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Il fondamento democratico della revoca del mandato rappresentativo

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Academic year: 2021

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DOTTORATO DI RICERCA IN

STORIA CULTURE CIVILTÀ

Ciclo XXIX

Settore Concorsuale di afferenza: 14/B1 STORIA DELLE DOTTRINE E DELLE ISTITUZIONI POLITICHE

Settore Scientifico disciplinare: SPS/03 STORIA DELLE ISTITUZIONI POLITICHE

TITOLO TESI

EL FUNDAMENTO DEMOCRÁTICO DE LA REVOCACIÓN DEL MANDATO REPRESENTATIVO

Presentata da: HÉCTOR ÁLVAREZ GARCÍA

Coordinatore Dottorato Relatore

MASSIMO MONTANARI BERARDO PIO

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A todos los que han sido aherrojados y aún continúan siéndolo por la insania totalitaria

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INDICE

RINGRAZIAMENTI………7

RIASSUNTO……….9

INTRODUZIONE………..19

1. LA LEGITTIMITÀ MONARCHICO-DIVINA DEL POTERE POLITICO: PRINCEPS MAIOR POPULO……….23

1. La Lex Regia………..……….23

2. La dottrina ierocratica………..………..32

3. La giustizia e la potestà legislativa ………...………...…48

4. I Concili della Monarchia visigota……….…………..…….………..57

5. L’origine del Parlamento in Europa………...64

6. La rappresentanza politica nell’Antico Regime……...………...….………67

2. LA LEGITTIMITÀ POPOLARE DEL POTERE POLITICO (I): POPULUS MAIOR PRINCIPE………....87

1. Bartolo da Sassoferrato………..………87

2. Consuetudine vs legge………..………100

3. Marsilio da Padova………..………110

3.1 La legge umana e la legge divina………112

3.2. Il legislatore popolare……….…………...…116

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3. LA LEGITTIMITÀ POPOLARE DEL POTERE POLITICO (II): LA

DOTTRINA CATTOLICA DEL CONTRATTO SOCIALE….………...131

1. Aristotele……….………....131

2. San Tommaso d’Aquino………..137

3. La Scuola di Salamanca………145

4. LA LEGITTIMITÀ POPOLARE DEL POTERE POLITICO (III): LA TEORIA SECOLARE DEL CONTRATTO SOCIALE…...…….………167

1. Concetto e contestualizzazione………..…….……….167

2. Locke e Rousseau……….…………...174

3. Sieyès: il fondamento democratico del governo rappresentativo…….….205

4. Condorcet: la democrazia rappresentativa……….……...223

5. Il costituzionalismo giacobino………..………..…….…….228

CONCLUSIONI………..………..….233

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AGRADECIMIENTOS

Quiero expresar mi profundo agradecimiento a don Gil Álvarez de Albornoz, fundador del Real Colegio de España en Bolonia, porque gracias a su infinita generosidad cientos de jóvenes españoles hemos podido cursar gratuitamente los estudios de doctorado en la Universidad de Bolonia y vivir una experiencia única e inolvidable en el Colegio de España.

Quiero dedicar unas afectuosas palabras al egregio humanista, José Guillermo García-Valdecasas y Andrada-Valderwilde, Rector del Real Colegio de España, por transmitirnos en sus enseñanas cotidianas una luminosa filosofía de la vida que me acompañará siempre.

Y, finalmente, quiero manifestar también mi gratitud al Patronato del Real Colegio de España por haberme concedido la beca.

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RESUMEN

Ogni ricercatore che inizia a studiare un argomento con metodo scientifico in vista della pubblicazione dei risultati del suo lavoro dovrebbe tenere a mente che “l’opera di carità più necessaria del nostro tempo è quella di non pubblicare libri superflui”. Questa citazione di Ortega y Gasset, importante filosofo spagnolo, dovrebbe indurci a riflettere sulle ragioni che ci spingono a scrivere, per valutare oggettivamente l’utilità della nostra ricerca, perché “sforzi inutili portano alla malinconia” (Ortega y Gasset) e dovrebbe spingerci anche ad indicare con chiarezza gli obiettivi che intendiamo raggiungere. In ultima analisi, il nostro compito è quello di produrre un evidente beneficio per i lettori che impiegano il loro tempo e le loro energie per leggere attentamente la nostra ricerca con la speranza ragionevole di aumentare e approfondire le proprie conoscenze.

Perché una tesi dottorale sul mandato rappresentativo? Per la sfiducia verso il potere. Il potere –qualunque sia l’orientamento ideologico– deve suscitare sempre il sospetto del cittadino perché, come avvertiva Lord Acton, “il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Per questo, c’è bisogno di introdurre nella struttura costituzionale dello Stato istituzioni popolari di controllo politico, come la revoca e la rendicontazione, per restringere la venalità dei governanti e controllare la correttezza del loro operato.

Perché una ricerca sulla revoca? Non sto scoprendo il Mediterraneo con questa istituzione, perché da tanti anni essa è riconosciuta negli ordinamenti costituzionali di numerosi paesi latinoamericani e di alcuni stati nordamericani. Tuttavia, nel costituzionalismo europeo, fatta eccezione per la Svizzera, essa è inedita. Perché? Posso intuire una risposta politica: la partitocrazia non è interessata a stabilire un diritto che riconosca delle disposizioni di controllo popolare della sua gestione della cosa pubblica; e una risposta costituzionale:

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negli stati europei il principio rappresentativo, di origine liberale-borghese, prevale ancora sul principio democratico.

Colpisce il fatto che nel Vecchio Continente questo istituto democratico non abbia incontrato un significativo interesse accademico, mentre in America latina sono abbondanti le ricerche scientifiche su questo diritto fondamentale di partecipazione alla vita pubblica.

Tuttavia, sono convinto che la revoca possa incontrare l’interesse dei citadini europei, molto preoccupati per la corruzione istituzionalizzata dei poteri pubblici e sfiduciati perchè il sistema politico non offre delle risposte definitive per sradicarla. Ovvero, non esistono istituzioni che controllano e proteggono in maniera efficace il popolo dal potere dei suoi rappresentanti, la cui attività, dispiegata negli incarichi pubblici, assomiglia a volte più a quella dei membri di organizzazioni mafiose che a quella dei rappresentanti del popolo.

La revoca è un diritto politico fondamentale, incorporato nel principio democratico, perché i poteri o le funzioni che essa conferisce integrano lo status giurico-politico del cittadino in quanto regolano la partecipazione popolare alla vita pubblica, in particolare riguardo il controlo e la responsabilizzazione politica dei rappresentati pubblici.

Come si può vedere dalla lettura dell’indice di questa tesi dottorale, questa ricerca copre un periodo molto lungo di storia delle idee politiche – dalla Lex Regia dell’epoca imperiale romana alla filosofia politica rivoluzionaria francese della seconda metà del secolo XVIII– un periodo che richiederebbe molti volumi di studi e analisi, impossibili da realizzare in occasione di una tesi dottorale. Il nostro obiettivo è più specifico: presentiamo una ipotesi –il fondamento democratico della revoca del mandato rapppresentativo– e

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cerchiamo di vedere se e come questo principio ha trovato spazio nella storia del pensiero politico europeo.

Il fondamento della revoca del mandato rappresentativo risiede nella sovranità popolare. Cosa implica questa affermazione? Primo: la revoca ha un´anima democratica e il suo non riconoscimento costituzionale comporta una restrizione della libertà politica, insostenibile in uno Stato democratico; secondo: l’istituzione revocatoria non è propria né esclusiva del mandato imperativo; terzo: il mandato rappresentativo non implica una trasmisione oppure un’alienazione né della titolarità né dell’esercizio della sovranità, ma soltanto la delega o l’affidamento dell’esercizio dei poteri pubblici.

Questa ricerca si propone di dare risposta a domande molto importanti della teoria demcratica: perchè il popolo è sovrano? Qual è l’origine del fondamento democratico della sovranità? Che cosa significa sovranità popolare? Bisogna partire da questa solida base per spiegare il significato e le implicazioni giuridiche e costituzionali del mandato rappresentativo. Infine, bisogna analizzare perchè la revoca del mandato rappresentativo è un requisito irrevocabile del principio democratico.

In questa tesi solcheremo la storia delle idee politiche, attraverseremo l’ideologia costituzionale, ci immergeremo nella teoria del diritto e daremo uno sguardo all’antropologia alla ricerca di argomenti che ci permettano di affermare, con rigore scientifico, che la revoca del mandato rappresentativo è inerente la sovranità del popolo, chiave di volta del costituzionalismo democratico.

La tesi è divisa in due parti, vale a dire, un primo capitolo che si occupa dello studio della concezione monarchico-divina del potere politico e una seconda parte, che abbraccia i tre capitoli che costituiscono la parte centrale della nostra ricerca e si occupano della legittimazione popolare del potere

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politico nei quali studiamo il pensiero politico di Bartolo da Sassoferrato e di Marsilio da Padova, della Scuola di Salamanca, di Locke, Rousseau, Sieyès, Condorcet e dei giacobini.

Cominciamo con la Lex Regia perché nella concezione di Ulpiano è racchiusa l’origine del principio democratico o della sovranità popolare: il popolo non aliena né trasferisce la titolarità della plenitudo potestatis quando designa un princeps, ma delega o attribuisce l’esercizio del potere pubblico e questa delega può essere revocata nel momento in cui il popolo lo ritiene opportuno. Tuttavia, questo principio fu corroto posteriormente dai giuristi al servizio di Giustiniano con l’intento di porre le fondamentare della dottrina politica assolutista.

La legittimazione monarchico-divina del potere deriva dall’adozione del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero Romano e dall’interpretazione giustinianea della Lex Regia: Dio conferisce la sovranità al popolo affinché la trasmetta o la alieni al princeps mediante un unico atto definitivo e irrevocable, cosicché il popolo non può più recuperarla, né alla morte del princeps né mediante l’istituto della revoca, e il monarca, a sua volta, la trasferisce direttamente per via ereditaria al suo succesore.

La dottrina politica ierocratica, caratterizzata da una concezione discendente del potere e del diritto –nulla potestas nisi a Deo–, è aliena dall’idea di rappresentanza: Dio non si rappresenta, nessuno può agire in suo nome, si possono solo adempiere le sue volontà. Il Supremo Creatore trasmette a un ufficio –quello del papa, successore di Pietro–, non a una persona concreta, la summa potestas affinchè governi il mondo temporale e spirituale secondo i precetti e i dogmi cristiani.

La dialettica ierocrazia versus cesaropapismo entrò in crisi alla fine del Medioevo quando si affermò in Europa il concetto di sovranità statale, frutto della rottura dell’unità della Cristianità –iniziata con il movimento nominalista

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e culminata con la Riforma protestante– che portò anche alla costituzione delle chiese nazionali –cuius regio eius religio–, che a loro volta hanno irrobustito definitivamente il potere politico-religioso del re-sovrano nel suo Stato a danno dell´autorità papale e di quella imperiale.

Uno dei momenti più importanti nella storia delle istituzioni parlamentari in Europa è rappresentato dalla curia regia riunita nella collegiata di San Isidoro di León (Spagna) dal giovane Alfonso IX nel suo primo anno di regno (1188). Questa assise, infatti, può essere letta come la prima riunione in area europea di un parlamento modernamente inteso perché per la prima volta incontriamo, insieme ai rappresentanti del mondo aristocratico ed ecclesiastico, i rappresentanti dello stato popolare.

La prova documentale di questo evento, molto importante nella storia del parlamentarismo europeo, sono i Decreta, approvati nella Corte di León, denominati la Carta Magna leonesa, e tesi ad istituire un nuovo modello politico fondato sulla partecipazione dei tre stati al governo del Regno di León, includendo in tal modo i rappresentanti delle città nel processo di adozione delle decisioni politiche: “Ego dominus Aldefonsus, Rex Legionis et Gallicie, cum celebrarem curiam apud Legionem cum archiepiscopo et episcopis et magnatibus regni mei, et cum electis civibus ex singulis civitatibus”.

I Decreta sono una serie di diciasette norme giuridiche promulgate da Alfonso IX per proteggere i sudditi dall’arbitrarietà del potere degli aristocratici e mettere fine alla grave violenza diffusa nel Regno. Sono giunti fino a noi –insieme con altri testi giuridici– grazie al lavoro dei giuristi, interesati alla loro conservazione per via della loro funzione di tecnici del Diritto, che li hanno raccolti nel Liber Iudiciorum.

La partecipazione del terzo stato alle assemblee del Regno di León costituisce un fatto molto rilevante nella storia delle libertà politiche del Vecchio Continente perché ha prodotto l’emancipazione del popolo che da

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soggetto pasivo e semplice recettore delle politiche e delle decisioni adottate dagli esponenti principali delle gerarchie sociali si trasformò in attore abilitato ad esprimere la propria posizione politica, capace quindi di incidere sulle decisioni del governo regio.

Nel secondo capitolo ho preso in esame la dottrina giuridica della sovranità popolare di Bartolo da Sassoferrato, racchiusa nel principio “civitas superiorem non recognoscens est sibi princeps”. Per il giurista perugino il governo della città si concentra nel Concilium, Adunantia oppure Parlamentum, che rappresenta tutti i cittadini ed ha sia il compito di approvare leggi che procurino il bene comune sia quello di scegliere i principali magistrati del governo cittadino.

Il Consiglio rappresenta lo spirito o coscienza dei cittadini: “Concilium repraesentat mentem populi” (Sassoferato), ma il popolo non aliena la sua sovranità –“populus numquam moritur”, dirà Baldo degli Ubaldi– soltanto delega l’sercizio del potere legislativo mediante una traditio imperii, secondo la procedura racchiusa nella Lex Regia.

Il populus è il sovrano, la fonte materiale del diritto consuetudinario, dunque può derogare per desuetudine (desuetudo) ovvero non applicazione delle norme approvate dal Concilium; inoltre, il popolo conserva la facoltà di revoca o modifica dei poteri pubblici concessi ai membri del Parlamentum: “populus (…) potest potestatem imperatores revocare et etiam degradare” (Sassoferrato).

Nello stesso capitolo si riflette sul secolare conflitto giuridico e sociale tra la consuetudine e la legge. A partire dal Medioevo e fino alla fine dell’Antico Regime, si mantenne nell’Europa continentale una forte disputa dialettica e sociale tra la sovranità della consuetudine (sovranità popolare) e la sovranità della legge (sovranità personale del monarca), una disputa che metteva in questione la titolarità della sovranità. Questo conflitto fu risolto con la

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Rivoluzione francese, che affermò la supremazia normativa della legge e la sovranità del Parlamento.

Sul finire del capitolo si prende in esame la teoria democratica di Marsilio di Padova, una teoria republicana, laica e razionale. Infatti, per Marsilio il popolo è il legislatore perché ciò che riguarda tutti deve essere decisso da tutti i cittadini e non da un individuo o da un grupo di individui. Il populus è il soggetto politico che approva le leggi migliori perchè tutti i cittadini sono interesati a formulare quelle leggi che procurano il bene comune, l’utilità pubblica, e che garantiscono nel miglior modo possibile la libertà e l’efficacia delle norme.

I cittadini avranno una inclinazione naturale ad osservare le leggi se hanno partecipato alla loro elaborazione, se sono artifici delle leggi, perché il contenuto delle leggi stesse risponderà alla loro volontà. Diversamente, saranno contrari e ostili nei confronti delle disposizioni normative se chiamati ad essere semplici soggetti passivi e semplici ricettori della volontà di un dominus oppure di una assemble di notabili.

Nel terzo capitolo abbiamo studiato la teoria democratica della Scuola di Salamanca, denominata anche “Seconda Scolastica spagnola”, una corrente di pensiero teologico-politico e giuridico –sostanzialmente umanista– costituita dai Magni Hispani: Vitoria, Mariana, Suárez, Bartolomé de Las Casas, tra gli altri, che raggiunsero una notevole importanza nella speculazione europea dei secoli XVI e XVII per i loro apporti nel campo della teologia e della filosofia politica e giuridica, soprattutto su temi di primaria importanza: l’origine del diritto internazionale, i principi dei diritti umani, la cui impronta arriverà alle prime dichiarazioni di diritti, e la concezione moderna della sovranità, fondata sul razionalismo politico.

L’origine dello Stato per la teoria laica del contratto sociale è puramente convenzionale, risultato del concerto delle volontà dei singoli. Mentre per la

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dottrina cattolica del contratto sociale –elaborata dalla Scuola di Salamanca– lo Stato è l´effetto simultaneo di due cause: in primo luogo la legge naturale, trascrizione della divina e, di conseguenza, neccesaria e immutabile; in secondo luogo un fattore storico contingente, la volontà umana ovvero il consenso.

La teoria dello Stato della Scuola di Salamanca afferma che la comunità riceve da Dio il potere politico e dopo decide se esercitarlo per se o se trasferirlo con limitazioni precise a un re oppure a un’assembla di notabili; quindi la comunità può avocare a se stessa l’esercitizio della sovranità. Questo implica il fatto che il popolo conserva una riserva latente di potere, riserva che lo abilita a revocare la sua concessione, in tutto o in parte, quando concorra una qualsiasi delle circostanze stabilite nel pactum subiectionis, la cui funzione è limitare il potere regio.

La dottrina politica della Scuola di Salamanca è formalmente democratica perché le leggi approvate dall’autorità costituita non esprimono la soggettiva e congiunturale volontà generale del popolo, giacché questa è obbiettiva e atemporale: il bene comune, dunque il suo contenuto sostanziale non è frutto della deliberazione ma riflesso della legge divina e, di conseguenza, universalmente conosciuto grazie alla ragione.

La concretezza e la precisione della sovranità popolare, del diritto di revoca della forma di governo e dei governanti e il diritto di resistenza dei popoli contro il potere tirannico, che trovano le loro radici dottrinali nella Prima Scolastica, costituiscono i contributi più significativi apportati dalla Scuola di Salamanca al razionalismo politico europeo dei secoli XVII e XVIII.

La teoria contrattualista laica è figlia della Riforma protestante e della Rivoluzione scientifica. Propugna un paradigma politico di carattere individualista e convezionale e, quindi, artificiale della società politica, perché più coerente con la natura umana, analizzata dalla ragione.

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Lo Stato non è nella natura umana, ma è una struttura di potere creata dalla volontà umana –accordo sociale– con l’obiettivo di procurare la felicità ai cittadini mediante la garanzia dei diritti. Lo Stato, quindi, è uno strumento al servizio della dimensione teleologica dell’uomo, che mostra la superiorità dell’individuo sulla società politica: le parti sono superiori al tutto.

Il razionalismo fu rivoluzionario: sostituì il paradigma aristotelico dell’uomo come essere sociale e politico con quello cartesiano dell’essere razionale (cogito ergo sum); detronizzò il Dio personale del cristianesimo (giusnaturalismo teologico) innalzando il dio della Ragione (giusnaturalismo razionalista); sostituì la teologia con la scienza e insieme con la dottrina protestante innalzò la libertà di pensiero –“osez penser par vous même” (Voltaire)– e la volontà umana, per secoli limitate dalla sottomissione delle coscienze alle credenze religiose ataviche e al principio di autorità degli antichi.

Nell’ultimo capitolo esponiamo le caratteritiche delle due correnti dottrinali che costituiscono l’ossatura dell’ideologia liberale: il liberalismo “whig” oppure “lockiano” e il liberalismo roussoiano. Il primo apportò i principi politici e giuridici del primo costituzionalismo europeo e americano: la sovranità nazionale, il mandato rappresentativo, l’eguaglianza formale (davanti alle leggi), la divisione dei poteri, il principio di legalità e il suffragio come funzione sociale; il secondo racchiude le caratteristiche del costituzionalismo democratico: il suffragio come diritto (universale), l’eguaglianza materiale (reale ed effetiva) e i diritti sociali.

Il mandato rappresentativo implica che il deputato rappresenta la Nazione, che egli sia l’interprete della volontà generale, che abbia libertà di espressione e di voto in Parlamento e che le leggi siano di portata generale.

La legge è un prodotto giuridico razionale perché la volontà generale non è una imposizione autoritaria, né è oggettiva o atemporale, ma è soggettiva, volubile e congiunturale, così la sua conoscenza o scoperta richiede

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un proceso deliberativo in cui si mettono a confronto le idee di tutti i deputati, riflesso delle opinioni dei cittadini, il cui risultato dialettico deve essere l’approvazione di leggi giuste.

La democrazia rappresentativa è frutto della trasformazione concettuale della democrazia operata da Condorcet. Dall’essere una contradictio in terminis, essa è diventata una forma politica ibrida grazie alla quale il principio democratico ha avuto una maggiore penetrazione nella struttura costituzionale dello Stato. La rappresentanza nazionale è deliberativa: i cittadini approvano o no i progetti costituzionali e normativi elaborati dal Parlamento; il suffraggio è un diritto universale e la revoca e la rendicontazione sono istituti di controlo politico della legislatura, conseguenza naturale della attitudine del popolo a giudicare pienamente la funzione pubblica rappresentativa.

L’alienazione della sovranità da parte del popolo a favore dei rappresentati politici attraverso l’istituzione del mandato rappresentativo fu una gravissima distorsione del sistema rappresentativo introdotta dai deputati monarchici nella Costituzione francese del 1791, che istituì la sovranità del Parlamento: una forma di dispotismo aristocratico, caratterizzato dal divorzio tra il potere legislativo e la Nazione, che consente ai deputati di non esprimere nella legge l’opinione pubblica ma di presentarsi come creatori della volontà generale.

L’ideologia costituzionale ha corrotto il concetto di democrazia rappresentativa coniato da Condorcet. Questa denominazione si attribuisce oggi al sistema rappresentativo partitocratico –democrazia dei partiti–, vigente nell’Europa e caratterizzato dalla predominanza del principio rappresentativo sul principio democratico. Questa deformazione è stata perpetrata mediante la legittimazione della sovranità rappresentativa come unica via possibile e praticabile e la conseguente condanna della via democratica come illusoria o utopica.

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INTRODUCCIÓN

Ogni ricercatore che inizia a studiare un argomento con metodo scientifico in vista della pubblicazione dei risultati del suo lavoro dovrebbe tenere a mente che “l’opera di carità più necessaria del nostro tempo è quella di non pubblicare libri superflui”. Questa citazione di Ortega y Gasset dovrebbe indurci a riflettere sulle ragioni che ci spingono a scrivere, per valutare oggettivamente l’utilità della nostra ricerca, perché “sforzi inutili portano alla malinconia” (Ortega y Gasset) e dovrebbe spingerci anche ad indicare con chiarezza gli obiettivi che intendiamo raggiungere. In ultima analisi, il nostro compito è quello di produrre un evidente beneficio per i lettori che impiegano il loro tempo e le loro energie per leggere attentamente la nostra ricerca con la speranza ragionevole di aumentare e approfondire le proprie conoscenze.

Perché una tesi dottorale sul mandato rappresentativo? Per la sfiducia verso il potere. Il potere –qualunque sia l’orientamento ideologico– deve suscitare sempre il sospetto del cittadino perché, come avvertiva Lord Acton, “il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Per questo, c’è bisogno di introdurre nella struttura costituzionale dello Stato istituzioni populari di controllo politico, come la revoca e la rendicontazione, per restringere la venalità dei governanti.

Perché una ricerca sulla revoca? Non sto scoprendo il Mediterraneo con questa istituzione, perché da tanti anni essa è riconosciuta negli ordinamenti costituzionali di numerosi paesi latinoamericani e di alcuni stati nordamericani. Tuttavia, nel costituzionalismo europeo, fatta eccezione per la Svizzera, essa è inedita. Perché? Posso intuire una risposta politica: la partitocrazia non è interessata a stabilire un diritto che riconosca delle disposizioni di controllo popolare della sua gestione della cosa pubblica; e una risposta costituzionale:

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negli stati europei il principio rappresentativo, di origine liberale-borghese, prevale ancora sul principio democratico.

Colpisce il fatto che nel Vecchio Continente questa istituzione democratica non abbia incontrato un significativo interesse accademico, mentre nell’America latina sono abbondanti le ricerche scientifiche su questo diritto fondamentale di partecipazione alla vita pubblica.

Tuttavia, sono convinto che la revoca incontra l’interesse dei citadini europei, molto preoccupati per la corruzione istituzionalizzata dei poteri pubblici e sfiduciati perchè il sistema politico non offre delle risposte definitive per sradicarla. Ovvero, non esistono istituzioni che controllano e proteggono in maniera efficace il popolo dal potere dei suoi rappresentanti, la cui attività, dispiegata negli incarichi pubblici, assomiglia a volte più a quella dei membri di organizzazioni mafiose che a quella dei rappresentanti del popolo.

La revoca è un diritto politico fondamentale, incorporato nel principio democratico, perché i poteri o le funzioni che essa conferisce integrano lo status guirico-politico del cittadino in quanto regolano la partecipazione popolare alla vita pubblica, in particolare riguardo il controlo e la responsabilizzazione politica dei rappresentati pubblici.

Come si può vedere dalla lettura dell’indice di questa tesi dottorale, questa ricerca copre un periodo molto lungo di storia delle idee politiche – dalla Lex Regia dell’epoca imperiale romana alla filosofia politica rivoluzionaria francese della seconda metà del secolo XVIII– un periodo che richiederebbe molti volumi di studi e analisi, impossibili da realizzare in occasione di una tesi dottorale. Il nostro obiettivo è più specifico: presentiamo una ipotesi –il fondamento democratico della revoca del mandato rapppresentativo– e

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cerchiamo di vedere se e come questo principio ha trovato spazio nella storia del pensiero politico europeo.

Il fondamento della revoca del mandato rappresentativo risiede nella sovranità popolare. Cosa implica questa affermazione? Primo: la revoca ha un´anima democratica e il suo non riconoscimento costituzionale comporta una restrizione della libertà politica, insostenibile in uno Stato democratico; secondo: l’istituzione revocatoria non è propria né esclusiva del mandato imperativo; terzo: il mandato rappresentativo non implica una trasmisione oppure un’alienazione né della titolarità né dell’esercizio della sovranità, ma soltanto la delega o l’affidamento dell’esercizio dei poteri pubblici.

Questa ricerca si propone di dare risposta a domande molto importanti della teoria demcratica: perchè il popolo è sovrano? Qual è l´origine del fondamento democratico della sovranità? Che cosa significa sovranità popolare? Bisogna partire da questa solida base per spiegare il significato e le implicazioni guiridiche e costituzionali del mandato rappresentativo. Infine, bisogna analizzare perchè la revoca del mandato rappresentativo è un requisito irrevocabile del principio democratico.

La tesi è divisa in due parti, vale a dire, un primo capitolo che si occupa dello studio della concezione monarchico-divina del potere politico e una seconda parte, che abbraccia i tre capitoli che costituiscono la parte centrale della nostra ricerca e si occupano della legittimazione popolare del potere politico nei quali studiamo il pensiero politico di Bartolo da Sassoferrato e di Marsilio da Padova, della Scuola di Salamanca, di Locke, Rousseau, Sieyès, Condorcet e dei giacobini.

Nei quatro capitoli di questa tesi solcheremo la storia delle idee politiche, attraverseremo l’ideologia costituzionale, ci immergeremo nella teoria del diritto e daremo uno sguardo all’antropologia alla ricerca di argomenti che ci

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permettano di affermare, con rigore scientifico, che la revoca del mandato rappresentativo è inerente la sovranità del popolo, chiave di volta del costituzionalismo democratico.

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CAPÍTULO PRIMERO

LA LEGITIMIDAD MONÁRQUICO-DIVINA DEL PODER POLÍTICO: PRINCEPS MAIOR POPULUS

SUMARIO. 1. La Lex Regia. 2. La doctrina hierocrática. 3. La justicia y la potestad legislativa. 4. Los Concilios de la Monarquía visigoda. 5. El origen del Parlamento en Europa. 6. La representación política en el Antiguo Régimen.

1. La Lex Regia

La Roma republicana era asamblearia a pesar de los vastos territorios sometidos a su dominio y de la miríada de personas a las que le había concedido la ciudadanía. Los ciudadanos del Impero romano siempre participaron directamente –no concibieron la idea de representación política– en la toma de decisiones públicas en los comicios celebrados exclusivamente en la Ciudad eterna.

“El Estado romano es una democracia, bien que aristocrática. El pueblo –populus– decide, mediante elecciones periódicas, de los destinos nacionales. El campesinado viene a votar a la ciudad, en persona. Perfectamente. ¡El ideal de la democracia! Pero he aquí que Roma conquista el Lazio. Al cabo de poco tiempo, y a fin de asegurar la solidaridad de los latinos, les otorga la ciudadanía. Ya tenemos con esto la primera incongruencia entre la forma política romana y la realidad social bajo ella. Porque el Lacio no es ya la franja rural entorno a la urbe. Es una ancha provincia. ¿Cómo pretender que los ciudadanos latinos vengan a votar a la ciudad? Invitablemente

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empieza a crearse un número de electores profesionales que suplantan la voluntad ausente de los más lejanos. La urbe propiamente tal ha crecido. Se ha formado en ella una plebe numerosa que formará el material votante sobre el cual van a ejercer sus manejos los inquietos, los ambiciosos, los díscolos. Pero he aquí que Roma conquista toda Italia. Los italiotas –como en un tiempo los latinos– aparecen primero bajo la especie de aliados. Eso quiere decir que soportan todas las cargas y no tienen casi ningún derecho. (…) después concede Roma de buen grado a los italiotas los plenos derechos civiles. Pero ¿cómo unos y otros no advierten el carácter ilusorio de éstos? ¿Cómo iban a votar en Roma electores tan distantes? Italia está ya hecha. Es un cuerpo enorme: pero se sigue queriendo que venga a votar a la plazuela (…) Parece inconcebible que no viniera a la mente del romano una idea tan simple, para nosotros tan obvia, que desde sus comienzos, como la cosa más natural del mundo, existió en las naciones europeas: la idea de representación política. La porción ausente y lejana de la sociedad puede estar presente de una manera virtual, sin más que elegir un representante de ella. Para poseer tal idea basta con ejecutar una sencilla abstracción y advertir que la voluntad de un ser puede actuar donde no llegue su cuerpo. Si el romano no arriba a ella es simplemente porque era incapaz de esta abstracción”1.

El desmoronamiento de la República se debió a la severa dificultad de continuar gobernando el extenso y complejo Imperio por medio de un gobierno popular. Así, pues, el advenimiento del Principado se debió esencialmente a razones de pragmatismo político –mejorar el gobierno imperial mediante la centralización del poder– y no a una voluntad del pueblo romano de transferir su soberanía a Augusto y convertirse en esclavo de su nuevo señor2.

“STORICO. Ecco, con la chiarissima testimonianza del tuo Pomponio, che il Principato non fu costituito come il dominio di un signore, né in virtù del Principe stesso, cioè per lo stesso Principe, ma per amministrare la Repubblica nel migliore dei modi; il problematico accordo tra un popolo numeroso portò ad affidare questo incarico a pochi, cioè agli anziani.

Ancor più spesso questa stessa difficoltà a costringervi il Senato – quando già l’impero era esteso e sorgevano dappertutto incombenze pubbliche– aprì la strada al Principato; dunque, dapprima, per ben

1 ORTEGA Y GASSET, J., “Sobre la muerte de Roma (III)”, El Sol, 2-IX-1926.

2 “STORICO. (…) La parola “signore” fu sempre la più odiata, a Roma: infatti, come non vi è padre senza figlio, così non vi è signore senza schiavo; se il Principe fosse signore del mondo, di certo il Popolo Romano sarebbe schiavo del proprio Principe” (SALAMONE, M., De Principatu, VI).

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governare la Repubblica, si ricorse al Senato, cioè al governo degli ottimati; poi, per una amministrazione più agevole, si associò il Principato di un solo uomo: si dice che si ocupa della Repubblica una sola persona, e non che questa subisce una dominazione”3.

¿Por qué el pueblo romano no concibió el gobierno representativo? La respuesta hay que buscarla en su concepción de la libertad y de la autorealización personal, comunes no sólo al populus romanus sino también al ateniense. La libertad de los antiguos “consistía en ejercer colectiva pero directamente varios aspectos incluidos en la soberanía: deliberar en la plaza pública sobre la guerra y la paz, celebrar alianzas con los extranjeros, votar las leyes, pronunciar sentencias, controlar la gestión de los magistrados, hacerles comparecer delante de todo el pueblo, acusarles, condenarles o absolverles (…) además admitían como compatible con esta libertad colectiva, la sujeción completa del individuo a la autoridad del conjunto”4.

La categoría de las libertades civiles individuales era desconocida en la Antigüedad. No había resquicio para la autonomía personal, nada se sustraía a la ley, expresión de la irrestricta autoridad del pueblo. El ciudadano no estaba domeñado por un tirano o un cuerpo oligárquico sino que se sujetaba de forma inquebrantable a la tiranía popular: esclavo de sí mismo.

“Los hombres no eran, por decirlo así, sino máquinas cuyos resortes y engranajes eran regulados por la ley. La misma sujeción caracterizaba los hermosos siglos de la república romana; el individuo, de algún modo, se había perdido en la nación, el ciudadano en la ciudad”5.

¿Por qué la felicidad de los antiguos se cifraba en la libertad política, en ejercer motu proprio los poderes soberanos? La respuesta nos la ofrece de nuevo Constant: “En la antigüedad, la parte que cada uno tomaba de la soberanía nacional no era, en absoluto, una suposición abstracta. La voluntad de cada

3 Ibidem, VI.

4 CONSTANT, B., “Sobre la libertad de los antiguos comparada con la de los modernos”, en Escritos Políticos, estudio preliminar, traducción y notas de María Luisa Sánchez Mejía, Madrid, 1997, p. 260.

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uno tenía una influencia; el ejercicio de esta voluntad era un placer vivo y respetado. En consecuencia, los antiguos estaban dispuestos a hacer muchos sacrificios para conservar sus derechos políticos y su parte en la administración del Estado. Cada uno, sintiendo con orgullo cuánto valía su sufragio, hallaba en esta conciencia de su importancia personal una amplia compensación”6.

El origen de la Lex Regia se encuenra en la Lex Titia del año 43 a. C, propuesta por un tribuno de la plebe y aprobada por el Concilium Plebis. Constituye el acta de defunción de la República porque revocó los poderes del Senado y de las asambleas populares para entregárselos a Octaviano, Lépido y Marco Antonio, nombrados Triunviri rei publicae constituendae.

Con la “lex de imperio o lex regis se denomina al procedimiento del Senado, aprobado por aclamación del pueblo, por el cual se acostumbró a conferir unitariamente a los sucesores de Augusto los varios poderes de los que él había gozado”7.

“Mediante la referida atribución formal [Lex Regia] se reconoció al príncipe no un poder único, sino una suma de poderes varios (…) que proceden de las magistraturas republicanas, de las que difieren en cuanto (…) se asientan en el príncipe, del que emanan y [carecer] de los límites que les eran connaturales (…). Hay una separación total de las categorías tradicionales, con la nueva creación del príncipe, que, aunque inserto en un orden jurídico constitucional que es el que le atribuye los poderes [lex regis], sin embargo, no lo convierte en magistrado, al menos en el sentido republicano del término.

(…)

Tal atribución de poderes constituyó para todo el principado el fundamento legal de la investidura del nuevo príncipe, aunque en realidad la elección efectiva de éste estaba ya preparada por el predecesor, que adoptaba y mostraba, asociándolo en todo o en parte al poder, al sucesor designado, o bien dependía de las distintas fuerzas sociales, políticas y sobre todo militares del imperio, las cuales en último extremo, aclamándolo como

6 Ibidem, p. 267.

7 BURDESE, A., Manual de Derecho Público Romano, Introducción, traducción y notas de Ángel Martínez Sarrión, Barcelona, 1972, p. 202.

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imperator a su candidato, anticipaban y determinaban su investidura por parte del Senado.

La necesidad de la atribución formal de poderes estaba sustentada por la idea misma del princeps, cuya suprema auctoritas no se concedía como patrimonio hereditario sino como posición de supremacía, de fondo moral o político, basada en sus méritos personales y generalmente reconocidos”8. La summa potestas que el populus romanus concedía singularmente a cada uno de los emperadores por medio de la Lex Regia9 no lo situaba fuera y por encima de la ciudad. No era el señor del pueblo romano sino un administrador cualificado de la civitas, un ministro o funcionario, cuyos poderes eran delegados y limitados.

“FILOSOFO. Perciò il Principe non è un signore, ma piuttosto un ministro, perché la dominazione e il Principato sono sistemi inconciliabili per natura; quindi Plinio nel Panegirico parlò di Traiano, dicendo che ricopre il posto di Principe perché non vi sia spazio per il signore; e lo stesso del divo Nerva: non ti presenterai come un signore ai tuoi schiavi ma come un Principe ai cittadini”10.

El populus romanus era la única fuente material del Derecho: “Lo que el pueblo ordena y ha establecido”11. Así, pues, la legitimidad de todos los productos normativos –fuentes formales del Derecho– residía en el consensus populi. Era el pueblo el que confería mediata –Lex Regia– o inmediatamente – costumbre– la autoridad legislativa a un texto articulado: constitutiones, decreta y

8 Ibidem, pp. 199 y 202-203.

9 “FILOSOFO. (…) Il primo paragrafo [legge regia di Vespasiano] indica che non fu promulgata una legge Regia unica per tutti gli Imperatori –come invece sosteneva il nostro Storico –, ma si resero inevitabili leggi per ogni Principe singolarmente, recanti gli accordi sui quali il Principato veniva conferito dal Popolo Romano. Infatti è evidente che al Divo Vespasiano fu concesso il potere di allargare il pomerio, come fu dato a Germanico, ma non agli altri Principi. E nel penultimo paragrafo –dove dice: sia concesso all’Imperatore Cesare Vespasiano Augusto fare tutto ciò che fu utile facessero, in forza di ogni legge e proposta di legge, il Divo Augusto, Tiberio Giulio Cesare Augusto, e Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico– fu dato a Vespasiano un potere più ampio rispetto ai sunnominati Imperatori, in quanto a loro tornò utile prendere quei provvedimenti che a Vespasiano, secondo la legge, non conveniva prendere” (SALAMONE, M., De principatu, VII).

10 Ibidem, VI.

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rescripta, o a determinadas conductas o comportamientos sociales reiterados en el tiempo. En efecto, la autoridad del emperador para aprobar normas jurídicas no era autógena sino heterógena, procedía del pueblo, al que estaba subordinado.

“FILOSOFO. Il Popolo, dal momento che lo elegge, è più importante del Principe appunto da esso creato: come ogni causa è maggiore del proprio effetto, così il diritto stesso, l’autorità, e il potere grazie ai quali viene creato il Principe, sono qualcosa di più importante del suo stesso Principato”12.

La plenitudo potestatis residía en el populus romanus13, sin embargo, para lograr una mayor eficacia en la gestión pública el pueblo aprobaba la Lex Regia, por medio de la cual designaba al emperador para que actúara en su nombre y establecía sus facultades y atribuciones, así como la forma en la que tenía que ejercerlas. Su poder, por tanto, estaba limitado por la Lex Regia y era inferior al del pueblo.

“FILOSOFO. La legge Regia, da chi si dice essere stata promulgata? GIURISTA. Dal Senato e dal Popolo Romano.

FILOSOFO. Dunque fu una legge del popolo. GIURISTA. Chi ne dubita?

FILOSOFO. Se la legge è del popolo e a quella è vincolato, allora è vincolato alla legge del popolo.

GIURISTA. Parli per sofismi: io dico che il Principe è sciolto dalla legge Regia, cioè, emanata appunto perché si sapesse che è sciolto dalle leggi. Stando così le cose, chi può essere vincolato a una disposizione che ti impone di esserne del tutto esente?

FILOSOFO. Rispondi, ti prego: proporre o meno quella legge fu una libera determinazione del popolo?

GIURISTA. Lo fu, certo.

FILOSOFO. E con quelle condizioni che fossero gradite al popolo? GIURISTA. Sì.

12 SALAMONE, M., De principatu, II.

13 “STORICO. Dunque il Popolo Romano si diede gli Imperatori non come signori, ma come difensori: e l’impero rimase sempre del Popolo Romano, non dei Cesari. Credo che almeno una volta noi tutti abbiamo visto l’arco di trionfo in marmo del divo Severo, che ancora svetta intatto ai piedi del Campidoglio, nella parte che guarda al Palatino, dove dopo le iscrizioni delle gloriose imprese, si trova scritto: «PER L’AMPLIAMENTO DELL’IMPERO DEL POPOLO ROMANO». Se fosse stato l’impero di Severo, non ci sarebbe scritto “del Popolo Romano” (ibidem, VI).

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FILOSOFO. Avrebbe potuto il Principe accingersi al comando a condizioni diverse da quelle prescritte dalla legge Regia?

GIURISTA. Nient’affatto.

FILOSOFO. Dunque il Principe obbedirà alle condizioni della legge Regia. GIURISTA. Senza dubbio, se non vuole porre in atto una tirannide.

FILOSOFO. Dunque il Principe è vincolato alla legge Regia e per questo del popolo.

TEOLOGO. Non si può negare, ammettilo.

GIURISTA. Va bene, è obbligato a quella soltanto”14.

El princeps estaba sometido a la Lex Regia: ley suprema o fundamental del ordenamiento jurídico imperial, y en caso de que la infrinjiera o de que concurriera cualquier otra justa causa podía ser revocado por el pueblo a través del Senado o del Tribunado de la plebe15. Así, pues, el populus romanus no le transfería su soberanía al príncipe, sino sólo el ejercicio, reteniendo la titularidad de la misma, lo que le faculta para deponerlo y recuperar las facultades concedidas.

“GIURISTA. Tra i nostri dottori vige quell’opinione per cui il popolo romano avrebbe potuto allontanare il Principe dalla Magistratura per una giusta causa. Ebene a proposito disse il nostro Baldo nei libri delle Risposte:

L’Imperatore può consegnare il potere supremo a un altro e così facendo non rinuncia a nulla di sé, perché l’onore del potere, come la sovranità, non lo può trasferire a un altro senza rimanere egli stesso superiore queste le affermazioni di Baldo apprezzate da

Caccialupo: dunque così il Popolo Romano consegnò al Principe il potere”16.

El jurisconsulto Ulpiano (s. II) formuló el contenido u objeto de la Lex Regia en el Libro Primero de sus Instituciones: “Quod principi placuit, legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat”, recogida posteriormente en el Digesto17. Se aprecia una clara resonancia republicana ya que la soberanía sigue residiendo en el pueblo, “giunge alla formulazione di una autorità personale ilimitata del

14 Ibidem, II.

15 SALAMONE, M. A., La idea del contrato social en Mario Salamone de Alberteschi: sus vínculos con

la escuela de salamanca y el constitucionalismo inglés, Madrid, 2005, (tesis doctoral), p. 217,

http://goo.gl/qhGCBX, fecha de consulta: 15-II-2015. 16 SALAMONE, M., De principatu, VI.

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princeps, fondata su un principio puramente democrático: il consenso del popolo (…) Ulpiano sembra parlare ancora di un conferimento di poteri (imperium e potestas) attuato, di volta in volta, in favore del nuevo principe; conseguentemente il popolo non si priva mai definitivamente della titolarità del potere”18.

“L´indirizzo democrático, che accena ad una mera concessio, temporale e revocabile dal popolo stesso che l´ha fatta, in ogni momento e luogo che creda opportuno”19.

Sin embargo, en las Institutiones de Justiniano se introduce interesadamente un matiz en la enunciación ulpiniana de la Lex Regia que trata de eclipsar la tradición constitucionalista del Estado romano20: concessit en lugar de conferat. Se cambia el verbo conferre por concedere y se modifica el tiempo presente por el pretérito, con lo que vira el modelo político hacia el absolutismo: “Quod principi placuit, legis habet vigorem, cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem concessit”21. Asimismo, en el Digesto (I, 3, 31) y en las Instituciones (I, 2, 6) se abona o robustece esta teoría absolutista del poder mediante la inserción de la celebérrima afirmación atribuida a Ulpiano “princeps legibus solutus est”.

“(…) le prerrogative del popolo romano sono state trasferite in passato nelle mani dell´imperatore, secondo un proceso di verticalizzazion del potere che porta il principe ad assumere una posizione assolutamente dominante”22.

18 PIO, B., “Considerazioni sulla “lex regia de imperio” (secoli XI-XIII)”, Scritti di storia

medievale offerti a Maria Consiglia de Matteis, Spoleto, 2011, p. 575.

19 BATTAGLIA, F., Marsilio di Padova e la filosofia politica del Medio Evo, Firenze, 1928, p. 69. 20 “La doctrina fundamental que subyace al estado romano, su verdadero espíritu guía, es el constitucionalismo, no el absolutismo (constitucionalismo que, aún en el siglo VI, no pudieron borrar de las fuentes legales los comisionados de Justiniano, a pesar de las órdenes del Emperador de poner al día dichas fuentes con añadidos, eliminaciones o cambios). (…) la influencia romana verdaderamente decisiva en la política europea posterior llegó, no con la tendencia absolutista de después del Renacimiento italiano, sino con el reforzamiento del constitucionalismo durante la época medieval” (HOWARD McILWAIN, C., Constitucionalismo antiguo y moderno, Madrid, 1991, pp. 78 y 79).

21 Instituciones, I, 2, 6. 22 PIO, B., op. cit., p. 576.

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“L´indirizzo assolutistico, il quale accenna ad una concessio una volta tanto e quindi ad una alienazione della sovranità dal popolo al principe, onde il primo non può riacquistarla”23.

La adopción de la religión de Cristo como la oficial del Imperio romano en el Edicto de Tesalónica (380) produjo la incorporación de los dogmas cristianos al derecho romano justinianeo en orden a formular una teoría teocrática y absolutista, inserta en el Corpus Iuris Civilis por medio de la Constitutio Deo auctore

“Gobernando, por obra de Dios, nuestro imperio, que nos fue entregado por la autoridad celestial, felizmente acabamos las guerras, honramos la paz y preservamos la prosperidad del Estado: y de tal modo apoyamos nuestros ánimos en el auxilio de Dios, que ni confiamos en las armas ni en nuestros soldados ni en los generales ni en nuestro ingenio, sino que remitimos toda esperanza a la sola providencia de la augusta Trinidad: de quien procedieron los elementos de todo el mundo y se produjo su disposición en el orbe de la tierra. (…) Pues habiendo sido trasferido por la antigua ley, que se llamaba regia, todo derecho y toda potestad del pueblo Romano a la potestad imperial24.

El absolutismo imperial socavó el inveterado poder del pueblo romano, con todo lo que ello significaba: transmisión irrevocable del poder, ausencia de mecanismos de control político y la degradación de los cives en subditi.

“Il ruolo del popolo romano viene inmediatamente annullato nell´automatismo di una translatio che vanifica ogni possibilità di esercizio del potere da parte del popolo (…) il trasferimento di potere in favore del principe sia avvenuto una volta per tutte e non necessiti di continue conferme popolari”25.

El concepto de Lex Regia es nuclear al objeto de nuestra investigación porque incide en la clave de bóveda de la ciencia del Estado: el origen o fundamento del poder político. De las dos nociones de la Lex Regia que hemos expuesto –Ulpiano y Justiniano– se derivaron dos doctrinas políticas

23 BATTAGLIA, F., op. cit., p. 69.

24 Traducción de Pedro E. León Mescua, http://goo.gl/0sdqRh, fecha de consulta: 30-VII-2014.

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antitéticas: una democrática –populus maior principe– y otra absolutista –princeps maior populo–.

2. La doctrina hierocrática

En los tiempos de la violencia y las persecuciones contra los cristianos en el Imperio Romano26, la primitiva Iglesia de Cristo preconizaba la libertad y la tolerancia religiosa en virtud del principio de separación entre el poder temporal y el espiritual: “Dad al César lo que es del César y a Dios lo que es de Dios”27.

Las comunidades cristianas se reunían clandestinamente en las catacumbas para escuchar el Evangelio y celebrar la Eucaristía “sin inmiscuirse para nada en las funciones de las magistraturas del Imperio, a las que los cristianos aprenden en los textos del Nuevo Testamento que deben estar sometidos y obedecer, pero a las que no se les reconoce función alguna en la vida interna de las comunidades. Y, por supuesto, los cristianos deben obedecer al emperador, pero no pueden adorarlo”28.

El respeto hacia el disidente religioso era pleno: tanto hacia aquéllos que profesaban un culto dispar, a los que no podía juzgar el cristiano por ser de otra confesión, difiriendo ese juicio a Dios, único Juez de los de fuera29;

26 “A todos aman y por todos son perseguidos. Se les desconoce y se les condena. Se les mata y en ello se les da la vida. Son pobres y enriquecen a muchos. Carecen de todo y abundan en todo. Son deshonrados y en las mismas deshonras son glorificados. Se les maldice y se les declara justos. Los vituperan y ellos bendicen. Se les injuria y ellos dan honra. Hacen bien y se les castiga como malhechores; condenados a muerte se alegran como si se les diera la vida. Los judíos los combaten como a extranjeros; son perseguidos por los griegos y, sin embargo, los mismos que los aborrecen no saben decir el motivo de su odio” (Carta a Diogneto (s. II d. C), citado por “Página Abierta”, Iglesia Viva, nº 237, Valencia, 2009, p. 126.

27 Mt 22, 21.

28 LOMBARDÍA, P., “Síntesis histórica”, en GONZÁLEZ DEL VALLE, J. Mª. et alii,

Derecho Eclesiástico del Estado Español, Pamplona, 1980, p. 42.

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como hacia los cristianos descarriados de la fe e infractores de sus deberes religiosos, a los que había que tratar amorosa y comprensivamente –“amaros unos a otros como yo os he amado”30– para intentar reconducirlos de nuevo a la grey de Cristo.

La situación social de los cristianos en el Imperio romano cambió radicalmente a partir del Edicto de Milán (313 d. C). Este Decreto, aprobado por los emperadores Constantino y Licinio, es un hito en la Historia de la tolerancia y de la libertad de conciencia ya que estableció la libertad religiosa. De modo que el cristianismo quedó integrado en la sociedad y dejó de ser estigmatizado y violentado:

“Yo, Constantino Augusto, y yo también, Licinio Augusto, reunidos felizmente en Milán para tratar de todos los problemas que afectan a la seguridad y al bienestar público, hemos creído nuestro deber tratar junto con los restantes asuntos que veíamos merecían nuestra primera atención el respeto de la divinidad, a fin de conceder tanto a los cristianos como a todos los demás, facultad de seguir libremente la religión que cada cual quiera, de tal modo que toda clase de divinidad que habite la morada celeste nos sea propicia a nosotros y a todos los que están bajo nuestra autoridad. Así pues, hemos tomado esta saludable y rectísima determinación de que a nadie le sea negada la facultad de seguir libremente la religión que ha escogido para su espíritu, sea la cristiana o cualquier otra que crea más conveniente, a fin de que la suprema divinidad, a cuya religión rendimos este libre homenaje, nos preste su acostumbrado favor y benevolencia”31. Sin embargo, el florecimiento de la libertad religiosa se marchitó sesenta y siete años después del Decreto milanés a causa del Edicto de Tesalónica (380 d. C) –Cunctos Populos–, promulgado por los emperadores Graciano, Valentiniano II y Teodosio I:

“Todos nuestros pueblos (...) deben adherirse a la fe trasmitida a los romanos por el apóstol Pedro, la que profesan el pontífice Dámaso y el obispo Pedro de Alejandría (...), o sea, reconocer, de acuerdo con la enseñanza apostólica y la doctrina evangélica, la Divinidad una y la Santa

30 Jn 15, 12.

31 LACTANCIO, De mortibus persecutorum (c.318-321), citado por ARTOLA, M., Textos

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Trinidad del Padre, el Hijo y el Espíritu Santo. Únicamente los que observan esta ley tienen derecho al título de cristianos católicos. En cuanto a los otros, estos insensatos extravagantes, son heréticos y fulminados por la infamia, sus lugares de reunión no tienen derecho a llevar el nombre de iglesias, serán sometidos a la venganza de Dios y después a la nuestra”32. Con este Edicto el Imperio romano involucionó a la época del hostigamiento por motivos religiosos, pero en un escenario diferente: los victimarios eran los cristianos y los perseguidos los fieles de las demás confesiones.

El cristianismo pasó de ser una religión proscrita y asediada a la oficial del Imperio, lo que fortaleció la posición institucional del papado en el gobierno imperial y propició la construcción de la teoría hierocrática en orden a instaurar un régimen político en el que el papa fuera el único y legítimo emperador de los romanos.

La evangelización cristiana se sirvió de un lenguaje jurídico33, inspirado en el derecho romano, y, por tanto, conminatorio, para transmitir el dogma y la moral cristianos que cristalizará siglos después en el ius canonicum, que siempre mantuvo vasos comunicantes con el ius civile –derecho romano justinianeo–, conformando ambos el denominado ius commune34.

32 Código Teodosiano, 16, I, 2, citado por LADERO, M. A., Historia Universal de la Edad Media, Barcelona, 1987, p. 55.

33 Esta modalidad de evangelización estaba avalada por el Antiguo Testamento, preñado de disposiciones jurídicamente vinculantes para los judíos –Torà–. También fue favorecida por difusión de La Vulgata de San Jerónimo, traducción latina de la Biblia hebrea y griega realizada a finales del siglo IV, ya que utiliza instituciones y conceptos jurídicos del derecho romano. Lo que fue en detrimento de su calidad filológica al no coincidir esos términos latinos con sus correspondientes de la Biblia original.

34 “(…) en el orden medieval no hay una tensión entre Derecho canónico y Derecho secular, en los términos en que este problema pueda plantearse después de la consolidación del Estado. En realidad hay un Derecho común (romano y canónico) típicamente universitario; pero también un Derecho real, un Derecho municipal, un derecho de determinados grupos o clases eclesiásticas o seculares, etc. El gran éxito de los papas estriba en que, además de poner en juego su poder para hacerse obedecer en las cuestiones eclesiásticas o en conseguir que tales o cuales cuestiones o personas caigan bajo la competencia de los tribunales eclesiásticos, consiguen además crear un Derecho culto, de difusión universitaria, cosa que ningún Emperador o rey del Medievo intentó siquiera

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La doctrina hierocrática o de las dos espadas35 se funda en la cosmogonía cristocéntrica medieval36, que estriba sobre la legitimación divina de la soberanía del monarca papal en las esferas temporal y espiritual.

“Hay dos espadas: la espiritual y la temporal (...). Una y otra espada, pues, están en la potestad de la Iglesia, la espiritual y la material. Mas ésta ha de esgrimirse en favor de la Iglesia; aquella por la Iglesia misma. Una por mano del sacerdote, otra por mano del rey y de los soldados, si bien a indicación y consentimiento del sacerdote. Pero es menester que la espada esté bajo la espada y que la autoridad temporal se someta a la espiritual. Que la potestad espiritual aventaje en dignidad y nobleza a cualquier potestad terrena, hemos de confesarlo con tanta más claridad, cuanto aventaja lo espiritual a lo temporal (...). Porque, según atestigua la Verdad, la potestad espiritual tiene que instituir a la temporal, y juzgarla si no fuere buena (...). Luego si la potestad terrena se desvía, será juzgada por la potestad espiritual; si se desvía la espiritual menor, por su superior; mas si la suprema, por Dios solo, no por el hombre podrá ser juzgada”37.

Esta teoría política localiza el poder originario en Dios. Todas las instituciones y órganos eclesiásticos y temporales tienen un poder derivado y concedido graciosamente por el Altísimo –“Gratia Dei sum id quod sum”38–, quien nombra a un vicario en la tierra al que confiere la plenitudo potestatis y por medio del cual asigna determinados cargos civiles y religiosos entre los cristianos.

El vicariato papal implicaba que Dios estaba presente en la tierra por medio del sumo pontífice. La doctrina hierocrática, caracterizada por la

lograr; para la Universidad medieval el último príncipe temporal creador de un sistema de Derecho más o menos completo había sido Justiniano” (LOMBARDÍA, P., op.cit., p. 54). 35 Cfr. Lc 22, 35-38; Jn 18, 11; Ez 21, 28-30.

36 “Sométanse todos a las autoridades constituidas, pues no hay autoridad que no provenga de Dios, y las que existen por Dios han sido constituidas. De modo que, quien se opone a la autoridad, se rebela contra el orden divino, y los rebeldes se atraerán sobre sí mismos la condenación (…) [la autoridad] es para ti un servidor de Dios para el bien (…) un servidor de Dios para hacer justicia y castigar al que obra el mal. Por eso precisamente pagáis impuestos, porque [los magistrados] son funcionarios de Dios” (San Pablo, Epístola a los

Romanos, 13, 1-7).

37 Bula Unam Sanctam (1302) del papa Bonifacio VIII, citado por DENZINGER, E., El

magisterio de la Iglesia. Manual de los símbolos, definiciones y declaraciones de la Iglesia en materia de fe y costumbres, Barcelona, 1963, pp. 170 y 171.

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concepción descendente del poder y del derecho, es ajena a la idea de representación: Dios no se representa, nadie puede actuar en su nombre, sólo cumplir sus directrices. El Altísimo transmite a un oficio –el papa, sucesor de Pedro– no a una persona concreta la summa potestas para que gobierne el mundo temporal y eclesial según los preceptos y dogmas cristianos39.

La teoría hierocrática gravitaba sobre tres ideas basilares, a saber, la identificación de los poderes petrinos con los de Jesucristo; la centralidad del cristinano (hombre bautizado) y el pontífice como sucesor de Pedro.

La primera se fundamenta en el pasaje evangélico de Mateo 16, 18-19: “(…) tú eres Pedro y sobre esta piedra edificaré yo mi Iglesia (...). A ti te daré las llaves del reino de los Cielos; y todo lo que ates en la tierra quedará atado en los cielos, y todo lo que desates en la tierra quedará desatado en los cielos”. Como bien apunta D´Amico, la almendra de este fragmento reside en la expresión “todo lo que” (quodcumque), interpretado en el sentido de que “los poderes petrinos lo comprenden y abarcan todo (…) toda cosa y persona”40.

Según este fragmento bíblico, Jesucristo es el artífice o creador de la Iglesia de la que forman parte todos los fieles, consagrados o no, y confiere uno icto a Pedro el oficio de gobernante de la congregatio fidelium y le transfiere la jurisdicción universal de la Cristiandad, que comprendía la promulgación de decretos imperiales y la resolución de conflictos –potestas ligandi et solvendi– vinculantes erga omnes, incluidos el emperador y los reyes, en orden a que gobierne a los cristianos conforme a sus principios y enseñanzas.

Ullmann infiere tres principios políticos de la referida cita evangélica que definen los contornos de la teocracia papal, a saber, el principio de

39 Cfr. ULLMANN, W., Principios de gobierno y política en la Edad Media, Madrid, 1985, pp. 24 y 25.

40 D´AMICO, C., “El conciliarismo y la teoría ascendente del poder en las postrimerías de la Edad Media”, en BORÓN, A. A., La filosofía política clásica: de la Antigüedad al Renacimiento, Buenos Aires, 1999, p. 127.

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indivisibilidad o totalidad: “El objeto de atención no lo constituía el hombre en abstracto, sino el cristiano, colocado en un nivel diferente al del simple hombre (…). (…) la perpectiva del papado medieval partía de la consideración de que toda acción ha de tener una significación cristiana y ha de ser motivada por normas cristianas”.

El principio del automatismo: “La atadura en el cielo era una consecuencia necesaria y automática de la atadura en la tierra, e igual sucedería con aquello que desatara. No existía ningún tribunal o alta corte de justicia que pudiera enjuiciar, revisar, fiscalizar o modificar la decisión petrina en lo referente a atar y desatar”41.

La comprensión cabal del principio de la plenitud de poder del pontífice implica la realización de varias consideraciones. Primera: la teoría hierocrática distingue netamente entre el papa, persona física, que formaba parte de la Iglesia, y el papa titular del oficio papal, que estaba fuera y por encima de ella. Lo relevante era que todos los aspectos o dimensiones de la vida de los cristianos estaban regidos por las normas jurídicas promulgadas por la institución papal en orden a la salvación del alma; no por la persona que temporal o coyunturalmente la encarnaba. Segunda: todos los miembros de la Iglesia, con independencia de su cargo, oficio o dignidad, estaban sometidos al poder papal. Tercera: la Iglesia carece de poderes o derechos originarios porque todo poder, facultad o atribución de los cristianos –cuerpo de la Iglesia– procede en última instancia de Dios, titular originario, que se los había transmitido a Pedro y éste al papa.

Como el Imperio era una entidad confesional que había establecido el cristianismo como religión oficial y los emperadores incidían en su acendrado carácter religioso, el papado identificó la Iglesia con el Imperio: comunidad política de creyentes.

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