IL CONGEGNO
DISTOPICO
DELL'IDENTITÀ VISIVA
Laurea Magistrale in
Nota introduttiva
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I sistemi di identità visiva:
breve storia della comunicazione di marca e dell'immagine coordinata
2
Immagine coordinata come forma totalizzante e totalitaria
2.1. Il brand è veicolo di identità e appropriazione di senso 2.2. “Aziendalizzazione” delle identità e ineluttabilità
della forma-marca
2.3. I brand totalitari: lo stretto legame tra sistemi politici assoluti e coordinazione visiva di propaganda 2.4. I regimi democratici del consumo
2.5. Il brand e i suoi strumenti non sono neutrali, ma veicolo di omologazione e sopraffazione
3
Narrazioni e tensione profetica: dalla parola all'immagine
3.1. La fantascienza distopica mostra un punto di contatto tra forme totalitarie e sistemi di identità visiva coordinata 3.2. Sistemi di coordinazione visiva nel cinema di fantascienza:
tra grafica e concept-art 4
La distopia si fa progetto: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury 4.1. Una narrazione in difesa delle narrazioni:
l'autore e l'amore per la lettura
4.2. Il Manuale degli Standard Identificativi del
5 9 47 47 49 50 52 53 67 67 69 83 83
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Nota introduttiva
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Questo è un libro che parla di un libro che parla di libri (che parlano). Alla base del progetto in esso contenuto vi è l’ambizione di confrontarsi con alcune problematiche del design della comunicazione dalle quali possa emergere e svilupparsi un’idea precisa di etica del lavoro: si intende affrontare, attraverso la creazione di una distopia1 comunicativa di tipo fantascientifico, uno scenario di intervento considerato come negativo, cioè quello narrato da Ray Bradbury nel romanzo Fahrenheit 451 del 1953; in particolare si andrà a considerare una componente importante della vicenda, un insieme di elementi descritti nella storia, e si costruirà su di essi un progetto di comunicazione fittizio (da considerare cioè come integrabile alla narrazione) ovvero l’immagine coordinata del Corpo di incendiari impegnato nella repressione della lettura e del possesso di libri. L’obiettivo della ricerca e del relativo progetto è quello di affrontare a viso aperto i limiti etici della comunicazione visiva, e in particolare dei concetti di identità coordinata e di potere della marca, per poter raggiungere, se possibile, maggiore consapevolezza delle implicazioni del lavoro del progettista. Nel suo svolgimento, il progetto di tesi vuole integrare talune capacità pratiche della comunicazione visiva come il progetto di identità coordinata, l’illustrazione e la grafica editoriale, con alcuni spunti teorici di ricerca in ambito sociologico, letterario e cinematografico.
La scelta di Fahrenheit 451 come base narrativa su cui sviluppare le tematiche dell'elaborato di tesi è motivata dalla forte condivisione con l'autore del romanzo dell'idea dell'importanza dei libri, sia come supporto per l'atto naturale della lettura e dello scambio dei pensieri tra gli individui, sia come oggetti fisici dotati di un valore estetico, artistico e affettivo, condivisibile da gran parte dei popoli e delle culture umane; a questo si unisce la volontà impellente di comunicare, attraverso la comprensione e l'immedesimazione nelle strategie di un caso limite negativo, i dubbi e le necessità di riflessione su una “zona” ancora eticamente troppo critica come quella del progetto della comunicazione al servizio delle identità di marca.
L'identità è una componente importante della vita umana: tutti abbiamo bisogno di una più o meno certa consapevolezza della nostra identità e, allo stesso tempo, di sentirci parte di un contesto caratterizzato da un'identità precisa (come ad esempio una zona geografica, uno stato, una squadra sportiva, una “classe” sociale). Al cospetto di un'identità dispersa, cioè non più riconoscibile come adeguata per noi stessi, siamo portati alla scoperta di contesti sempre nuovi in cui ritrovare un'identità autentica. In
1 Per distopia, (o antiutopia, o utopia
negativa) si intende l'immaginazione
di una situazione sociale negativa e indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Questo termine deriva dall'opposto del concetto di utopia ed è utilizzato principalmente in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (spesso ambientata in un futuro prossimo) all'interno della quale la realtà è arrivata ad assumere delle caratteristiche apocalittiche. Le narrazioni distopiche possono essere concepite e apparire come opere di avvertimento, o satire che mostrano determinate condizioni esistenziali del presente estremizzate fino a dedurne conclusioni drammatiche.
Tutte le forme di estremismo non sono altro che forme molto profonde e radicali di abnegazione verso un contesto comunitario che si percepisce in grado di fornire delle risposte alle proprie necessità di inclusione in un'idea di identità e di realizzazione personale.
La caratteristica principale della trattazione che si vuole qui introdurre è quella di essere dichiaratamente parziale, cioè di parte, non neutrale: si basa sull'idea, maturata in anni di studio e approfondimento, che la comunicazione visiva sia, in quella che si può considerare la componente in essa più preponderante per necessità e evoluzione storica, cioè l'immagine coordinata, uno dei motori principali (e inequivocabilmente indispensabili) dello sviluppo del capitalismo, inquadrabile in questo caso non tanto come categoria economica nella sua accezione storiograficamente più comune, cioè quella ideologica, ma enunciabile come quel fenomeno materiale comune a tutte le nostre vite che è la spinta all'accumulazione della ricchezza monetaria. Chi scrive è mosso infatti dalla convinzione che l'istinto verso le sicurezze dell'avere sia certamente una spinta connaturata nello svolgersi temporale delle nostre vite come esseri umani, ma per questo viepiù meritevole di opposizione ragionevolmente convinta e perpetua (spesso prima ai propri comportamenti che a quelli degli altri), con l'obiettivo di alleviare certe scelte inconsapevolmente inumane, che ci rendono individui egoisti, sempre più lontani dal nostro essere parte di una comunità composta da diverse molteplicità, sempre più solipsisticamente e narcisisticamente soli. Egli pensa sia un buon esercizio quello di provare semplicemente ad aprire spiragli di critica, mettere in discussione un meccanismo dei rapporti tra di noi che tutti diamo per scontato, quello dell'affermazione delle identità visive come unica pratica relazionale (e di progresso) in un contesto di civiltà dell'immagine, sforzandoci di scrollare di dosso da noi stessi, e dalle forme di potere che abbiamo attorno, la patina di legittimi e aggressivi diffusori di identità economiche che la comunicazione visiva ha permesso di costruirci addosso in decenni di benessere della società occidentale.
Nessuna parte di questa dissertazione pretende di essere portatrice di verità e di esaustività critica, ma solo veicolo appassionato di un'idea precisa di costruzione di senso attraverso il progetto della comunicazione visiva e, in generale, attraverso l'azione nell'ambito del visivo.
Fuori dalla casa dove sono cresciuto e dove vivo tutt'ora c'è un grigio e gigantesco parcheggio; quando avevo all'incirca tre o quattro anni, e avevo imparato a camminare da pochi mesi, indicavo ai miei genitori le placche dei marchi sui cofani delle automobili e ripetevo loro a memoria i nomi dei vari modelli. Sapevo a malapena leggere, eppure ero attratto dalle forme semplificate di quei “disegnini”, imparavo e riconoscevo il ripetersi di un logo. Non potevo sapere che dopo molti anni mi sarei interrogato sul significato del potere visivo di questo tipo di segni che vedo nascere, crescere e moltiplicarsi all'infinito attorno a me.
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I sistemi di identità visiva:
breve storia della comunicazione di marca e dell'immagine coordinata
Nei paragrafi che seguono si cercherà di ripercorrere la storia della marca e della sua evoluzione in elemento primo del nostro universo visivo, con l'obiettivo di inquadrare le tappe principali del processo che ha portato alla progressiva trasformazione del segno (in quanto naturale e spontanea espressione dell'agire materiale dell'uomo) in strumento di controllo al servizio dei processi economici di accumulazione delle ricchezze.
La necessità di progettare in modo coordinato gli elementi provenienti da un singolo ente nasce parallelamente allo sviluppo delle potenzialità delle tecnologie della comunicazione utilizzate nel commercio e nella produzione industriale di beni.
Il progetto dell'identità visiva coordinata applicato alla comunicazione delle merci si può considerare come uno degli aspetti più significativi e rivoluzionari della società di massa, la cui nascita è solitamente fatta risalire agli ultimi due decenni del XIX secolo. Grazie ad esso (e alle ormai sedimentate teorie economiche, sociali, politiche e filosofiche nate dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione industriale) il mercato di prodotti serializzati inizia infatti ad affermarsi in tutto il “cosmo” occidentale come unico e indiscutibile modello economico.
È possibile tuttavia riscontare l'uso di segni con valore simbolico e di identificazione, applicati ad una serie di oggetti, luoghi e immagini, connessi tra loro da una comune proprietà o destinazione funzionale, anche molto prima dell'affermazione della comunicazione applicata alle necessità dell'economia di massa: la croce cristiana, ad esempio, che, da simbolo punitivo di morte riscattata attraverso la risurrezione, divenne un codice visivo in grado di rappresentare la totalità di una nuova fede religiosa; essa si estese «all'intera sfera culturale della cristianità, riprodotta non solo nell'iconografia, ma anche nella pianta architettonica dei templi, tramutata in gesto (di benedizione, di devozione, di visibile autoidentificazione religiosa, propiziatorio, ecc.)»¹; o ancora fino dalla preistoria (Età della pietra), prima della nascita della scrittura, l'utilizzo di segni elementari, vere e proprie firme, con diverse finalità: innanzitutto per l'attribuzione individuale di un nome in forma scritta oltre che verbale; successivamente per rivendicare la proprietà di beni ordinari come bestiame, vasellame, armi, vari strumenti di lavoro; come metodo identificativo degli artigiani, forme molto semplificate
Giovanni Brunazzi, Immagine
coordinata 1, 1984, Gruppo Editoriale
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Pensiamo alla ripetizione dello stile di scrittura diffuso in tutte le province dell'antica Roma come ad un esempio prodromo di
coordinazione visiva, anche se non progettata a priori, ma come risultante di un processo tecnico di riproduzione (l'incisione su marmo): in tutte le province dell'Impero, a partire dal I secolo d.C., venivano diffuse scritture ufficiali, solenni e monumentali, utilizzando unicamente la cosiddetta capitalis romana o carattere lapidario romano [fig. 2], e diffondendo quindi negli osservatori del tempo un'uniformità visiva utile alla percezione del controllo politico e della forza del potere imperiale. Una forza comunicativa e un imperativo grafico che sono resistiti alla polvere dei secoli e che possiamo riscontrare ancora oggi grazie all'adattamento di questo stile di scrittura alla tecnologia digitale: da almeno due decenni il carattere Trajan, (progettato da Carol Twombly nel 1989) viene utilizzato nei layout della maggior parte dei manifesti cinematografici provenienti dalla produzione hollywoodiana ma non solo [fig. 3 e 4], manifestando un'evidente zoticaggine e incultura verso le reali motivazioni storiche di questo linguaggio grafico.
Un uso massiccio e storicamente significativo del segno come mezzo di riconoscimento legato al lavoro (e quindi uno dei primi esempi di marchio commerciale) fu quello manifestato dagli scalpellini, comunemente chiamati tagliapietre, impegnati nella lavorazione della pietra a partire dal Medioevo. L'affascinante quantità di segni diversi che è possibile osservare ancora oggi sui blocchi delle pareti monumentali
[fig. 5]ha permesso ad alcuni studiosi (in particolare L'ingegnere boemo Franz von Ržiha, in Studien über Steinmetzzeichen, del 1883) l'osservazione e la supposizione di un'importante evoluzione del segno che ha portato in alcuni casi a necessità di coordinazione delle sigle tramite una griglia geometrica, da applicare nel caso in cui appartenessero ad operai riunitisi in una stessa corporazione; al completamento dell'apprendistato questo schema veniva consegnato al lavoratore, il quale poteva, così, progettare la propria sigla in conformità alle regole prestabilite dall'associazione di appartenenza.
Nel corso del Medioevo, negli stessi anni in cui le corporazioni di scalpellini introducevano l'uso sistematico di un segno, anche tra le famiglie di proprietari della terra e le ricche famiglie di città si diffuse l'esigenza di una distintività grafica. Vennero così elaborati dei segni specifici da applicare sui muri delle abitazioni, sugli equipaggiamenti degli eserciti, sulle lapidi e sui documenti più importanti. Questi segni famigliari si svilupparono nei secoli in rapporto a questioni di eredità e andarono a creare l'insieme dell'apparato araldico[fig. 6 - 8] che si tramanda fino ai giorni nostri. L'ambito di applicazione maggiore dell'araldica è quello militare: dal periodo delle crociate (tra l'XI e il XIII secolo) gli eserciti avevano necessità di identificazione immediata delle livree e confidavano nella comunanza “di bandiera” come sostegno
IDENTIFICAZIONE
Adrian Frutiger, Segni & simboli.
Disegno, progetto e significato, 1998,
Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri, Viterbo.
psicologico durante la permanenza in terre dalla lingua e dai costumi differenti. Mentre inizialmente nella coordinazione delle uniformi si teneva conto dell'aspetto complessivo (tunica e gualdrappa) dell'araldo e del cavaliere, con il passare del tempo si considerarono come identificativi solo specifici elementi dell'equipaggiamento, quali, ad esempio,
l'ornamentazione dell'elmo. Infine fu lo scudo, in quanto superficie piana di maggiore estensione dell'armatura, a svolgere la funzione principale di vessillo recante i colori della famiglia o i segni grafici del gruppo di appartenenza; il primo e più importante elemento identificativo era il colore, sebbene la gamma di tinte distinguibili si limitasse ai colori primari.
A livello socio-politico le bandiere nazionali, in nome delle quali oggi si compiono i peggiori e infami atti di guerra e diffusione di odio, rappresentano una delle “eredità” moderne dell'araldica come elementi grafici istituzionali (molto spesso definiti in modo completamente arbitrario) di differenziazione tra le comunità.
Un'altra importante e più facilmente riconoscibile discendenza
contemporanea dell'estetica e della logica coordinativa dell'araldica di può riscontrare nei loghi dei club culcistici [fig. 9 - 15]. Essi nella maggior parte dei casi si sono evoluti nel tempo a partire dagli stemmi delle città di fondazione delle società, custodi, a loro volta, della tradizione figurativa delle varie località.
Se in epoca medievale un cavaliere, un re o un contadino hanno primariamente un ruolo individuale nella società, sganciato da un'idea di adattamento ad un'immagine collettiva di classe, a partire dall'affermazione delle economie di tipo capitalistico, gli individui e le istituzioni che li rappresentano hanno bisogno di identità piuttosto che di ruoli, cioè di entità che rappresentino quello che si è oltre a quello che si fa. Gli emblemi visivi diventano espressione di identità intese come insiemi di valori e di motivazioni sia personali che collettive.
In epoca rinascimentale e in particolare in tutta l'Europa continentale si diffonde una moda, elitaria e intellettuale, che consiste nell'unire delle piccole illustrazioni allegoriche (xilografie o incisioni) ad uno o più brevi testi che riassumano una particolare visione del mondo. Si tratta degli emblemi (o imprese) [fig. 16] e il loro successo è tale da diventare motivo di un nuovo genere letterario. Possono essere considerate una forma di araldica personale, di gusto sofisticato, filosofico, con forti connotazioni morali, in cui, in un piccolo spazio, è possibile trasmettere le proprie caratteristiche identitarie (usanza che si tramuterà in quelli che oggi chiamiamo ex libris). Più tardi, nell'epoca dell'esplosione tipografica, da questo gioco mondano nasceranno le prime marche editoriali, come quella di Aldo Manuzio, il cui marchio, accostato ad un motto (l'odierno payoff), rappresenta non solo un motivo grafico, ma una dichiarazione di intenti, una precisa identità economica. Per la prima volta abbiamo un imprenditore che sceglie un segno preciso per dire chi è e che cosa fa: è il primo marchio moderno. [fig. 17]
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riconosce; i sistemi di funzionamento, i materiali, i gusti, i modi di utilizzo, tutto cambia ponendogli dei problemi di comprensione e di fiducia interamente nuovi, per i quali si rende necessario “spiegare”, garantire e rendere familiari le merci. Accattivarsi e rassicurare la clientela diventa talvolta più importante che convincerla delle qualità intrinseche del prodotto.
Uno degli elementi che più caratterizzano l'esplosione della società di massa è l'affissione pubblicitaria; grazie all'avanzamento delle tecniche di riproduzione degli artefatti comunicativi (ad esempio la litografia e in particolare la cromolitografia) assistiamo all'affermazione del cartellonismo come medium pubblicitario per eccellenza⁴.
Arturo Cancellotti nel dicembre del 1909 su Emporium - Rivista mensile illustrata d'arte, letteratura, scienze e varietà (pubblicazione edita dall'Istituto d'Arti Grafiche di Bergamo volta alla divulgazione dello stile liberty in Italia) registrava l'invasività della nascente comunicazione pubblicitaria cartellonistica definendo la réclame come «aberrazione» che «offende l'estetica e stanca la pazienza, non di rado conseguendo un effetto contrario a quello desiderato»⁵. Egli di fatto precorreva i tempi nel riscontrare le conseguenze negative e alienanti (nel rifiutare l'imposizione pubblicitaria, nel produrre contro-comunicazione) dell'esposizione delle masse alla comunicazione della marca.
Ancora però i manifesti pubblicitari affissi a cavallo di secolo non recano assiduamente l'elemento più importante di quella che sarà la cultura visiva degli anni a venire: il marchio. In Italia, se escludiamo i più fortunati esempi di Campari, Fiat, OM, Perugina, la grande maggioranza delle aziende si affida ancora alla forza evocativa del proprio nome “familiare”; la progettazione italiana per la pubblicità attraverserà almeno tre decenni (fino alla metà degli anni '30, prima cioè delle influenze moderniste provenienti dalla scuola del Bauhaus) senza sviluppare la centralità del marchio come elemento principale di identificazione, affidandosi piuttosto alla riconoscibilità autoriale e “pittorica” di artisti come Fortunato Depero, Primo Sinopico e Severo Pozzati [fig. 23 e 24].
In Germania invece, già dai primi anni del XX secolo, il concetto di identità racchiusa nel marchio commerciale viene espanso e evoluto nel complesso di regolamentazioni visive che oggi chiamiamo immagine coordinata: il progetto di Peter Behrens per la AEG (Allegemeine Elektricitäts-Gesellschaft, una grande azienda specializzata nel settore elettrico) tra il 1907 e il 1910 viene unanimemente considerato quale primo vero e proprio sistema di identità visiva e primo esempio di progetto sistemico nell'ambito della comunicazione di marca. Per la prima volta vi si manifestava la volontà di conferire ad un soggetto economico un'immagine costituita da un insieme preciso di regole grafiche progettate appositamente. Vi si intuisce un'ambizione all'opera (d'arte e d'ingegno) totale, in cui si progetta dal più piccolo bullone al manifesto, e in cui tutto è coerente e graficamente standardizzato in maniera impeccabile. Definendo la propria missione come “riorganizzazione del visibile” Behrens (architetto nato ad Amburgo nel 1868 e chiamato nel 1907 alla AEG dal direttore generale Paul Jordan) progetta un sistema grafico da applicare a tutti gli elementi che possono avere una fruizione visiva da parte della collettività: riviste aziendali, cataloghi, manifesti e annunci pubblicitari (per i quali mette a punto un apposito sistema di impaginazione, simmetrico e rigoroso, accostato alla presenza di illustrazioni dei prodotti sintetiche e formali) [fig. 25 - 27]; progetti architettonici dei padiglioni espositivi fieristici, degli alloggi degli operai e delle strutture di fabbrica (da sottolineare in particolare, nel 1909, il Turbinenhall [fig. 28], la fabbrica delle turbine, che rappresenta lo spartiacque della modernità nella progettazione architettonica industriale); ⁵ Giorgio Fioravanti, Leonardo
Passarelli, Silvia Sfligiotti, La grafica
in Italia, 1997, Leonardo Arte,
Milano.
⁴ In Italia va ricordato il lavoro dell'Officina d'arti grafiche Ricordi e delle prime figure inquadrabili come art directors: Adolfo Hohenstein, Leopoldo Metlicovitz, Marcello Dudovich e Leonetto Cappiello. In particolare, dal 1896 al 1916, la realizzazione dei manifesti per i Magazzini Mele di Napoli, che può essere considerata come una delle prime testimonianze di campagna pubblicitaria su vasta scala. [fig. 18 - 22]
negozi e punti vendita; lampade, ventilatori, teiere, orologi elettrici e pulsantiere. Nel disegno di tutti questi artefatti egli sviluppa un'estetica sganciata per la prima volta dallo stile Jugendstil, basata sulla serialità e non più sul decorativismo figlio dell'eleganza artigianale e del “pezzo unico”. Egli ritiene possibile l'impiego di ornamenti solo se intesi come strutturali alla costruzione geometrica dello spazio; privilegia superfici lisce e linee rette, più adatte alla standardizzazione delle componenti degli oggetti. In particolare però, determina molto efficacemente gli elementi primari dell'immagine aziendale: nel 1908 progetta l'elemento fondativo, il nuovo marchio AEG [fig. 29], (da cui si percepisce la netta presa di distanza dello stile behrensiano dal lirismo dello Jugendstil) pensato in tre varianti, con un piccolo manuale di applicazione; il carattere Behrens-Antiqua [fig. 30], ispirato alla monumentalità classica, da utilizzare in tutta la produzione AEG; una semplice gamma cromatica, verde scuro e oro, che garantisca la riconoscibilità immediata. L'enorme progetto di Behrens riesce ad esprimere la potenza dell'azienda, sia nell'interesse della rete energetica pubblica, sia nel mercato degli utensili elettrici per il privato, in un momento di forte espansione dell'industria energetica tedesca e di competizione internazionale sul terreno dell'innovazione tecnologica, in particolare al cospetto delle nascenti potenze statunitensi quali General Electric e Westinghouse. Grazie ad esso il nascente
prodotto di massa diviene immediatamente e inequivocabilmente prodotto di marca.
Alla AEG sembrano aver messo in pratica per primi gli assiomi principali del marketing che studiamo ancora oggi: gli elementi dell'identità coordinata contribuiscono a creare e a mantenere inalterata nel tempo la “fedeltà” dell'osservatore verso un determinato soggetto: l'efficacia di un marchio e di tutti gli altri elementi relativi si riconosce, spesso primariamente, dalla persistenza che ottengono nella memoria degli osservatori e dalla propria longevità, sia come attrattori principali di attenzione, sia come primi portatori dell'intero valore di marca; con Anceschi:
L'immagine coordinata, a differenza di una strategia comunicativa basata esclusivamente sulla potenza di una singola campagna pubblicitaria effimera e limitata periodicamente, lavora nel tempo ed è in grado di plasmarlo. Ogni azione comunicativa va a consolidare i risultati di quelle precedenti con lo scopo di mantenere e accrescere esponenzialmente la fiducia del fruitore. Potremmo porre questa potenzialità alla base del passaggio, che ha caratterizzato la prima metà del '900, da una comunicazione meramente pubblicitaria ad una progettualità delle identità da compiersi attraverso gli strumenti della comunicazione visiva. A questo processo ha contribuito tuttavia in maniera determinante lo
⁶ Giovanni Anceschi, da Hard, soft e
smart: gli stili registici dell'identity design,
intervista a Giovanni Anceschi di Cristina Chiappini, Progetto Grafico n°9, dicembre 2006, Aiap, Roma.
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promozionali, le scienze del packaging. Nonché lo styling, cioè la ricerca di formule di vendibilità degli oggetti, basata sui miglioramenti della piacevolezza esteriore più che sui contenuti tecnici e prestazionali.
I neonati grandi studi di design (dei quali uno dei più rappresentativi è lo studio di Raymond Loewy [fig. 31 - 34]) integrano le figure tecniche dei progettisti visivi, di prodotto e di packaging, con quelle più economico-sociologiche degli esperti di consumi, di pubblicità e di comunicazione.
La necessità di dare forma alla struttura di immagine coordinata così come la conosciamo oggi nasce inoltre dall'incoraggiamento a queste nuove strategie da parte delle grandi aziende petrolifere e di trasporto come Standard Oil, Gulf, Pan Am e Greyhound, le quali, avendo a che fare con situazioni di dispersione geografica, differenziazione estrema delle attività e trattamento di un prodotto liquido, impalpabile, sempre invisibile, hanno bisogno di un'identità/identificazione pre-costruita e strutturata. Necessitano, cioè, di una struttura visiva sul modello di quella behrensiana, con logo, colori identificativi, tipologia architettonica precisa per le stazioni di servizio, divise per il personale, mappe stradali personalizzate, e molto altro. È da queste necessità progettuali che si diffonde la creazione del manuale di immagine coordinata (o manuale degli standard), la fonte primaria di accesso alle regole di applicazione degli elementi visivi di coordinamento, di cui ogni azienda si deve dotare. «Uno strumento che codifica tutte le decisioni in tema di identità e ne consente la traduzione in fatti operativi quotidiani (anche ad opera di chi non è neppure tenuto a conoscere i motivi che hanno informato i contenuti), che costituisce la “summa” delle norme operative per l'esecuzione di un programma di immagine. Un simile strumento d'uso risale certamente ad una visione pragmatica di matrice anglosassone. […] Non può essere interpretato: non può essere considerato uno strumento al quale attingere informazioni o suggerimenti per adeguarsi ad un comportamento auspicato; è uno strumento tassativo. Impone comportamenti, pena l'ingovernabilità dello stesso programma di immagine: non lascia spazio alla libera interpretazione dei singoli e ciò è tanto più necessario quanto più esteso è il fenomeno da porre sotto controllo, tanto più estesa è la dimensione aziendale, tanto più duratura vuole essere l'identità di un determinato ente.»⁷
Anche il secondo dopoguerra vede negli Stati Uniti, unico paese industrializzato uscito illeso dalla guerra, il fulcro espansivo dell'affermazione della comunicazione aziendale e l'identità coordinata diventa la concretizzazione migliore delle esigenze del capitalismo nordamericano lungo tutto il periodo d'oro degli anni '50 e '60. I progettisti Paul Rand, Saul Bass, Lester Beall e gli studi Landor Associates, Lippincott Mercer, Chermayeff & Geismar fanno la loro fortuna grazie alla corporate identity. E la applicano, lavorando a fianco delle agenzie pubblicitarie, non solo al mercato aziendale, ma a tutti i settori dove devono essere intercettate masse di persone, segnaletica aeroportuale, grandi eventi sportivi. Nel lavoro di questi progettisti è possibile riscontrare le influenze “ideologico-grafiche” portate negli Usa dalle avanguardie europee a partire dagli anni Trenta, caratterizzate da semplicità razionale e spinta astrattiva. [fig. 35 - 52]
Parallelamente, in Europa, iniziando un processo che ha portato alla definizione della comunicazione visiva così come la concepiamo oggi, cioè come una disciplina progettuale precisa, Henry Kay Henrion e Alan Parkin, nel testo fondativo Design Coordination and Corporate Image⁸ del 1967
[fig. 53], teorizzavano che: si può iniziare a parlare di identità visiva, o
⁷ Alessandro Ubertazzi, da Un
progetto di grafica sistematica, Rassegna
n°6 - Anno III, aprile 1981, C.I.P.I.A, Bologna.
⁸ Henry Kay Henrion, Alan Parkin,
Design Coordination and Corporate Image, 1967, Studio Vista/Reinhold,
⁹ Nozione junghiana di persona, dal nome della maschera che indossavano gli attori teatrali nell'antichità: tutti gli uomini assumono una maschera consci che essa corrisponda da un lato alle loro intenzioni e esigenze e dall'altro alle opinioni espresse dal contesto in cui vivono.
image, come rappresentazione visibile delle entità organizzate intese con il nome di artificial person: ad ogni entità, costituita da un insieme di persone, più o meno articolato gerarchicamente secondo criteri di leadership e competenze, corrisponde una determinata “faccia” comunicativa dotata di una sua precisa fisionomia. L'insieme degli elementi visibili di questa persona⁹ verranno, consapevolmente o meno, recepiti da un pubblico che inevitabilmente potrà essere in grado di memorizzarli e di rievocarli davanti agli occhi della mente con dei meccanismi non diversi da quelli del sedimentarsi delle strutture mentali studiato in psicanalisi, e in modo del tutto analogo alla costruzione di un ritratto mentale istantaneamente riconoscibile secondo le leggi gestaltiche.
Allo stesso tempo, un cambiamento spesso poco considerato è quello dell'inquadramento della figura del progettista visivo che si va delineando nel periodo di grande esplosione iniziale dell'immagine coordinata, passando dalla connotazione di maestro grafico in senso manuale (sviluppatasi in secoli di artigianalità al servizio della comunicazione visiva), a quella più “moderna” di visual designer.
L'approccio teorico di Henrion e Parkin deriva dalle ricerche condotte presso la Hochscule für Gestaltung (HfG), famosa come “Scuola di Ulm” (fondata a Ulm, Germania, nel 1953 da Inge Scholl, Otl Aicher e Max Bill). Presso questa importante scuola di design (articolata in quattro sezioni: design del prodotto, comunicazione visiva, edilizia, informazione e successivamente cinema), sotto la direzione di Max Bill, i progettisti intendono portare avanti e far evolvere l'etica funzionalista della Bauhaus, contrastando l'orientamento statunitense e i suoi designer-manager dediti allo styling, cercando di ridare importanza alla componente artistico-estetica nel progetto del prodotto di massa; successivamente però, con l'arrivo alla direzione di Tomás Maldonado, l'orientamento diventa un altro, e gli studi si incentrano su un metodo tecnico-scientifico influenzato dal neo-positivismo, in cui ogni fase della progettazione sia esente dall'ambiguità dell'intuizione artistica. «Per Max Bill la pittura e la scultura continuavano a conservare un rango del tutto preminente, mentre noi volevamo impedire che il design tornasse in balia dell'arte applicata e derivasse dall'arte le sue soluzioni.»⁰ Da qui la creazione di un metodo rigorosissimo di riconoscibilità grafica del soggetto comunicativo e di una struttura precisissima degli elementi che vanno a comporre l'identità visiva, organizzato, come già specificato, all'interno del manuale degli standard. Emblematico in tal senso il progetto per l'azienda di elettrodomestici Braun, per la quale si ricerca una precisa, intransigente e radicale unità stilistica di tutti i prodotti e dei relativi progetti di comunicazione. Allo stesso modo il progetto per la compagnia aerea Lufthansa condotto nel 1962 da Otl Aicher con il team E5 (Entwicklungsgruppe 5) mostra le caratteristiche di questo approccio: ogni possibile applicazione dei tre elementi grafici principali (marchio, carattere tipografico e colori) viene contemplata e progettata senza lasciare nulla alla casualità; vengono progettati sia gli spazi più grandi come le superfici esterne e interne degli aerei, sia i dettagli più minuziosi come la grafica delle bustine di zucchero, del sale e del pepe, con l'obiettivo di
⁰ Otl Aicher, da Herbert Lindinger (a cura di), La scuola di Ulm - Una
nuova cultura del progetto - 1953-1968,
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comunicazione Braun e non solo, che fin da subito ha contribuito allo sviluppo economico consumista della Germania Federale post-bellica, andando ad cristallizzarsi nell'immaginario visivo di più generazioni di consumatori tecnologici.
All'inizio del periodo di declino della struttura didattica della scuola di Ulm (forse un castello di carta), cioè la metà degli anni Sessanta, tra Italia e Stati Uniti nasce uno dei soggetti più rivoluzionari per quanto riguarda l'evoluzione delle identità visive: Unimark International. Studio di design e brand marketing dal 1965, con sede a Milano, Chicago e New York, il nucleo iniziale principale è composto da Massimo Vignelli, Bob Noorda, Ralph Eckerstrom, James Fogelman, Wally Gutches, Larry Klein e Salvatore Gregorietti. Essi interpretano la consacrazione definitiva dell'International Style quale vero e proprio nuovo archetipo della comunicazione d'impresa: così come quello che possiamo definire “secondo filone” di Ulm, anche Unimark imposta la sua etica e la sua filosofia sulla pura funzionalità, sul rifiuto totale del progettista come artista, sul controllo del processo progettuale [fig.
65], sulla concretizzazione di un contesto visivo interamente estetizzato
e ordinatamente razionale. Interprete di uno stile unico, (pur di
inequivocabile derivazione dall'estetica ulmiana) si impone in pochissimi anni come firm più importante al mondo per quanto riguarda il progetto di sistemi di identità coordinata, sistemi di segnaletica, brand strategy e packaging design. Il progetto Unimark è rigoroso e ambito per merito di alcune caratteristiche: utilizzo sistematico delle griglie compositive, utilizzo quasi esclusivo del carattere Akzidenz Grotesk prima e Helvetica poi (con regolare riduzione minima di spaziatura per quanto riguarda i corpi oltre una certa dimensione), coordinazione radicale di ogni elemento di identificazione, realizzazione di dettagliati e intuitivi manuali di applicazione. [fig. 66 - 74]
Il lavoro di Unimark International fa capolino anche alla gloriosa Olivetti, una delle aziende italiane che più hanno capito e messo in pratica le potenzialità dell'immagine coordinata. Tra il 1971 e il 1973 infatti, l'agenzia italo-americana viene chiamata a collaborare come design consultant al progetto dei Sistemi di identificazione Olivetti, i cosiddetti libri rossi[fig. 75], un nuovo punto di svolta nella lunga storia della
progettualità olivettiana sviluppata a partire dagli anni '30. Fino a quel momento infatti l'“image Olivetti” era caratterizzata da un'unitarietà di immagine nata dai pur diversi stili di tutti i designer coinvolti da Adriano Olivetti, ma a partire dalla nomina di Hans Von Klier come responsabile del Servizio di Corporate image (dal 1968), essa si trasforma in un insieme molto più strutturato e rigoroso di norme, figlio diretto della sistematicità ulmiana e di conseguenza dello stile Unimark.
Unimark è stato il primo in Italia ad affrontare in maniera sistematica l'immagine coordinata. Anche precedentemente e al di fuori del lavoro della stessa agenzia, infatti, Massimo Vignelli e Bob Noorda hanno realizzato molti progetti esemplari di coordinazione visiva[fig. 78 - 85], contribuendo a diffondere nel mondo il sempre crescente successo
della grafica italiana. Soprattutto hanno contribuito a consolidare un certo metodo progettuale, sia strategicamente che visivamente, al di fuori della grafica d'impresa. Questo nuovo stile “europeo” ha contagiato la comunicazione di istituzioni e enti pubblici più o meno grandi, ma anche piccoli, la comunicazione di eventi sportivi, sociali e culturali, la grafica editoriale [fig. 86 - 88], la grafica per la musica [fig. 89 - 92], per il cinema e per il teatro; ne è rimasta contaminata anche la rappresentazione visiva dei movimenti controculturali, di protesta e antagonisti, nati Stile grafico detto anche
scuola svizzera; diffuso dagli anni
Cinquanta a partire dall'Europa continentale, di matrice Bauhaus, dedito alla funzionalità, chiarezza, garanzia di leggibilità, rifiuto completo di qualsiasi decorativismo, utilizzo della fotografia al posto dell'immagine illustrata e impiego esclusivo di caratteri tipografici moderni e senza grazie. I principali esponenti da menzionare sono Max Bill, Richard Paul Lohse, Josef Müller-Brockmann, Hans Neuburg, Calo Vivarelli e in particolare, in Italia, Max Huber e Albe Steiner. Questo stile ha avuto un'influenza fondamentale anche sulla Scuola di Ulm.
Olivetti - Sistemi di
Identificazione. Progetto realizzato da Clino Trini Castelli e Perry A. King con la coordinazione di Hans Von Klier (responsabile del Servizio di Corporate image) e la consulenza di Walter Ballmer, Unimark International e Studio Contact. L'obiettivo principale di questo vastissimo e dettagliatissimo manuale di coordinazione visiva è quello di organizzare la comunicazione visiva interna all'azienda, con particolare attenzione alla ramificazione internazionale delle varie strutture, oltre che di modernizzare e consolidare l'immagine esterna già nota e radicata. Alcune schede che compongono il manuale hanno un'impostazione comunicativa tipica dei codici militari. Tutti gli agenti comunicativi sono riportati con una meticolosità tale da prevedere molteplici possibili declinazioni future degli stessi.
durante i Sessanta e diffusi nel corso dei Settanta. Se ci si sofferma, con uno sguardo a volo d'uccello, sia superficiale che approfondito, sull'intero insieme della comunicazione visiva di almeno due decenni in Europa ('65-'85), potrebbe sembrare di essere immersi in un unico grande esperimento di coordinazione visiva, in cui tutto è ordinato dalle griglie compositive e “coccolato” dalla linea sobria e innocente dell'Helvetica. «Il carattere Helvetica è stato parte innegabile del vocabolario social-democratico, tardo-modernista. […] Per chi è cresciato nel panorama grafico degli anni '70, questo costituisce un linguaggio autentico, una lingua madre con cui parlare tutti i giorni.»⁴
In questo periodo, in Italia, sono numerosi i progettisti che si sono occupati con successo di identità visiva. Alcuni dei progetti da essi realizzati rappresentano degli standard imitati tutt'ora, a prova di come le tendenze della comunicazione visiva nate in quel periodo non abbiano subito dei sostanziali sconvolgimenti negli ultimi decenni e di come la “presentazione” della marca abbia trovato una sua stabilità anche all'interno delle economie post-moderne e delle società post-ideologiche. Vanno ricordati i progetti di Mimmo Castellano [fig. 93 - 98], Ilio Negri [fig. 99 - 101], Giulio Cittato e lo studio Signo (Cittato ha lavorato alla divisione di Chicago di Unimark) [fig. 102 - 109], Pierluigi Cerri, Giovanni Brunazzi, Michele Spera, Roberto Pieraccini, Italo Lupi.
Con lo svolgersi dei decenni considerati poc'anzi, e in particolare con la fine degli anni Settanta, l'immagine coordinata è divenuta l'aspetto visibile più importante dell'identità di marca, e ora che la società di massa è organizzata sul consumo globalizzato di merci, eventi e idee, tutto ha bisogno di una comunicazione visiva coordinata. Tutto necessita di una “brandizzazione” visibile del proprio essere. Non può stupire che in questo contesto di mercato, sul modello economicamente e iconicamente vincente di Unimark, nascano numerose importanti agenzie di corporate design. Va menzionato Pentagram a tal proposito: uno studio nato a Londra nel 1972 dal lavoro di Alan Fletcher, Colin Forbers, Theo Crosby, Mervyn Kurlansky e Kenneth Grange, e da subito aperto alla collaborazione paritaria (in teoria) tra diversi altri progettisti; una sorta di collettivo, in cui ogni collaboratore affiliato mantiene la propria indipendenza nell'ambito di un singolo progetto o del rapporto con un cliente; un'agenzia multidisciplinare che è in grado di soddisfare le richieste delle più grosse aziende multinazionali abbracciando tutti i campi della progettazione (non solo identità visiva, ma anche packaging, progetto editoriale, allestimenti espositivi) e tutti i settori di mercato, con un approccio progettuale applicabile sia a potentissime corporations, sia a enti istituzionali, sia a organizzazioni no-profit. Pentagram non si pone obiettivi di stile: la compartecipazione di tanti designer e la dislocazione in più sedi già dal '78, fa sì che emerga solo una forte eterogeneità grafica. Si pone solo gli obiettivi stessi dei soggetti per cui lavora. [fig. 110 - 118].
Va fatta menzione di alcune altre agenzie, anch'esse tutt'ora esistenti: Total Design, (fondato da Dick e Paul Schwarz, Friso Kramer, Benno Wissing, Ben Bos e Win Crouwel, ad Amsterdam nel 1963) [fig.
⁴ Experimenral Jetset, Statement
and counter-statement - Notes on Experimental Jetset, 2015, Roma
18
ampliamento di essa in termini strategici: molti soggetti che hanno necessità comunicative iniziano a concepire la loro comunicazione come un flusso di eventi e presenze mediatiche. Il marchio non è più il solo centro di gravità concettuale, ma segno distintivo della diffusione di un lifestyle, di un'idea di prodotto, di un'idea di servizio o soggetto portatrice di un universo valoriale. Ora per avere successo una marca deve innanzitutto impegnarsi in una strategia visiva programmata temporalmente, non indipendente da quella delle relative campagne pubblicitarie; deve mostrare di sapersi esprimere attraverso la
contaminazione (con altri brand, con immagini iconiche e archetipiche provenienti da tutto l'universo artistico e visivo, tra ambiti di mercato lontani, ecc…) e la gestione di vari stili visivi; deve concentrare la sua attenzione sull'immagine del proprio prodotto più che sul prodotto stesso (che in molti casi all'interno di un messaggio non appare nemmeno) e progettare quest'ultimo primariamente in funzione mediatica, estetica e simbolica; deve rinnovare la propria desiderabilità anche grazie al supporto di un testimonial [fig. 123 e 124]; deve provvedere alla diffusione di punti vendita unici e esperienziali; deve organizzare eventi pubblicitari spettacolari grazie ai quali il consumatore può sentirsi parte di un rito di appartenenza e di condivisione di un particolare modo di vedere il mondo.
Oggi possiamo e dobbiamo parlare di una vera e propria
“sublimazione” dell'immagine coordinata, o al contrario saremmo costretti a trascurare ogni discorso sulla rivoluzione comunicativa del web (e soprattutto del cosiddetto web 2.0⁵) e della presenza di pressoché infinite soggettività all'interno di esso; le immagini sono in continuo e frenetico movimento, ogni pixel che diffondiamo concorre ad imprimere nell'immaginario il nostro “mostrarci” (a volte il nostro essere) e quindi la nostra identità. «In un contesto in cui si è alzata la soglia della percezione cosciente e il sovraffollamento di messaggi produce un rumore confuso e disordinato, il problema di come affermare la propria identità si fa sempre più evidente», sintetizzano al meglio Cristina Chiappini e Andrea Cioffi⁶. Per gli enti che progettano e pianificano la propria comunicazione in modo coordinato è diventato sempre più necessario - e allo stesso tempo più difficile - controllare tutti gli elementi visivi in modo che questi costituiscano un insieme riconducibile allo stesso soggetto comunicante. Inoltre chiunque ha la possibilità, in pochi e più o meno elementari click, di modificare questi elementi a proprio piacimento e di ridiffonderli, rendendo quindi vano ogni obiettivo iniziale di coordinazione.
Da almeno un ventennio la teoria parla di identità dinamiche, (o cinetiche, o sistemi visivi variabili) [fig. 125 - 131] come strumenti di risposta all'aleatorietà della diffusione degli elementi identitari ad uso e consumo delle tecnologie e della velocità mediatica; le interazioni online oggi possono essere affrontate come un'opportunità per creare identità variabili, che siano in grado di comportarsi come organismi viventi: l'immagine di un soggetto non è più necessariamente costruita sui tre elementi fissi (marchio, tipografia e colori), ma ammette delle possibilità di variazione di questi ultimi, gestite in modo da mantenere un livello basilare di riconoscibilità. La variabilità degli elementi grafici identificativi può essere in alcuni casi stabilita a priori tramite una gamma di possibilità più o meno vasta ma comunque già predisposta. Oppure può essere garantita da un metodo generativo progettato in modo che gli utenti finali stessi abbiano la possibilità di percepire un segno sempre casualmente differente ma sempre riconducibile al soggetto comunicante. Il designer quindi in fase di progettazione sposta la propria attenzione dalla redazione di un manuale normativo a quella di un manuale di istruzioni d'uso del processo. Tramite questo meccanismo si crea per il soggetto comunicante ⁵ In termini informatici e
mediologici, si tratta di una tendenza di utilizzo e progettazione del web caratterizzata dalla possibilità per gli utenti di interagire con i contenuti, modificandoli, implementandoli e condividendoli.
⁶ Chiappini Cristina, Cioffi Andrea, Identità cinetiche – Alcune
case history di sistemi visivi variabili,
Progetto Grafico n°9, Anno IV, dicembre 2006, Aiap, Roma.
la possibilità di arrivare più vicino possibile ai propri clienti-utenti, rendendoli partecipi della creazione della propria immagine, facendoli interagire direttamente nella creazione dell'identità, un metodo di fidelizzazione sicuramente efficace e con un potenziale sempre maggiore di consolidamento nella mente del consumatore.
L'identità dinamica può essere definita meno hard (Anceschi) dal punto di vista della progettazione, ma assolutamente non meno forte dal punto di vista della propria pervasività e persistenza nella struttura degli immaginari. Irene Van Nes parla della creazione di un'identità dinamica come di una conquista semi-rivoluzionaria: un nuovo metodo tramite il quale le aziende possono adattarsi facilmente e velocemente all'evolversi di «circostanze economiche e sociali», come alla «visione di un nuovo CEO» o «all'irrompere di rivoluzioni tecnologiche»⁷. È importante quindi rendersi conto che questa nuova prassi non deve essere essere considerata come una versione più democratica dell'affermazione di un'identità; non è stata studiata per adattare la comunicazione alle necessità sociali, ma piuttosto per consolidare il proprio potere anti-sociale e la propria pervasività in relazione ai cambiamenti nella fruizione delle informazioni visive da parte dei potenziali clienti. Ogni volta che cambia il mercato e il suo funzionamento in base alle piattaforme e agli strumenti, così cambiano le modalità di penetrazione e radicamento negli immaginari, ma il meccanismo di consolidamento del potere visivo pianificato non viene certo meno.
In verità, anche di fronte all'uso “classico” che viene fatto dell'identità visiva ancora nella quasi totalità dei casi, il web consente di osservare come la diffusione aleatoria di un marchio costituisca un esempio involontario di identità cinetica, al di là di qualsiasi previsione progettata: ogni logo viene modificato secondo le più disparate esigenze da qualsiasi utente, ma non perde la sua efficacia se rappresenta un soggetto che crea la propria reputazione attraverso il successo della propria attività. Determinati marchi arrivano a valere come veicoli potentissimi di significato a prescindere dalla loro coerenza grafica nella riproduzione. Se un soggetto opera in un determinato modo, se offre un prodotto o un servizio talmente efficace e vincente da ottenere un successo enorme in brevissimo tempo, non saprà più che farsene di una qualsiasi progettualità in termini di coordinazione grafica; il marchio di Facebook è presente sulla stragrande maggioranza dei siti web a cui accediamo, ma presenta sempre colore, dimensioni e collocazione diversi per potersi adattare agli altri elementi grafici contestuali; eppure mantiene un'efficacia enorme: se lo intravediamo, anche minuscolo, con proporzioni
completamente sballate, a risoluzione scarsa, la nostra mente si predispone improvvisamente all'opportunità di navigare in un mare già conosciuto, e quindi di sicuro successo.
⁷ Irene Van Nes, Dynamic Identities:
How to Create a Living Brand, 2013,
20
[fig. 1 › pag. 8: metropolitana di New York; fotografia in cui sono visibili gli elementi di segnaletica progettati da Unimark International nel 1966.
fig. 2: dettaglio del basamento della Colonna Traiana, monumento del II secolo, a Roma; esso reca un'incisione epigrafica realizzata con il carattere lapidario romano. fig. 3: manifesto cinematografico del film Sex and the City, del 2008. fig. 4: manifesto cinematografico del film Minority Report, del 2002. fig. 5: simbolo di un tagliapietre inciso sulla pietra della cattedrale di Trondheim, Norvegia, costruita tra il 1070 e il 1330.]
[fig. 6 e 7: pagine dal manoscritto
Codex Manesse, canzoniere in
lingua tedesca dell'inizio del 1300, con miniature policrome recanti numerosi riferimenti araldici. fig. 8: pagina dall'Hyghalmen
Roll, stemmario araldico tedesco
realizzato tra il 1447 e il 1455.]
2
3 4
22 9 10 11 12 13 14 15
[fig. 9: logo della squadra di calcio inglese West Ham United F.C. fig. 10: logo della squadra di calcio italiana A.C. Milan.
fig. 11: logo della squadra di calcio italiana A.C. Fiorentina
fig. 12: logo della squadra di calcio italiana S.P.A.L.
fig. 13: logo della squadra di calcio spagnola Athletic Club.
fig. 14: logo della squadra di calcio inglese Chelsea F.C.
fig. 15: copertina della rivista
Lo Sport Illustrato n°14, ottobre 1913,
supplemento quindicinale de La
Gazzetta dello Sport.]
24
[fig. 18: Leonetto Cappiello, manifesto per Bitter Campari, 1921. fig. 19: Leonetto Cappiello, manifesto per gli pneumatici Turrilhon.
fig. 20: Marcello Dudovich, manifesto per Bitter Campari, 1920 ca.
fig. 21: Leonetto Cappiello, manifesto per i Magazzini Mele di Napoli.]
18
20
19
[fig. 22: Marcello Dudovich, manifesto per la distilleria Stock, 1910.
fig. 23: Severo Pozzati, manifesto per l'azienda di abbigliamento Noveltex, 1928.
fig. 24: Primo Sinopico, manifesto per Bitter Campari, 1921.]
26
[fig. 25: Peter Behrens, manifesto per AEG, per pubblicizzare una lampadina a filamento metallico, 1907.]
[fig. 26 e 27: Peter Behrens, manifesti e cataloghi per AEG. fig. 28: fotografia del fabbricato Turbinenhall (padiglione per la fabbricazione di turbine progettato da Peter Behrens), presso gli stabilimenti AEG di Berlino. fig. 29: varianti del nuovo marchio AEG, progettato nel 1908 da Peter Behrens.
fig. 30: insegne recanti le denominazioni delle diverse divisioni dell'AEG, realizzate con il carattere Behrens-Antiqua.]
26
27
28
28
[fig. 31: Raymond Loewy, marchio dell'azienda di trasporti Greyhound, 1933.
fig. 32: Raymond Loewy, marchio della compagnia petrolifera Exxon.
fig. 33: Raymond Loewy, marchio dell'azienda alimentare Lu. fig. 34: Raymond Loewy, packaging delle sigarette Lucky Strike, 1941.
fig. 35: pagina del manuale degli standard grafici IBM, progettato dallo studio di Paul Rand nel 1962. fig. 36: Paul Rand, confezione per IBM facente parte di una linea progettata nel 1971.
La collaborazione tra Paul Rand e l'azienda di sistemi informatici IBM è durata dal 1956 fino agli anni Novanta.
fig. 37: Paul Rand, logo per l'azienda di spedizioni UPS, 1961.]
31 32 33 34 35 36 37
[fig. 38 - 41: Paul Rand, progetto di immagine coordinata per l'azienda di servizi elettrici statunitense Westinghouse, a partire dai primi anni Sessanta.]
38
30 42 43 44 45 46 47 48
[fig. 42 - 48: Saul Bass, progetto di immagine coordinata per l'unione delle aziende di servizi telefonici degli Stati Uniti (Bell System), 1969.]
[fig. 49: Saul Bass, logo per la American Telephone and Telegraph Company, 1984.
fig. 50: Saul Bass, logo per la Warner Communications nelle sue declinazioni di settore, 1974. fig. 51: Lester Beall, packaging per la International Paper Company, parte dell'intero progetto di identità visiva del 1967.
fig. 52: Studio Chermayeff & Geismar (Ivan Charmayeff e Tom Geismar), pagine del manuale di identità visiva per la compagnia petrolifera Mobil, 1964. ]
49 50
32
[fig. 53: copertina del testo "fondativo" di Henry Kay Henrion, Alan Parkin, Design Coordination and
Corporate Image, edito nel 1967.
fig. 54 - 57: progetto di identità visiva per compagnia aerea Lufthansa, realizzato
da Otl Aicher assieme al team E5 della Hochscule für Gestaltung (HfG) di Ulm, 1962.] 53 54 55 56 57
58 59 60
34
[fig. 65: diagramma con il processo di progettazione dell'identità coordinata, realizzato da Unimark per la comunicazione con i clienti.
fig. 66 e 67: Unimark, elementi di coordinazione visiva per l'azienda di supporti elettronici Memorex, 1968.]
65
67 66
[fig. 68 - 71: Unimark, sistema visivo per la metropolitana di New York, 1966.
68 69
70 71
36
[fig. 75 - 77: elementi dalle tavole illustrative dei Sistemi di
Identificazione Olivetti, progetto di
Clino Trini Castelli e Perry A. King (coordinazione di Hans Von Klier).]
75
38
[fig. 78 - 81: Bob Noorda, progetto di identità visiva, ambienti e segnaletica per la metropolitana di Milano, 1963-64.
fig. 82 e 83: Bob Noorda, identità visiva e pittogrammi per le guide turistiche del Touring Club Italiano, fine anni Sessanta. fig. 84: Massimo Vignelli, copertine per la casa editrice Sansoni, 1963.
fig. 85: Massimo Vignelli, marchio, Bloomingdale's, 1972.]
[fig. 86: Lietta Tornabuoni e Stefano Reggiani (a cura di),
Almanacco Bompiani 1978, Novembre
1977 Bompiani, Milano; copertina di Salvatore Gregorietti per la divisione italiana di Unimark. fig. 87: Rocco e Antonia (Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera),
Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, 1976, Savelli, Roma;
copertina di Giuliano Vittori, illustrazione di Pablo Echaurren. fig. 88: Bruno Giorgini (a cura di),
Fiori del Maggio, 1978, Savelli, Roma;
copertina di Giuliano Vittori, illustrazione di Pablo Echaurren. fig. 89 e 90: Giancarlo Iliprandi, copertine di dischi per l'etichetta I Dischi del Sole, anni Sessanta. fig. 91: copertina di Roberto Maderna, con illustrazioni di F. de Filippi, per il disco Fabbrica Galera
Piazza, di Alfredo Bandelli, 1974, I
Dischi del Sole.
fig. 92: poster per un concerto del gruppo Nuova Compagnia di Canto Popolare, 1982.] 78 79 80 81 82 83 84 85
86
87 88
89
40
[fig. 93 - 97: Mimmo Castellano, progetto di identità visiva per la comunicazione turistica delle Isole Eolie, 1979.
fig. 98: Mimmo Castellano, progetto per il marchio del CONI, 1972.] 93 94 95 96 97 98
[fig. 99 - 101: Ilio Negri, sistema di identità visiva per l'Ente Provinciale del Turismo, Milano. fig. 102 - 104: Giulio Cittato, elementi del manuale del sistema di identità visiva per la società di trasporti comunale ACTV di Venezia, 1977.
fig. 105 e 106: Giulio Cittato, elementi di confezionamento per per la Michigan Salt Company, 1969 (progetto realizzato per la divisione di Chicago di Unimark). fig. 107 - 109: Giulio Cittato, logo e elementi coordinati per i negozi Coin, inizio anni '70.]
99 100
101
102
42
[fig. 110 - 114: Pentagram, progetto di immagine coordinata per il Victoria & Albert Museum di Londra.
fig. 115: Pentagram (Mervyn Kurlansky), Nobrium: Towards True
Precision in the Control of Excessive Anxiety, 1971, edito da Roche.
fig. 116 - 118: Pentagram, sistema di identità visiva per i campionati del mondo di calcio FIFA World Cup USA'94.]
110
111 112
113 114
115
[fig. 119: Total Design (Benno Wissing), sistema di segnaletica per l'aeroporto di Shiphol, Amsterdam, 1967.
fig. 120 - 122: Total Design (Ben Bos), immagine coordinata per l'azienda di consulenza Randstad, dal 1967.
119
44
[fig. 123 e 124: manifesti pubblicitari della Nike per la promozione delle scarpe Air Jordan, brand interno alla Nike, creato e progettato nel 1985 sulla figura di Michel Jordan, cestista statunitense. In alcuni casi, al "testimonial-marca" Jordan è stato affiancato un secondo personaggio, cioè il regista Spike Lee, autore nello stesso periodo di diversi spot televisivi dedicati al brand Air Jordan.]
[fig. 125: Wolff Olins, identità coordinata con marchio "randomico" per la Tate Modern Gallery di Londra, 2000. [fig. 126: Café Design, marchio dinamico per l'azienda di consulenza e management Flow Group, basato su una griglia che consente a ogni dipendente di crearsi e utilizzare il proprio logo personale. [fig. 127 e 128: Experimental Jetset, identità visiva per il Whitney Museum di New York, con la possibilità di variare la forma del marchio a seconda delle necessità spaziali, 2012.
[fig. 129 - 131: Thonik, Edenspiekermann, identità visiva per i diversi dipartimenti del comune di Amsterdam.]
123
125
126
127 128
2
Immagine coordinata come forma totalizzante e totalitaria
Murtaza Ahmadi nel gennaio 2016 è un bambino di cinque anni che abita nella provincia di Ghazni, in Afghanistan. A partire da un post su Twitter, diventa virale in poche ore una fotografia che lo ritrae da dietro, con indosso una casacca della nazionale di calcio argentina, che egli si sarebbe autocostruito con un semplicissimo sacchetto di plastica e sulla quale campeggia il nome di Messi (Lionel Messi, calciatore argentino, considerato uno dei più forti al mondo e di tutti i tempi) e il leggendario numero 10 [fig. 132]. Tramite i rimbalzi emozionali della rete, la devozione di Murtaza per il campione argentino commuove talmente tante persone da arrivare all'attenzione del calciatore e del suo staff, i quali poco tempo dopo, individuata l'identità del bimbo, gli inviano una divisa originale della nazionale argentina autografata. I media riportano ciò che avrebbe dichiarato il bambino dopo aver ricevuto il regalo «I love Messi and my shirt says Messi loves me».
Da decenni tanti campioni sportivi non hanno più una vita sganciata dal loro essere brand e dal poter evocare moti devozionali di tutti i tipi, anche grazie alle caratteristiche visive delle divise che indossano durante le loro imprese.
2.1. Il brand è veicolo di identità e appropriazione di senso
Ripercorrendo la storia del segno grafico è fondamentale comprendere a fondo il passaggio delle forme di marchiatura da una funzionalità puramente nominativa ad una selettiva, cioè la sottile quanto
enormemente significativa mutazione del segno in marca: abbiamo visto come nell'antichità l'utilizzo di segni semplici apposti sui prodotti manifatturieri costituisca una prima forma di marchiatura che non presuppone alcuna caratteristica di concorrenza commerciale, ma che viene utilizzata piuttosto, in modo neutro, con specifiche finalità di identificazione di proprietà e differenziazione dei prodotti (in molti casi somiglianti per tecnica artigianale, materiali e funzione) nelle varie fasi di trasporto e consegna. Tramite essa è possibile far risalire ogni carico di manufatti all'attività di una specifica bottega. In questo contesto inizia però inevitabilmente a crearsi una diversa qualificazione dei prodotti a seconda della risposta a determinate caratteristiche e funzioni. Immaginiamo la produzione di contenitori in terracotta: può accadere che i manufatti della bottega A siano più resistenti, sopportino meglio gli urti del trasporto, oppure siano più impermeabili di quelli provenienti
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POLIFONIA
⁰segno di identificazione. L'applicazione del marchio di proprietà si sviluppa notevolmente anche nel campo dell'allevamento a partire dalla necessità di assicurarsi il possesso del bestiame durante i momenti di spostamento quotidiano attraverso le terre; anche in questo contesto però il segno di marchiatura cambia presto il suo significato originale passando da marchio di proprietà a marchio di qualità nel momento in cui gli animali sono portati in luoghi di vendita e destinati ad una selezione. Essi diventano a tutti gli effetti prodotti di marca. Inoltre, grazie alla
ripetizione il più possibile regolare nel tempo di determinate qualità delle merci, i soggetti produttori diventano portatori di una reputazione, che costituisce il veicolo principale per garantirsi la fiducia a lungo termine dei consumatori. Un rapporto tra produttore/emettente e consumatore/ ricevente che col tempo ha finito per riguardare inoltre, oltre alla fiducia, anche il concetto di desiderio, e di creazione di esso: «Per creare valore, tutto ciò che serve è creare, con tutti i mezzi possibili, una sufficiente intensità di desiderio. […] Ciò che in ultima analisi crea il surplus di valore è la manipolazione del surplus di desiderio.»⁸
Quello che oggi chiameremmo brand non è quindi diverso da ciò che possiamo concettualizzare come marca nel corso della storia millenaria dell'uomo e che, con Semprini⁹ (la marca), possiamo definire «sempre identica per un segno dato e sempre differente l'una dalle altre se si comparano due segni.» Per manifestare la propria utilità e quindi la propria funzione, la marca ha bisogno di uno sviluppo progressivo costituito dalla reiterazione nel tempo e nello spazio; dovendo adeguarsi col tempo alla sempre maggiore complessità dei medium e alla
massificazione dei beni, essa si è evoluta, come si è illustrato nel capitolo precedente, nel sistema segnico progettato dell'immagine coordinata, e cioè in un'insieme di pochi elementi di base (marchio, carattere tipografico, linea primaria di colori) che di volta in volta possono essere correlati tra loro e messi in pratica secondo norme più o meno rigide (indicazioni di applicazione e divieti).
Nel suo essere condensato di senso, il marchio è l'artefatto principale dell'identità visiva: in uno spazio ridotto può riassumere la filosofia della marca, i suoi valori, il suo impegno nei confronti dei soggetti a cui si rivolge. È l'accesso immediato e istantaneo alla totalità della significazione di un'identità.
Oggi le necessità di aggiornamento delle identità visive rispecchiano uno degli aspetti principali del consumo frenetico: l'adattamento continuo ai velocissimi cambiamenti dei trend visivi, in un continuo rimbalzo tra aspettative del pubblico (all'inseguimento delle mode) e creazione a tavolino di nuovi standard estetici. La conseguenza più visibile è che quasi nessun soggetto mantiene inalterato il proprio marchio per più di un lustro, o al massimo per più di dieci anni. «Google è talmente contraria alla noia che sembra voler cambiare logo tutti i giorni»
Il processo di restyle di un logo, dovuto spesso anche alle più diverse necessità di aggiornamento di un ente, è una delle operazioni più difficili da progettare. Se questo ha un'attrattività consolidata, la cui efficacia è già verificata e misurata positivamente, dovrebbe subire il minor numero ⁰ Chiappini Cristina, Cioffi
Andrea, Identità cinetiche – Alcune
case history di sistemi visivi variabili,
Progetto Grafico n°9, Anno IV, dicembre 2006, Aiap, Roma.
Evgenij Morozov, Silicon Valley:
i signori del silicio, 2016, Codice,
Torino.
Questo fenomeno rispecchia un più generale contrasto all'abitudine alla noia. Tutti i dispositivi tecnologici che possediamo (e di conseguenza tutte le interfacce grafiche che ne permettono il funzionamento) sono progettati e implementati per riempire il nostro tempo e farlo strabordare di contenuti, quasi che il cosiddetto momento morto sia diventato un sintomo negativo di catatonia. Le modifiche continue delle identità visive funzionano allo stesso modo: non ci viene lasciato più il giusto tempo per consolidare la nostra conoscenza di un brand in quanto nella sua sopravvivenza sono impliciti degli step frequenti di “ammodernamento”.
⁸ Jean-Joseph Goux, Freud, Marx -
Economia e simbolico, 1976, Feltrinelli,
Milano.
Ibidem.
Denominazione di un colore registrato come marchio. di modifiche possibili nel corso del tempo [fig. 133 - 135]. Nella
maggior parte dei casi però anche i simboli più antichi e già “segnati” nell'immaginario vengono sottoposti a processi di aggiornamento dovuti soprattutto alle necessità tecniche di riproduzione, le quali si evolvono assieme alle tecnologie ad una velocità sempre esponenzialmente maggiore.
Tramite il meccanismo del posizionamento (per il quale una determinata strategia di brand si concentra sull'investire una porzione di contenuto, un'idea, un concetto, per appropriarsene, farne territorio proprio) tutto può diventare marca [fig. 136]. Si arriva ai casi di appropriazione di un intero universo di senso, per crearne un brand (con scopi tutt'altro che democratici): nel 2013 Facebook crea Internet.org [fig. 137 e 138], una piattaforma, attualmente operativa in diversi stati dell'America Latina, dell'Africa e del Sud-Est Asiatico, lanciata con lo scopo dichiarato di promuovere l'inclusione digitale e consentire alle persone nei paesi in via di sviluppo di andare gratuitamente online. «E online ci vanno, ma in un senso molto particolare della parola: mentre Facebook e pochi altri siti sono gratuiti, gli utenti pagano per tutto il resto, spesso sulla base di quanti dati consumano le singole applicazioni. Il risultato è che ben pochi – ricordate che stiamo parlando di popolazioni molto povere – potranno permettersi il mondo al di fuori dell'impero di Facebook.»
Molti brand registrano una o più tinte cromatiche presenti nel loro marchio (Colour Trade Mark), con l'obiettivo di vietarne l'utilizzo ad altri soggetti operanti in uno stesso ambito di mercato. Operazione questa, resa possibile e legalmente tutelata a livello internazionale a partire dalle regolamentazioni sui diritti di proprietà intellettuali introdotte dal WTO (Organizzazione modiale del commercio) nel 1995 con l'accordo TRIPS (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights). Anche il colore diventa quindi di proprietà, un elemento sensoriale primario ora soggetto a sistematizzazione e controllo per finalità
economiche: quando i nostri occhi e il nostro cervello percepiranno un colore potrà capitare che il nostro pensiero sia immediatamente condotto alla marca che lo “detiene” e non alla sua naturale significazione biologica e emozionale.
2.2. "Aziendalizzazione" delle identità e ineluttabilità della forma-marca Nel contesto dell'iper-esposizione ai messaggi visivi e dell'economia turbo-capitalista in cui viviamo, basata sull'imprescindibilità e
sull'onnipotenza della comunicazione, il sistema di visibilità come forma-marca esercita un'attrattiva anche sui soggetti non commerciali; è possibile quindi verificare l'applicazione delle logiche di brand fuori dai tradizionali contesti di mercato, un fenomeno che Semprini definisce disseminazione sociale della marca⁴: ogni attività umana, lavorativa, culturale, politica, umanitaria, eccetera, si pone cioè in relazione con gli altri attori della società come se fosse un soggetto economico che necessità di un valore di marca da comunicare. A questo approccio ha sicuramente contribuito