1 e VII, 25, 2 e Pur¨ravas ne è soggetto sia nella già vista quinta strofe del X, 95, sia nella quarta:

sā́ vásu dádhatī śváśurāya váya úṣo yádi váṣṭy ántigr̥hāt / ástaṃ nanakṣe yásmiñ cākán dívā náktaṃ śnathitā́ vaitaséna //

«Essa, che recava al suocero ricchezza e vigore dalla casa di fronte, quando il suo amante lo desiderava, era giunta a casa mia dove godeva, penetrata giorno e notte dal mio membro».

Alla strofe 7 si ha, invece, l’immagine che vuole Pur¨ravas rinvigorito da parte degli dei per l’uccisione dei demoni:

5 Per il configurarsi dei Marut quali cantori passi significativi sono anche: RV I, 37, 10; I, 82, 2; I, 166, 7;

III, 22, 4; V, 29, 3; V, 52, 1, 12; V, 57, 5; V, 60, 8; VI, 66, 9-10; VII, 35, 9.

6

Si possono, a tal proposito, considerare RV II, 34, 13 (cfr. Maggi. op. cit. (nota 4), p. 108, nota 89) e RV V, 56, 5, passo in cui i Marut figurano quale ‘schiera di vacche’.

7

Cfr. nota 5.

8

Cfr. R. Lazzeroni, Analisi di un testo vedico. Rappresentazione e evocazione in RV, X, 95, «AIWN» 7 (1985), pp. 211-220, in particolare pp. 213-218, ora in Scritti scelti di Romano Lazzeroni, a cura di T. Bolelli e S. Sani, Pisa 1997, pp. 135-145.

(8)

sám asmiñ jā́yamāna āsata gnā́ utém avardhan nadyàḥ svágūrtāḥ / mahé yát tvā purūravo ráṇāyā́vardhayan dasyuhátyāya devā́ḥ //

«Ma mentre lui nasceva, gli stavano intorno le divine donne e lo facevano crescere i fiumi che esultano fra loro, dal momento che gli dei ti hanno fatto crescere, o Pur¨ravas, per la grande battaglia, perché tu uccida i Dasyu». Si tratta di evidente terminologia indraica come testimoniato da diversi passi: l’immagine dell’accrescimento tramite la preghiera assimilata a cibo sacrificale viene riferita, in generale, agli dei, ma in particolare a Indra, come emerge, ad esempio, da RV III, 34, 1:

bráhmajūtas tanvā̀ vāvr̥dhānó bhū́ridātra ā́pr̥ṇad ródasī ubhé //

«Stimolato dal brahman-, accresciuto nel corpo, il munifico (Indra) riempì i due mondi».

Significativo anche RV VII, 19, 11:

nū́ indra śūra stávamāna ūtī́ bráhmajūtas tanvā̀ vāvr̥dhasva /

«Ora, o signore Indra, invocato per l’aiuto, stimolato dal brahman-, rafforzati nel corpo»9.

Un riferimento al furor bellico di Indra può considerarsi il termine ra~a-10. In RV I, 100, 12 Indra figura, inoltre, quale dasyuhan, ‘uccisore dei demoni’11. In RV III, 47, 4

ahihatya- in relazione a Indra può essere considerato isotopo di dasyuhátya-. Quanto a dasyu- si ha un’ambiguità probabilmente voluta, dal momento che il termine fa

riferimento ad un tempo sia a demoni, sia a nemici. Analogamente ambiguo è il termine

amånu‚a, che ricorre nell’ottava strofe:

sácā yád āsu jáhatīṣv átkam ámānuṣīṣu mā́nuṣo niṣéve /

ápa sma mát tarásantī ná bhujyús tā́ atrasan rathaspŕ̥śo nā́śvāḥ //

«Ma ora che io, essere umano, mi voglio intrattenere con voi, donne sovrumane, che avete appena abbandonato la vostra veste, vi siete sottratte a me, impaurite come timide gazzelle, come cavalli quando urtano nel carro».

9 Cfr. R. Lazzeroni, Oggetto materiale e atto verbale nella cultura vedica, in Problemi di lingua e cultura nel campo indoeuropeo, a cura di E. Campanile, Pisa 1983, pp. 47 ss, ora Le parole come cose. «Ingrossare gli dei»: la parola come materia del sacrificio, in R. Lazzeroni, La cultura indoeuropea,

Roma-Bari 1998, pp. 43-48, del quale si è accolta la traduzione di RV III, 34, 1 e VII, 19, 11. Cfr. anche H. Lüders, Varu~a, Göttingen 1951-59, pp. 555-568.

10

Cfr. L. Renou, Études sur le vocabulaire du Rigveda, Pondichéry 1958, pp. 58-59.

11 S. Sani, Ahanâ

o l’Aurora che fugge, in Scritti linguistici e filologici in onore di Tristano Bolelli, a cura

di R. Ajello e S. Sani, Pisa 1995, pp. 457-470, segnala oltre a RV I, 51, 5-6 (dasyuhátyåya jajñi‚e ‘sei nato per uccidere i dasyu’); I, 103, 4; X, 99, 7; X, 105, 11, anche i passi nei quali Indra è rappresentato come uccisore dei dasyu: RV I, 175, 3; II, 12, 10; III, 34, 6; IV, 28, 3; V, 31, 7.

(9)

Qui amånu‚a, in coppia polare con månu‚a, vale ‘sovrumano’ in riferimento alle ninfe nemiche di Pur¨ravas e in contesto indraico indica i nemici del dio, ossia i demoni ‘nemici dell’uomo’. Tale dicotomia trova conferma in RV II, 11, 10:

ároravīd vŕ̥ṣṇo asya vájró 'mānuṣaṃ yán mā́nuṣo nijū́rvāt /

«Il suo potente vajra disse che egli, amico dell’uomo, avrebbe dovuto distruggere i demoni».

Inequivocabilmente iperbolico e, quindi, da intendersi come potenzialmente indraico è, poi, alla strofe 17, il termine vasi‚†ha, come emerge da RV X, 181, 112:

práthaś ca yásya sapráthaś ca nā́mā́nuṣṭubhasya havíṣo havír yát / dhātúr dyútānāt savitúś ca víṣṇo rathaṃtarám ā́ jabhārā vásiṣṭhaḥ //

«Egli, che si chiama Spazio e Spazioso, che è l’offerta dell’offerta, celebrato in canti di lode, egli l’Ottimo, dal luminoso creatore, dal dio incitatore e da Vi‚nu ha portato qui il canto detto rathaµtará»13.

Anche il rapportarsi di Pur¨ravas a Urvaç⁄ si connota di sfumature indraiche, nel momento in cui alla strofe 5 si ha il riferimento all’accondiscendere, da parte di Urvaç⁄, al cenno di Pur¨ravas. Tale modalità di accondiscendere è motivo indraico come testimonia RV IV, 26, 2:

ahám bhū́mim adadām ā́ryāyāháṃ vr̥ṣṭíṃ dāśúṣe mártyāya / ahám apó anayaṃ vāvaśānā́ máma devā́so ánu kétam āyan //

«Ho dato la terra all’uomo rispettabile, ho dato la pioggia all’uomo che porta oblazione.

Ho guidato le acque dall’alta voce-ruggente e gli Dei hanno ubbidito al mio cenno».

Il riferimento è confermato anche dalla precisazione che vuole Pur¨ravas signore del corpo di Urvaç⁄ e che richiama RV IV, 16, 17, dove gopa- è isotopo di råjan (X, 95, 5) come conferma in RV X, 95 la strofe 11 che, a sua volta, presenta il termine gopa-:

jajñiṣá itthā́ gopī́thyāya hí dadhā́tha tát purūravo ma ójaḥ /

«Per assicurare protezione: questo è lo scopo per il quale sei nato. Ma tu, la forza l’hai esercitata su di me».

Per quanto concerne, invece, Urvaç⁄ alla strofe 2 esplicito è l’accostamento alla figura dell’Aurora, accostamento che viene indirettamente consolidato alla strofe 17,

12

Il termine ricorre anche in RV II, 2, 1; VII, 18, 4, 21; VII, 33, 12, 14; VII, 59, 3; VII, 73, 3.

(10)

che vede Urvaç⁄ misurare lo spazio e riempire l’atmosfera come si verifica nel caso dell’Aurora in RV VII, 75, 3:

eté tyé bhānávo darśatā́yāś citrā́ uṣáso amŕ̥tāsa ā́guḥ / janáyanto daívyāni vratā́ny āpr̥ṇánto antárikṣā vy àsthuḥ //

«Ecco, gli splendidi raggi immortali di U‚as, bella a vedersi, sono giunti! Mettendo in atto le ordinanze divine, si sono diffusi nello spazio intermedio riempiendolo!»14.

Significativa è anche l’identità lessicale dei verbi con i quali è espresso il loro fuggire, prâkrami‚am in RV X, 95, 2, e prâkråmat in RV X, 138, 5:

índrasya vájrād abibhed abhiśnáthaḥ prā́krāmac chundhyū́r ájahād uṣā́ ánaḥ //

«L’Aurora ebbe paura che l’arma di Indra la trapassasse: la Splendida fuggì abbandonando il carro».

Sulla base del motivo della fuga si ha, peraltro, l’intersecarsi dell’Aurora con la figura di Indra a conferma dell’accostamento di Urvaç⁄ all’immagine dell’Aurora e dell’attribuzione a Pur¨ravas di tratti indraici. Il rapportarsi di Indra all’Aurora, analogamente al rapportarsi di Pur¨ravas a Urvaç⁄, è caratterizzato da ambiguità: l’Aurora è detta indratama (RV VII, 79, 3), nonché generata da Indra (RV II, 21, 4; I, 138, 1), ma è contrastata e fugata da Indra in quanto questi è nemico delle tenebre e dei demoni che vi hanno dimora15.

Interessante anche l’allusione al vento e ai Marut. Nella seconda strofe è decretata l’accostabilità di Urvaç⁄ al vento e nella nona si ha che le Ninfe sono assimilabili ai Marut sulla base della condivisione della componente ludica, esse, infatti, sono rappresentate come cavalli giocosi, kr⁄layas e in RV V, 60, 3 dei Marut si dice kr⁄lanti

kr⁄layas16. Eloquente è, poi, che nella sesta strofe le Apsaras figurino quali donne poetesse e frequentemente, come si è visto, i Marut sono rappresentati quali poeti-cantori17. Infine si ha che le Apsaras sono dette fuggire via come ‘rossi unguenti’, richiamando colori aurorali e in RV II, 34, 13 alle Aurore sono accomunati i Marut:

té kṣoṇī́bhir aruṇébhir nā́ñjíbhī rudrā́ r̥tásya sádaneṣu vāvr̥dhuḥ /

14 Sani, op. cit. (nota 1). 15

Sani, op. cit. (nota 11), in particolare pp. 467-468, accosta Pur¨ravas a Urvaç⁄ oltre che a Indra e Aurora, anche a S¨rya e Aurora; la comparabilità di Pur¨ravas e S¨rya scaturisce dalla formula ‘tre volte al giorno’ che caratterizza sia l’attività di Pur¨ravas (RV X, 95, 5), sia quella di S¨rya (RV III, 56, 6, 7; IV, 54, 6) e che allude ai tre savana, cioè ai tre momenti della giornata in cui si spremeva il soma.

16 Lazzeroni, op. cit. (nota 8), segnala la presenza del motivo del gioco in relazione ai Marut anche in RV

I, 166, 2.

(11)

«Con le loro schiere, come rossi unguenti i figli di Rudra si sono rafforzati nelle sedi dell’ordine».

Si può guardare anche a RV X, 86, 9:

avī́rām iva mā́m ayáṃ śarā́rur abhí manyate /

utā́hám asmi vīríṇī́ndrapatnī marútsakhā víśvasmād índra úttaraḥ //

«‘Questo scocciatore mi insidia come se non avessi marito! Io, invece, il marito l’ho: ho per sposo Indra e per compagni i Marut!’ Più in alto di tutti è Indra».

Se si considera che la sposa di Indra è ‘coi Maruti quali amici’ marutsakhå- (RV X, 86, 9) e che compagne di Urvaç⁄ sono le Ninfe accostabili ai Marut si ha la predicabilità di Urvaç⁄ quale marutsakhå- e da ciò si trae conferma della coloritura indraica di

Pur¨ravas.

In definitiva, essendo il testo tramato di allusioni, fino a potersi costituire come allusiva la chiave interpretativa di RV X, 95, si ritiene possibile postulare che anche in

RV X, 95, 1 si sia in presenza di un’allusione, tanto più che si è in posizione incipitaria,

uno dei luoghi focali dell’inno.

Ci si volge, quindi, a considerare quali potrebbero essere i poli dialettici implicati nello scambio verbale, cui alluderebbe lo scambio amebeo fra Pur¨ravas e Urvaç⁄.

Si considera, innanzitutto, come nei testi spesso si assista alla confusione di cosmogonico e contingente. In tal modo la dynamis allusiva consente di evocare simultaneamente il piano individuale dell’ontogenesi e quello universale della filogenesi.

Basti pensare al richiamarsi dell’aurora quotidiana e dell’aurora primigenia come avviene, ad esempio, nell’inno I, 123 alle strofe 2 e 918:

pū́rvā víśvasmād bhúvanād abodhi jáyantī vā́jam br̥hatī́ sánutrī / uccā́ vy àkhyad yuvatíḥ punarbhū́r óṣā́ agan prathamā́ pūrváhūtau //

«Si è risvegliata la vittoriosa che precede ogni creazione, la maestosa dea che ottiene il premio della vittoria. Lassù in alto la giovane, nata di nuovo, volge intorno il suo sguardo: U‚as è giunta per prima alla preghiera mattutina».

jānaty áhnaḥ prathamásya nā́ma śukrā́ kr̥ṣṇā́d ajaniṣṭa śvitīcī́ / r̥tásya yóṣā ná mināti dhā́mā́har-ahar niṣkr̥tám ācárantī //

18

Ulteriori passi significativi, oltre a quelli riportati, sono RV X, 72, 10; IV, 51, 6; III, 61, 1; IV, 51, 4; III, 55, 1; I, 113, 8; VII, 76, 3.

(12)

«Lei, che conosce il nome del primo giorno, è nata bianca dallo spazio nero. La giovane donna non viola l’ordine stabilito, lei che viene all’appuntamento giorno dopo giorno»19.

Indicativo anche RV I, 124, 4c-d:

admasán ná sasató bodháyantī śaśvattamā́gāt púnar eyúṣīṇām //

«Prima tra le molte Aurore che son tornate ogni volta, essa è arrivata svegliando tutti come fa una mosca»20.

Quanto all’evocarsi di cosmogonico e contingente si può guardare anche ad AV, X, 4, 16-18:

índro mé 'him arandhayan mitráś ca váruṇaś ca / vātāparjanyóbhā́ //16//

índro mé 'him arandhayat pŕ̥dākuṃ ca pr̥dākvám / svajáṃ tíraścirājiṃ kasarṇī́laṃ dáśonasim //17// índro jaghāna prathamáṃ janitā́ram ahe táva /

téṣām u tr̥hyámāṇānāṃ káḥ svit téṣām asad rásaḥ //18//

«Per me Indra ha assoggettato il serpente e l’hanno assoggettato anche Mitra e Varu~a ed entrambi Våta e Parjanya.

Per me Indra ha assoggettato la vipera maschio e la vipera femmina, il serpente dalle molte spire, quello striato, il kasar~⁄la e il daçonasi.

O serpente, Indra ha abbattuto il tuo primo genitore: qualora vengano schiacciati, quale ne sarà il veleno?»

Tali strofe dell’Atharvaveda richiamano RV I, 32, in particolare la prima e la quarta strofe:

índrasya nú vīryā̀ṇi prá vocaṃ yā́ni cakā́ra prathamā́ni vajrī́ / áhann áhim ánv apás tatarda prá vakṣáṇā abhinat párvatānām //

«Ora voglio celebrare le imprese eroiche di Indra, quelle che l’armato di

vajra ha compiuto ai primordi: abbatté il serpente, liberò le Acque, squarciò

i ventri delle montagne».

yád indrā́han prathamajā́m áhīnām ā́n māyínām ámināḥ prótá māyā́ḥ / ā́t sū́ryaṃ janáyan dyā́m uṣā́saṃ tādī́tnā śátruṃ ná kílā vivitse //

19

Sani, op. cit. (nota 1).

(13)

«Quando tu, o Indra, abbattesti il primigenio fra i serpenti, allora annientasti anche gli inganni dei fraudolenti, generando al contempo il sole, il cielo e l’aurora; da quel momento non hai trovato più nessuno che ti resistesse»21. In AV X, 4, 16-18, onde rafforzare l’esorcismo volto a liberare il cammino dai serpenti si allude a RV I, 32, ossia alla vittoria di Indra sul ‘primo nato tra i serpenti’.

Al fine di cogliere il richiamarsi di cosmogonico e contingente, non trascurabile è anche l’epiteto v®trahán: da esso nasce la possibilità di formare epiteti con han che rimandano alla dynamis indraica di coloro ai quali tali epiteti vengono attribuiti. Il semplice impiego del verbo hanti consente di rapportare la vicenda descritta alla vittoria dell’elemento positivo sul negativo (Indra versus V®tra), suggerendo implicitamente la conclusione stessa della vicenda: soggetti di hanti sono, nella quasi totalità dei casi, esseri positivi e, qualora si tratti di esseri negativi, si è in situazioni nelle quali è loro preclusa la possibilità di nuocere a suggerire «l’ipotesi che tali esseri siano visti come illegittimi utilizzatori dell’azione espressa da tale verbo»22.

Alla luce della frequente con-fusione di cosmogonico e contingente si cerca, ora, di determinare quale possa essere la coppia che in RV X, 95, 1 è coinvolta nello scambio di parole in una dimensione cosmogonica e non più quotidiana quale quella di Pur¨ravas e

Urvaç⁄.

Il loro scambio di parole si tradurrebbe così in un rinnovarsi della filogenesi nell’ontogenesi e, in tal caso, la coppia Pur¨ravas e Urvaç⁄ dovrebbe risultare allusiva di una coppia il più possibile prossima allo iato cosmogonico.

Onde definire quale sia tale coppia, si ritiene di dover risalire fino alla coppia prima identificabile con cielo e terra. Si considerano, pertanto, i passi dai quali emerge la funzione cosmogonica di cielo e terra, che sono, ad esempio, genitori degli dei come emerge da RV VI, 17, 7c-d23:

21

Sani, op. cit. (nota 1).

22

S. Sani, Valore semantico e identificazione di funzioni: il verbo hanti nel RV e AV, in P. Cipriano, P. Di Giovine, M. Mancini (a cura di), Miscellanea di studi linguistici in onore di Walter Belardi, Roma 1994, pp. 61-77, offre una completa disamina del verbo hanti. Interessante a conferma della capacità allusiva di

han è anche l’articolo di M. Benedetti, «Trasparenza» delle parole e interferenza lessicale in vedico: il caso di durhánå-, «SSL» XXX (1990), pp. 23-51. Quanto al richiamarsi di quotidiano-contingente e

cosmologico si può considerare anche l’analisi di RV I, 10, 7 offerta dalla stessa M. Benedetti, Vedico

suviv„tam sunirájam (RV I, 10, 7), «SSL» XXIX (1989), pp. 61-76, nonché R. Lazzeroni, Discussione in

«AIWN» 7 (1985), pp. 237-8, 293-294, che suggerisce un ribaltamento del consueto richiamarsi di quotidiano e cosmologico: in RV I, 32, 5 V®tra figura come un albero tagliato da Indra; in quest’immagine non vi sarebbe la possibilità di ravvisare la rappresentazione di V®tra come un albero cosmico negativo, bensì la possibilità di cogliere nella vicenda cosmologica un richiamo al quotidiano, nello specifico, alla pratica esorcistica. In definitiva la distinzione fra presente e passato si confondono, se ne celebra, quindi, l’intrecciarsi in un presente atemporale, in una simultanea compresenza.

(14)

ádhārayo ródasī deváputre pratné mātárā yahvī́ r̥tásya //

«Tu hai sostenuto Cielo e Terra, i cui figli sono gli dei, (e che sono) gli antichi genitori e i giovani figli dell’ordine».

Si hanno, inoltre, passi nei quali cielo e terra figurano esplicitamente quale coppia come in RV I, 164, 33:

dyaúr me pitā́ janitā́ nā́bhir átra bándhur me mātā́ pr̥thivī́ mahī́yám /

«Il Cielo è mio padre, il mio creatore, perciò il mio ombelico. Questa grande Terra è la mia famiglia, mia madre».

Non diversamente in RV III, 54, 7 si legge:

samānyā́ víyute dūréante dhruvé padé tasthatur jāgarū́ke / utá svásārā yuvatī́ bhávantī ā́d u bruvāte mithunā́ni nā́ma //

«La coppia, anche se separata, con lontani confini, sta sempre vigile. Per quanto giovani fratelli, pure portano nomi (maschili e femminili) di coppia». Da RV X, 10, 9 emerge ulteriormente rafforzata la valenza primigenia della rappresentazione di cielo-e-terra. Yam⁄, infatti, onde persuadere Yama, sottolinea la possibilità di legittimare la loro coppia sulla base dell’antico esempio di cielo e terra:

divā́ pr̥thivyā́ mithunā́ sábandhū yamī́r yamásya bibhr̥yād ájāmi //

«Grazie al Cielo e alla Terra due parenti possono essere una coppia di sposi. E Yam⁄ sopporterebbe da Yama ciò che un fratello non dovrebbe fare»24. Una volta individuati in cielo e terra i poli dialettici implicati nello scambio amebeo di RV X, 95, per comprendere in quale situazione si collochi tale scambio primo e quale ne sia la finalità, si considera come, nel mondo vedico, cielo e terra nascano dalla divisione e come nella cosmogenesi venga a delinearsi una dinamica che vede prima una fase sincretica, poi una fase diacritica, quindi una nuova fase sincretica: la cosmogonia stessa può rappresentarsi quale un separarsi di cielo e terra, originariamente uniti e che abitano, poi, separatamente (RV III, 38, 3)25:

ní ṣīm íd átra gúhyā dádhānā utá kṣatrā́ya ródasī sám añjan /

sám mā́trābhir mamiré yemúr urvī́ antár mahī́ sámr̥te dhā́yase dhuḥ //

«Ed entrambi sono uniti, Cielo e Terra, a governare, lasciando le loro tracce. Si sono realizzati insieme nella loro grandezza e hanno disposto in ordine i mondi. Si sono divisi loro, che erano originariamente uniti, onde mettere in atto la creazione».

24 Sani, op. cit. (nota 1).

25

Il mito della separazione di Cielo e Terra originariamente uniti è ravvisabile anche in RV III, 54, 6; IV, 50, 1; V, 31, 6; VII, 86, 1; X, 44, 8 e in AV VI, 61, 2.

(15)

Per quanto si realizzi la divisione, permane l’attesa di nuove fasi sincretiche che si attualizzano in forza della dynamis verbale come testimoniano RV X, 53, 6 e RV X, 129, 4-5:

tántuṃ tanván rájaso bhānúm ánv ihi jyótiṣmataḥ pathó rakṣa dhiyā́ kr̥tā́n / anulbaṇáṃ vayata jóguvām ápo mánur bhava janáyā daívyaṃ jánam // «Distendendo le tue corde va’ verso la luce del cielo più vicino! Proteggi le vie piene di splendore e fatte con saggezza! E voi fate che l’ordito della nostra opera sia tessuto senza nodi! Sii l’uomo che fa nascere la stirpe degli dei»26.

kā́mas tád ágre sám avartatā́dhi mánaso rétaḥ prathamáṃ yád ā́sīt / sató bándhum ásati nír avindan hr̥dí pratī́ṣyā kaváyo manīṣā́ // tiraścī́no vítato raśmír eṣām adháḥ svid āsī́d upári svid āsīt / retodhā́ āsan mahimā́na āsan svadhā́ avástāt práyatiḥ parástāt //

«In principio fu il desiderio che si mosse sopra Ciò, il desiderio che fu il primo atto fecondante della mente. Il legame di Ciò-che-è con Ciò-che-non-è lo trovarono nel loro cuore i poeti, cercandolo con la meditazione.

Trasversalmente era tesa la loro corda: c’era un sotto, c’era un sopra? Vi furono spargitori di seme e vi furono potenze generative. Sotto vi fu l’energia, sopra vi fu l’impulso»27.

In particolare sulla base del coniugarsi di RV X, 129, 4 con la prima strofe di RV X, 95 si coglie come, nella realtà vedica, l’atto primo che segue al passaggio cosmogonico dall’indefinito al definito sia un atto verbale e consista, specificamente, in uno scambio di parole amebeo fra cielo e terra, in un reciproco nominarsi che, creando un filo comunicativo fra i due poli, un continuum verbale, consente di curare la frattura determinata dallo iato. Si viene, pertanto, ad avere che la finale fase sincretica si raggiunge proprio in forza della dynamis coesiva della parola poetica.

1.2 Indizi testuali ulteriori

Oltre a RV X, 95 vi sono ulteriori testi in grado di costituirsi traccia della contiguità fra semantica di *seh2-/sh2- e parola indoeuropea.

26

Ambrosini, op. cit. (nota 1).

(16)

Una volta appurato come cielo e terra nascano dalla divisione, si guarda in particolare come alcuni passi, mostrando le conseguenze che la parola poetica è in grado di apportare relativamente a cielo e terra scissi in seguito allo iato cosmogonico, si costituiscano quali indizi testuali ulteriori della dynamis sincretica della parola vedica.

A tal proposito eloquenti sono, ad esempio, RV X, 81, 3, in cui si ha che il poeta «determinò uno Streben coesivo fra cielo e terra» (dyâvabhûmi) nonché la strofe successiva, nella quale i poeti figurano come coloro che hanno congiunto cielo e terra (dyâvap®thiv⁄)28:

viśvátaścakṣur utá viśvátomukho viśvátobāhur utá viśvátaspāt /

sám bāhúbhyāṃ dhámati sám pátatrair dyā́vābhū́mī janáyan devá ékaḥ // kíṃ svid vánaṃ ká u sá vr̥kṣá āsa yáto dyā́vāpr̥thivī́ niṣṭatakṣúḥ /

mánīṣiṇo mánasā pr̥chátéd u tád yád adhyátiṣṭhad bhúvanāni dhāráyan // «Da ogni lato aveva gli occhi, da ogni parte la bocca, da ogni parte le braccia, da ogni parte i piedi, e con la forza delle braccia e con il vento delle ali saldò insieme il cielo e la terra, quando li fece essere, il dio, l’uno.

Qual era il legno, qual era l’albero dal quale, come falegnami, hanno messo insieme cielo e terra? Voi che riflettete, cercate col pensiero ciò su cui egli appoggiò quando diede saldezza agli esseri»29.

Al fine della presente analisi imprescindibile è il già citato RV X, 129, 4-5, passo in cui si enfatizza la dynamis della parola poetica, che consente a quest’ultima di tendersi trasversalmente, ‘corda’, a unire il ‘sopra’ e il ‘sotto’, (cielo e terra), a ricomporre antinomie, a unire dimensioni altrimenti scisse.

Coniugando tale passo con RV X, 53, 6, strofe nella quale si assiste all’esaltazione dello Streben che deve indurre il poeta a tendere le sue corde verso la dimensione celeste, si ha che la parola poetica risponde a una tensionalità fra cielo e terra e ne tenta il ricongiungimento30.

28

Sostiene l’ipotesi di una lettura in prospettiva conoscitiva Ambrosini, op. cit. (nota 1), pp. 80-82. Nel presente lavoro si ritiene che ipotesi gnoseologica e cosmologica non siano affatto reciprocamente escludenti. Dalla lettura degli inni X, 190 e 191 si desume, d’altronde, che la dimensione gnoseologica è caratterizzata da momento sincretico iniziale, momento diacritico, nuovo momento sincretico, come avviene per la cosmogenesi nella dinamica già vista che coinvolge cielo e terra.

29 Ambrosini, op. cit. (nota 1).

30 A conferma della centralità del motivo della corda in RV X, 129 e della sostanziale sinonimia fra raçmi

di RV X, 129 e tantu di RV X, 53, vi è il fatto che Leitmotiv in grado di legare l’inno X, 129 con il successivo X, 130 è proprio la corda che in quest’ultimo inno figura ora come raçmi, ora come tantu. Cfr. D. Maggi, Il motivo della tela fatta e disfatta fra epos e ideologia: una testimonianza da Rigveda X, 130, in Studi vedici e medio-indiani, Pisa 1981, pp. 49-86. Per il motivo della tensionalità cfr. par. 2.1 Tanû-, pp. 27 ss. del presente lavoro.

(17)

RV X, 125, inno in cui si ha l’autoelogio della parola, sottolinea come la parola

poetica afferisca sia al cielo, sia alla terra (X, 125, 6):

aháṃ jánāya samádaṃ kr̥ṇomy aháṃ dyā́vāpr̥thivī́ ā́ viveśa //

«Io suscito le contese fra gli uomini. Io ho pervaso il cielo e la terra». In tale inno si precisa, inoltre, come la parola ‘porti’ Mitra e Varu~a, che cielo e terra governano (X, 125, 1c-d). L’afferire di Våc sia al cielo, sia alla terra è evidenziato anche nel momento in cui si ha che la parola poetica esercita la sua capacità connettiva sia in ambito divino, quindi celeste (X, 125, 1a-b, aháṃ rudrébhir vásubhiś carāmy ahám

ādityaír utá viśvádevaiḥ / «Io procedo con gli dei terribili e con gli dei buoni, io procedo

con gli dei figli di Aditi e con gli dei tutti insieme»), sia in ambito umano, quindi terrestre (X, 125, 3, aháṃ rā́ṣṭrī saṃgámanī vásūnāṃ cikitúṣī prathamā́ yajñíyānām / «Io sono la regina che riunisce le cose buone che hanno valore, colei che capisce, la prima a cui si deve fare il sacrificio»31).

Oltre a partecipare del divino come dell’umano, la parola promuove ulteriori atti coesivi: in RV X, 125, 3, 7, 8 accorpa in sé luoghi e forme. Nella terza strofe Våc afferma infatti:

tā́m mā devā́ vy àdadhuḥ purutrā́ bhū́risthātrām bhū́ry āveśáyantīm //

«Gli dei mi hanno distribuito in molti luoghi: io sono colei che ha molte sedi e assume molte forme»32.

Endogeno a Våc è, inoltre, il trascendimento dei confini (RV X, 125, 8): ahám evá vā́ta iva prá vāmy ārábhamāṇā bhúvanāni víśvā / paró divā́ pará enā́ pr̥thivyaítā́vatī mahinā́ sám babhūva //

«Io spiro come il vento impossessandomi di tutti gli esseri. Con la mia grandezza ho varcato i confini del cielo e di questa terra»33.

Se si considera, quindi, l’uomo quale homo loquens, il trascendimento dei confini risulta tratto intrinseco alla condizione umana, al punto che, con Eraclito, si può dire yucÁj pe…rata „ën oÙk ¨n ™xeÚroio p©san ™piporeuÒmenoj ÐdÒn: oÛtw baqÝn lÒgon œcei34.

L’inno è altresì significativo nel momento in cui, nel corso del proprio autoelogio, quindi in prima persona, è la parola stessa che i voli accoglie e ospita i venti, allo spirare

31 Ambrosini, op. cit. (nota 1).

32

Sani, op. cit. (nota 1).

33

Sani, op. cit. (nota 1).

(18)

dei quali Våc associa il proprio spirare (strofe 8), a dichiarare la propria contiguità con la dimensione celeste (strofe 7):

táto ví tiṣṭhe bhúvanā́nu víśvotā́mū́ṃ dyā́ṃ varṣmáṇópa spr̥śāmi //

«Da lì mi diffondo su tutti gli esseri e con la mia sommità tocco il cielo lassù».

I venti stessi non inconsuetamente configurandosi quali cantori35, quindi portatori di parola poetica, confermano il loro legame con la parola probabilmente proprio in forza di tale condivisa attitudine all’aereo, prerogativa dei Marut come di Våc36.

Si può leggere il connotarsi di aereo della parola vedica alla luce della dinamica della creazione poetica che vuole l’incipitario afferire della parola alla sfera del manas, dimensione eidetica, metaforicamente assimilabile alla dimensione celeste37. La parola compirebbe, poi, il suo percorso attraverso mantra, verbalizzazione del pensiero, fino alla dimensione della jihvā: Våc, facendosi parola attualizzata da materia fonica e grafica, sfocerebbe nella fatticità38 terrestre. E della terra la parola poetica è tutt’altro che dimentica come si desume da RV X, 125: nell’inno si coglie traccia della centralità della terra in relazione alla parola oltreché nella sottolineatura dell’afferire di quest’ultima sia al cielo sia alla terra (RV X, 125, 1, 6), anche nella descrizione dell’estendersi di Våc sia in senso orizzontale (RV X, 125, 3)39, quindi terrestre, sia verticale (RV X, 125, 7), quindi celeste.

La parola poetica, nonostante la sua natura aereo-celeste, non è, quindi, esente dal connotarsi di umano-terrestre. A postularlo è la lingua vedica stessa che ripetutamente dimostra di volere cielo e terra coinvolti in una dinamica sincretica, tendendo a rappresentarli come intrinsecamente congiunti.

35 Cfr. nota 5.

36

Si può qui ricordare l’omerico œpea pterÒenta, che nel mondo greco si configura quale elemento fossile, non più trasparente, formula cristallizzata non collocabile in un quadro ideologico coerente, per quanto numerosi siano i tentativi esegetici avanzati, cfr. par. 3.5 Parola e pataµga, pp. 105 ss.

37 ‘Alta’ è la parola ‘primordiale’ da offrire ad Agni (RV III, 10, 5) e la specificazione spaziale ‘in alto’

coincide con il cielo come risulta dall’orientarsi ‘in alto’ delle radici dell’albero cosmico capovolto, radici volte, appunto, verso il cielo (RV I, 24, 7).

38 M. Heidegger, Sein und Zeit, trad. it. Essere e tempo, Milano 20082 (I ed. 2006).

39Per il caratterizzarsi della terra quale l’‘estesa’ per antonomasia (in senso orizzontale) e per le vicende

onomastiche che, conseguentemente, la coinvolgono si considerino R. Ronzitti, Osservazioni sui nomi

della «terra» in RV e AV, «SSL» XXXV (1995), pp. 45-115, in particolare pp. 47, 62-66, e C. Orlandi, La terra (RV. V. 84 e AV. XII. 1), in Scribthair a ainm n-ogaim. Scritti in memoria di Enrico Campanile, a

cura di R. Ambrosini, M. Patrizia Bologna, F. Motta, C. Orlandi, Pisa 1997, pp. 717-745, in particolare pp. 722-723, 740-743.

(19)

La lingua vedica pare, infatti, suggerire una percezione di cielo e terra40 tutt’altro che dicotomica sia mediante il ricorso al devatå-dvandva cielo-terra, dyâvap®thvî, probabile modello da cui sarebbero discese le altre forme di devatå-dvandva, sia mediante le forme di duale ellittico, con il ricorso alle quali, frequentemente, si rappresenta la coppia cielo-terra: in esse un elemento della coppia è implicitamente presente in virtù del carattere ontologico del suo legame con l’elemento nominato41.

Mediante l'impiego di devatå-dvandva e di forme di duale, si informa, quindi, la dimensione dell’essere in atto, realtà nella quale cielo e terra sono divisi, dell'immagine mentale appartenente alla dimensione dell'essere in potenza, nella quale cielo e terra sono uniti. La possibilità stessa di realizzare devatå-dvandva e duali ellittici lascia intravedere nel testo la percezione dell'unità nella dualità, sincretico percepire che precede l'affermarsi del diakr…nein42.

1.3 Figure foniche

A rafforzare l’attribuzione della dynamis sincretica alla parola vedica vi è anche la consuetudine di tramare il testo di figure foniche che si ritiene abbia quale dynamis prioritaria proprio quella dell’unire. La dynamis sincretica della parola avrebbe il manifestarsi delle figure foniche quale suo spazio privilegiato d’espressione: le figure foniche, costituendosi quale eco della percezione dell’originaria unità, sarebbero

40

Sulla questione onomastica in relazione alla terra e al cielo, limitatamente ai casi che lo vedono in coppia con la terra si considerino Ronzitti, op. cit. (nota 39) e Orlandi, op. cit. (nota 39).

41

Interessanti anche i processi implicati nell’impiego di ródasi per ‘cielo e terra’ (analogamente a

nábhas⁄ e a dhi‚á~e); Ronzitti, op. cit. (nota 39), pp. 97-104, coglie in ródasi una personificazione della

nuvola, sicché si avrebbe il significato di ‘terra’ per metonimia e di ‘cielo’ per sineddoche, e consente di sottolineare come ródasi, così come i duali ellittici, preveda la percezione della polarità cielo-terra quale

continuum. Il medesimo rapporto metonimico fra nube e terra riscontrabile in ródasi pare, peraltro, essere

ravvisabile in un lavoro di S. Sani, La terra e la nuvola in un incantesimo per la pioggia: a proposito di

AV VII, 19(18), «SSL» XXXII (1992), pp. 254-270, potrebbe essere alla base, cioè, sia della possibilità di

invitare la terra ad annuvolarsi e spaccarsi come la nube, onde far piovere, sia dello spaccarsi della caverna grazie all’intervento ora di Indra, ora degli dei, onde liberare le vacche prigioniere, rappresentazione della liberazione delle acque. Vicenda etimologica, o paretimologica che sia è relativamente rilevante (cfr. S. Sani, La serie lessicale di sscr. nabh, in P. Cipriano, P. Di Giovine, M. Mancini (a cura di), Miscellanea di studi linguistici in onore di Walter Belardi, Roma 1994, pp. 83-97), vicenda mitica e metonimia si intreccerebbero fecondamente.

42

Donde la produttività di prefissi dicotomizzanti quali *dus- e *su-. Per un’ampia trattazione della casistica dei composti con *dus- e *su- si guardi a G. Costa, I composti indoeuropei con *dus- e *su-, Pisa 1990; si interessa ai composti *dus- e *su- anche M. Benedetti, Un caso di stretta interrelazione tra

composti nominali e strutture verbali: gli aggettivi vedici del tipo sukára-, «SSL» XXXI (1991), pp.

(20)

strumento della parola poetica a unire il diviso in un eclettico estrinsecarsi della facoltà associativa43.

Dal dipanarsi dell’autoelogio di Våc in RV X, 125 si è visto come si possa evincere un’espressione concettuale della dynamis sincretica della parola, ma l’inno non si limita a offrirne astratta constatazione, nelle sue stanze è, infatti, possibile coglierne il manifestarsi in atto: tale inno non solo fornisce menzione della capacità coesiva della parola nel momento in cui la celebra, ma suggerisce pure il tramite onde realizzarla, applicandola in concreto, ossia tracciando legature in forza della materia fonica. Si può, a tal proposito, constatare la presenza di allitterazioni, anafore, omeoteleuti44, ma, oltre alla generica constatazione della frequenza di figure foniche, si può cogliere un peculiare ricorrere della sequenza v+vocale, che nella maggior parte delle occorrenze, si realizza nel segmento fonemico vå45. Considerando l’alto grado di organizzazione fonica dell’inno, difficilmente si può imputare a casualità tale circostanza. Quest’ultima pare essere intenzionale e motivata dal fatto che l’iterazione fonemica si lascia leggere quale allusione a Våc che in RV X, 125 tesse il proprio autoelogio. Se si esclude un ridursi delle occorrenze nella quarta e quinta stanza compensato, però, dalla presenza in entrambe di vådami che a Våc allude dal punto di vista sia fonico, sia semantico, la sequenza v+vocale si presenta in un progressivo crescendo fino all’¢km» nell’ottava stanza. La frequenza del segmento fonemico iniziale di Våc si potrebbe imputare a un tentativo di compensazione del fatto che, nel corso dell’inno, non viene mai nominato il tema su cui vertono le otto stanze46. La ricorsività della sequenza v+vocale risulta collegare ciascun momento dell’inno facendone un’espressione di vå-c. In definitiva

43

Guarda alla facoltà associativa delle figure foniche S. Sani, L’inno magico, in Atharvaveda. Inni

magici, C. Orlandi e S. Sani (a cura di), Torino 1992, pp. 23-47, in particolare pp. 23-24 e p. 44: «La

rima... grazie alla sua capacità di legare una parola con un’altra, è in grado anche di comportare associazioni di idee e per questo motivo largamente e deliberatamente impiegata nei testi magici». Per l’analisi Veda cfr. R. Ambrosini, Magia e sapienza dell’India antica. Inni

dell’Atharva-Veda, Bologna 1984, al quale si farà in seguito riferimento. 44

Si tratta sia di allitterazioni (ad es. a 4d shr- ricorre tre volte consecutive), anafore (quasi ossessiva è la presenza di aháµ), omeoteleuti (la sequenza am che ricorre pressoché in ogni parola della strofe quand’anche non si guardi al martellante tám di 5c-d), cfr. V.N. Toporov, Un esempio di simbolismo

fonetico dei suoni, in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, a cura di R. Faccani e U. Eco, Milano

1969, pp. 127-128.

45

Toporov, op. cit. (nota 44), individua circa cinquanta occorrenze del segmento fonemico v+vocale, delle quali oltre trenta vedono il ricorrere di vå; si concorda con Toporov sulla probabilità che il ricorrere della sequenza alluda al tema dell’inno, non si avverte, però, la possibilità di spiegare il ricorrere di un altro segmento fonemico, am/åm, cogliendone un’allusione al fatto che Våc, nei commenti, è detta figlia dello ®‚i Ambh®~a, per quanto suggestivo sia collegare il nome proprio, che significa ‘umido’ e si riferisce alla classe degli esseri mitologici dell’acqua, al ricorrere, nell’inno, del motivo dell’acqua.

46 Toporov, op. cit. (nota 44), p. 128, ritiene che, alla base dell’assenza del nome di Våc, vi siano o

considerazioni tabuistiche, o il fatto che è la dea stessa a pronunciare l’inno; nel presente lavoro si ritiene che ulteriore spiegazione possa individuarsi nel fatto che l’inno si presenta come una sorta di indovinello; per il conformarsi dell’inno quale indovinello cfr. Ambrosini, op. cit. (nota 1), pp. 120-122.

(21)

l’allusione fonica a quest’ultima si protrae attraverso allitterazioni, anafore e iterazioni del segmento v+vocale, quindi, attraverso la tessitura fonica del testo che suggerisce interazioni fra i significati in forza delle legature che si creano fra i significanti in virtù della materia fonica che li costituisce.

Se, come si è precedentemente proposto, tema di RV X, 125 è la dynamis sincretica della parola, si ritiene possibile affermare che l’inno non si limiti a un’espressione concettuale, ma, nel congiungere in forza della materia fonica, mostri piuttosto in atto il concreto manifestarsi di tale potenzialità della parola: il riscontrato accumulo fonemico contribuisce a visualizzare sia l’incrementarsi della dynamis stessa di Våc, sia l’incremento che tale dynamis determina.

Onde cogliere ulteriormente la capacità sincretica della parola nel suo manifestarsi in atto, si presta nuovamente attenzione a RV X, 95. Si è ipotizzato che l’inno alluda allo iato cosmogonico e al suo risolversi grazie alla dynamis della parola, che consente il reciproco nominarsi di cielo e terra e l’avvio, quindi, dello scambio dialogico. Guardando al tramarsi delle figure foniche nel dipanarsi dell’inno, si cercherà, pertanto, di valutare come il loro manifestarsi non solo sia compatibile con la lettura proposta, ma contribuisca pure a corroborare tale linea interpretativa.

Nella versificazione vedica si assiste generalmente al coincidere di unità metrica e unità sintattica, pertanto, non trascurabile è il fatto che per quattro volte in RV X, 95 si abbia violazione della coincidenza fra segmentazione ritmica e sintattica mediante il ricorrere di quattro enjambement, due dei quali ricorrono nella quarta strofe, uno nell’ottava e uno nella diciassettesima47.

Quale motivazione della peculiare dinamica ritmico-sintattica di RV X, 95 si propone l’estrinsecarsi di un intento allusivo: attraverso la rottura dell’unità metrico-grammaticale l’enjambement mimerebbe, quindi, la rottura dell’unità di cielo e terra. Nell’inno non ci si limiterebbe, comunque, ad alludere allo iato, verrebbe, altresì, offerta una possibile compensazione della ferita cosmogonica: dove ricorrono tre dei quattro enjambement, nella quarta e nell’ottava strofe, infatti, al frazionamento grammaticale corrisponde una fitta tessitura fonica, la rottura sintattica è, quindi, risolta mediante soluzione fonetica e allo iato di cielo e terra si ovvia grazie alla sopravvenuta possibilità del propagarsi di foni nell’atmosfera, donde il reciproco nominarsi della coppia prima, che in tal modo cura la ferita cosmogonica.

47

Per la traduzione di RV X, 95, 4, 5, 8 e 17 cfr. par. Lo scambio amebeo primo, pp. 4 ss. Per una trattazione della questione metrico sintattica e per la bibliografia relativa cfr. E. Medda, Gli

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Nel caso di RV X, 95, 17, invece, tentare di ricomporre l’unità originaria non darebbe senso: lo scambio dialogico contingente si conclude, infatti, senza la ricomposizione auspicata da Pur¨ravas, tant’è che l’inno non offre, qui, la soluzione fonetica della rottura ritmico-sintattica che, pertanto, permane. L’enjambement, non risolto dalla soluzione fonetica, si presta a rappresentare l’™poc» alla quale si vede condannato

Pur¨ravas stesso che, focalizzando l’attenzione esclusivamente sullo struggersi del suo

cuore, conferma il proprio stanziale egocentrismo. In questo caso la funzione dell’enjambement può ricondursi alla volontà di rafforzare l’affermazione finale di

Pur¨ravas:

antarikṣaprā́ṃ rájaso vimā́nīm úpa śikṣāmy urváśīṃ vásiṣṭhaḥ / úpa tvā rātíḥ sukr̥tásya tíṣṭhān ní vartasva hŕ̥dayaṃ tapyate me //

Nel caso della quarta strofe, invece, è mediante il ricorso a un infittirsi della trama fonica del testo che si cerca di ovviare al frammentarsi metrico-grammaticale ingenerato da due enjambement. Il primo coinvolge vásu-vayaª, il secondo ántig®håt-nanak‚e:

sā́ vásu dádhatī śváśurāya váya úṣo yádi váṣṭy ántigr̥hāt / ástaṃ nanakṣe yásmiñ cākán dívā náktaṃ śnathitā́ vaitaséna //

Nel primo caso48, alla rottura dell’unità ritmico-sintattica, corrisponde sia l’evidente allitterazione tra i due termini dell’enjambement stesso, sia un peculiare riproporsi di alcuni segmenti fonemici: a determinare un continuum fonico, oltreché sintattico, interviene la possibilità di cogliere come la sequenza fonemica costituita dal soggetto offerente (sá, pronome che si riferisce a Urvaç⁄) e dall’offerta (vásu-vayaª) quasi coincida con i foni del lessema scelto onde esprimere il ricevente stesso (śváśurāya).

Nel secondo caso49 la violazione dell’unità ritmico-sintattica è compensata da un analogo incrementarsi della trama fonica a coinvolgere l’intera quarta strofe: ántig®håt, ¤pax che chiude il verso b, allittera con l’incipit (ástam) del verso c, e, soprattutto,

vaitaséna, ¤pax che conclude la strofe, non solo contiene i fonemi dei termini coinvolti

nel primo enjambement, bensì, pure, le consonanti prevalenti nei lessemi del secondo: l’occlusiva dentale sorda t di ántig®håt nonché la nasale dentale n di nanak‚e. La centralità che si è attribuita a vaitaséna è, peraltro, confermata anche a livello della dinamica dialogica: il lessema, che contiene in sé i segmenti fonemici caratterizzanti i termini centrali della quarta strofe che, pertanto, risulta quasi condensata in vaitaséna, è,

48

Per l’individuazione delle figure foniche in questo primo caso si seguono le indicazioni di Medda, op.

cit. (nota 47), in particolare nota 6, p. 202, che, peraltro, sottolinea come la strofe sia sede di due ¤pax, ántig®hat e vaitaséna (pp. 203-204).

49

Per una spiegazione della presenza dell’enjambement a 4b-c diversa da quella che qui si propone si può guardare a Medda, op. cit. (nota 47), pp. 202-204.

(23)

infatti, ripreso a 5a, costituendosi quale legame fra la quarta e la quinta strofe. Quest’ultima, in parte replica della precedente, ne amplifica tuttavia il contenuto informativo, secondo uno schema peculiare dello scambio amebeo50, e, al riferimento all’offerta erotica, si aggiunge il riferimento all’offerta di parola poetica:

tríḥ sma mā́hnaḥ śnathayo vaitasénotá sma mé 'vyatyai pr̥ṇāsi / púrūravó 'nu te kétam āyaṃ rā́jā me vīra tanvàs tád āsīḥ //

Per quanto concerne l’enjambement dell’ottava strofe si può affermare che, isolando l’atto del mescolarsi dell’umano con il non-umano, esso marchi il carattere non trascurabile di tale con-fondersi: alla violazione dell’unità ritmico-sintattica (il complemento jahat⁄‚u in 8a è separato dalla forma verbale ni‚éve che si articola in 8b) corrisponde la violazione di uno dei principi che reggono il rapportarsi dei mortali agli immortali, ossia, appunto, il non mescolarsi degli uni con gli altri:

sácā yád āsu jáhatīṣv átkam ámānuṣīṣu mā́nuṣo niṣéve /

ápa sma mát tarásantī ná bhujyús tā́ atrasan rathaspŕ̥śo nā́śvāḥ //

Al frammentarsi del continuum sintattico corrisponde nuovamente l’incrementarsi della frequenza di figure foniche: si tratta sia dell’allitterazione che interessa átkam, momento ultimo di 8a, nonché oggetto di jahat⁄‚u, e l’incipit di 8b, ámånu‚⁄‚u, sia dell’iterarsi della sibilante cerebrale in combinazione con la vocale labiale u, con le palatali i ed e, o con la gutturale a51, sia, in particolare, della paronomasia, che, descrivendo il motivo centrale dell’opporsi di umano e non-umano, anticipa il contenuto semantico ripreso dalla paronomasia di 9a a collegare l’ottava e la nona strofe52 e inserisce l’ottava nell’economia dell’inno costituendola, appunto, quale momento del manifestarsi del polarismo morte-immortalità53:

yád āsu márto amŕ̥tāsu nispŕ̥k sáṃ kṣoṇī́bhiḥ krátubhir ná pr̥ṅkté / tā́ ātáyo ná tanvàḥ śumbhata svā́ áśvāso ná krīḷáyo dándaśānāḥ //

50

Tale schema è individuato da Ambrosini, op. cit. (nota 2), pp. 47 ss.

51

Cfr. jáhat⁄‚u, ámånu‚⁄‚u, mánu‚o, ni‚éve.

52 Similmente a vaitaséna nel caso della quarta e della quinta strofe. 53

Alla centralità del polarismo morte-immortalità non è, comunque, imputabile il fallimento dello scambio dialogico fra Pur¨ravas e Urvaç⁄, dal momento che, alla fine, Pur¨ravas risulterà ottenere

l’immortalità; questo tuttavia non è causa sufficiente per una riunione di Pur¨ravas e Urvaç⁄ proprio perché il polarismo non è stato la causa del fallimento dello scambio; dalla centralità del polarismo morte-immortalità non risulta, pertanto, confutata né minata l’attribuzione, che si è voluta precedentemente sostenere nel presente lavoro, del fallimento dello scambio al contrapporsi di due diversi modelli di verbalità, l’una stanziale di Pur¨ravas legata all’assegnazione dello statuto ontologico al monolitico

essere, l’altra nomadica di Urvaç⁄ legata all’assegnazione dello statuto ontologico al divenire; per l’individuazione della centralità del motivo morte-immortalità e delle paronomasie ad esso legate cfr. Medda, op. cit. (nota 47), pp. 205-207 in particolare nota 15.

(24)

«Quando il mortale, accostandosi a queste donne immortali, cerca di unirsi alla loro compagnia, come seguendo il proprio desiderio, esse rendono belli i loro corpi come dei cigni, come dei cavalli che si mordono per gioco»54. La parola, creando un continuum fonico fra mortali e immortali, pare suggerirsi quale tramite onde generare la confusione fra mortali e immortali, per far sconfinare il mortale nell’immortale, l’umano nel divino e viceversa. Tale labilità del confine fra i due poli e la dipendenza degli immortali dal mortale portatore di parola poetica emerge ripetutamente nel ¸gveda, nel momento in cui si insiste sulla capacità della parola di accrescere gli dei55.

Le figure foniche scaturirebbero dalla facoltà associativa all’origine della quale vi è la percezione dell'unità, del continuum originario che precede la vicenda cosmogonica del separarsi di cielo e terra, a seguito della quale emerge l'esigenza del loro vicendevole nominarsi e si rende inevitabile la nascita della parola a rompere il silenzio originario, che è condizione fisiologica del continuum cosmico di cielo e terra non ancora scissi: costituendosi quale eco visiva e acustica dell'unità originaria, le figure foniche risultano essere non trascurabile prova della percezione, da parte del poeta, del

continuum, che, in prospettiva diacronica, è proprio dell’origine e, in prospettiva

sincronica, è proprio della dimensione dell'essere in potenza, della dimensione interiore, mentale del manas56.

In definitiva le figure foniche paiono delinearsi quale nostalgia del silente unisono originario e, al tempo stesso, proprio in virtù della propria sostanza fonica e grafica, costituiscono la possibilità del ritornare, del riabitare continuamente il continuum: è mediante la parola che il poeta informa il reale, diviso in conseguenza dell'azione cosmogonica, creatrice e separatrice, lo informa dell'immagine mentale, della dimensione dell'essere in potenza, della quale è ospite il continuum originario, sia nella veste di ospitante, sia in quella di ospitato, configurandosi, pertanto, come la terra che,

54

Sani, op. cit. (nota 1).

55

Cfr. RV I, 36, 11, 14; X, 53, 6, e le pp. 8 ss., 34 ss. nonché il par. 1.4 Scopo della Gewofenheit, pp. 25 ss. del presente lavoro.

56

I termini polari non sono avvertiti quali antinomie, bensì quali termini complementari di un continuum, sicché si tende a marcare la loro pertinenza reciproca, a esprimere l’unità della dualità; basti pensare all’impiego della sequenza ca... ca... in relazione al giorno e alla notte, al cielo e alla terra, cfr. Sani, op.

cit. (nota 43), p. 32; per la percezione di giorno e notte quale continuum si veda anche RV I, 123, 7 e 9;

nell’ottica della facilità di metabolizzare le polarità non quali termini reciprocamente escludenti interessante è anche l'iterato riferimento in AV XII, I, alla capacità da parte della terra, in una fase iniziale, di produrre e contenere quelli che al lettore moderno si configurano quali opposti antinomici non conciliabili in un comune abitare (si considerino le strofe dalla 45 alla 52).

(25)

in AV XII, 1, si delinea quale contenente e contenuta, creatrice e creata, artefice di poesia e oggetto di poesia essa stessa.

1.4 Scopo della Geworfenheit

Alla luce del manifestarsi della fenomenologia delle figure foniche, si può pensare che si abbia piena attualizzazione della dynamis verbale qualora si intrecci la capacità associativa, che è portato della dimensione del manas, nella quale sussiste ancora l'unità originaria e dove, pertanto, fisiologiche sono le legature (oŜmai57), con la sostanza fonica della parola sul piano della jihvā, svelando così legature ulteriori, rese possibili dal reciproco richiamarsi di foni.

La circolarità fra segno, significante e significato non è destinata a declinarsi in una ciclicità piatta, bensì in un andamento spiroidale.

L'immagine mentale, manifestandosi quale parola, vestita di habitus fonico e grafico, continuamente rinnova il reale, ricreando il mondo, arricchendosi di rimandi ulteriori. Le figure foniche stesse, nutrite di suoni e di nostalgia dell'originario, nel loro farsi contribuiscono all'infittirsi della rete di relazioni in un accrescersi del disegno primo58.

Guardando al manifestarsi di v®dh si può cogliere l’innescarsi della dinamica del reciproco scambio fra umano e divino conseguente all’attualizzarsi della parola poetica che determina il manifestarsi della proprietà transitiva dell’accrescimento: la parola accresce la divinità in forza del cibo-preghiera, il dio accresciuto accresce l’uomo (RV I, 36, 11; 14):

yám agním médhyātithiḥ káṇva īdhá r̥tā́d ádhi /

tásya préṣo dīdiyus tám imā́ ŕ̥cas / tám agníṃ vardhayāmasi //

«Medhyātithi Kaṇva illuminò dall’ordine sacro Agni, i cui ristori hanno lampeggiato, e noi lo rinvigoriamo con questi canti».

ūrdhvó naḥ pāhy áṃhaso ní ketúnā víśvaṃ sám atríṇaṃ daha / kr̥dhī́ na ūrdhvā́ñ caráthāya jīváse / vidā́ devéṣu no dúvaḥ //

57

Cfr. par. 2.2 La questione di o‡mh, oŜmoj, pp. 36 ss.

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