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UNIVERSITÀ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
Il principio di atipicità della prova e le
sue implicazioni investigative
ANNO ACCADEMICO 2017/2018
Relatore: Candidata:
Prof.ssa Valentina Bonini Anna Iodice
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Ai miei genitori.
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INDICE
Premessa. ... 7
CAPITOLO I ... 9
IL PRINCIPIO DI ATIPICITÀ ... 9
1. Introduzione: scelte di sistema all’interno del libro III. ... 9
2. La nozione di prova atipica. ... 11
3. L’atipicità tra le pagine del codice. ... 13
3.1 (Segue) L’art. 189 c.p.p. e i limiti alle prove atipiche. ... 17
4. Il campo d’azione dell’art. 189 c.p.p. ... 19
5. La prova incostituzionale e i principi costituzionali in gioco. ... 25
5.1 (Segue) La costruzione di un modello di disciplina costituzionalmente soddisfacente. Tabulati telefonici e videoregistrazioni. ... 30
CAPITOLO II ... 50
LA PROVA INFORMATICA ... 50
1. L’informatica e il diritto. La Computer Forensics. ... 50
2. I mezzi di ricerca della prova. Uno sguardo d’insieme. ... 55
3. La legge 18 marzo 2008 n. 48. ... 60
3.1 (Segue) Le indagini informatiche e la tutela della privacy, dopo la l. n. 48 del 2008. ... 65
4. Conclusioni. ... 69
CAPITOLO III ... 72
IL CAPTATORE INFORMATICO ... 72
1. Il trojan horse, cos’è e come funziona. ... 72
2. Punti di contatto e di contrasto con i mezzi di prova già tipizzati. .. 76
3. I profili problematici del captatore informatico e le soluzioni giurisprudenziali. ... 81
3.1 (Segue) Le Sezioni Unite Scurato. ... 87
4. I tentativi legislativi in tema di captatori informatici. ... 93
5. La riforma Orlando. La delega in materia di intercettazioni. ... 98
5.1 (Segue) Il decreto legislativo 27 dicembre 2017 n. 216. ... 108
Conclusioni. ... 115
Bibliografia. ... 117
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Premessa.
L’obiettivo del lavoro che segue consiste nel tentativo di ricostruire il percorso di tipizzazione di alcuni mezzi di ricerca della prova, i quali si sono imposti nell’ambito investigativo per via delle evoluzioni che la società civile ha vissuto, in particolar modo quella riguardante la tecnologia, che ha comportato un profondo mutamento nel modo di vivere la quotidianità e di conseguenza anche di delinquere, rendendo così necessario un adeguamento anche dei mezzi a disposizione degli organi inquirenti.
Si è pensato di partire prima dalla disciplina prevista, nel nostro ordinamento, per l’istituto della prova atipica al fine di valorizzarne e comprenderne il peso. Gli strumenti probatori cui facevamo riferimento prima, infatti, hanno trovato come primo canale di ingresso al processo proprio l’istituto dell’atipicità. Solo dopo essersi imposti già nella prassi come strumenti utili, se non indispensabili, per la conduzione delle indagini hanno visto l’intervento del legislatore. Quest’ultimo è sempre intervenuto solo dopo i copiosi interventi giurisprudenziali delle Supreme Corti che hanno cercato di trovare spazio a questi istituti di nuova emersione, al fine di evitare che ci fosse un conflitto con i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali. L’imporsi e l’avanzare di tali nuovi strumenti investigativi ha, infatti, creato non pochi momenti di collisione con i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo, al punto di far ritenere che non fosse sufficiente fare appello all’istituto della prova atipica per sostenere il loro legittimo ingresso al processo, rendendo così necessario l’intervento del legislatore.
L’intervento normativo in tali materie è sempre partito tenendo conto di quanto espresso dalla giurisprudenza nel tentativo di trovare spazio ai nuovi strumenti sempre nei limiti della legittimità imposti dalla Carta Costituzionale.
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CAPITOLO I
IL PRINCIPIO DI ATIPICITÀ
1. Introduzione: scelte di sistema all’interno del libro III.
Prima di affrontare il tema che si vuole affrontare in questo lavoro è necessario premettere qualche doveroso cenno in ordine alla disciplina probatoria in generale dal punto di vista sistematico. Per comprendere il peso e l’importanza che la prova atipica ha, nell’ambito del processo penale, non si può prescindere dalla valutazione della posizione che il codificatore stesso gli ha assegnato all’interno del Codice di rito. Nella Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale emerge chiaramente la centralità che si è voluto e dovuto dare al tema anche in conseguenza alla scelta di un sistema accusatorio.
Il legislatore ha voluto dare una disciplina unitaria al sistema probatorio non solo per evidenziare la fondamentale nonché centrale importanza del tema, bensì anche per allontanarsi definitivamente dall’impostazione frammentaria cui si era ispirato il codice del 1930. In tale codificazione, infatti, la disciplina inerente la materia probatoria era stata collocata nella parte riguardante i profili dinamici del procedimento penale, ossia nel libro II, “Dell’istruzione”, e un’altra parte delle norme nel libro III, “Del giudizio”1.
Dato lo stretto e immediato rapporto tra la prova ed il dibattimento verrebbe naturale pensare alla collocazione della disciplina probatoria all’interno del libro sul giudizio ma il legislatore, ancora una volta,
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rimarcando la forza del tema, gli ha dedicato un apposito libro, il terzo, collocandolo nella prima parte del codice.
Nella Relazione si legge infatti che “le norme sulle prove avrebbero potuto essere inserite nel libro sul giudizio, in modo da sottolineare il legame inscindibile tra prova e dibattimento, connotato qualificante del nuovo processo. Si è, però, preferito collocare il nuovo corpus di norme nella prima parte del codice, in un libro a sé, destinato a seguire quello degli atti processuali, così da segnalare il valore tutto particolare che gli strumenti del convincimento rivestono a fronte degli atti che danno impulso od esauriscono lo svolgimento del processo”.2
Si nota un certo distacco rispetto alla posizione assunta dal legislatore precedente nel codice del 1930, in quanto si dà alla disciplina probatoria una posizione autonoma e a sé stante seguendo quella che è stata definita una “concezione relativistica” della prova.3
Il libro III, contenente, appunto, la disciplina delle prove, è stato voluto in quella determinata posizione ed apparentemente isolato “per disciplinare in via globale quel fenomeno del conoscere giudiziale che percorre, come una spina dorsale, l’intero procedimento: dalla notitia
criminis in poi”.4
Tali fondamentali premesse, come già anticipato, sono utili per comprendere il peso del tema trattato: infatti, tutt’altro rilievo assume una norma come l’art. 189 c.p.p. se prevista da un ordinamento che la inserisce in una più grande tela, fitta e ben tessuta, di altre norme che ne vanno, non solo a circoscrivere l’ambito di applicazione, ma anche a rinforzare il significato.
2 Supplemento ordinario n. 2 alla Gazzetta Ufficiale, n. 250 del 24 ottobre 1988- Serie
generale, pp. 58-59.
3 M. NOBILI, Il “diritto delle prove” ed un rinnovato concetto di prova, in M.
CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, p.384.
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2. La nozione di prova atipica.
Prima di intraprendere il discorso riguardante il tema dell’atipicità è giusto focalizzare per un attimo l’attenzione sulla prova in generale cercando di dare, in maniera concisa, senso a tale termine. La prova, dal punto di vista del tema centrale di un qualunque processo penale, è “tutto ciò che il giudice può valutare per concludere sulla colpevolezza dell’imputato”5.
Ora, per poter affrontare il tema dell’atipicità delle prove in maniera chiara è necessario soffermarsi sulla nozione di prova atipica, al fine di poter comprendere a cosa faccia riferimento il legislatore quando ne consente l’ingresso nel processo penale.
Il Codice di rito, all’art. 189 c.p.p., si riferisce a tale istituto con l’espressione “prova non disciplinata dalla legge”, ad un primo sguardo potremmo dire che il legislatore abbia inteso aprire le porte del processo anche a quelle prove non previste, innominate, diverse da quelle codificate. Tale definizione risulta certamente corretta ma assolutamente non sufficiente a delineare in maniera complessiva ciò che può essere considerato prova atipica. Se ne possono dare tre distinte interpretazioni6: prova c.d. innominata, prova c.d. irrituale e prova c.d. anomala.
La prova innominata è quella prova che semplicemente non è prevista dalla legge, non è nominata, o che permette di ottenere un risultato che non sarebbe raggiungibile con gli altri mezzi di prova previsti. Si parla in questo caso di atipicità del risultato.
La prova irrituale è quella prova che utilizza modalità diverse da quelle previste per il mezzo di prova tipico al fine di raggiungere un risultato a sua volta tipico. Si tratta di atipicità delle modalità di svolgimento.
5 P. FERRUA- E. MARZADURI- G.SPANGHER (a cura di), La prova penale, Torino,
2013, p.57.
6 V. BOZIO, La prova atipica, in P. FERRUA- E. MARZADURI- G.SPANGHER, La
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La prova anomala, infine, è quella prova tipica usata per raggiungere un risultato al quale era predisposta un’altra prova, anch’essa tipizzata. È necessario a questo punto andare a vedere quale tra i possibili significati proposti soddisfa il concetto come inteso nel codice all’art 189.
Nessuna questione particolare si pone nel far rientrare nella nozione di prova atipica quella di prova innominata, in quanto quest’ultima risulta essere la più calzante per logica ma poco utile ai fini pratici poiché i mezzi tipizzati dall’ordinamento sembrano essere sufficienti a raccogliere tutti i risultati probatori possibili.
Un discorso un po’ diverso invece va affrontato riguardo a quella che abbiamo definito come prova anomala.
La dottrina non ha visto di buon occhio il ricondurre, nella prassi, le prove anomale nell’alveo del principio di atipicità della prova poiché se il modello probatorio per acquisire un dato sapere esiste già allora bisognerà seguire la strada che è stata preconizzata dal legislatore. Il significato da dare all’atipicità è quello di prova ontologicamente nuova o che, pur conducendo ad un risultato raggiungibile con un altro modello tipico, segua modalità diverse da quelle previste e non corrispondenti a quelle di nessun altro mezzo tipico. È comunque richiesto il rispetto dei requisiti minimi di garanzia e di idoneità probatoria previsti dalla disciplina tipica. “In altre parole, [la prova atipica] è la prova che si forma secondo un iter di assunzione che si pone non in violazione ma al di fuori dal campo di applicazione delle norme che disciplinano la materia”7.
Nel concetto di prova atipica dovranno quindi rientrare la prova innominata e la prova irrituale, andando così a restringere la porta di ingresso per quelle prove che non si possono definire propriamente atipiche.
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L’istituto della prova atipica non deve essere, e non è, un qualcosa di funzionale ad aggirare i requisiti di legge previsti per le prove tipiche, l’art. 189 c.p.p. “si regge[...] sulla premessa della legalità interna al sistema dei mezzi di prova8.
L’art 189 c.p.p. non è solo clausola di apertura ma, in questi casi, è anche la clausola di chiusura della disciplina probatoria, a tutela del principio di non sostituibilità o di non fungibilità delle forme dei mezzi di prova9.
3. L’atipicità tra le pagine del codice.
Il Codice Rocco del 1930 prevedeva ampi poteri istruttori in mano al giudice. All’art. 299 disponeva che il giudice compisse tutti gli atti che, rispetto alle indagini compiute e agli elementi raccolti, apparissero necessari per l’accertamento della verità. Era consentito quindi
8 T. RAFARACI, Ricognizione informale dell’imputato e (pretesa) fungibilità delle
forme probatorie, in Cassazione Penale, 3/1998, p. 1741.
9 Il principio di non sostituibilità è quel principio che pone il divieto di eludere le norme
previste in tema di prove dal legislatore. Interessante notare come la Corte di Cassazione a più riprese, a partire da una sentenza del 1992 (Sez. I,11 maggio 1992, Cannarozzo; v. Cassazione Penale 1/1994, p. 125) abbia invece ammesso le c.d. ricognizioni informali (che seguendo il ragionamento fatto fino a questo punto rientrerebbero nella nozione di prova anomala) nel corso dell’esame dibattimentale inquadrando il fenomeno come prova atipica a differenza di quanto invece abbiamo visto sostenere dalla dottrina.
Se ne cita una in via meramente esemplificativa. La Corte afferma che “il riconoscimento dell’imputato presente nel corso dell’esame testimoniale non assume i caratteri della ricognizione. Esso costituisce un mero atto di identificazione diretta, come tale non subordinato all’osservanza delle formalità prescritte per le ricognizioni. Nel vigente codice di rito non opera il principio di tassatività del mezzo probatorio [essendo stato inserito l’art. 189 c.p.p. che conduce all’esatto opposto]. L’esistenza di uno specifico mezzo probatorio non esclude, quindi, la possibilità di perseguire gli effetti che gli sono propri mediante ricorso ad altro mezzo di natura diversa.” (Cass., Sez. IV, 18 luglio 1996, Gagliardini, in Diritto Penale e Processo, 7/1997, p. 835). Nello stesso numero della rivista, alla sentenza segue il commento di SOFIA CAVINI la quale critica l’approccio assunto dalla Corte, avendo proceduto a motivare per relationem, non solo nel caso di specie bensì anche in casi precedenti sullo stesso tema. Ciò che più interessa rilevare nel commento della Cavini è la ricerca di una definizione di prova atipica, arrivando a dire che la ricognizione informale più che prova anomala sarebbe da considerare prova irrituale.
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l’ingresso al processo di ogni sorta di prova, fosse meramente non disciplinata dalla legge ovvero acquisita illegittimamente.10
Non risultava alcun riferimento esplicito al tema dell’atipicità in materia probatoria e per sopperire a tale mancanza, sotto la vigenza del suddetto codice, si sviluppò un acceso dibattito che vide la formazione di tre diverse teorie sul tema.
Delle tre una risulta a favore del principio di atipicità, una favorevole alla tassatività della prova e l’ultima invece risulta essere una sorta di critica delle prime.11
Le prima teoria, favorevole ad un sistema a numero aperto, vede al suo interno due filoni che si distinguono tra loro per il diverso punto di partenza.
Il primo filone vede le norme in materia di prove come delle eccezioni ad un sistema che per sua natura sarebbe aperto, l’elencazione che si ha nel codice è meramente esemplificativa. Non si mette in discussione la necessità di avere dei limiti ma questi sono da ricercare nella legge morale e giuridica e dovranno essere quanto più ridotti possibile. L’altro filone, sempre a favore dell’atipicità, si mostra invece più garantista in quanto presta un occhio di riguardo alle garanzie e ai diritti fondamentali dell’imputato. Sostiene la necessità che sia la legge a stabilire le regole di ammissione ed esclusione delle prove e che provveda in tal senso ogni volta che vi sia l’emergenza di nuovi mezzi probatori. Consente l’ingresso a prove non disciplinate a patto che non risultino in contrasto con l’intero sistema normativo o che non ne sia esplicitamente vietata l’acquisizione, tenendo conto quindi dei rischi che potrebbero derivare da un sistema completamente libero.
La seconda teoria, quella a sostegno della tassatività, considera prove solo quelle espressamente previste e disciplinate dal legislatore vedendo
10 Cfr. G.GAROFALO, Le prove atipiche fra “apertura” e “limite” al potere
giudiziale di conoscere, in L. MARAFIOTI e G. PAOLOZZI Incontri ravvicinati con la prova penale, Torino, 2014, p. 123
11 Cfr. V. BOZIO, La prova atipica, in FERRUA, MARZADURI, SPANGHER, La
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la possibilità dell’introduzione di prove atipiche come concessione al giudice della facoltà di introdurre prove fuori da un qualunque schema prestabilito. Sul punto riguardante invece l’emersione di nuovi strumenti probatori, per i sostenitori di tale teoria, non spetta all’interprete provvedervi bensì al legislatore.
La terza teoria, come avevamo anticipato, è una sorta di critica alle prime due, o meglio, ritiene inutile il dibattito svolto dal momento che l’ordinamento ha tessuto una rete di norme tale da ricomprendere, da sé e senza ulteriori interventi esterni, ogni elemento che risulti utile alla decisione ed allo stesso tempo non vietato.
Prima di arrivare all’odierno codice c’è stato un grande lavoro dietro e risulta interessante notare come nel progetto preliminare al codice del 1978 si prevedeva l’introduzione del principio di tassatività; l’art 179, infatti, disponeva che il giudice non potesse ammettere prove diverse da quelle previste dalla legge. L’inserimento di questo articolo fece scaturire un dibattito tra la commissione redigente e quella consultiva, quest’ultima vedeva tale norma come espressione di “una inammissibile diffidenza verso gli organi giudicanti, privati di strumenti probatori che, ancorché non previsti dalla legge, potrebbero risultare estremamente efficaci per l’investigazione”12. La commissione redigente invece
sosteneva la tenuta di tale principio perché era necessario garantire anche il diritto di difesa e la soggezione del giudice alla legge al pari di quanto fosse necessaria la difesa della ricerca della verità.
Tutto ciò ha fatto sì che il legislatore si facesse carico del problema e infatti l’attuale codice di rito all’art. 189 c.p.p. prevede la possibilità per le parti di ricorrere all’utilizzo di prove non disciplinate dalla legge.13
12 A. GAITO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 2012, p.1091. 13 Prima ancora di arrivare alla formulazione dell’art. 189 c.p.p. si sono succeduti nel
tempo altri interventi volti a dare risposta al medesimo problema. Il primo intervento degno di nota si è avuto con il progetto di riforma del codice di procedura penale, avviato nel 1974 con la legge delega n. 108, che ha visto l’introduzione nel progetto preliminare del 1978 dell’art. 179 c.p.p. che prevedeva il principio di tassatività. Dopo il fallimento del progetto di riforma si abbandona il principio di tassatività e nel
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Reduci da un dibattito che, tra le altre cose, ha portato alla luce anche le criticità di un sistema probatorio libero, non possiamo non notare che sono diversi gli spunti che potrebbero indurci a pensare al principio di atipicità delle prove come ad un qualcosa di nocivo per la legalità del processo penale. Pensiero che si corregge in automatico guardando i vari limiti o condizioni che il legislatore pone al fine di poter introdurre mezzi di prova non disciplinati dalla legge richiamando il principio di atipicità.
Ponendo l’esigenza di accertamento quale funzione principale del processo penale, sia pure una verità relativa essendo sottoposta a regole rigide, sembra logico dover ammettere tra le prove lecite anche quelle che non rientrano tra i modelli tipizzati dal legislatore; risulterebbe strano non consentire l’utilizzo e la conoscenza da parte del giudice di una prova, utile ai fini dell’accertamento, solo perché non prevista dal codice.
A fare da contrappeso a tale riflessione, che depone assolutamente a favore di un sistema probatorio aperto, vi è la necessaria preoccupazione di una possibile ed eccessiva discrezionalità nei poteri giudiziali. Il legislatore del 1988 con il nuovo codice di procedura penale si discosta dal principio di tassatività optando per una strada intermedia. L’introduzione dell’articolo 189 c.p.p. consente l’ingresso di prove atipiche nel processo penale, infatti il testo della norma recita: “Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova”. Tale disposizione però non va intesa come concessione al giudice di una arbitrarietà assoluta in tema di prove poiché lo stesso
progetto preliminare del codice del 1988 compare già l’art. 189 c.p.p. in una forma molto simile a quella attuale.
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articolo subordina l’utilizzo delle prove non disciplinate dalla legge al rispetto di determinate condizioni.
Nella Relazione al progetto preliminare del codice del 1988 si chiarisce la scelta di una via intermedia consentendo sì l’accesso a prove non disciplinate dalla legge ma a patto “che queste siano […] affidabili sul piano della genuinità dell’accertamento e non lesive della libertà morale della persona”.14
L’art. 189 c.p.p. da un lato fa sì che l’accertamento della verità non sia eccessivamente limitato lasciando aperte le frontiere al continuo sviluppo tecnologico, dall’altro mantiene sempre vivo il rispetto delle garanzie difensive della persona.
Il codificatore del 1988 dunque ha scelto il principio di atipicità o meglio di “tassatività temperata”15.
3.1 (Segue) L’art. 189 c.p.p. e i limiti alle prove atipiche.
Il legislatore introducendo il principio di atipicità nel codice di rito ha contestualmente previsto anche i rispettivi limiti al suo utilizzo.
Lo stesso art. 189 c.p.p. prevede infatti le condizioni minime che un dato mezzo di prova dovrà rispettare affinché, pur non essendo previsto e disciplinato, possa essere utilizzato nel processo per assumere con determinatezza il provvedimento conclusivo del procedimento.
La norma in analisi prevede che il giudice possa procedere all’assunzione della prova atipica quando questa risulti idonea all’accertamento dei fatti e non lesiva della libertà morale della persona, infine dispone che il giudice senta le parti rispetto alle modalità di assunzione.
14 Relazione al progetto preliminare al codice del 1988, p.60
15 Codice Procedura Penale (a cura di) G. CANZIO e G. TRANCHINA, Tomo I, p.
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i. L’idoneità della prova ad assicurare l’accertamento dei fatti è un limite di carattere fondamentale. La stessa valutazione compiuta in via preventiva dal legislatore per le prove tipiche viene qui rimessa al giudice nella fase di ammissione. Si tratta di una valutazione in astratto che il giudice deve compiere al fine di stabilire se la prova è in grado di fornire una ricostruzione attendibile e veritiera del fatto. Non è un lavoro da fare sul caso concreto, perché, se così fosse, dovremmo parlare di rilevanza e non più di idoneità all’accertamento dei fatti. È necessario valutare il mezzo della prova in sé, nella sua struttura interna, a prescindere dalla situazione fattuale.
ii. La seconda condizione posta a tutela della libertà morale della persona rappresenta, come il precedente, un limite di natura sostanziale. Sono da ritenere lesive della libertà morale della persona quelle prove in grado di “influenzare” il soggetto andando ad inficiare la sua libertà di autodeterminazione. Tale previsione è da intendere come estensione, alle prove atipiche, del divieto previsto dall’art. 188 c.p.p. per i mezzi di prova tipizzati. La norma testualmente dice che “Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”.
iii. L’ultimo limite disposto dall’art. 189 c.p.p. è di carattere processuale in quanto riguarda le modalità di assunzione delle prove atipiche. Nei casi in cui la legge nulla disponga rispetto alle modalità di assunzione di una data prova il giudice, per ricavare una disciplina, deve rifarsi ad analoghi mezzi di prova tipici, massime di esperienza e leggi scientifiche.
Come disposto da ultimo “Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova”.
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Il legislatore quindi affida al giudice il compito di “regolarne in concreto le modalità di assunzione così da rendere conoscibile in anticipo alle parti l’iter probatorio”16 ma subito dopo inserisce
un contrappeso a un così ampio potere, prevedendo l’obbligo per il giudice di sentire le parti prima di procedere all’ammissione della prova.
Il contrappeso a cui abbiamo appena fatto riferimento altro non è che un contraddittorio anticipato, utile ad apportare quelle garanzie mancanti a causa del fatto che la parte non può conoscere a priori le modalità di assunzione non essendoci una disciplina in materia.
La Corte di Cassazione in una delle sue pronunce ha chiarito che dall’inosservanza della norma nella che prevede il coinvolgimento delle parti per stabilire le modalità di assunzione della prova atipica non discende l’inutilizzabilità del risultato ottenuto bensì una mera irregolarità.17
4. Il campo d’azione dell’art. 189 c.p.p.
Al fine di poter pervenire all’individuazione del campo d’azione dell’art. 189 c.p.p. è necessario soffermarsi sull’oggetto di riferimento
16 Relazione al progetto preliminare al codice del 1988, p.60
17 “L’inutilizzabilità di una prova, secondo quanto chiaramente e tassativamente
disposto dall’art. 191 comma 1 c.p.p., ha luogo soltanto quando quella prova sia stata assunta in violazione dei divieti stabiliti dalla legge e non quando l’assunzione, pur consentita, sia stata effettuata senza le prescritte formalità. […] può trovare applicazione soltanto il diverso istituto della nullità; istituto che però, nella specie, non può essere utilmente invocato, atteso che l’osservanza della disposizione in questione non è prevista a pena di nullità, né appare configurabile alcuna delle nullità in ordine generale di cui all’art, 178 c.p.p. […]. D’altra parte l’art. 189 c.p.p. prevede soltanto la previa audizione, e non il consenso delle parti all’assunzione della prova atipica; […] rimanendo demandata la decisione sull’ammissibilità esclusivamente al giudice. In sostanza, quindi, di inutilizzabilità potrà parlarsi soltanto se ed in quanto, come dianzi illustrato, la prova ammessa sia, in quanto tale ed indipendentemente dalle modalità della sua assunzione, vietata dalla legge […]” (Sez. I, 11 maggio 1992, Cannarozzo, in Cassazione Penale 1/1994, pp. 126-127).
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dello stesso. Il testo della norma si presta infatti a fraintendimenti poiché parla, nella rubrica prima e nel testo dopo, esplicitamente di “prova”. Soffermandoci a quanto percepibile ad un primo sguardo, saremmo portati a dire che l’articolo si riferisce solo a ciò che conosciamo come mezzi di prova.
Il codice vigente all’interno del libro III provvede ad una ulteriore distinzione in ambito di prove, tra i mezzi di prova ed i mezzi di ricerca della prova. I primi si caratterizzano per il loro essere direttamente utilizzabili in sede di decisione, i mezzi di ricerca della prova invece servono a raccogliere elementi materiali con una valenza probatoria e non sono direttamente spendibili come fonte di convincimento da parte del giudice, al fine di arrivare alla decisione finale.
Una volta fatta tale dovuta precisazione passiamo all’inevitabile interrogativo che sorge nel momento in cui si legge l’art. 189 c.p.p., è riferibile anche ai mezzi di ricerca della prova?
Facendo riferimento ad alcuni orientamenti dottrinali notiamo un certo
favor per l’estensione della disciplina, dettata dall’art. 189 c.p.p., anche
ai mezzi di ricerca della prova, conclusione raggiunta partendo dall’analisi della collocazione che il legislatore stesso ha dato alla norma; inserita, appunto, nelle disposizioni generali del Libro dedicato alle prove pertanto applicabile ai mezzi di prova quanto ai mezzi di ricerca della prova18.
“Le condizioni cui la norma subordina l’ammissione delle prove ‘non disciplinate’ fornisc[o]no sufficienti indicazioni per una ricerca della prova, attenta ai valori costituzionali ed alla tutela delle libertà fondamentali. Che il rispetto di tali condizioni valga, insomma, a compensare adeguatamente il difetto di tipicità del mezzo di ricerca della prova in concreto richiesto”19.
18 Cfr. A.LARONGA, Le prove atipiche nel processo penale, Padova, 2002, p. 29. 19 Cfr. D.SIRACUSANO, Le prove, in D.SIRACUSANO, A.GALATI,
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Il quesito che ci siamo posti non è nient’altro che una faccia di una questione più ampia che riguarda l’ammissibilità o meno di attività di indagine non disciplinate dalla legge. La dottrina estende quindi anche alla fase delle indagini preliminari la disciplina disposta dalle norme generali che aprono il Libro III del codice.
Rivolgendo l’attenzione al lavoro svolto dalla giurisprudenza notiamo che la posizione che nel tempo si è consolidata non è troppo lontana da quella assunta dalla dottrina.
La Corte di Cassazione, in diverse occasioni, ha avuto modo di pronunciarsi sul tema palesando la propria adesione alla tesi secondo cui le disposizioni riguardanti le prove non disciplinate dalla legge sono riferibili anche ai mezzi di ricerca della prova e dunque alle attività di indagine atipiche. A tal riguardo nella sentenza Viskovic, riguardante un caso di riprese visive intervenute nel bagno di un locale pubblico ad iniziativa della polizia giudiziaria senza alcuna preventiva autorizzazione, la Corte, non condividendo del tutto quanto sostenuto dal tribunale di merito20, sostiene che “appare corretto che le riprese visive […] rientrano nelle prove documentali indicate nell’art. 234 comma 1 c.p.p. e che quindi è (astrattamente) consentita la loro acquisizione al fascicolo per il dibattimento, e la conseguente utilizzazione a fini probatori, è necessario rilevare che il codice si limita ad affermare la natura di prova documentale (del risultato) di tali riprese ma non regola né la modalità di acquisizione né disciplina le regole per la sua utilizzazione. Ciò, verosimilmente, perché il legislatore ha avuto di mira esclusivamente il documento cinematografico precostituito e non quello utilizzato come mezzo della prova o l’attività di ripresa costituente mezzo di ricerca della prova. Sotto questo profilo invece la ripresa visiva appare più correttamente inquadrabile tra le prove
20Cfr. Cass. Sez. IV, 16 marzo 2000, Viskovic, in Cassazione Penale, 2001, p.2436.
La Corte di merito aveva ritenuto valide le riprese visive escludendo il luogo in cui sono intervenute dalla nozione di privata dimora, non ritendo tale il bagno di un locale pubblico. Inoltre sosteneva che tali riprese rientrassero nella definizione di prove documentali e non di intercettazioni di comunicazioni tra presenti.
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‘atipiche’ (art.189 c.p.p.) da intendersi in senso ampio come comprensivo dei mezzi di ricerca della prova e di mezzi di indagine non previsti dalla legge”21.
“Il termine ‘prove non disciplinate dalla legge’, è virtualmente onnicomprensivo di ogni mezzo di indagine non codificato, purché possa apparire utile all’accertamento della verità e non sia espressamente vietato nel caso concreto”22.
L’art. 189 c.p.p., al fine di veder ammessa una prova non disciplinata dalla legge, richiede che si provveda ad un contraddittorio anticipato su quelle che saranno le modalità di assunzione. Dal momento che abbiamo definito la disciplina del suddetto articolo come estendibile anche alle attività di indagine atipiche non possiamo non sottolineare la difficoltà che un simile istituto incontrerebbe con riguardo alla fase investigativa, ovvero quella ove intervengono i mezzi di ricerca della prova. Questa osservazione è più che logica perché tali mezzi sono caratterizzati dall’’effetto sorpresa’, per rendercene conto basta ripensare al caso Viskovic e quindi alle riprese visive.
La dottrina si è adoperata cercando di arginare l’ostacolo del contraddittorio anticipato, le strade prospettate sono tendenzialmente due. La prima parte dal presupposto che l’art. 189 c.p.p. vada interpretato nella maniera più libera possibile, rendendo possibile il trovare al suo interno due meccanismi differenziati, l’uno per le prove che dovranno formarsi nel dibattimento, per le quali si provvederà al contraddittorio anticipato; l’altro, invece, per i mezzi di ricerca delle prove adoperati da pubblico ministero e polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari, per i quali “il contraddittorio dibattimentale fra le parti non potrebbe evidentemente servire da ausilio al giudice, per guidarlo nel fissare le regole di un procedimento di assunzione…già esaurito: in tal caso, il dibattito sulle modalità di formazione della prova
21 Sez. IV, 16 marzo 2000, Viskovic, in Cassazione Penale, 2001, p.2436. 22 G. F. RICCI, Le prove atipiche, Milano, 1999, p. 608.
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assumerebbe il senso di una valutazione ed eventualmente di una critica del procedimento seguito dagli investiganti: ove il giudice, sulla base delle argomentazioni delle parti, si convincesse che l’iter d’assunzione non garantisce un risultato probatorio attendibile sotto il profilo gnoseologico, rifiuterebbe l’ammissione della prova, ritenendola non idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti. Solo così si potrebbe adattare ad un atto a sorpresa una norma – l’art. 189 c.p.p.- che intesa alla lettera sembrerebbe richiedere un contraddittorio anticipato”23.
L’altra strada individuata dalla dottrina invece si rifà ad un discorso, cui abbiamo già accennato, di tipo sistematico. Tale filone ha appoggiato l’estensione della disciplina di cui all’art. 189 c.p.p. anche alle indagini preliminari poiché la norma è inserita tra le disposizioni generali, determinando “l’estensione alle indagini preliminari di tali disposizioni, ‘in quanto espressive di alcune basilari scelte di civiltà giuridica sul piano probatorio’, ma, ovviamente, ‘entro i limiti consentiti dalla natura e dalle finalità delle stesse’, ritenendo viceversa che la regolamentazione dei mezzi di prova, che non a caso risulta dettata facendo di regola riferimento al giudice, non è normalmente applicabile - salvo espresso richiamo da parte del legislatore – agli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero, in considerazione della snellezza formale che deve caratterizzarli”24. In un certo senso anche qui si nota una lettura della
norma come se fosse divisa in due parti, una riferita al tutto e un’altra esclusiva delle prove costituende.
Possiamo dunque concludere che la parte in cui la norma prevede il contraddittorio preventivo non è estendibile alla fase delle indagini preliminari.
Resta comunque irrisolto il quesito sul come possano essere introdotti nella fase dibattimentale gli atti di indagine atipici. Al fine di arrivare a
23 A. CAMON, Le riprese visive come mezzo d’indagine: spunti per una riflessione
sulle prove incostituzionali, in Cassazione Penale 2/1999, p.1195.
24 G. BORRELLI, Riprese filmate nel bagno di un pubblico esercizio e garanzie
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darvi risposta bisogna richiamare uno dei principi che stanno alla base del processo penale nel nostro ordinamento ossia la formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. Tale principio, sancito dalla Carta Costituzionale all’art. 111, si riferisce alle prove costituende che si formano ed interessano la fase dibattimentale. Da tale principio è scaturita l’idea, più che affermata, secondo cui è prova solo ciò che si forma in dibattimento o nell’incidente probatorio25. Non possiamo certo
contraddire la precedente affermazione ma ad essa bisogna necessariamente aggiungere una specificazione, in virtù della concezione relativistica della prova “spetta al legislatore fissare i limiti di utilizzabilità, ai fini del procedimento penale, degli elementi acquisiti, egli può anche stabilire che un elemento, fonte di conoscenza in ordine a un certo fatto, valga come sua prova a certi fini e non anche ad altri. […]. Nondimeno […] il legislatore può assegnare ad elementi raccolti fuori dal contraddittorio una certa valenza probatoria, pur circoscritta”26.
In altre parole è possibile veder riconosciuta valenza probatoria anche ad atti compiuti nella fase delle indagini preliminari.
Cercando di rispondere al quesito che ci siamo posti osserviamo innanzitutto che, qualora il processo continui il suo corso seguendo uno dei riti alternativi predisposti dall’ordinamento, si potranno e si dovranno utilizzare tutti gli elementi raccolti nella fase delle indagini, dunque il problema non sussiste. Nel caso in cui il processo dovesse proseguire il suo corso fisiologico, arrivando dunque al dibattimento, gli atti compiuti durante le indagini preliminari, siano essi tipici o atipici, di regola non potranno entrare al dibattimento. È necessario provvedere, riguardo a questa seconda ipotesi, ad una distinzione tra gli atti ripetibili e quelli irripetibili. Gli atti irripetibili passeranno alla fase successiva confluendo nel fascicolo per il dibattimento attraverso l’istituto delle letture; per quelli irripetibili invece si dovrebbe far riferimento alla
25 Cfr. A. LARONGA, Le prove atipiche nel processo penale, Padova, 2002, p. 128
ss.
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disciplina prevista dall’art 189 c.p.p27. Sarà il giudice a stabilire le
modalità di assunzione concrete volta per volta, chiaramente attenendosi alle indicazioni delle parti.
L’art. 189 c.p.p. nella parte in cui richiede al giudice di sentire le parti prima di provvedere all’ammissione della prova richiede un contraddittorio anticipato che sopperisce alla mancata regolamentazione normativa; in questo modo si garantisce alle parti una tutela maggiore non soltanto nella formazione della prova, come accade per i mezzi di prova tipizzati, per i quali nella fase dibattimentale, si prevede un contraddittorio obbligatorio ai fini dell’assunzione dei vari mezzi probatori, bensì anche nella fase dell’ammissione della prova stessa vedendosi riconosciuta la possibilità di partecipare alla programmazione delle modalità di assunzione dell’elemento di prova.
5. La prova incostituzionale e i principi costituzionali in gioco.
I limiti cui abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 3.1 non sono sufficienti, da soli, a dare il quadro completo di quelle che sono le regole che forniscono la disciplina dell’ammissibilità delle prove atipiche.
27 Il congiuntivo ‘si dovrebbe’ è voluto perché la Cassazione ha mostrato nel tempo di
disattendere l’osservanza di quanto statuito nella norma, richiamiamo di seguito una pronuncia della Corte come esempio di quanto affermato. “Il riconoscimento fotografico effettuato in sede di indagini preliminari configura una prova cosiddetta ‘atipica’ ammessa dal legislatore ex articolo 189 del C.p.p., che ha valore indiziario, di orientamento investigativo, e può contribuire alla determinazione del convincimento del giudice, collegandosi con gli ulteriori elementi in atti, ai fini della ricorrenza dei requisiti probatori di cui all’art. 192 del C.p.p. […] il relativo verbale non può essere inserito originariamente nel fascicolo del dibattimento ex art 431 c.p.p., ma può eventualmente essere acquisito al processo in sede di contestazione al teste ex art 500, comma 4, c.p.p. in mancanza di questa acquisizione, la ricognizione va ripetuta in dibattimento alla presenza dell’imputato, ovvero, quando ciò risulti impossibile per la contumacia dell’imputato, il fatto della precedente individuazione della persona imputata del reato come il soggetto raffigurato nella fotografia deve essere confermata dai testi e dagli agenti operanti con l’attenzione della coincidenza delle generalità dell’imputato e della persona riconosciuta”. Cfr. A. LARONGA, Le prove atipiche nel processo penale, Padova, 2002, p. 130.
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Soffermandoci su tale tema, infatti, sorge in maniera spontanea una domanda, nel caso in cui una prova atipica risulti in linea con i limiti posti dall’art 189 c.p.p. ma allo stesso tempo contrasti con i diritti tutelati dalla Costituzione, come bisogna muoversi?
Nel corso degli anni è stato fatto un lungo lavoro al fine di definire i limiti che l’ordinamento giuridico italiano pone in tema di prove. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 34 del 1973, una delle prime riguardante il tema che a noi interessa, ha chiarito che, qualora si compiano delle attività lesive di diritti inviolabili, queste non potranno essere poste a fondamento di atti processuali nei confronti di chi è vittima di tali illegittime attività. A partire da questo assunto è stato elaborato il concetto di prova incostituzionale ed in quanto tale inutilizzabile nel procedimento.
La pronuncia a cui abbiamo appena fatto riferimento è stata un faro per il redattore del nuovo codice di rito che ha previsto l’esistenza dell’art. 191 c.p.p. che garantisce una maggiore tutela giurisdizionale della prova nel processo penale prevendendo la sanzione dell’inutilizzabilità, per quelle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. La dottrina ha elaborato il concetto di prova incostituzionale definendola come la “prov[a] acquisit[a] violando situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate, ovvero i c.d. diritti inviolabili”28.
Per poter parlare di prova incostituzionale è necessario trovarsi di fronte a norme strutturate come gli artt. 13,14 e 15 Cost., i quali sanciscono libertà assolute che non necessitano di ulteriori specificazioni da parte del legislatore ordinario volte a chiarirne l’intensità. Si tratta di diritti inviolabili che possono essere solo oggetto di limitazioni “per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”29.
Per cogliere i limiti provenienti da fonti sovraordinate è utile fare riferimento alle diverse decisioni in materia che si sono succedute nel
28 C. MAINARDIS, L’inutilizzabilità processuale delle prove incostituzionali”, in
Quaderni Costituzionali 2/2000, pp. 376-377.
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tempo, andando a delineare dei confini piuttosto definiti di ciò che è o non è inquadrabile nella definizione di prova incostituzionale e anche delle varie gradazioni di tutela previste.
La prima pronuncia a cui bisogna far riferimento è la decisione del 4 aprile 1973 n. 34 assunta dalla Corte Costituzionale nella quale era stata posta la questione di legittimità dell’art. 266 c.p.p., ultimo comma, in relazione, per quanto a noi interessa, all’art 15 Cost. il quale sancisce che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.”
La Corte ritiene che “il principio enunciato dal primo comma della norma costituzionale sarebbe gravemente compromesso se a carico dell’interessato potessero valere, come indizi e come prove, intercettazioni telefoniche assunte illegittimamente senza previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Se ciò avvenisse, un diritto riconosciuto e garantito come inviolabile dalla Costituzione sarebbe davvero esposto a gravissima menomazione.”30
Proseguendo nella lettura della sentenza la Corte precisa che il giudice dovrà dare prova del corretto utilizzo del potere che gli viene dato provvedendo a motivare la propria decisione in maniera specifica ed adeguata, in questo modo si dà corpo al principio secondo cui “il diritto garantito dall’art. 15 Cost. possa essere compresso solo nei limiti effettivamente richiesti da concrete, gravi esigenze di giustizia.”31
Con tale pronuncia di rigetto la Corte dà un forte segnale rispetto a quello che è e sarà il peso della Carta Costituzionale in questo ambito, dando il via non solo alle modifiche apportate alla disciplina delle intercettazioni, con riferimento specifico al caso di specie, bensì anche al dibattito riguardo al, già accennato, tema della prova incostituzionale.
30 Sentenza n. 34/1973 della Corte Costituzionale. 31 Ibidem
28
A questa decisione ne sono seguite altre di altrettanta rilevanza, è il caso di fare riferimento alla sentenza del 11 marzo 1993 n.81 della Corte Costituzionale. Anche questa decisione riguarda una questione di legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p. sempre in riferimento all’art. 15 Cost. nella parte in cui limita le garanzie alle sole operazioni di intercettazione lasciando invece fuori da tale tutela i c.d. dati esteriori della conversazione telefonica (identità degli interlocutori, numeri telefonici, orario della chiamata, i luoghi ove la chiamata avviene e così via).
La Corte pur ritendo infondata la questione, nella motivazione della sentenza precisa che “l’ampiezza della garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. alle comunicazioni che si svolgono tra soggetti predeterminati entro una sfera giuridica protetta da riservatezza è tale da ricomprendere non soltanto la segretezza del contenuto della comunicazione, ma anche quella relativa all’identità dei soggetti e ai riferimenti di tempo e di luogo della comunicazione stessa.”32
In questa pronuncia la Corte ritiene dunque di estendere la tutela anche ai dati esteriori della conversazione prevedendone l’utilizzo, ancora una volta, in mancanza di una previsione legislativa, previo provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria; si tratta di una estensione del contenuto della norma costituzionale e del suo campo di applicazione e non della norma del codice che si occupa del mezzo delle intercettazioni. Concludendo possiamo notare che la Corte anche in questa occasione mostra un atteggiamento in linea con l’idea di una prova incostituzionale inutilizzabile.
In una sentenza successiva delle Sezioni Unite del 1996 seguendo sempre lo stesso orientamento si arriva anche a dare una sorta di definizione del significato di prova incostituzionale come “comprensiva della prova illegittima ed illecita, ed avente un unico ed irrinunciabile
32 Sent. 11 marzo 1993 n. 81 Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale
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presupposto, e cioè l’essere la sua antigiuridicità riconducibile ad una lesione dei diritti soggettivi fondamentali, riconosciuti e tutelati dalla nostra Costituzione.”33
Sempre le Sezioni Unite hanno poi espressamente chiarito che “rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., non solo quelle oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati in modo specifico dalla Costituzione, come nel caso degli artt. 13, 14 e 15, in cui la prescrizione dell’inviolabilità attiene a situazioni fattuali di libertà assolute, di cui è consentita la limitazione solo nei casi e nei modi previsti dalla legge.”34
Occupandoci di prove atipiche, dunque non disciplinate dalla legge, sarebbe automatico rinvenire una mancata attuazione di quella riserva di legge richiesta dalla Costituzione al fine di poter comprimere le libertà assolute da essa tutelate. Di conseguenza dovremmo affermare l’inutilizzabilità di qualunque prova atipica in contrasto con i diritti inviolabili tutelati dalla Carta Fondamentale, vedendo nelle norme Costituzionali “l’elemento di tassatività”35 rispetto all’ammissibilità
delle prove atipiche.
La soluzione appena proposta è in parte veritiera ma non del tutto, poiché è vero che se la prova atipica risulta lesiva di diritti costituzionalmente tutelati non è utilizzabile ma è vero anche che non sempre il grado della lesione è tale da comportare una sanzione così forte. “Non è l’importanza del diritto violato o della fonte normativa che lo riconosce a determinare l’inutilizzabilità della prova bensì solo il contenuto di una norma processuale che la vieti, escludendone l’ammissibilità. […] il richiamo di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione ha un valore meramente retorico, perché le garanzie costituzionali servono a interdire la violazione delle libertà
33 Sez. un. 16 maggio 1996, Sala, in Cassazione Penale 3/1996, pp. 3270-3271. 34 Sez. un. 24 settembre 1998, Gallieri, in Cassazione Penale 1/1999, p.465. 35 A. LARONGA, Le prove atipiche nel processo panale, Padova, 2002, p. 50.
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fondamentali, non a impedire l’utilizzazione probatoria degli eventuali risultati documentali di tali violazioni; dunque, solo le norme costituzionali che impongono divieti probatori contribuiscono a definire l’ambito delle prove utilizzabili nel processo”36.
È necessario addurre ulteriori specificazioni al fine di poter avere un’idea più chiara sul rapporto intercorrente tra le prove atipiche e gli eventuali profili di incostituzionalità delle stesse.
Un lavoro in tal senso è stato compiuto dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale con riguardo ai tabulati telefonici ed alle videoregistrazioni.
5.1 (Segue) La costruzione di un modello di disciplina costituzionalmente soddisfacente. Tabulati telefonici e videoregistrazioni.
Una prima vicenda giurisprudenziale che è utile percorrere riguarda l’ammissibilità e l’utilizzabilità dei tabulati telefonici. Questi ultimi sono documenti che raccolgono i dati esteriori di una conversazione telefonica, ossia il “numero dell’utenza chiamante e di quella chiamata, nonché, per gli apparati telefonici radiomobili, la localizzazione sul territorio del telefono al momento della chiamata"37; in altre parole possiamo dire che sono dei dati che non danno alcuna informazione rispetto al contenuto della conversazione.
Ciò che a noi interessa analizzare sono gli intrecci della disciplina di tale strumento con la Carta costituzionale; in questo caso i dubbi che si sono posti hanno avuto come punto centrale l’estensione delle garanzie predisposte dall’art. 15 Cost. anche ai dati esteriori delle conversazioni. Nella decisione della Corte Costituzionale n. 81/1993, citata già nel precedente paragrafo, il giudice remittente aveva posto la questione di
36 P. MOSCARINI, Principi delle prove penali, Torino, 2014, p. 83.
31
legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p., in riferimento all’art 15 Cost., in ragione della limitazione alle sole operazioni di intercettazione del contenuto di conversazioni telefoniche delle garanzie stabilite dagli artt. 266-271 c.p.p.. Il giudice in questo caso sostiene l’illegittimità dell’art 266 c.p.p. partendo dal presupposto che al disposto costituzionale debba essere data una lettura tale da ricomprendere, nella tutela dallo stesso prevista, anche i dati esteriori delle conversazioni, da ciò ne deriva che la disciplina delle intercettazioni, che ne è la diretta applicazione, risulta essere illegittima se non estesa anche ai tabulati telefonici.38 La Corte dà un risposta complessa provvedendo a negare la pronuncia additiva richiesta del remittente e dichiarando infondata la questione, ritenendo che la disciplina prevista per le intercettazioni sia da “applica[re] soltanto a quelle tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali si svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima”.39 Allo stesso tempo però la Corte
concorda con quanto affermato dal giudice che ha sollevato la questione nella parte in cui sostiene che l’art 15 della Costituzione sia riferibile anche ai dati esterni della conversazione telefonica.
“L’art. 15 Cost., in mancanza delle garanzie ivi previste, preclude la divulgazione o, comunque, la conoscibilità da parte di terzi delle
38 “Il riconoscimento e la garanzia costituzionale della libertà e della segretezza della
comunicazione comportano l’assicurazione che il soggetto titolare del corrispondente diritto possa liberamente scegliere il mezzo di corrispondenza, anche in rapporto ai diversi requisiti di riservatezza che questo assicura, sia sotto il profilo tecnico, sia sotto quello giuridico: al riconoscimento del diritto è coessenzialmente legata la garanzia consistente nel dovere, posto a carico di tutti coloro che per ragioni professionali vengano a conoscenza del contenuto dei dati esteriori della comunicazione, di mantenere il più rigoroso riserbo sugli elementi appena detti. In difetto, risulterebbe vanificato il contenuto del diritto che l’art. 15 Cost., intende assicurare al patrimonio inviolabile di ogni persona in relazione a qualsiasi forma di comunicazione, tanto più se quest’ultima comporta , per la propria realizzazione, una consistente organizzazione di mezzi e di uomini.” (Sent. 11 marzo 1993 n. 81 della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale 1993, pp. 732-733).
39Sent. 11 marzo 1993 n. 81 della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza
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informazioni e delle notizie idonee a identificare i dati esteriori della conversazione telefonica […], dal momento che, facendone oggetto di uno specifico diritto costituzionale alla tutela della sfera privata attinente alla libertà e alla segretezza della comunicazione, ne affida la diffusione, in via di principio, all’esclusiva disponibilità dei soggetti interessati”.40
Dopo tale sentenza il panorama giurisprudenziale non è risultato univoco sul punto, infatti in diversi casi si sono avute sentenze che sembrano non tener conto della linea assunta dalla Corte costituzionale e andando avanti nella trattazione avremo modo di vederlo più da vicino. La pronuncia sopra citata ha dato il via ad un lavorio non soltanto a livello giurisprudenziale bensì anche dottrinale. La dottrina non si è mostrata sempre favorevole alla posizione assunta dalla Corte: infatti c’è chi ha ritenuto non adeguata la motivazione addotta dalla Corte al fine di giustificare la ‘maggiore’ tutela riconosciuta alle telefonate rispetto agli altri mezzi di comunicazione. La Corte ha infatti appianato in un certo senso tale divario trovando la giustificazione nella scelta del soggetto che ha potuto optare per un mezzo anziché per un altro magari proprio in ragione di profili tecnici dello stesso in grado di assicurare una segretezza maggiore.41
Per comprendere il perché della decisione della Corte o meglio perché la Corte abbia ritenuto l’art. 15 Cost. comprensivo anche dei dati esteriori bisogna far riferimento all’impianto delle norme processualistiche che hanno in qualche modo fatto sì che ci fosse un terreno fertile per poter arrivare a simili affermazioni.42
40 Sent. 11 marzo 1993 n. 81 della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza
Costituzionale 1993, p. 738.
41 Cfr. A. PACE, Nuove frontiere della libertà di ‘comunicare riservatamente’ (o,
piuttosto, del diritto alla riservatezza)?, in Giurisprudenza Costituzionale 1993, pp.742 ss.
42 Cfr. A. PACE, Nuove frontiere della libertà di ‘comunicare riservatamente’ (o,
piuttosto, del diritto alla riservatezza)?, in Giurisprudenza Costituzionale 1993, pp. 746-747. Si parla della disciplina a cui bisognerebbe far riferimento nel caso di tabulati telefonici, dal momento che è da escludere quella prevista per le
intercettazioni. L’autore propone quella prevista dall’art 256 c.p.p. che prevede una riserva di giurisdizione per tutte le richieste di atti e di documenti indirizzate a persone tenute al segreto professionale o d’ufficio.
33
Dal momento che è stata estesa la disciplina anche ai dati esteriori pur mancando nel codice un’apposita regolamentazione bisogna ora comprendere quali e quanti sono i dati coperti dal segreto. Abbiamo già visto che nel corso della pronuncia la Corte, seppure indirettamente, ha affrontato il problema, facendo rinvio ai profili non solo giuridici, dei vari strumenti di comunicazione, bensì anche ai loro connotati tecnici. In questo modo ha inteso fare una sorta di differenziazione di disciplina a seconda dello strumento del caso.
In dottrina43 la questione è stata analizzata partendo proprio dalla sentenza di cui ci stiamo occupando: sono stati elaborati due criteri guida, uno oggettivo ed uno soggettivo.
Il criterio oggettivo lega inscindibilmente i profili di segretezza alle caratteristiche del mezzo utilizzato per comunicare, questo criterio riprende un po’ il discorso che è stato dato per scontato dalla stessa Corte. Quando si parla delle caratteristiche del mezzo si fa una distinzione ‘quantitativa’ della pretesa del rispetto del diritto alla segretezza che da tale mezzo possiamo pretendere, è inevitabile, per esempio, che la corrispondenza cartacea sia meno garantista rispetto ad una conversazione telefonica che ci consente, per esempio, di tenere segreta l’identità del nostro interlocutore.
Il criterio soggettivo è molto più fragile e difficilmente sostenibile poiché rinvia all’intenzione del soggetto, bisognerebbe quindi interrogarsi sul se il soggetto, a prescindere dalle caratteristiche del mezzo da lui scelto, avesse o meno intenzione di riservare la comunicazione al proprio interlocutore. Appare evidente la difficoltà di conciliare tale criterio con la realtà, poiché nessuno potrebbe con certezza affermare che chi comunica voglia mantenere segreto il
43 Cfr. A. PACE, Nuove frontiere della liberà di ‘comunicare riservatamente’ (o,
piuttosto, del diritto alla riservatezza)? , in Giurisprudenza Costituzionale 1993, pp. 742 ss. ; D. POTETTI, Corte Costituzionale n.81/93: la forza espansiva della tutela accordata dall’art. 15 comma 1 della Costituzione, in Cassazione Penale 1993, pp. 2746 ss.
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contenuto della comunicazione, o viceversa, a prescindere dal mezzo scelto.44
C’era tra la dottrina chi aveva criticato la via seguita dalla Corte sostenendo che estendere le garanzie dell’art. 15 ai dati esteriori della conversazione risulterebbe esagerato perché “annoverare il numero telefonico o l’indirizzo scritto sulla faccia esterna della lettera tra le espressioni psichiche della personalità […] sarebbe semplicemente grottesco”45. Tale tesi non ha avuto gran seguito dal momento che anche
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto modo di affermare che anche i dati esteriori, o semplicemente la scelta di contattare qualcuno, meritino una tutela della privacy, ravvisando in caso contrario una violazione dell’art. 8 comma 1 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.46
È necessario ora porre l’attenzione sul fatto che la Corte Costituzionale nella sentenza sopra richiamata, n.81/93, non si sia preoccupata della seconda parte della norma costituzionale, ossia quella in cui si prevede la riserva giurisdizionale al fine di poter limitare tali diritti. Il fatto che la Corte in questa pronuncia abbia taciuto al riguardo non può certo significare che nel caso dei tabulati debba ritenersi esclusa la riserva giurisdizionale.
Si sarebbe potuto pensare ad un contrasto proprio col comma 2 dell’art. 15 Cost perché non vi era una legge che disciplinasse il caso specifico. La Corte ha bypassato la questione sostenendo che “dal sistema del codice potevano già trarsi cautele sufficienti”47.
Si è cercato quindi uno strumento già presente nell’ordinamento che potesse rispondere bene alle esigenze del caso; inizialmente era stato
44 Cfr. D. POTETTI, Corte Costituzionale n.81/93: la forza espansiva della tutela
accordata dall’art. 15 comma 1 della Costituzione, in Cassazione Penale 1993, pp. 2746 ss.
45 A. CAMON, Sulla inutilizzabilità nel processo penale dei tabulati relativi al traffico
telefonico degli apparecchi ‘cellulari’, acquisiti dalla polizia senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in Cassazione Penale 1996, p. 3722.
46 Vedi, A. CAMON, op. ult. cit., p. 3722. 47 A.CAMON, op. ult. cit., p.3724.
35
proposto l’art 256 c.p.p. il quale però non risolverebbe il problema nel complesso ma solo una parte di esso, questo perché tale norma si riferisce ai depositari del segreto d’ufficio. Esclusa la possibilità di estendere la disciplina prevista dall’art. 256 c.p.p. anche ai tabulati telefonici, si è pensato all’art. 254 c.p.p. che disciplina invece il sequestro di corrispondenza48: tra questo e l’acquisizione dei tabulati vi è la stessa idea di fondo, ossia il sacrificio del diritto alla segretezza e l’immissione nel procedimento di un atto formatosi al di fuori dello stesso.
Nei casi in cui dovesse mancare il provvedimento dell’autorità giudiziaria la sanzione a cui andranno incontro i tabulati sarà quella dell’inutilizzabilità; la Corte Costituzionale ha chiarito che “se il sistema del codice permettesse di usare nel processo prove acquisite con una illegittima compressione dei diritti inviolabili del cittadino (artt. 13, 14, 15 Cost) si porrebbe in contrasto con la Carte fondamentale; e nel dubbio […] la legge ordinaria deve essere interpretata in conformità alla Costituzione”49.
Come già accennato non sono mancati ‘momenti di confusione’ a livello giurisprudenziale, chiaramente dovuti alla mancanza di una disciplina di base.
Infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 199850 “hanno
escogitato una soluzione interpretativa notevolmente ‘creativa’, ma ben presto sconfessata dalla Corte costituzionale che, pressoché
48Il sequestro dei tabulati è un sequestro anomalo in quanto non permette di conoscere
il contenuto della conversazione né la interrompe intervenendo a conversazione già conclusa. V. Cassazione Penale 3/1996, p. 3725.
49 A. CAMON, Sulla inutilizzabilità nel processo penale dei tabulati relativi al traffico
telefonico degli apparecchi ‘cellulari’, acquisiti dalla polizia senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in Cassazione Penale 3/1996, p.3728.
36
contestualmente51, avrebbe portato ordine sulla tematica con una pronuncia consolidatrice dei principi esposti nel 1993”52.
Nella sentenza delle Sezioni Unite era stata dedotta l’inutilizzabilità dei tabulati telefonici acquisiti, in quanto l’acquisizione era avvenuta senza l’autorizzazione motivata dell’autorità giudiziaria. La questione viene rimessa alle Sezioni Unite per via del contrasto giurisprudenziale generato sul punto.
Le Sezioni Unite ritengono che il tabulato telefonico sia inutilizzabile nel caso di specie perché assunto su iniziativa dell’autorità giudiziaria. Per arrivare a tale conclusione la Corte fa un’analisi prima delle varie contraddizioni avutesi in giurisprudenza e poi ragiona sulla sentenza della Corte Costituzionale del 1993 n. 81, disattendendo l’orientamento qui assunto.53 Le Sezioni Unite ritengono che alla luce delle novità introdotte dalla legge 23 dicembre 1993 n. 54754 il quadro di tutela di acquisizione dei tabulati stilato dalla Corte Costituzionale nel 1993 possa ritenersi completo poiché questa novella legislativa avrebbe esteso il quadro di garanzie riservato fino ad allora al solo contenuto anche a tutti i dati informatici in movimento tra i dispositivi, in virtù dell’art. 266 bis c.p.p. . L’art. 268 c.p.p. invece al comma 7 conferisce al giudice il dovere di disporre “la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, osservando le forme, i modi e le garanzie previsti per l’espletamento delle perizie. Le trascrizioni e le stampe sono inserite nel fascicolo per il dibattimento”.
“Sicché l’acquisizione del tabulato, rappresentando un momento del trattamento dei dati, non può che soggiacere alla stessa disciplina quanto
51 In quanto il deposito di tale pronuncia ha preceduto di solo quattro giorni quello
della sentenza della Corte costituzionale del 17 luglio 1998 n. 281.
52 M. RICCIARDI, Dati esteriori delle comunicazioni e tabulati di traffico, in Diritto
Penale Contemporaneo 3/2016, p. 162.
53 Cfr. Cassazione Sez. Un., 13 luglio 1998, Gallieri, in Cassazione Penale 1999, pp.
465 ss.
54 Che ha comportato l’introduzione nel codice dell’art. 266 bis c.p.p. , riguardante le
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a garanzie di segretezza e di libertà delle comunicazioni, a mezzo di sistemi informatici.”55 Quanto appena affermato vale ovviamente anche
in relazione all’art. 271 c.p.p. contenente i divieti di utilizzazione ed in particolar modo, per quanto a noi interessa, quello che discende dalla mancanza del decreto motivato.
La ricostruzione fatta dalla Corte nasce da un equivoco di non poco momento, ossia l’aver equiparato “le comunicazioni informatizzate” (artt.266 ss.) con “l’informatizzazione dei dati estranei al contenuto riservato delle comunicazioni telefoniche”.56
Dopo una simile pronuncia in un panorama che già di per sé era poco chiaro non poteva non intervenire nuovamente la Corte Costituzionale al fine di ristabilire una sorta di ordine generale.
Nella sentenza del 17 luglio 1998 n. 281, oltre a ribadire che la disciplina dei tabulati è ricavabile dall’art. 256 c.p.p., la Corte costituzionale, sostiene che “fermo restando che il ‘livello minimo di garanzie’ enunciato nella sentenza n. 81 del 1993 (requisito soggettivo della autorizzazione della autorità giudiziaria e oggettivo della sussistenza di una adeguata motivazione del provvedimento) risulta allo stato rispettato per l’aspetto specificamente dedotto dalla autorizzazione del pubblico ministero alla acquisizione dei tabulati, è peraltro auspicabile che il legislatore provveda a disciplinare in modo organico l’acquisizione e l’utilizzazione della documentazione relativa al traffico telefonico, in funzione della specificità di questo particolare mezzo di ricerca della prova, che non trova compiuto sviluppo normativo nella disciplina generale prevista dal codice in tema di dovere di esibizione di atti e documenti di sequestro”57.
55 Cfr. Cassazione Sez. Un., 13 luglio 1998, Gallieri, in Cassazione Penale 1999, p.
472.
56 Cfr. G. MELILLO, L’acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico fra
limiti normativi ed equivoci giurisprudenziali, in Cassazione Penale 1999, p. 480; M. RICCIARDI, Dati esteriori delle comunicazioni e tabulati di traffico, in Diritto Penale Contemporaneo 2016, p. 163