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La democrazia disintermediata. Tra tecnocrazia e populismo

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Academic year: 2021

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Edoardo Greblo

La democrazia disintermediata. Tra tecnocrazia e populismo

1. Mediazione e disintermediazione democratica

Nel corso della loro storia, le teorie e le pratiche della democrazia si sono costantemente misurate con l’esigenza di favorire la massima corrispondenza tra i governanti, coloro che assumono le decisioni capaci di incidere sulla collettività, e i governati, coloro che a quelle decisioni dovranno obbedire. Il problema è ricorrente: come fare in modo che la democrazia “mediata” dagli organi rappresentativi si possa avvicinare, e al limite assimilare, alla democrazia “immediata”, e cioè alla democrazia diretta. Oggi, apparentemente, la soluzione è a portata di mano: si tratta della Rete, che sembra essere lo strumento attraverso il quale può finalmente esprimersi la volontà generale. Alla mediazione esercitata dai corpi politici e dal circuito rappresentativo vi è perciò chi oppone il sogno di un rapporto diretto fra governo e “popolo”, fra il potere e la massa – in fondo, così si afferma, l’ideale democratico non è un ideale di autogoverno? Se cioè la democrazia è, almeno in linea di principio, il regime della coincidenza tra governanti e governati, il popolo dovrebbe essere in condizione di esprimersi senza dover ricorrere a intermediari, poiché il regime della rappresentanza è quello della loro separazione: ai primi spetta il compito di decidere, ai secondi quello di obbedire. Se si vuole restituire il potere ai cittadini è necessario sacrificare le strutture di intermediazione convenzionali: non solo le formazioni di mediazione sociale e politica, ma anche quelle istituzionali, come il Parlamento. La parola chiave è “disintermediazione”, un termine che proviene dal marketing e dal mondo delle vendite online.1 Come queste fanno a meno della mediazione fra produttore e consumatore che passa per negozi, supermercati e centri commerciali, allo stesso modo la rappresentanza diretta fa a meno della mediazione fra produttori e consumatori di politica. Il processo che va dal produttore direttamente al consumatore va, allo stesso modo, dal governante direttamente al governato.

La volontà di accorciare le distanze tra governanti e governati non è perciò affatto nuova, ma oggi si fa sentire con una intensità particolare per effetto del discredito che circonda la classe politica e che dalla classe politica si è allargato a macchia d’olio sino a investire i corpi rappresentativi, gli istituti costituzionali e le strutture stesse di governo della società. In realtà, si potrebbe ricostruire la storia della democrazia come il susseguirsi di momenti di mediazione e momenti di disintermediazione, di costruzione come di disordine democratico. Attualmente, la disintermediazione è una risposta all’esclusione e alla sclerosi del circuito rappresentativo, una espressione di volontà politica che irrompe dall’esterno allo scopo di prefigurare una linea di sviluppo non ancora esplorata. Una linea improntata in senso extraistituzionale e che per questo deve però fronteggiare, proprio perché polemica e extra-istituzionale, un problema di legittimità, dal momento che in democrazia spetta alle istituzioni il compito di legittimare le decisioni politiche.

In democrazia le strutture di mediazione giocano un ruolo essenziale perché servono a incanalare non solo le interpretazioni dei bisogni e gli orientamenti di valore, ma anche la stessa comprensione di sé e del mondo che si è ereditata sul piano prepolitico, in leggi coercitive che rendano tra loro compatibili eguali libertà d’azione. Servono cioè a evitare che gli effetti selettivi generati dalle persistenti disparità di potere sociale e di risorse compromettano, come loro effetto secondario, l’esercizio delle libertà egualmente distribuite. A prevalere, in una democrazia che rinuncia ai processi di mediazione in cui si forma la volontà pubblica, non è altro che la legge del più forte – economicamente, socialmente o culturalmente. D’altro canto, le strutture istituzionali preposte alla mediazione possono rivelarsi inefficaci oppure unilateralmente sbilanciate a vantaggio di interessi particolari, per cui diventa essenziale rimettere in circolo le potenzialità correttive e trasformative della disintermediazione. Tra mediazione e disintermediazione vi è perciò un rapporto di circolarità, che non è però sempre pacifico e sempre produttivo. Un sistema politico può essere considerato equo ed efficiente quando permette di raggiungere un punto di equilibrio tra le forze centrifughe e le forze centripete che concorrono alla

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formazione della volontà pubblica. Ma come valutare il carattere democratico di questo compromesso? L’ipotesi suggerita nelle pagine che seguono è che il criterio normativo pertinente sia costituito dai progressi della libertà nel senso dell’autonomia dell’individuo.

È probabile che attualmente il punto di equilibrio sia più vicino al lato della mediazione, nelle pratiche istituzionali come nelle forme di governo mentre, invece, il dibattito pubblico sembra orientarsi nella direzione della disintermediazione e del conferimento di potere decisionale direttamente al corpo elettorale. La tendenza a privilegiare la mediazione viene affermata da chi ritiene necessario ridurre la complessità sociale tramite procedure giuridiche e amministrative. Il sogno che la decisione legislativa venga rimessa direttamente agli elettori viene invece proposto da chi intende valorizzare l’esperienza di immediatezza fornita dalle tecnologie che consentono un accesso immediato alle informazioni e alla istantaneità delle comunicazioni e delle decisioni. Per chi insegue questo sogno, l’asse del male sarebbe costituito da una “casta” autoreferenziale che comprende sia i tradizionali mediatori politici, come quelli formalmente incaricati di mediare fra il popolo e il governo, come politici, partiti o sindacati, sia i mediatori informali, come giornalisti, esperti, professori. L’asse del bene sarebbe invece rappresentato da un popolo raffigurato come una entità omogenea e priva di differenziazioni, espropriato della propria sovranità a causa della “congiura” ordita a suo danno da élites politiche chiuse e autoreferenziali. È questa visione manichea della lotta politica a rendere oggi necessario riabilitare un’idea di democrazia intesa come l’ordinamento istituzionale che cerca di salvaguardare la libertà, intesa nel senso dell’autonomia dell’individuo, attraverso pratiche di mediazione tra i conflitti d’azione che investono la distribuzione dei beni socialmente disponibili. Questo non significa che le soluzioni convenzionali non comportino paradossi e limiti e possano, in alcune circostanze, rivelarsi persino regressive da un punto di vista democratico. L’ipotesi suggerita in queste pagine è che l’idea di democrazia concepita come bilanciamento di interessi, ovvero come una pratica istituzionale di mediazione, offra maggiori possibilità di promuovere l’eguale libertà democratica dei cittadini rispetto alla disintermediazione.

Se questo punto di vista sembra in controtendenza rispetto agli umori che circolano in larghi settori dell’opinione pubblica è perché l’immagine convenzionale della democrazia proposta dai fautori della democrazia diretta è ancora ispirata al modello del governo assembleare, proposto da Rousseau, dove individui isolati e autointeressati si trasformano in cittadini orientati al bene comune della comunità etica. Il solo modo per rafforzare la democrazia consiste dunque nell’incrementare la libera partecipazione di tutti.2 Le forme immaginate dai promotori della democrazia diretta per dare concretezza all’ideale dell’autolegislazione democratica sono varie e diversificate, ma hanno tutte in comune una radicata sfiducia nei confronti della rappresentanza, considerata come l’espressione di una forma aristocratica di potere.3 La democrazia rappresentativa appare tutt’al più un provvisorio compromesso tra l’ideale di democrazia diretta e la complessità della società contemporanea. Diversi autori hanno richiamato l’attenzione su questo errore di valutazione e hanno sottolineato quanto la rappresentanza sia cruciale per costruire le nostre pratiche democratiche,4 mentre invece per chi propugna l’immediatezza politica la democrazia rappresentativa è al limite il male minore, l’opzione di riserva cui ricorrere quando la democrazia diretta non risulta possibile. Ciò che, in questa prospettiva, ci si vieta di riconoscere è che proprio i risultati conseguiti per via di procedura raggiunti tramite la democrazia indiretta possono invece dare voce alla eguale libertà democratica dei cittadini.

Il mito dell’immediatezza si alimenta di una più o meno esplicita inclinazione verso concezioni organiche del legame sociale, che concepiscono la prestazione propria dell’autorealizzazione come un’impresa la cui natura comunitaria e cooperativa sarebbe stata alterata e compromessa dagli interessi

2 B. Barber, Strong Democracy. Participatory Democracy for a New Age, University of California Press, Berkeley, CA, 1984; C.

Pateman, Participation and Democratic Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1970; S.W. Rosenberg (a cura di), Deliberation, Participation and Democracy. Can the People Govern?, Palgrave Macmillan, New York, 2007; M.H. Bacqué e Y. Sintomer (a cura di), Démocratie participative-histoire et généalogie, La Découverte, Paris 2011; Cf. D. Held, Modelli di democrazia, trad. it., il Mulino, Bologna 2004 [2000], pp. 368-382.

3 N. Urbinati, Democrazia in diretta. Le nuove sfide della rappresentanza, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 113-145.

4 D. Plotke, Representation IS Democracy, in “Constellations”, IV (1/1997), pp. 19-34; L. Disch, Toward a Mobilization Conception

of Democratic Representation, in “American Political Science Review”, CV (1/2011), pp. 100-114; N. Urbinati, Democrazia in diretta, cit., pp. 89-110.

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di parte. La “restituzione dello scettro al principe” viene spesso presentata nella prospettiva di un ritorno alle radici, al contratto iniziale, alla posizione originaria, alle risorse di senso e di fiducia accumulate attraverso le relazioni personali. Allo stesso tempo, questo mito è stato significativamente influenzato da quella che Rosanvallon ha definito come la “cultura dell’unanimismo”,5 che in Carl Schmitt trova una versione estremizzata nella acclamazione plebiscitaria, figura autenticamente democratica della pubblica opinione e tipica della preminenza del “pubblico” che contraddistingue la democrazia.6 La democrazia è la spontanea e immediata espressione, per acclamazione, di una volontà popolare pre-costituita, e quindi una decisione politica che esclude l’elemento della rappresentanza. L’idea, in sostanza, è che la decisione di anteporre il perseguimento del bene comune ai fini privati, per inserirsi nella collaborazione cooperativa con altri in vista di un miglioramento delle condizioni sociali di vita, sia realmente alla portata di tutti. Come ha osservato Schumpeter, per i filosofi del XVIII secolo il bene comune era così evidente che “non v’è scusante per chi non lo riconosce, né spiegazione del fatto che qualcuno non lo riconosca, all’infuori dell’ignoranza – che si può eliminare –, della stupidità o dell’interesse antisociale”.7 La possibilità che l’orientamento civico al bene comune possa coniugarsi agli interessi socialmente differenziati dei privati sarebbe andata perduta per effetto della crescente difficoltà di padroneggiare sistemi amministrativi, burocratici e funzionali resisi sempre più autonomi. Finalmente però, grazie ai nuovi movimenti sociali e alle possibilità digitali, si sarebbe aperta una nuova finestra di opportunità, così da liberare le energie spontaneamente espresse dalla società e da ri-democratizzare il sistema politico, recuperando la spontaneità democratica andata perduta.

Non solo, però, un approccio di questo genere lascia trasparire una chiara idealizzazione retrospettiva delle origini ma, e soprattutto, ostacola la comprensione della logica che ha alimentato la crescente complessità dei sistemi di controllo e di decisione – che includono, naturalmente, anche procedure democraticamente ingiustificabili. Una volta inseriti entro questo sfondo immaginario, gli sviluppi storici della democrazia non possono che apparire come un’applicazione unilaterale, o addirittura “di parte”, del principio della paritaria partecipazione di tutti alla formazione deliberativa della volontà politica. Tuttavia, è altamente verosimile che in una democrazia complessa le possibilità di partecipazione risultino superiori a quanto si verifica in una cultura politica ispirata all’unanimismo e fondata sull’acclamazione, poiché l’individualismo nei progetti esistenziali delle persone e il pluralismo nelle forme di vita collettive caratteristici delle società moderne rendono irrealistica l’ipotesi di una volontà generale oggettiva e immanente alla quale le singole volontà individuali tendano a uniformarsi. Allo scopo di garantire tanto l’efficacia della soggettività collettiva quanto i diritti delle soggettività individuali, le società democratiche sono costrette a progettare un’architettura istituzionale in grado di riportare questo rapporto di tensione a una dimensione di compatibilità. La spontaneità delle iniziative popolari, anche quando trova sostegno nell’associazionismo di una cultura politica liberale, non è in grado di articolare il moderno pluralismo degli interessi e delle visioni del mondo in una prospettiva universalistica e decontestualizzata. Una democrazia liberale deve bilanciare la partecipazione dei cittadini con lo Stato di diritto, la protezione delle minoranze, la divisione dei poteri e le istituzioni rappresentative che, in una prospettiva improntata all’immediatezza, non sono che un intralcio alla libera espressione della volontà popolare. La mediazione rappresentativa muove invece dall’assunto che l’eguale libertà di tutti possa essere garantita solo trovando soluzioni di compromesso che lascino sussistere il disaccordo tra le parti nella prospettiva di un bilanciamento degli interessi ritenuto sufficientemente equo anche, eventualmente, per ragioni rispettivamente diverse. Come ha scritto Kelsen, “in una democrazia il contenuto dell’ordinamento giuridico non è determinato esclusivamente dagli interessi della maggioranza, ma è il risultato di un compromesso fra i gruppi”.8 Ma come evitare che negoziazioni e compromessi finiscano per trovare soluzioni così al ribasso da deludere o frustrare le aspettative dei rappresentati? Oppure, come garantire che il rappresentante, il quale opera senza vincoli ed esercita un mandato libero, diversamente dal commissario che è tenuto a osservare le istruzioni ricevute, perda “rappresentatività” e acuisca il divario tra le istituzioni e i cittadini?

5 P. Rosanvallon, La legittimità democratica, trad. it., Rosenberg & Sellier, Torino 2015 [2008] 6 C. Schmitt, Dottrina della costituzione, trad. it., Giuffrè, Milano 1984 [1928].

7 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, trad. it., Etas Libri, Milano 1977 [1941], p. 239. 8 H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it., Etas, Milano 2000 [1945], p. 293.

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Se l’uguaglianza politica è un principio normativo che per essere praticabile va realizzato tramite opportune procedure, è perché i presupposti di base della mobilitazione politica e del suo sviluppo spontaneo non sono distribuiti in modo egualitario. In una democrazia complessa la partecipazione attiva dei cittadini non è sufficiente a legittimare la democrazia. Il principio democratico che annette pari influenza a tutti i cittadini nei processi di decisione politica non può essere raggiunto in assenza della loro partecipazione ma, tuttavia, anche un “eccesso” di partecipazione può avere effetti controproducenti. La partecipazione, infatti, non è necessariamente uno strumento egualitario in quanto spesso ratifica e addirittura amplifica le asimmetrie presenti nella società. Come affermava Norberto Bobbio, che «nulla uccide più la democrazia che l’eccesso di democrazia».9 La correzione di queste asimmetrie richiede una precisa architettura istituzionale fatta di procedure, accordi, transazioni e compromessi. Se, dal punto di vista dell’immediatezza populista, l’architettonica dello Stato democratico di diritto si nutre di artifici che svuotano la volontà popolare di ogni sostanza, nella versione tecnocratica di un paternalismo fondato sulla monopolizzazione del sapere questi “artifici” servono da copertura a politiche “razionali” anche se impopolari. Si tratta perciò – prendendo egualmente le distanze dall’una e dall’altra prospettiva – di giustificare l’importanza dei poteri di intermediazione nella prospettiva di una ri-costruzione della volontà politica affinché la volontà popolare possa essere il risultato ex post di una pubblica formazione dell’opinione invece che il suo presupposto ex ante. La superiorità di un modello deliberativo di democrazia non va legata soltanto ai risultati, ma alle sue procedure: “democrazia è, anzitutto, discussione. Non scelta. Più del risultato, conta il procedimento. La decisione è, idealmente, risorsa cui ricorrere in ultima istanza, quando ogni altra soluzione rivolta alla creazione del consenso risulta non ulteriormente praticabile”.10 Una superiorità, rispetto alla democrazia diretta, che non ha a che fare soltanto con la migliore qualità delle sue decisioni ma anche con la maggiore tutela della eguale libertà dei cittadini.

2.Ordine e disordine democratico

Le democrazie devono essere disponibili a garantire l’inclusione di tutte le prospettive interpretative e di tutte le voci volta per volta rilevanti, anche di quelle escluse dall’agenda politica oppure invariabilmente subordinate ad altre priorità. Nessuna democrazia può rimanere insensibile alle iniziative esterne al quadro politico convenzionale nelle quali si concentra quel surplus di energia politica che può riscattare la promessa democratica dell’inclusione, cioè dell’eguale partecipazione di tutti i cittadini al processo politico, anche al di là di un paritario diritto elettorale. Queste manifestazioni di energia politica possono essere concepite in molti modi diversi e possono richiedere forme di mobilitazione altrettanto diverse. Ma, da un punto di vista democratico, condividono quella promessa di eguale libertà in nome della quale l’individuo, con tutte le sue legittime libertà, possa vedersi riconosciuti i suoi diritti nell’ordine sociale. Anche le principali teorie della democrazia deliberativa sottolineano la capacità di iniziativa che è tipica di “quell’informale (anarchica) formazione dell’opinione che nasce dalla mobilitazione di sfere pubbliche culturali”11 che, stanche dei rituali della politica tradizionale, richiamano alla necessità di una rinnovata capacità di azione anche, talvolta, con effetti destabilizzanti o imprevisti. L’incertezza che caratterizza i processi decisionali democratici non ne rappresenta necessariamente un difetto, poiché è anche ciò che ne costituisce la forza normativa. Mentre il ruolo dei processi democratici istituzionalizzati, come quelli che trovano la loro massima espressione nei parlamenti, è di mettere a confronto punti di vista che sono espressione di interessi già organizzati, il “contesto di scoperta rappresentato da una sfera pubblica che non è disciplinata da procedure, bensì sorretta dalla generalità della cittadinanza […] consente di percepire problemi nuovi in maniera più acuta, condurre discorsi di autochiarimento in maniera più ampia ed espressiva, articolare identità collettive e interpretazioni di bisogno in maniera più libera”.12 La formazione istituzionalizzata della volontà generale dovrebbe rimanere permeabile, sensibile e ricettiva a proposte, temi e contributi,

9 N. Bobbio, Democrazia rappresentativa e democrazia diretta, in G. Quazza (a cura di), Democrazia e partecipazione, Stampatori,

Torino 1978, p. 34.

10 F. Pallante, Contro la democrazia diretta, Einaudi, Torino 2020, pp. 88-89. 11 J. Habermas, Fatti e norme, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2013 [1992], p. 209. 12 Ibid, pp. 344-345.

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informazioni e argomenti derivanti da flussi di comunicazione che “formano nel loro insieme un terreno “selvaggio”, mai interamente organizzabile dall’alto”.13 Si tratta di una condizione necessaria, se si vuole garantire a tutti i cittadini la possibilità di influenzare la formazione dell’opinione e della volontà del legislatore, per quanto non ancora sufficiente.

Perché, allora, la partecipazione popolare, per quanto indispensabile, non offre di per sé alcuna garanzia a favore di una democrazia più rispondente alla volontà del popolo o ai sentimenti della nazione? La risposta è: perché non garantisce l’uguaglianza politica. “Data la sua struttura anarchica, la sfera pubblica generale è assai più esposta – rispetto alle sfere pubbliche dei corpi parlamentari, che sono organizzate formalmente – agli effetti repressivi e selettivi generati dalla diseguaglianza del potere sociale, dal carattere strutturale della violenza, dalla distorsione sistematica della comunicazione”.14 È vero perciò che non vi è capacità di rinnovamento democratico se il circuito istituzionale rimane sordo alle istanze che alimentano la mobilitazione popolare, ma non va nascosto il fatto che le iniziative spontanee provenienti dal basso possono anche riflettere l’esercizio selettivo del ruolo di cittadino a partire da situazioni d’interesse clientelare. La necessità di guardare con prudenza ai tentativi di “democratizzare” la democrazia rispettando alla lettera la presunta volontà popolare, incrementando la partecipazione e favorendo il coinvolgimento della società civile nei processi decisionali nasce anche da una semplice constatazione: e cioè dal fatto che le iniziative dal basso sono in realtà uno specchio in cui si riflettono le disuguaglianze sociali. Le disuguaglianze che attraversano la società sono le stesse che si ritrovano nella mobilitazione politica.

Alcuni studi hanno rivelato che i protagonisti più attivi delle iniziative politiche spontanee sono i membri dei ceti superiori, in termini di reddito e di istruzione.15 Allo stesso tempo, l’universo delle proteste organizzate rispecchia una polarizzazione che risulta spesso artificiale e sembra riprodurre nuove forme di elitarismo. A prevalere tende generalmente chi è più interessato a partecipare o adotta un tono di voce più alto.16 Come esiste una professionalizzazione della politica, così esiste anche una professionalizzazione delle proteste e dell’attivismo. Come quasi ogni altra cosa, anche la conoscenza politicamente rilevante non è egualmente presente in tutte le fasce della popolazione e la sua distribuzione asimmetrica si traduce nei dati di partecipazione, che risentono del digital divide e che aumentano con il crescere dei livelli di istruzione, reddito e status professionale.17 L’esaltazione della Rete quale strumento privilegiato dell’interazione politica, dal momento che consentirebbe alla volontà degli elettori di esprimersi senza il filtro dell’interpretazione altrui, si è rivelata largamente ottimistica. Gli effetti democratizzanti della nuova arena digitale appaiono sempre più come altrettante promesse al vento: invece di creare una sfera comunicativa senza controlli e dove sia possibile far pesare la volontà dei cittadini senza i rituali della mediazione politica, l’ascesa della rete come ambiente globale ha spesso favorito l’ascesa di leader spregiudicati e autoritari.18

Ma ci si può anche porre una domanda di fondo riguardo al modello di cittadinanza che ispira l’esaltazione delle forme di partecipazione diretta. In generale, la democrazia diretta attrae il cittadino-consumatore passivo; in altre parole, chi sembra poco interessato a esprimere la propria opinione nello spazio pubblico e preferisce le forme plebiscitarie di decisione, assunte senza filtri o modulazioni deliberative. La democrazia diretta e le forme decisionali plebiscitarie sono strumenti apolitici e se godono di maggiore prestigio di quello che meritano è perché appaiono in sintonia con quel sentimento popolare diffuso e trasversale che considera una democrazia a-politica come la forma di governo più adatta a una società che governa se stessa senza la farraginosità delle mediazioni istituzionali. La tendenza dei cittadini a trasformarsi in cittadini-consumatori che rinunciano a porsi il problema di un

13 Ivi. 14 Ivi.

15 C. Pattie, P. Seyd e P. Whiteley, Civic Attitudes and Engagement in Modern Britain, in “Parliamentary Affairs”, LVI (4/2003),

pp. 616-633.

16 Cfr. N. Urbinati, Democrazia in diretta, cit., p. 114.

17 M. Hindman, The Internet Trap: How the Digital Economy Builds Monopolies and Undermines Democracy, Princeton University

Press, Princeton 2010.

18 A. Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina, Milano 2017; C. Sunstein, #Republic. La

democrazia nell’epoca dei social media, trad. it. il Mulino, Bologna 2017 [2017]; M. Barberis, Come Internet sta uccidendo la democrazia,

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più ampio contesto collettivo di responsabilità sancisce la tirannia del presente sul futuro e il prevalere degli interessi di chi può esercitare forme di pressione “in tempo reale” e sacrificare gli interessi di chi è, per così dire, “fuori tempo”. Le democrazie devono essere coerenti con principi normativi che siano capaci di garantire l’eguale libertà di chi vive nella finestra temporale dell’attualità – perché gode dei diritti politici, ha l’opportunità di mobilitarsi politicamente oppure fa parte di associazioni lobbistiche in grado di trasformare il proprio potere sociale in potere politico. Ma dovrebbero essere in grado di espandere il raggio della loro responsabilità in modo che la portata delle decisioni includa la protezione di beni che non rientrano nell’arco temporale di una sola legislatura o di una sola generazione. Si tratta di un aspetto della eguale libertà politica che merita almeno altrettanta considerazione di quella riservata ai componenti dell’elettorato realmente esistente. È perciò necessario adottare una concezione dell’uguaglianza democratica meno restrittiva di quella convenzionale e capace di includere anche coloro che non hanno alcuna possibilità ad hoc di fare sentire la loro voce, come le generazioni future. Per esempio, di fronte ai rischi dell’energia atomica o della tecnologia genetica sorge il problema di una tutela fiduciaria di interessi futuri – tutela che, siccome risulta proiettata in avanti, rimane pur sempre dipendente da prognosi incerte e passibili di continue rettifiche.

Tutto ciò non significa che la democrazia rappresentativa assicuri necessariamente e invariabilmente l’uguaglianza politica, ma che l’eguale libertà non può essere garantita senza le istituzioni della democrazia rappresentativa. La rappresentanza democratica, oppure, ed è la stessa cosa, la democrazia rappresentativa, è la forma di governo che garantisce un maggiore livello di eguaglianza politica rispetto alle forme dirette di democrazia. La democrazia deliberativa vive infatti del “gioco di scambio” (Habermas) tra le energie dei vincoli comunicativi che non scorrono esclusivamente lungo il canale formalizzato delle deliberazioni e delle decisioni proceduralmente autoregolate, da un lato, e la formazione istituzionalizzata dell’opinione e della volontà nei parlamenti e nei tribunali, dall’altro lato. Anche a prescindere dalle distorsioni della sfera pubblica, le aspettative che gravano sulla democrazia rappresentativa possono essere soddisfatte solo attraverso una specie di “divisione del lavoro”, ovvero attraverso una interazione tra le arene informali dell’opinione pubblica, in cui in cui vengono liberamente discusse pretese di validità e prese di posizione, e i processi consultivi e decisionali giuridicamente istituzionalizzati nello Stato.

Il ruolo delle istituzioni della democrazia rappresentativa consiste nell’introdurre la differenziazione dei ruoli, dei valori e delle prospettive sociali tenendo conto delle possibili asimmetrie di potere che si presentano in ogni contesto scarsamente regolamentato. Fra i compiti fondamentali dei sistemi politici rientra l’impegno a individuare e – se possibile – soddisfare le esigenze della cittadinanza assente o fuori gioco. Dal momento che le trattative sono una forma particolare di comunicazione, le procedure rappresentative devono operare come una sorta di filtro, prevenendo l’eventualità che si creino strutture di potere politico in grado di riprodurre strutture di potere economico o sociale preesistenti. In questo senso, alle istituzioni della democrazia rappresentativa risultano assegnati due ruoli distinti, e tutti e due svolgono la funzione di salvaguardare il pluralismo e l’uguaglianza necessari ad assicurare la legittimità dell’ordine politico: anzitutto, includere nel processo politico il maggior numero possibile dei punti di vista e, in secondo luogo, accertare che tutti gli interessi pertinenti possano essere fatti valere con peso eguale nel processo delle trattative. Si potrebbe aggiungere un terzo ruolo, che non ha tanto a che fare con l’uguaglianza formale quanto con le forme di mobilitazione politica orientate in senso ugualitario: fare il modo che al testo della “protesta” si accompagni il sottotesto di una “proposta” in grado di modificare la realtà sociale che ne è all’origine.

3. La legittimità tra tecnocrazia e populismo

I processi della politica istituzionalizzata danno spesso l’impressione di operare in modo da contenere le energie spontaneamente espresse dalla società e approfondire la distanza tra governanti e governati. Occorre perciò dimostrare che la mediazione democratica opera invece per includere nei processi politici decisionali la pluralità delle prospettive sociali, correggere l’uguaglianza meramente formale degli individui e realizzare finalità collettive. Il compito della politica non è di stabilire un rapporto immediato e continuo tra elettori ed eletti e di trasferire al livello dei poteri costituiti richieste che pretendono di valere “immediatamente”, ma di favorire il confronto tra le varie alternative al fine di

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individuare una posizione condivisa da sottoporre alla decisione dell’autorità competente. Non si tratta di raggiungere una qualche forma di equilibrio tra istanze politiche precostituite, ma di conquistare quel livello riflessivo di consapevole mediazione che sfrutta il dissenso per consentire al pluralismo sociale di esprimersi quanto più liberamente possibile, ma senza rompere con le norme che assicurano la pacifica convivenza di tutti i singoli soggetti. Se è la mediazione politica, e non la democrazia diretta, a rendere la democrazia più inclusiva, è necessario però immaginare un concetto di legittimità diverso o complementare rispetto alle alternative che oggi sembrano prevalere. Ovvero un concetto che si potrebbe definire come il lato popolare della legittimità non popolare.

La questione della legittimità democratica è stata spesso affrontata nella prospettiva del rapporto di potenziale tensione tra i principi della democrazia, orientati alle procedure, e i principi della giustizia, orientati ai risultati. Un rapporto che trova espressione nel giudizio critico di un pubblico di cittadini che si mobilita con strumenti straordinari per combattere l’inerzia sistemica della politica convenzionale. La posta in gioco riguarda i modelli di legittimità sui quali si basano le istituzioni e le pratiche politiche: la legittimità che deriva dal sostegno o dall’accettazione popolare delle decisioni implementate tramite le procedure di routine, oppure la legittimità che i governi acquisiscono nella misura in cui assicurano il godimento dei beni collettivi e risolvono i problemi complessivamente rilevanti per la riproduzione sociale. Da un punto di vista strettamente democratico, il sistema politico è giustificato più dalle procedure di consultazione e di decisione che dai risultati, ma la soluzione del problema non dipende dalla definizione di una sorta di gerarchia tra i due modelli di giustificazione politica. Da un lato, è vero che anche la neutralità delle procedure può sollevare dubbi sostanziali. Se, come per i comunitaristi, le procedure non sono separabili dal contesto delle “visioni del mondo”, ideologie, progetti di vita, allora nessun principio che si presenta come neutrale può mai esserlo sul serio, e ciò può condizionare in senso negativo anche le decisioni proceduramente autoregolate.

Tuttavia, non è affatto scontato che procedure migliori assicurino automaticamente risultati migliori. La legittimità degli esiti, la legittimità di output per così dire, richiede che i leader politici pongano l’interesse collettivo al sopra degli interessi parziali del proprio elettorato di riferimento, per quanto sia difficile immaginare che le decisioni proceduralmente corrette possano risultare orientate in senso contrario alle aspettative dei destinatari. Anche certe forme di paternalismo benevolo potrebbero rispondere alle esigenze di legittimità se le decisioni fossero confortate dai risultati, così come decisioni capaci di rispondere a tutti i requisiti procedurali di legittimità possono rivelarsi inefficaci o ingiuste. Il fatto che la legittimità in termini di risultati non sia sufficiente e che la razionalità procedurale dell’argomentazione discorsiva non sia il solo aspetto rilevante spiega la crescente richiesta di un’allargata partecipazione dei cittadini alle arene decisionali. Questa richiesta ha anche però contribuito a promuovere un’idealizzazione in chiave rousseauiana della democrazia, per cui i rappresentanti devono essere programmaticamente comandati a tradurre in decisioni legislative gli interessi collettivi formulati da elettori che hanno già preventivamente chiarito a se stessi quali siano le policies da realizzare, prima ancora che la dimensione deliberativa di una pubblica formazione dell’opinione abbia avuto modo di realizzarsi.

In realtà, il rapporto di tensione tra la legittimità basata sull’osservanza delle procedure e la legittimità basata sull’efficacia dei risultati può essere (almeno in parte) ridimensionato se lo si integra con una distinzione analoga, quella tra l’accettabilità razionale, che porta in primo piano la qualità degli argomenti e la struttura del processo argomentativo, e l’accettazione, che misura il livello di accettazione fattuale delle decisioni da parte dei cittadini.19 La prima ha il carattere ipotetico di una promessa condizionata, nella quale si articola l’orizzonte di un futuro suscettibile di smentirla; la seconda ha il carattere di una constatazione fattuale, ma non è sempre legittima, come il fenomeno del populismo si incarica quotidianamente di rivelare. L’accettabilità consente agli attori politici di avere il futuro dalla loro parte, anticipando gli umori dell’opinione pubblica oppure governando, anche se certo non a lungo, senza lasciarsi condizionare dalle sue fluttuazioni, mentre l’accettazione pone fine al loro “controllo” del futuro, poiché arriva sempre il momento in cui la riserva di credito assegnata a chi governa finisce per esaurirsi. Detto in un altro modo, non vi è democrazia legittima se viene meno la 19 H.-J. Lauth, G. Pickel e C. Welzel, (a cura di), Demokratiemessung. Konzepte und Befunde im internationalen Vergleich,

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possibilità di governare anche in controtendenza rispetto all’imprevedibilità di masse populisticamente seducibili e indottrinabili, ma ve ne è ancora meno se questa distanza diviene pretesto, opportunità o occasione per assegnare forza materialmente vincolante a decisioni assunte senza il necessario rispetto delle procedure. Si tratta di concedere agli organi di potere tanto potere di delega e di anticipazione quanto è necessario, e di riconoscere ai cittadini tanto potere di verifica e di controllo quanto è possibile: potrebbe suonare così la formula che definisce una pratica di governo che non voglia essere né politicamente contraddittoria né democraticamente ingiustificabile. In effetti, è evidente che sarebbe sbagliato chiedere ai cittadini di rinunciare alla democrazia in cambio di risultati oppure di scegliere tra competenza e partecipazione. Il modo in cui l’asse tecnocrazia-populismo si è rivelato capace di modificare in profondità l’opinione pubblica e di trasformare i parametri di formazione della volontà politicamente costituita testimonia di quanto profonda sia divenuta la crisi della legittimità democratica. Crisi che dipende, in larga misura, dall’acuirsi del rapporto di tensione tra i principi della democrazia, orientati alle procedure, e i principi della giustizia, orientati ai risultati.

Ora, per immaginare una prospettiva capace di affrontare simultaneamente la questione della legittimità di input e quella della legittimità di output è sufficiente mettere in luce come l’esigenza di sfruttare il “valore d’uso” della democrazia incorpori entrambe le forme di legittimità. Da un lato, infatti, dal momento che include la dimensione dell’input, impedisce che l’agenda politica venga decisa sulla base tecnocratica di un paternalismo fondato sulla monopolizzazione del sapere; dall’altro, siccome prevede che la legittimità dell’output venga sottoposta al vaglio di una discussione pubblica nella quale tutte le voci, anche quelle dissonanti, hanno l’opportunità di farsi sentire, priva di significato la pretesa populista di rappresentare il popolo come se se fosse un “Io collettivo” omogeneo e indifferenziato. I tecnocrati tendono a ignorare le asimmetrie del potere costituito e a nutrire un estremo timore per le nuove opportunità che si presentano in occasione di ogni processo costituente e di ogni diretto intervento del popolo sulla scena politica. Ciò spiega il loro scarso entusiasmo per le riforme costituzionali, i movimenti sociali o le forme di partecipazione popolare in generale. I populisti, d’altra parte, tendono a sopravvalutare queste possibilità e a disconoscerne i vincoli e i rischi. I primi ritengono che non vi siano alternative, gli altri che l’alternativa sia sotto gli occhi tutti.

I tecnocrati non hanno torto quando osservano che la democrazia non può essere concepita come una successione discontinua di big bang costituenti, ma la loro ossessione per la stabilità finisce per stabilizzare la disuguaglianza ovvero, paradossalmente, proprio per consolidare proprio la principale fonte di instabilità. La società democratica non può essere ridotta al mondo delle pratiche spoliticizzate sognato dai tecnocrati, poiché è uno spazio in cui l’autonomia politica dei cittadini trova periodicamente occasione di opporsi a quella tendenza regressiva che li porterebbe ad accettare come definitiva e immodificabile la propria situazione esistenziale e di costringere le politiche istituzionalizzate a reinterpretare i principi dello Stato democratico di diritto alla luce dei propri bisogni. Per i tecnocrati che custodiscono l’ordine stabilito, ogni proposta di reinterpretazione deve necessariamente scorrere sui binari funzionali e amministrativi di routine, ma ciò impedisce di rispondere ai problemi che, come nel caso dei nessi di vita tradizionalmente rappresentati da pratiche, costumi e istituzioni, non si lasciano ricostruire nei concetti del diritto formale. In casi come questi, è quasi inevitabile che le procedure di input predetermino gli esiti di output. La legalità possiede valore politico quando include procedure di riforma che prevedono un esito aperto, altrimenti si tratta di una semplice forma di opportunismo.

I populisti, d’altra parte, coltivano un’idea disfattista della politica istituzionale e nutrono una fiducia ingiustificata nel valore aggiunto che gli atti costituenti apportano alla qualità della vita democratica. Non c’è dubbio che i momenti di coinvolgimento immediato dei cittadini possono servire a rimettere in movimento gli inevitabili momenti d’inerzia del sistema politico, ma il populismo appare generalmente poco propenso a prendere in considerazione le asimmetrie che si presentano in tutti i processi costituenti, dove a emergere sono gli attori sociali più motivati, organizzati e radicalizzati. Allo stesso tempo, l’esperienza storica del populismo al potere non aiuta a fugare il sospetto che la maggioranza, una volta al governo, tenda a degradare il rispetto liberale per i diritti civili in generale e per quelli delle minoranze che non rientrano nell’immagine idealizzata del popolo “vero”.20 Né rassicura

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circa l’eventualità che le nuove élites incarnino l’azione politica democratica nella sua forma migliore, visto che possono sempre fare ricorso, per giustificare le proprie scelte, ad eroici appelli all’epica della sovranità popolare piuttosto che alla prosaica dimensione gestionale dell’ordine e della stabilità.

In buona sostanza, è la reale eguaglianza nella possibilità di dare voce alle istanze dei cittadini, e quindi di garantire i progressi della libertà nel senso dell’autonomia di ogni individuo, che dovrebbe rappresentare il criterio normativo per giudicare la legittimità delle decisioni dei governi e delle maggioranze. La mediazione provvede a garantire l’uguaglianza; la disintermediazione a fornire la voce. L’uguaglianza e la voce rappresentano entrambi valori democratici essenziali, e ciascuno corregge o riequilibra l’altro. La disintermediazione corregge l’esclusione; la mediazione corregge la disuguaglianza. Il rapporto di tensione tra potere costituito e potere costituente, tra la razionalità dell’ordine stabilito e le energie del disordine creativo, va inteso come una fertile inimicizia il cui obiettivo finale è di correggere le disuguaglianze che contraddicono il principio democratico in base al quale tutti i cittadini – non importa quanto politicamente attivi possano essere o oppure se si tratti di membri della maggioranza oppure di una minoranza – godono della stessa capacità di influenzare la formazione della volontà politica. In questa prospettiva, la funzione delle istituzioni politiche è quella di assicurare a tutti eguali possibilità di condizionare la formazione parlamentare della volontà e il gioco-di-scambio degli interessi organizzati, impedendo la cristallizzazione di oligarchie elettive o correggendo le asimmetrie ingiustificabili che tendono a prodursi nei momenti in cui le energie spontanee della società escono dalle corsie convenzionali della vita politica. Il paternalismo di una tecnocrazia benitenzionata non è in grado di garantire questa forma di uguaglianza, a meno di non sottoporla al vaglio dei processi che danno luogo alla formazione istituzionalizzata dell’opinione e della volontà che si compie nei parlamenti. Il populismo pratica invece una sorta di elitarismo capovolto, per cui, là dove i tecnocrati sostengono la neutralità apolitica degli esperti, essi rivendicano la “purezza” originaria del popolo, contrapposta tanto alla rappresentanza politica quanto ai limiti istituzionali imposti al potere politico legittimato dalle elezioni.21 Per sfuggire alla morsa tanto del paternalismo tecnocratico quanto dell’immediatismo populista è perciò necessario che un sistema politico trovi la forza di raggiungere un punto di equilibrio tra le forze centrifughe e le forze centripete che concorrono alla formazione della volontà pubblica – equilibrio che può essere considerato democratico a condizione che il criterio

normativo pertinente sia costituito dai progressi della libertà nel senso dell’autonomia dell’individuo.

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