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Il diritto del lavoro nel Giappone contemporaneo tra norme e consuetudini

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Corso di Laurea magistrale

in Lingue e Istituzioni Economiche e

Giuridiche dell’Asia Orientale

Prova finale di Laurea

Il diritto del lavoro nel Giappone

contemporaneo tra norme e

consuetudini

Relatore

Ch. Prof. Massimo Raveri

Correlatore:

Ch. Prof. Giorgio Fabio Colombo

Laureando

Marta Spadavecchia

Matricola 808850

Anno Accademico

2011 / 2012

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A Kazu, che mi ha mostrato il vero cuore

del Giappone.

              かずへ 

              日本の心を教えて、ありがとう。 

             

A chi mi ha sempre aiutato, ché io sono io

perché ci siete voi.

                           

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要旨 私がこの卒業論文を書くことになったきっかけは、私がイタリアのチェーン 店の最初の店舗を開店するために東京に行った、2009年の春でした。 私のそこでの経験は、たった三ヶ月間でしたが、毎日、現地の労働者の間で一緒に 働くことによって、日本の『労働』に興味を持ちました。その労働者の中でも、特 に三人の方と心を交わして話すことができ、日本の労働習慣とイタリアの労働習慣 の違いについて話す機会が持てました。そして、私がイタリアに戻った時、私は日 本で外国人労働者が抱える日本独特の労働問題の原因と、20世紀の労働規則に見 え隠れする歴代の古い労働規則の混合問題について研究しようと決めました。 第一章には、日本の昔から第二次世界大戦までの労働習慣と、今の労働組合 の始まりとその歴史に触れ、労働条件を向上させるためにストライキをしたことに ついて研究し、19世紀の労働の法律についても述べました。 第二章には、第二次世界大戦以降の日本の法律と、労働の法律の移り変わり をまとめ、述べました。最後の節では、会社の組合について研究し、なぜ日本のみ にこのシステムが存在するのかを説明しました。 第三章には、雇用契約内容と契約の仕方の説明の他、労働時間と休暇と転勤 について、法律を研究し、現状との違いについて述べました。 最後の部分には、私が日本で結んだ契約とその契約の分析を追加し、そして 日本の労働者の間で集めた『

日本の労働法律と労働慣行

』というアンケートと アンケートの結果を入れました。アンケートの意義は、日本人が『労働』に関して はどう思いますかを分かれるように作りました。なぜなら、私が読んだ本に日本の 労働者の考えをあまり気づけられなかったからです。このアンケート結果のおかげ で、現在の日本の労働者の悩みと希望を分かることができました。外国人労働者は、 日本人労働者と協力できるように、やはり日本の社会環境の独特を忘れないことが 大事だと思います。 私の今回の目標は、2009年に理解できなかった、日本での同僚の考え方 を知るために、何が元来の日本人の考える労働なのか、そしてまた、何が海外から 影響を受けた考え方なのかを分析し、それを説明できるようになることでした。

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私はこの研究結果で、これから日本に仕事をしに行く外国人(特にイタリア人) に、日本人の労働に対する姿勢と人間関係の大切さを知らせ、導くことによって、 彼らがより働きやすくなれば、光栄です。

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Indice:

Introduzione p. 6

1. Storia del diritto del lavoro fino alla Seconda Guerra Mondiale p. 9 1.1 La legge morale tradizionale p. 9 1.2 La legislazione sul lavoro p.15 1.3 Sindacati e lotte sindacali p.18 2. Storia del diritto del lavoro dopo la Seconda Guerra Mondiale p.27 2.1 L’indomani della sconfitta p.27

2.2 La legislazione sul lavoro dall’egida americana fino ad oggi p.28 2.3 Definirsi di un sistema: il sindacato aziendale p.35 3. Confronto tra legislazione e consuetudini p.41 3.1 Orario di lavoro p.42

3.2 Ferie p.48

3.3 Trasferimenti p.52

Conclusioni p.57

Appendice 1: Contratto di lavoro giapponese p.59 Appendice 2: Questionari p.61

Commento p.61

Questionari p.67

Indice delle tabelle p.172

Bibliografia p.173

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Introduzione

Nel secondo trimestre del 2009, grazie a un lavoro part-time che svolgevo a Venezia per una nota catena italiana di gelaterie, ebbi la possibilità di affrontare un colloquio per occuparmi dell’apertura del negozio pilota della catena in Giappone, a Tōkyō. L’azienda, che disponeva già di una dipendente addestrata, necessitava però di una ulteriore figura che conoscesse il lavoro e contemporaneamente potesse fungere da tramite linguistico tra l’Italia e il Giappone; di qui, l’interesse per la mia persona.

Dopo alcuni colloqui e un training preparativo mi spostai a Tōkyō una decina di giorni prima dell’inaugurazione ufficiale. Il negozio era già stato preparato e i macchinari erano già in sede; quello che occorreva era addestrare il personale e collaborare con i responsabili locali per ottenere un risultato soddisfacente e lanciare positivamente il prodotto in Giappone. I colleghi giapponesi che lavorarono con noi si dimostrarono in un primo momento molto cordiali ed estremamente collaborativi. Ogni giorno si lavorava almeno dieci, dodici ore. Il personale a servizio del pubblico necessitava non solo di un addestramento tecnico, necessario per la vendita al dettaglio del prodotto, ma anche di un’infarinatura di italiano per accogliere i clienti («Buongiorno», «Buonasera», «Grazie mille») e per poter chiamare alcuni oggetti specifici del lavoro che non hanno un corrispondente in giapponese. Inoltre e inevitabilmente, chiarire alcune particolarità gastronomiche italiane era indispensabile per poter spiegare alla clientela le differenze tra i vari prodotti. Alle operazioni più complesse, quali gestione del prodotto e del packaging, preparazione del prodotto ecc. eravamo noi ragazze dello staff italiano e alcuni colleghi giapponesi. In particolare tre figure con cui lavoravamo a contatto tutti i giorni: Azai-san, il direttore di negozio; Kei, il vice-direttore; e Take, un dipendente. Mentre il primo si presentò formalmente e fu quasi sempre assente durante i preparativi, gli altri si presentarono con diminutivi del nome proprio e lavorarono fianco a fianco con noi per tutto il tempo. Nell’arco di tre mesi dal mio arrivo, e fino al mio ritorno in Italia, la situazione si è però evoluta in maniera completamente diversa e la collaborazione con la maggior parte dei colleghi giapponesi divenne impossibile.

Lavorare con i giapponesi risulta complicato per gli stranieri. Forse lo è in maniera particolare per gli italiani. Il nostro modo di concepire il lavoro, e quindi di lavorare, nasce da presupposti differenti e si manifesta quindi in modalità diverse. I paradossi, le incomprensioni, gli incidenti e inevitabilmente i problemi che si possono generare derivano da questa incapacità reciproca di spiegare e conciliare queste nostre visioni così diverse. Durante il mio

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periodo di lavoro a Tōkyō mi è capitato di confrontarmi sull’argomento con altri connazionali parimenti in crisi per questa incomprensione reciproca e venivo così messa al corrente anche di abbandoni da parte dello staff italiano che, non riuscendo più a interagire con quello giapponese, si vedeva costretto a ritirarsi lasciando la gestione dell’azienda (e il nome) in mano ai giapponesi.

La cultura lavorativa non andrebbe mai sottovalutata. In Giappone meno che mai. Lo sviluppo del mondo del lavoro in Giappone parte da un background storico, culturale, sociale particolare e spesso costellato di singolarità. La comprensione della posizione in cui si trova il lavoratore giapponese è alla base di una fruttifera collaborazione. Volendo fare un esempio d’incomprensione riporto un episodio in particolare: Kei, il vice-direttore, è di Fukuoka. Il presidente dell’azienda in Giappone lo aveva trasferito a Tōkyō per affidargli il lavoro di vice-direttore, ma la famiglia (composta di moglie e due figlie in età prescolare) era rimasta nella città d’origine. Giorno dopo giorno, Kei era visibilmente tormentato dalla nostalgia. Gli domandai perché non chiedesse qualche giorno di ferie per tornare a casa, ma lui mi rispose che non era possibile, non si poteva fare. Gli dissi che poteva almeno domandare al capo, prima di dire di no. Mi rispose che non avrebbe dato una buona impressione chiedere di tornare a casa. Quindi, lo incalzai, fino a quando sarebbe stato lontano dalla famiglia? Era un suo diritto chiedere di avere dei giorni di ferie. Lo prevedeva sicuramente la legge. Usai la parola giapponese per legge, horitsū 法律. I presenti (Kei, Take e un collega part-time) inclinarono la testa di lato, con espressione divertita e poco convinta. Kei mi rispose che la legge non c’entrava, il capo gli aveva chiesto di trasferirsi, e quindi «non c’era niente da fare»,

shikata ga nai 仕方がない. Questo fu solo uno dei tanti colloqui sconcertanti con i miei

colleghi, che cercavano con tutte le loro forze di spiegarmi qualcosa che io non ero in grado di capire.

Questo lavoro di ricerca nasce proprio dal desiderio di capire. Il Giappone è un paese moderno e dall’economia dirompente che è riuscito in meno di cento anni, dall’inizio del periodo Meiji 明治 (1868-1912) a uscire da un sistema economico di stampo feudale e a conquistarsi la posizione di terza economia del mondo 1. Conosce un tasso di disoccupazione quasi dimezzato rispetto al dato italiano e ugualmente basso rispetto al dato americano2.

      

1

 Nel 2010 il Pil della Cina ha superato quello del Giappone, che ora occupa la terza posizione in classifica mondiale. 

2

 Il tasso di disoccupazione nell’anno 2010 è del 4,2% in Giappone, contro l’8,4% dell’Italia e il 9,4% degli Stati Uniti. Il dato  fa  riferimento  al  2010  considerando  l’ultimo  aggiornamento  disponibile  del  Japanese  Statistics  Bureau  (www.stat.go.jp/english). Il dato italiano è stato ricavato dal sito web dell’Istat (www.istat.it) e il dato americano dal sito del  Bureau of Labour of Statistics (www.bls.gov).   

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Questi dati lo pongono, oggettivamente e nell’immaginario collettivo, in una posizione vincente nella competizione economica internazionale. Eppure osservando lavorare sul campo i giapponesi ci si meraviglia di come abbiano potuto raggiungere una simile posizione: a una prima analisi risultano ottusi, senza spirito d’indipendenza, incapaci di prendere decisioni in autonomia, lenti e assolutamente privi di capacità di problem solving.

Tuttavia a un’analisi più approfondita non solo questi atteggiamenti che il lavoratore straniero connota in modo negativo sono spiegabili e comprensibili, ma nel contesto socio-culturale in cui sono applicati sono vincenti e spesso economicamente vantaggiosi. Solo uno studio a ritroso nel tempo dei connotati originali del mondo lavorativo giapponese, e successivamente una spiegazione esauriente della normativa attuale sul diritto del lavoro, accompagnata da un accurato confronto tra legge e consuetudine, sarà in grado di chiarire il metodo lavorativo del giapponese e porre lo straniero in una posizione di comprensione vantaggiosa per il lavoro in comune.

Nel primo capitolo descrivo il background culturale e sociale che sottintende e spiega i comportamenti lavorativi attuali, seguito da un’accurata ricostruzione della produzione legislativa del diritto del lavoro dalle origini fino all’ingresso del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, corredato da un sunto dei principali e influenti sindacati e scioperi occorsi nel primo periodo di “coscienza” sindacale che vissero i lavoratori giapponesi con l’avvento dell’industrializzazione.

Nel secondo capitolo proseguo la ricostruzione della legislazione fino ai tempi attuali e descrivo un’istituzione portante del mondo lavorativo giapponese: il sindacato aziendale. Nel descrivere questo sistema spesso incompreso dalla nostra mentalità sindacalista, cercherò di dimostrare come oltre ad essere perfettamente spiegabile nel contesto specifico in cui si è sviluppato, sia anche utile ed estremamente valido proprio perché inserito nelle dinamiche locali.

Nel terzo capitolo eseguo una disamina dei motivi che portano a un comportamento particolare dei lavoratori giapponesi diverso dalla legge su tre aspetti della vita lavorativa: orario di lavoro, ferie e trasferimenti, cercando di attribuire a questi comportamenti una valenza derivata dallo specifico background che caratterizza il Giappone.

Mi auguro che questo lavoro, in cui la mia esperienza personale vuole aiutare a chiarificare alcuni comportamenti in cui lo straniero può facilmente imbattersi e che può portare a disaccordi, possa portare a una diminuzione dei fraintendimenti e a demolire le barriere mentali che si frappongono tra le nostre culture lavorative.

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1. Storia del diritto del lavoro fino alla Seconda Guerra Mondiale

1.1 La legge morale tradizionale

L’evoluzione del Giappone è sempre corsa su due binari paralleli: da un lato, lo sviluppo autonomo di una comunità nazionale con tutte le peculiarità che la caratterizzano (linguistica, sociale, folkloristica ecc.); dall’altro, le influenze e gli stimoli provenienti dall’esterno che hanno di volta in volta influenzato i giapponesi ad adattare la novità ai propri costumi o i propri costumi alla novità. Dall’origine storica1 del Giappone sono molti gli esempi della capacità di appropriarsi di nuovi strumenti e concetti trasformandoli e utilizzandoli: l’introduzione dei caratteri cinesi; il confucianesimo e il Buddhismo; i primi rudimenti di medicina occidentale nel XVI sec. d.C.2 e così via fino all’epoca moderna e all’influenza degli Stati Uniti. Il Giappone contemporaneo è quindi un paese in cui convivono un substrato tradizionale apparentemente sopito e uno stile di vita occidentale. Si potrebbe paragonare la situazione attuale del Giappone a quella di un albero che ha subito un innesto: le radici sono tradizionali, e in passato producevano determinate foglie. Con l’innesto della modernità le foglie sono cambiate, ma non le radici.

La società giapponese è stata costruita su due assiomi principali: le cinque relazioni di stampo confuciano3 e la verticalizzazione della società derivata dalla comunità di villaggio

tradizionale. Confucio 孔子 (551-479 a.C.) teorizzò le cinque relazioni in un momento di

decadenza della società cinese, con la speranza che il ritorno a relazioni sociali tradizionali riportasse le persone sul sentiero dell’armonia e della virtù. Per far sì che questo avvenisse ogni persona doveva essere consapevole del proprio posto nel mondo e rispettare i cinque legami in cui di volta in volta era coinvolta: sovrano-suddito, marito-moglie, padre-figlio, fratello maggiore-fratello minore e amico senior-amico junior. In Giappone la natura di questi legami fu intensificata, assumendo uno stampo di tipo familiare: la persona che occupa la posizione superiore si comporta in modo paterno, genitoriale (oyabun 親分); la persona in

      

1 La fondazione mitica del Giappone risale all’11 febbraio 660 a.C. Tuttavia essendo la scrittura ideogrammatica 

cinese  stata  introdotta  approssimativamente  nel  III  sec.  d.C.,  il  secolo  in  questione  si  può  considerare  come  origine storica della comunità giapponese tradizionale.  

2 A questo proposito è interessante e istruttivo il romanzo di ARIYOSHI Sawako, Kae o le due rivali, trad. di Lydia 

Origlia, Jaca Book spa, Milano, 1984. 

3 Sulle  cinque  relazioni  e  sull’intera  filosofia  di  Confucio  si  rimanda  al  testo  di  Tiziana  LIPPIELLO,  Il 

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posizione inferiore invece ha un atteggiamento bambinesco, ingenuo (kobun 子 分 ). All’interno di questi legami l’individuo ha dei precisi obblighi e si aspetta in cambio dei privilegi: il marito e il padre hanno la responsabilità della famiglia, che gli deve obbedienza e rispetto. La moglie deve obbedire al marito, ma entrambi sanno che nel momento della vecchiaia potranno contare sulla pietà filiale dei figli, che contraccambiano così le lunghe cure ricevute nell’infanzia e nella gioventù fino all’uscita dalla famiglia con il matrimonio. Lo stesso scambio di doveri è presente nelle relazioni oyabun/kobun esterne alla famiglia: tra amici, ad esempio, o in un rapporto di lavoro, il superiore è colui che si prende cura dell’inferiore consigliandolo, indirizzandolo e aiutandolo; l’inferiore diventa in cambio un seguace fedele, pronto a rispondere alla chiamata dell’oyabun e ad aiutarlo in ogni modo possibile. Una comunità costruita su questo reticolo è di fatto una micro-società autosufficiente, in cui ognuno ha un compito da svolgere o da svolgersi e in cui l’autorità è sempre chiara e facilmente individuabile. Si tenga a mente la natura esclusivamente personale di questi legami: una persona allaccia una relazione con una persona alla volta, mai con un gruppo di persone. Il figlio deve pietà filiale al padre e alla madre, ha un legame di inferiorità verso il fratello maggiore e un legame di superiorità verso il fratello minore, ha un legame con un amico e un legame con un altro amico. Di volta in volta può essere oyabun o kobun, sviluppando di fatto diverse identità all’interno della società. La divisione in gruppi contrapposti genitori/figli, amici/altri amici non è contemplata. Può esistere come somma di tante relazioni accomunate da un elemento, ma non nascono le relazioni in conseguenza al gruppo: nasce il gruppo come conseguenza delle relazioni (si tenga conto di questa “aggregazione di relazioni” all’interno dell’analisi sulle società verticali). Di conseguenza si può affermare che la società giapponese è composta di infinite relazioni tra due persone, che interconnesse si realizzano nella società intera. I seguenti grafici sintetizzano le suddette relazioni.

Figura 1. Schema delle relazioni secondo Chie Nakane.

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Nella figura X è riportata la stilizzazione del rapporto tra un superiore (a) e due inferiori (b e

c). Nella società giapponese la natura del rapporto tra a e i suoi inferiori può essere simile (ad

esempio un legame lavorativo) ma questo non rende b e c automaticamente legati da un senso di appartenenza dato da una caratteristica comune (il legame lavorativo). Al contrario, avendo ognuno iniziato una relazione con a indipendentemente l’uno dall’altro, questa distanza genera maggiore lealtà e obbedienza verso a che non solidarietà tra b e c (come accadrebbe invece in una società occidentale come quella inglese o americana, vedi figura Y).

Figura 2. Ramificazione delle relazioni secondo Chie Nakane. 

Fonte: NAKANE, Chie, La società giapponese, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992, p. 67. 

Questo tipo d’impostazione relazionale non si ferma al legame binario tra due persone, ma è replicato all’infinito all’interno della società giapponese.

Tuttavia, quando il confucianesimo arrivò in Giappone, il substrato sociale su cui si trovò ad attecchire era sostanzialmente diverso da quello cinese. Una breve analisi delle caratteristiche morfologiche e climatiche del Giappone può spiegare il contesto in cui la società giapponese si è sviluppata. Il Giappone è composto per il 72% da montagne, alcune delle quali sono vulcani attivi; la superficie abitabile e coltivabile è quindi limitata4. Gli spostamenti al suo interno, prima dell’introduzione delle linee ferroviarie, erano limitati ad alcune arterie principali (soprattutto la Tōkaidō 東 海 道 che collegava Tōkyō a Kyōto) percorribili a piedi o con mezzi di trasporto animali. Le strade erano insicure e pericolose, il viaggio era il più possibile evitato e temuto. Il rischio di calamità naturali (terremoti o tifoni) è frequente e il clima relativamente ospitale: si passa da sub-artico a sub-tropicale percorrendo il paese da nord (Hokkaidō 北海道) a sud (Okinawa 沖縄); gli inverni sono rigidi e le estati calde e umide, inoltre a giugno imperversa il monsone. In un contesto naturale così impervio

      

4 I  dati  qui  riportati  sono  estratti  da  HANAMI  Tadashi  e  FUMITO  Komiya,  Labour  law  in  Japan,  Kluwer  Law 

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la comunità sociale tradizionale giapponese era il villaggio che viveva della coltivazione del riso. Hanami la descrive così:

[...] planting and harvesting of rice encouraged the society to organize in tightly knit communities with strong family relationship. Any disagreements would have threatened the communal approach to the host of activities required for the survival of each community. This might be reflected in the present Japanese style of management and conflict resolution.5

Era di fatto una micro-società chiusa e autosufficiente, che aveva a disposizione un professionista per ogni mestiere indispensabile alla vita comunitaria (carpentiere, fabbro, falegname, sacerdote ecc.) e che rifuggiva ogni contatto esterno. Le difficili condizioni climatiche e morfologiche hanno concorso alla creazione di questo tipo di società, per la quale la dimensione “esterna” era percepita come insicura e pericolosa. La comunità era composta dalle famiglie, ognuna costruita sulla base dei legami confuciani: a capo della famiglia era il padre, che trasmetteva il nome al figlio primogenito lasciandogli il compito di perpetuare la famiglia. La ragazza che andava in sposa al figlio maggiore entrava in tutto e per tutto nel registro di famiglia e perdeva ogni legame con la precedente. L’unità familiare aveva quindi confini netti e rigidi ed era sviluppata in modo inequivocabilmente verticale. Lo schema qui riportato riassume la linea verticale di costruzione della ie 家 (famiglia) tradizionale.

Figura 3. Struttura della ie (famiglia) tradizionale secondo Joy Hendry. 

Fonte: HENDRY, Joy, Understanding Japanese Society, Third Edition, Routledge Curzon, Oxon, 2003, p. 27. 

      

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Il villaggio era composto da tante ie, a loro volta classificate per importanza e con al vertice la famiglia del capo villaggio. Non esistevano contatti istituzionalizzati tra villaggi; non esistevano consigli tra capo villaggio; non esistevano corporazioni di mestieri simili a quelle

europee6. Il risultato di questa organizzazione sociale è duplice: in primo luogo ha

predisposto i giapponesi a volersi sentire parte di un gruppo, esclusi dal quale avvertono insicurezza e difficoltà a definire la propria identità7; in secondo luogo ha scoraggiato il nascere di società orizzontali o di gruppi il cui fattore predominante fosse una caratteristica comune tra i membri. La “lotta di classe” fu per questo un concetto difficile da far penetrare in Giappone, essendo i singoli lavoratori vincolati da legami col datore di lavoro sempre diversi e personali. La riflessione e la presa di coscienza di essere tutti “lavoratori” fu per questo lenta e spesso osteggiata come elemento estraneo alla tradizione giapponese. Con il passare dei secoli questa forma rigida e verticale di organizzazione familiare si è cristallizzata ed è stata utilizzata anche in contesti estranei alla famiglia. Dovendo rifarsi a un modello sociale diffuso e le cui dinamiche fossero conosciute da tutti si utilizzava automaticamente quello familiare. Non è un caso che tutt’oggi nel rivolgersi a una passante si usano le espressioni onēsan, okusan, obasan お 姉 さ ん 、 奥 さ ん 、 小 母 さ ん (rispettivamente sorellona, signora moglie e signora più anziana); le espressioni signorina, signora non esistono in giapponese, che non contempla l’esistenza di parole per riferirsi a chi non si conosce, rendendolo così appellabile solo dandogli un ruolo familiare fittizio. Nella società contemporanea, in cui il ruolo tradizionale delle famiglie intese come nuclei basilari della società si è sgretolato, le aziende si sono lentamente e volutamente sostituite alle famiglie come gruppi di riferimento (vedi capitolo 2 paragrafo 3). Mentre in passato era prestigioso appartenere a una famiglia antica e nobile, oggi invece conta lavorare per un’azienda importante. Per questo motivo lo scambio dei biglietti da visita tra dipendenti riveste un significato plurimo: permette infatti di conoscere non solo il nome dell’interlocutore, ma anche l’azienda di appartenenza e il ruolo da esso rivestito al suo interno. Senza questi dati

      

6

 Chie Nakane definisce “attributo” (ciò che è comune a più individui) e “struttura” (in cui un individuo occupa  una  determinata  posizione)  l’elemento  che  caratterizza  quello  che  qui  è  chiamato  società  “orizzontale”  e  società  “verticale”.  La  società  giapponese  è  una  struttura  precostituita  in  cui  le  singole  persone  occupano  ognuna  una  posizione  prestabilita;  non  c’è  modo  per  i  singoli  di  accorparsi  in  un  gruppo  basato  su  una  caratteristica comune, avendo ognuno il proprio posto già stabilito nella società. Vedi NAKANE Chie, La società  giapponese, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992. 

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non sarebbe possibile nemmeno intavolare una conversazione, non avendo idea dell’importanza della persona che si ha di fronte.

L’interconnessione tra queste due nozioni basilari (cinque relazioni confuciane e verticalizzazione dei gruppi sociali) genera le relazioni sociali tuttora osservabili in Giappone. Soprattutto nelle aziende giapponesi comportamenti riconducibili e spiegabili a quanto detto finora sono spesso causa d’incomprensione se lo straniero non è informato dell’humus culturale che anima le dinamiche tra i giapponesi. Da un punto di vista di diritto del lavoro, infine, si possono così spiegare alcune tendenze che hanno sempre costernato lo studioso str o: i sindacati a base aziendale, ad esempio; l’accettazione di orari di lavoro eccessivi; la disponibilità ad assentarsi da casa per lunghi periodi; l’obbedienza cieca al datore di lavoro.

Un ultimo appunto si rende indispensabile. Si è già detto che insieme al confucianesimo arrivò in Giappone nel VI sec. d.C. anche il Buddhismo. Il Buddhismo, nell’arco dei 1500 anni di esistenza nell’arcipelago giapponese, ha innescato un lento lavorio di studio e affermazione di idee ampiamente diffuse che hanno plasmato anch’esse la dimensione mentale giapponese in maniera peculiare. Sebbene razionalmente molti giapponesi possano non rendersene conto (come un europeo potrebbe sottovalutare l’influenza cristiana sulla sua mentalità) la presenza buddhista è riscontrabile anche nelle dinamiche di lavoro. Per il Buddhismo l’origine della sofferenza dell’uomo è l’attaccamento alla vita: la vita concepita in maniera terrena da parte dell’uomo che per sua natura è spaventato dalla morte e ricerca un principio assoluto cui aggrapparsi che gli dia l’illusione dell’eternità. Questa paura è una delle basi della sofferenza ed è risolvibile, secondo il pensiero buddhista, facendo un passo indietro rispetto alle preoccupazioni terrene e rendendosi conto che tutto, inclusa la realtà che crediamo di osservare, è illusorio e impermanente. Cambiando mentalità e prendendo atto di questa situazione, è possibile rasserenare la mente e vivere in maniera piena distaccandosi dalle pene della vita. Quello che ostacola questa evoluzione verso una condizione interiore rasserenata è il concetto di “io”. L’io, in Giappone, è privo d’importanza, manca la ricerca della propria “individualità” (così forte in Occidente e così carica di significati positivi) perché l’individualità è anch’essa un’illusione: le caratteristiche che rendono una persona “individuo” non sono altro che riflessi della realtà circostante, che essendo illusoria riflette solo illusioni. L’io, di conseguenza, assume per il Buddhismo una valenza minima, quasi un’identificazione fisica con un contenitore vuoto. Chi manifesti un io troppo presente si fa del male, perché attiva una serie di

anier

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stato mentale e quello degli altri, generando karma e quindi influenzando le future rinascite. L’azione migliore, secondo il Buddhismo, sarebbe non fare nulla. Questo tentativo di annullamento individuale che è auspicato in Giappone da secoli ha investito e influenzato la società tutta: premessi gli aspetti concettuali, il comportamento quotidiano dei giapponesi è ormai condizionato da questi dogmi rinforzatisi nel tempo. Il giapponese non ha piacere a essere al centro dell’attenzione, è molto schivo, si fida ciecamente del gruppo di appartenenza (che gli offre l’identità di cui ha bisogno, essendo egli un contenitore vuoto) e, sebbene ovviamente rifletta e maturi delle opinioni personali, non crede affatto che siano di alcuna rilevanza. Manifestare un’opinione, soprattutto al lavoro, darebbe la sgradevole impressione che si voglia mettere se stessi davanti al gruppo e soprattutto la propria idea individuale in risalto. Più che una questione di prestigio è una questione di priorità: il giapponese non ha interesse a sviluppare l’io, anzi preferisce (da un punto di vista occidentale) mortificarlo, perché questo è il modo migliore per vivere in armonia, per accettare le difficoltà del quotidiano, per avere una mente libera. Questa serenità, auspicata sebbene difficile da possiede un senso di gioia dell’esistenza indipendente dalle vili questioni terrene.

       

raggiungere, una volta raggiunta offre a chi la

1.2 La legislazione sul lavoro

L’introduzione della legislazione e del diritto di matrice occidentale si sovrappose a queste dinamiche esistenti da secoli e iniziò il suo lungo cammino di adattamento, assorbimento e cambiamento. Nel 1868 cadeva lo shōgunato Tokugawa 徳川 (1603-1868) e iniziava il periodo Meiji 明治 (1868-1912). Il paese abbandonava la struttura feudale che l’aveva organizzato e governato dal XVII sec. d.C. e abbracciava la modernità. Una delle prime preoccupazioni degli oligarchi Meiji fu appunto di dotare il paese di leggi: come poteva un paese moderno sperare di allinearsi alle potenze occidentali basando l’ordine interno su codici antiquati8 e sul mero rispetto delle norme confuciane? Per non perdere prestigio con i paesi dell’occidente si rendeva indispensabile redigere dei codici che colmassero questo vuoto legale. Esperto nella selezione di componenti estere che meglio si adattassero alla propria realtà locale, anche in questo caso il Giappone studiò approfonditamente i sistemi legali delle

 

8

 I codici precedenti, quali ad esempio lo Jūshichijō kenpō 十七条憲法 del 604 o i vari codici Ritsuryō 律令 non  erano stati mai abrogati. Le norme in essi contenute, che non fossero state contraddette nei secoli, potevano  essere considerate ancora valide.  

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nazioni più avanzate optando in primo luogo per un sistema di civil law che meglio si adattava al proprio modus operandi e scegliendo infine di rifarsi ai codici francesi e tedeschi. Furono così introdotti i codici di stampo europeo: nel 1880 il Codice Penale  刑法 (Keihō) e di Procedura Penale刑事訴訟法 (Keijisoshōhō); nel 1890 il Codice di Procedura Civile  民事訴

訟 法 (Minjisoshōhō); nel 1896 il Codice Civile 民 法 (Minpō) nel 1899 il Codice

Commerciale 商法 (Shōhō). Nel 1889 fu inoltre emanata la Costituzione Meiji o Costituzione dell’Impero del Grande Giappone大日本帝国憲法 (Dainippon Teikoku Kenpō) su modello collaborazione di esperti europei che li affiancassero nella compilazione.

i sudditi di avere libertà di espressione e di associazione (nei limiti espressi dalla legge10), diritti applicabili anche nella

       

prussiano. Per compilarli si rese necessaria la formazione di dotti giuristi giapponesi e la

E’ importante quindi sottolineare che fino al momento dell’emanazione del Codice Civile 民法 nel 1896 non esisteva in Giappone nessuna norma o normativa che regolasse il lavoro. Ci si affidava ai precetti morali e al senso di appartenenza al gruppo familiare del datore di lavoro. Queste pratiche potevano, almeno da un punto di vista formale, dirsi definitivamente superate grazie alle disposizioni previste dal Codice Civile9. La Costituzione Meiji, inoltre, sebbene fosse una costituzione “donata” dall’Imperatore che si era “compiaciuto” di concederla al suo popolo, riconosceva il diritto de

sfera dell’organizzazione dei sindacati e dei gruppi legati al lavoro.

Nel 1911 fu approvata dalla Dieta la Kōjō hōsei  工 場 法 制   (Legislazione delle

fabbriche o Factory Act) un insieme di norme volte a regolare alcuni aspetti pratici della vita nelle fabbriche, con particolare riguardo agli standard minimi richiesti per tutelare il lavoro delle donne e dei bambini. Furono stabiliti compensi per incidenti occorsi sul luogo di lavoro, l’introduzione di un’età minima per il lavoro minorile (dieci anni) e divieto di lavoro notturno o dannoso alla salute per minori di quindici anni, riduzione generale delle ore di lavoro ecc. La Kōjō hōsei era stata voluta da alcuni studiosi di diritto del lavoro (formatisi negli Stati Uniti11) e anche da una minoranza d’industriali. Gli oppositori però erano nettamente in

 

9 Vedi Codice Civile 民法 artt. 623, 626, 627.  10

 Costituzione  Meiji  o  Costituzione  dell’Impero  del  Grande  Giappone 大日本帝国憲法 art.  29,  disponibile  in  TAKII Kazuhiro, The Meiji Constitution, trad. di David Noble, International House of Japan, Tokyo, 2007. 

11

 Ad esempio Takano Fusatarō 高野房太郎 (1868‐1904), vero propugnatore dell’emanazione della Kōjō hōsei,  che negli Stati Uniti era stato amico e ammiratore di Samuel Gompers (1850‐1924). 

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maggioranza, opposizione comprensibile se si considera che in quella prima fase dell’industrializzazione giapponese gli introiti maggiori erano ricavati dal settore tessile (coltivazione dei bachi da seta, lavorazione della seta e del cotone) attività in cui la manodopera era prevalentemente femminile e giovanile12 (come si evince dalla Figura 4). La Kōjō hōsei “colpiva” nel punto più doloroso gli industriali, ponendo un freno allo

ruttamento sistematico delle donne e delle bambine impiegate nella tessitura; così ca della legge fu impossibile fino al 1916.

        sf l’applicazione prati Figura 4. Numero di fabbriche con almeno dieci dipendenti e numero di dipendenti divisi per sesso 1889‐ 1930.  Fonte: HUNTER, Jane, Industrial labour in Japan, “Japanese Economic History 1930‐1960, vol. V ”, Routledge,  London, 2000, p. 21.   

12 Secondo  alcune  statistiche  nei  momenti  di  maggior  occupazione  nel  settore  tessile  si  arrivò  a  un  85%  di 

componente femminile. Vedi NIMURA Kazuo, The formation of Japanese labor movement: 1868‐1914, trad. Di  Terry M. Boardman, in “The Writings of Kazuo Nimura”, http://oohara.mt.tama.hosei.ac.jp/nk/index.html, 11‐ 11‐2012.  

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Per gli stessi motivi fu emanata nel 1926 la Rōdō sōgi chōteihō 労働争議調停法 (Legge per la mediazione delle dispute di lavoro). Questa legge, in un momento di grandi disordini e lotte sindacali, mirava a incanalare le dispute di natura lavorativa in processi di mediazione per

voratori, sebbene non fossero

pianto preventivo e l’introduzione del cr

so per far concentrare le forze produttive, civili e militari nell’imminente onflitto.

mangiava con il maestro e le sue spese erano sostenute dall’insegnante, che investiva nella evitare uno strappo eccessivo con la forza lavoro.

Tuttavia altre due leggi avevano colpito duramente i la

strettamente leggi sul lavoro. La prima è la Chian keisatsuhō 治安警察法 (Legge di polizia per l’ordine pubblico) emanata nel 1900, che concedeva ampio potere decisionale a polizia e magistratura circa il controllo sulle varie forze di opposizione (sindacati, partiti, associazioni); questa legge fu voluta proprio per poter gestire con maggiore libertà le sempre più frequenti assemblee pubbliche spesso a carattere rivoltoso che stavano nascendo sul fertile terreno dello scontento della classe operaia, urbana e intellettuale. Questa legge permise l’arresto e la condanna di sindacalisti e intellettuali socialisti o comunisti. Nel 1925, per lo stesso scopo ma

con un im imine di pensiero, fu varata anche la Chian

ijihō 治安維持法 (Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico). Il colpo finale fu portato alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quando la Kokka sōdōinhō 国家総 動員法 (Legge per la mobilitazione generale della Nazione) del 1938 mise a tacere ogni tipo di rivolta o di dissen

c

1.3 Sindacati e lotte sindacali

La transizione da un’economia di tipo feudale, basata su pochi scambi effettuati tra piccole comunità e su un tipo di artigianato organizzato in maniera semplice (casalingo) a un’economia di tipo industriale proiettata sulle esportazioni di grandi numeri e che coinvolgeva migliaia di lavoratori non fu né rapida né indolore. La prima vittima del passaggio fu l’organizzazione tradizionale del lavoro. Nelle comunità di villaggio del periodo Tokugawa si può ipotizzare che ogni attività iniziasse con un apprendistato presso un artigiano (falegname, pescatore, laccatore, pittore ecc.) che implicava un trasferimento a casa del maestro e l’iscrizione nel suo registro di famiglia. L’apprendista viveva con la famiglia,

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sua istruzione e che contava sulla sua manodopera per i lavori meno qualificati13. Ne consegue che un forte legame s’instaurava tra maestro e apprendista, un legame basato sulla fiducia e sulla gratitudine che portava l’apprendista a dare il meglio di sé e a dimostrare sempiterna disponibilità al suo maestro. Il legame oyabun/kobun è qui evidente (vedi capitolo 1 paragrafo 1).

The employer was addressed, as he still is even to-day, as oya-bun or oya-kata, a term suggesting that he stood in a paternal relation to his employee; then the apprentice was called de-shi (younger brother or son), a further indication of the bond between master and apprentice, the intimacy of their relations and the loyalty owed to the master craftsman. 14

Ancora Hanami si esprime così:

During the Tokugawa era between 1603 and 1867, the employment relationship was mainly controlled by private contracts with a strong feudalistic tinge. [...] Every worker who entered into employment was obliged to be entered in his or her employer’s family register. During the contractual term, only the employer could exercise the right to terminate the employment.15

Kinzley riassume efficacemente il passaggio tra le due economie:

Prior to the Meiji Restoration commerce had been on a small scale and manufacturing was generally limited to handcraft production. Because of the simplicity of the country’s economic institutions there was, he [Shibusawa Eiichi] argued, a ʽrelative equalityʼ of wealth in the country which minimized the potential for conflict between the various participants in economic institutions. Moreover, relations between employers and workers were those of master and servant (shūjū kankei). Between them was a bond of closeness and affection not unlike the relationship between members of a family. As a result, there was little criticism of this relationship. But, Shibusawa [Eiichi] argued, the small capitalist or merchant with meagre resources has been replaced by anonymous investors. Workers have come to number in the thousands and the tens of thousands. Therefore [...] the relationship between management and workers lacked the ʽnatural warmthʼ which had prevailed in simpler times.16

      

i  eb:

13

 Alcuni documentari disponibili in rete offrono un’interessante panoramica di questo antico metodo utilizzato  tutt’oggi  nelle  case  da  tè  di  Kyōto  per  accogliere  le  aspiranti  maiko  舞妓.  I  documentari  sono  disponibili  ai  seguenti  indirizz w   http://www.youtube.com/watch?v=KrDGTUm2vBc&feature=related  e http://www.youtube.com/watch?v=d‐GxpV4e8K4&feature=related. 

14 Jane HUNTER, Industrial labour in Japan, “Japanese Economic History 1930‐1960”, vol. V , Routledge, London, 

2000, p. 12. 

15 HANAMI Tadashi e FUMITO Komiya, Labour law…, op. cit., p. 39. 

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Quando iniziò il primo periodo industriale, coincidente con la creazione e lo sviluppo dell’industria tessile, metallurgica e mineraria, la manodopera era richiestissima e spesso ricercata in tutto il paese17. Le giovani contadine venivano “comprate” dalle famiglie per un periodo fisso, di solito tre anni e portate nelle fabbriche tessili e negli annessi dormitori dove lavoravano anche dodici ore al giorno. I giovani venivano invogliati a lavorare nelle miniere, dove i salari erano relativamente alti. Le campagne si spopolavano e solo i figli primogeniti e le loro famiglie rimanevano a lavorare la terra. Le città si ingrandivano e si creava un nuovo strato della popolazione composto da operai e operaie, intellettuali, piccoli commercianti e portatori di risciò. Questa nuova classe sociale, che in Europa prese il nome di “proletariato”, in Giappone viveva nella condizione di non appartenere a nessuna classe sociale e si avvertiva come scardinata fuori dall’ordine tradizionale18. Privata delle condizioni di lavoro del passato, sicuramente dure tanto quanto il lavoro in fabbrica ma dotate di elementi di sfogo di cui l’industria non disponeva, la nuova classe operaia e urbana maturava lo scontento, pur non sapendo come manifestarlo. In questo periodo scoppiarono i primi tafferugli urbani e le prime rivolte, di solito nate da semplici comizi ed esplose all’arrivo delle forze dell’ordine in un crescendo di vandalismo e lotta urbana19. I vertici del paese erano, da un punto di vista moderno, impreparati ad affrontare uno scontento popolare di così vasta portata e spesso guidato dai nuovi ideali socialisti e comunisti appena giunti dall’estero e che riscuotevano enorme successo per le nuove idee che propugnavano, come i diritti dell’individuo. La prima reazione fu quella di sopprimere il dissenso, attraverso la Legge di polizia per l’ordine pubblico del 1900. Tuttavia questi problemi nuovi innescarono un lungo dibattito tra gli oligarchi Meiji e i nuovi politici: il Giappone cambiava ed era ormai privo dello schema sociale tradizionale che lo ordinava; ma la competizione per il riconoscimento internazionale si combatteva sul piano economico, e non poteva essere rallentata dallo sgretolamento della forza lavoro e da una dannosa lotta tra industriali e operai.

      

17

 Alcuni  boss  legati  alle  fabbriche  viaggiavano  per  il  paese  per  convincere  i  giovani  a  seguirli  nel  lavoro  minerario, metallurgico e tessile. Spesso le reclute erano ingannate con salari alti e condizioni di vita migliori,  che poi si rivelavano fasulle all’arrivo in fabbrica; legate ai boss dai debiti di viaggio erano costrette a lavorare  fino a pagare la propria liberazione e spesso causavano rivolte e ribellioni. 

18 Nonostante  l’abolizione  delle  classi  sociali  tradizionali  il  popolo  tendeva  ancora  a  classificare  le  persone  a 

seconda del mestiere. Gli operai erano, in questo senso, dei “fuori casta”. 

19 Si  pensi,  ad  esempio,  alla  rivolta  di  Hibiya  del  1905,  in  cui  la  polizia  intervenì  per  impedire  un  comizio  nel 

parco pubblico di Tōkyō e che degenerò in tre giorni di anarchia in tutta la capitale con attacchi alle postazioni  di polizia e ai tram. 

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If the economic war with the West were to be won, the labour problem had to be solved and social harmony restored.20

Non fu possibile stabilire quale metodologia fosse la migliore per affrontare in nuovi problemi che si stavano ponendo nel paese modernizzato. Poiché i problemi erano nuovi, derivati da un sistema economico nuovo, si pensava che andassero risolti rifacendosi alle soluzioni applicate in occidente: leggi sul lavoro, sindacati nazionali ecc. Tuttavia c’era anche chi pensava che i problemi fossero sorti dal disfacimento dei vecchi sistemi e che sarebbe bastato riadattare le tradizioni (dopo un opportuno rimodellamento) per pacificare le forze sociali. Da un punto di vista tradizionale, organizzare il mercato del lavoro attraverso sindacati, fossero essi nazionali, corporativi, dei dirigenti o degli operai avrebbe significato frammentare la società, disponendo le forze su schieramenti opposti che non avrebbero potuto collaborare armoniosamente.

Trade unions were divisive: they isolated workers from each other and from management. They presupposed the existence of inherently unequal groups in industry and an adversarial relationship between different parts of the economy. As a result, trade unions constituted the institutionalization of conflict in labour-management relations while diminishing the capacity of achieving a cooperative relationship which would lead to increase productivity and efficiency.21

L’armonia era un concetto tenuto in grande considerazione: tutto dipendeva, retoricamente, dall’armonia22. La sopravvivenza della comunità come, in tempi moderni, la sopravvivenza della nazione. Nel panorama d’incertezza (legale e sociale) che si andava dispiegando davanti alla classe dirigente, i primi movimenti sindacali iniziavano intanto a muovere i primi passi. Nello studiare i sindacati giapponesi che sorsero a partire dal 1883 non bisogna però rischiare di compiere un errore di natura concettuale. Non bisogna dimenticare che quella di “sindacato” è una nozione nata in occidente e che fu adottata dal Giappone; ha connotazioni molto diverse per l’occidentale e il giapponese, di conseguenza.

      

20 Dean W. KINZLEY, Industrial Harmony…, op. cit., p. 50.  21 Dean W. KINZLEY, Industrial Harmony…, op. cit., p. 55. 

22 Per approfondire l’idea di armonia che si sviluppò durante il periodo Meiji si consiglia la lettura di Andrew 

GORDON,  The  Invention  of  Japanese‐Style  Labor  Management,  in  Stephen  VLASTOS  (a  cura  di),  Mirror  of  Modernity: Invented Traditions of Modern Japan, University of California Press, Berkley and Los Angeles, 1998.  L’armonia è un concetto piuttosto nebuloso anche all’interno dello stesso Giappone e fu spesso utilizzato per  tirare  acqua  al  proprio  mulino  e  mitizzare  una  realtà  aziendale  mai  esistita,  improntata  al  paternalismo  e  al  familismo dell’azienda. In altri periodi fu invece ripudiata come lascito sgradito del passato. 

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What has not been sufficiently recognized is the persistence of this [confucian] tradition in the ideologies of [various] companies [...]. While public debate, both economic and political, has been carried on [...], the internal life of many institutions has continued to be influenced by a different and more traditional philosophy.23

Mentre in Europa e negli Stati Uniti il sindacato nacque tra i lavoratori con lo scopo preciso di rivendicare obiettivi specifici, come giorni di riposo, salari equi e assistenza sanitaria e lo fece appellandosi ai “diritti” (diritto al riposo, diritto alle cure mediche ecc.) in Giappone non vi fu affatto un’impostazione di questo tipo. Nelle rivolte contadine in epoca Tokugawa vigeva la consuetudine di inviare un rappresentante al proprio daimyō 大名 (signore feudale) a far presenti le proprie lagnanze; spesso erano accolte, ma il rappresentante era giustiziato per essersi permesso di avanzare lamentele contro il suo superiore. Era un sistema considerato giusto dal popolo e dal daimyō e utilizzato come canale di sfogo per le proteste. A partire dal periodo Meiji la struttura sociale in cui si muovevano le persone era stata scardinata e annullata. L’unica struttura ancora stabile era quella familiare, intorno alla quale ruotava ancora la società contadina. Ma per chi aveva abbandonato le campagne per iniziare la vita dell’operaio, dell’artigiano e del piccolo commerciante nei nuovi centri urbani gli antichi canali d’integrazione, ordine e manifestazione dello scontento erano perduti. La lotta sindacale si addossò spesso anche questa funzione di valvola di sfogo. Si potrebbe ipotizzare che il sindacato fu una forma, un contenitore adottato per manifestare diversi tipi di scontento, fossero essi economici, sociali o politici. Il sindacato giapponese fu la nuova veste attraverso cui si presentavano le lamentele popolari, specificatamente quelle della classe emergente che era priva di un ordine tradizionale (operai, nuovo ceto urbano e intellettuali socialisti e comunisti). Non è un caso, infatti, che molti sindacati furono smantellati proprio per la corrente politica che li pervadeva ma che spesso non era né conosciuta né condivisa dai lavoratori che miravano piuttosto a migliorare la propria posizione sociale24. L’estensione del voto a suffragio maschile fu un'altra battaglia di cui si fecero carico i sindacati che vedevano nella limitazione del numero dei votanti un ostacolo alla manifestazione del proprio peso politico25. Come si può osservare i compiti di cui il neonato movimento sindacale si fece

       23Thomas P. ROHLEN, For Harmony and Strenght, University of California Press, Berkley and Los Angeles, 1974,  p. 59.  24 Vedi nota 18.  25 Fino al 1925 il voto era concesso su base maschile in base al censo; nel 1890 avevano avuto diritto di voto  l’1,1% della popolazione totale, e nel 1900 il 2,2%.  

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carico erano svariati e miravano principalmente a dar voce a chi non l’aveva. Ovviamente non si possono dimenticare anche le rivendicazioni economiche, ma spesso furono generate da una compressione dei salari reali e dal conseguente peggioramento delle condizioni di vita, più che da rivendicazioni di natura ideologica. Le pesanti tassazioni che colpirono particolarmente il ceto più povero ne furono la principale causa, come la crisi economica che ebbe luogo durante e dopo la Prima Guerra Mondiale.

Un’altra considerazione sorge spontanea analizzando la storia dei sindacati giapponesi. La mancanza di precedenti storici di aggregazione orizzontale del lavoro, come le corporazioni o le gilde europee, aveva reso difficile la nascita spontanea tra i lavoratori di un sentimento di appartenenza e di lotta comune. La classe operaia e la lotta di classe erano concetti ignorati dalle grandi masse di lavoratori. Era più probabile che un sindacato nascesse attorno a un gruppo di operai della stessa fabbrica con gli stessi problemi. Si lottava allora per salari più alti, per la rabbia generata dal crescente dislivello economico tra operai e padroni, per le condizioni di sfruttamento legate al sistema del reclutamento. Erano sindacati nati per un obiettivo e che spesso si scioglievano terminata la disputa. Altri sindacati (le cui storie seguiranno) erano sindacati “dall’alto”: alcuni intellettuali, studiosi di diritto, pensatori di sinistra, cristiani26 fondavano un’associazione, un movimento e cercavano di farvi aderire la classe lavoratrice. Ma la distanza tra gli ideali propugnati e le rivendicazioni dei lavoratori (si potrebbe dire anche la distanza tra la classe istruita e la classe lavoratrice) era troppo ampia e un sentimento di coesione spesso difficile da raggiungere o comunque troppo debole per lottare o sopravvivere. In conclusione, a differenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il sindacato non nacque “dal basso”, tra i lavoratori, per rivendicare i propri diritti; non fu organizzato e affidato a rappresentati dei lavoratori esperti in materia; non arrivò ai vertici dell’azienda trasformandosi nella realtà di confronto tra dirigenza e forza sindacale che oggi è conosciuta e condivisa in occidente. In Giappone fu limitata dal basso a causa della diversa conformazione culturale e sociale dei lavoratori giapponesi e incapace di arrivare in alto per l’eccessiva distanza tra classe operaia e intellettuale. A questi fattori si può attribuire la poca longevità e il poco peso politico di molti dei seguenti sindacati.

      

26 La  confessione  religiosa  cristiana  si  accompagna,  in  alcuni  casi,  a  spiccati  ideali  comunisti  e  socialisti.  La 

“solidarietà” propugnata da Suzuki Bunji o Takano Fusatarō, infatti, aveva una valenza spiccatamente cristiana  rifacentesi a concetti quali la “carità”. 

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Nel 1897 Takano Fusatarō 高野房太郎 (1869-1904) fondò il Rōdōkumiai kiseikai 労

働組合期成会 (Associazione per la formazione dei sindacati). Come il nome indica era

un’associazione con finalità educative e di mutuo soccorso che mirava alla creazione di gruppi sindacali; nel breve arco della sua esistenza riuscì a creare la Tekkōkumiai 鉄工組合 (Sindacato degli operai metallurgici) e la Nihon Tetsudōkyōseikai 日 本 鉄 道 矯 正 会 (Sindacato per la Correzione delle ferrovie del Giappone) composto da ingegneri e fuochisti delle ferrovie. Creò anche la Kappankōkumiai 活版工組合 (Sindacato dei tipografi). Nel 1901, dopo solo quattro anni di attività e un anno dall’emanazione della Legge di polizia per l’ordine pubblico, tutti i gruppi furono sciolti. La ragione va forse ricercata anche nelle attività di studio e diffusione degli ideali socialisti portata avanti da Katayama Sen 片山 潜 (1859-1933) collaboratore di Takano.

Nel 1902 nacque anche un sindacato dei minatori, il Dainihon rōdō shiseikai 大日本

労働至誠会 (Associazione leale dei lavoratori del Grande Giappone) ma le proteste della

miniera di Ashio 足尾 e le successive violenze portarono allo smantellamento anche di questo sindacato.

Nel 1907 i lavoratori della miniera di Ashio, inferociti per il respingimento della richiesta di aumento salariale, per l’inflazione, per il sistema delle “bustarelle” da versare ai

boss della miniera diedero inizio a tre giorni di violenze che culminarono dell’incendio dei

capannoni e nell’utilizzo di dinamite a scopo distruttivo nella stessa miniera. Solo l’intervento della polizia, richiamata in gran numero da diversi distretti, poté porre fine alla rivolta. Molti minatori furono arrestati, ma l’evento influenzò profondamente sia il mondo sindacale sia il mondo minerario.

Nel 1912 Suzuki Bunji 鈴木文治 (1885-1946) fondò la Yūaikai 友愛会 (Associazione dell’amicizia) i cui obiettivi non andavano oltre la diffusione della reciproca solidarietà, il perseguimento di ideali volti all’avanzamento della morale e della tecnica, e al miglioramento della propria condizione. La svolta interessante della Yūaikai inizia nel 1919, quando a fronte di una forte depressione conseguente alla fine della Prima Guerra Mondiale (che aveva portato a un incredibile arricchimento del Giappone e all’apertura di nuove fabbriche, di cui molte però furono chiuse a causa del rientro nel mercato delle potenze europee alla fine del conflitto) l’associazione mutò nome in Dainihon rōdō sōdōmei yūaikai 大日本労働総同盟友 愛会 (Associazione amichevole dell’alleanza generale del lavoro del Grande Giappone) e nel

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1921 in Nihon rōdō sōdōmei 日本労働総同盟 (Alleanza generale del lavoro del Giappone). Il Sōdōmei (come fu poi abbreviato) è il sindacato più longevo del Giappone: sebbene sia stato messo anch’esso a tacere durante la Seconda Guerra Mondiale con la Legge per la mobilitazione generale della Nazione, al termine della guerra esisteva ancora e si mobilitò per aiutare gli americani a dotare il Giappone di una vera normativa sul lavoro che potesse aiutare il paese nella ricostruzione. Dal Sōdōmei si staccarono, nel tempo, alcuni gruppi percorsi da correnti ideologiche più forti, come nel 1925 il Nihon rōdō kumiai hyōgikai 日本労働組合評 議会 (Consiglio delle unioni sindacali del Giappone) permeato da forti correnti di sinistra e nel 1926 il Nihon rōdō kumiai dōmei 日本労働組合同盟 (Alleanza delle unioni sindacali del Giappone). Dal 1918 al 1938 vi fu un grande fervore negli ambienti sindacali e politici, dapprima a causa delle peggiorate condizioni dei lavoratori durante la depressione seguita al boom economico della Prima Guerra Mondiale; i “moti del riso” furono infatti una protesta colorata da più fazioni, gente povera del popolo che non riusciva ad affrontare l’aumento del costo del cibo, lavoratori i cui salari reali si erano compressi rendendoli di fatto poveri, disoccupati il cui numero era drasticamente aumentato dopo la chiusura di molte fabbriche. Il terremoto del Kantō 関東大震災 del 1923 aggravò sia le condizioni del popolo sia la bilancia commerciale del paese, costretta a importare il necessario per la ricostruzione con notevoli conseguenze negative per l’economia. L’estensione del diritto di voto a suffragio maschile del 1925 innescò una “politicizzazione” del mondo sindacale che ebbe forti conseguenze nel cambiare l’assetto organizzativo dei sindacati fin allora emersi. Il Nihon rōdō kumiai hyōgikai, che si era battuto per ottenere il suffragio universale maschile, cambiò nome in Nihon rōdō kumiai sōhyōgikai 日本労働組合総評議会 (Consiglio generale delle unioni sindacali del Giappone) schierandosi definitivamente a sinistra. Il Nihon rōdō kumiai dōmei nel 1930 si unì ad altre unioni minori, prendendo il nome Zenkoku rōdō kumiai dōmei 全国労働組合同盟 (Alleanza nazionale delle unioni sindacali) e schierandosi in una posizione politica moderata, assieme alla neonata Nihon rōdō kumiai sōrengō 日本労働組合総連合 (Alleanza generale dei sindacati del Giappone) fondata nel 1926.

Dal 1925 al 1938 la stretta dei vertici politici si abbatté su rivoltosi, intellettuali e sui sindacati che non accettavano di “limare” l’intensità delle proprie rivendicazioni. Il Sōdōmei all’alba della Guerra con la Cina nel 1937 accettò di sospendere ogni attività che potesse impedire la produzione bellica. Da questo momento in poi il militarismo e, di fatto, la dittatura militare renderanno o impossibile o estremamente pericoloso lottare per i diritti dei

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lavoratori. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale rimanderà il progresso della legge sul lavoro fino alla gestione della questione da parte degli americani. Si può quindi affermare che la situazione sindacale (e di fatto quella legale) fino alla Seconda Guerra Mondiale fu pervasa da grandi movimenti e da spinte volte a organizzare e migliorare le condizioni dei lavoratori; tuttavia molti fattori, tra cui la mancanza di una tradizione sindacale, una mentalità alternativa a quella occidentale, una serie di spinte discordanti e soprattutto il sommo interesse economico che pervadeva l’intera nazione resero lo sviluppo delle suddette questioni lento, frammentario e parziale.

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2. Storia del diritto del lavoro dopo la Seconda Guerra Mondiale

2.1 L’indomani della sconfitta

La situazione del Giappone all’indomani della sconfitta totale del 15 agosto 1945 è passibile di una duplice interpretazione. Il Giappone aveva perso tutto: le risorse economiche, l’esercito, la capitale1, l’ordine interno e soprattutto il suo spirito. La sconfitta rivelava con crudele realtà agli occhi dei giapponesi la propria inadeguatezza nei confronti dell’entourage bellico e politico occidentale. L’occupazione americana del suolo giapponese, degli organi di governo e dei palazzi del potere sanciva la caduta dell’impero. Il discorso di rinuncia alla divinità dell’Imperatore, trasmesso per radio il primo gennaio 1946, minò alle radici l’intera costruzione imperialista e militarista che aveva sostenuto il popolo e l’esercito dalle guerre del 1894 fino alla mobilitazione nazionale del 1937. I giapponesi erano prostrati. Ma, come spiega brillantemente Ruth Benedict:

Era come se costoro avessero iniziato una nuova pagina della loro vita, ed anche se essa era completamente diversa, anzi l’opposto della precedente, inalterato rimase invece l’impegno di cui seppero dar prova.2

Dal canto loro gli americani (attraverso il Supreme Commander of the Allied Powers, o SCAP) seppero intelligentemente utilizzare a proprio vantaggio le strutture amministrative e burocratiche in precedenza utilizzate dai giapponesi per mettere in moto la macchina della ricostruzione. Questo metodo non solo permetteva agli Stati Uniti di risparmiare tempo e denaro evitando di costruire un apparato ex novo, ma coinvolgeva direttamente i giapponesi nell’opera di ricostruzione lasciandoli relativamente liberi nella modalità di applicare quanto ordinato dallo SCAP. I giapponesi non furono quindi umiliati e sottomessi, ma resi capaci di ricostruire il proprio paese su premesse nuove, improntate alla libertà individuale e alla democrazia. Questa assenza di “pugno di ferro” è comprensibile se si considera che:

Se un Giapponese ha intrapreso una linea d’azione mediante la quale non è riuscito a raggiungere lo scopo desiderato, riconosce di avere commesso un «errore»; di fronte all’insuccesso considera la propria scelta

      

1

 Tōkyō  era  stata  pesantemente  bombardata  a  partire  dal  1944  e  fu  quindi  necessario  ricostruirla  quasi  completamente. 

2

 Ruth BENEDICT, Il crisantemo e la spada, Editori Laterza, Bari, 2009, p. 50.   

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come una «causa perduta» e la respinge, dato che la sua formazione culturale non lo obbliga affatto a combattere per le cause perdute.3

La situazione era delle migliori per procedere rapidamente e senza ostacoli ideologici a una ricostruzione (fisica e mentale) di vastissima portata. E’ in questo clima che la legislazione sul lavoro ricevette un impulso fortissimo che getterà le basi del sistema legislativo tuttora in uso.

2.2 La legislazione sul lavoro dall’egida americana fino ad oggi

Nel 1946 fu varata la Nihon koku kenpō 日本国憲法 (Costituzione del Giappone)4

che dichiara agli artt. 27 e 28 il diritto e il dovere al lavoro e garantisce il diritto dei lavoratori di organizzarsi, contrattare e agire collettivamente. Si noti che, a differenza di quanto riportato nella Costituzione Meiji, l’espressione “nei limiti espressi dalla legge” è stata tralasciata, valendo quindi come principio assoluto il diritto del lavoratore. Lo stesso anno fu emanato il

Rōdō kankei chōseihō 労働関係調整法 (Legge sulla regolazione dei rapporti di lavoro)5 che

definisce le specificità della disputa lavorativa e stabilisce i metodi per risolverla, attraverso conciliazione, mediazione e arbitrato gestiti dalla Rōdō Iinkai 労働委員会 (Commissione per il lavoro)6.

Nel 1947 fu promulgata la Rōdō kijunhō 労働基準法 (Legge sugli standard del lavoro)7: questa legge si pone come obiettivo di fissare degli standard minimi sulle condizioni di lavoro (orario, retribuzione, salute ecc.) come base che i datori di lavoro devono garantire e devono nei limiti del possibile cercare di migliorare costantemente. I punti più interessanti sono all’art. 19, in cui si ordina al datore di lavoro di non licenziare un dipendente

       3  Ruth BENEDICT, Il crisantemo..., op. cit., p. 337.  4  La Costituzione del Giappone è disponibile in giapponese e in traduzione inglese all’indirizzo  web http://www.japaneselawtranslation.go.jp/law/detail/?ft=2&re=02&dn=1&yo=constitution+of+japan&x=0 &y=0&ky=&page=1 .  5  Disponibile all’indirizzo  web http://www.japaneselawtranslation.go.jp/law/detail/?ft=3&re=02&dn=1&x=53&y=14&bu=2048&ky=&pa ge=17 .  6 La Commissione per il Lavoro dispone di una sede in ognuna delle 47 provincie del Giappone, la sede centrale  è a Tōkyō. Si occupa principalmente di gestire le controversie sul lavoro, attraverso le tre procedure elencate e  si occupa inoltre di stabilire le pratiche di lavoro scorrette (unfair labor practice).  7 Disponibile all’indirizzo web http://www.japaneselawtranslation.go.jp/law/detail/?id=5&vm=04&re=02 . 

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impossibilitato al lavoro a causa di malattia o ferita o durante il periodo di riposo garantito per maternità; all’art. 20 si stabilisce il preavviso e le condizioni economiche per il licenziamento; l’art. 28 stabilisce che la retribuzione minima è stabilita per legge; l’art. 32 stabilisce l’orario massimo per giorno e settimana e l’obbligo per il datore di lavoro di pagare una quota maggiorata per chi lavora oltre l’orario stabilito (artt. 32.4.2 e 37); gli artt. 34 e 35 le pause giornaliere e il giorno di riposo settimanale garantito; l’art. 39 sancisce l’istituzione delle ferie pagate garantite a un minimo di 10 giorni lavorativi l’anno; l’art. 57 stabilisce le condizioni di lavoro dei minori, condizioni che devono tenere conto della frequenza scolastica e degli orari e del carico di fatica che il minore è in grado di sopportare; l’art. 65 fissa i termini temporali garantiti del ritiro per maternità e sancisce il diritto della donna di richiedere giorni di permesso prima della nascita o di cambiare mansione tenendo conto del proprio stato. L’insieme di queste norme traccia un quadro decisamente più vincolante per i datori di lavoro, scavalcati nella libertà di imporre orari e salari arbitrari e vincolati a garantire la salute e il riposo ai dipendenti. Una volta per tutte è sancito in Giappone lo stato del lavoratore ad avere dei diritti garantiti, irrinunciabili e appellabili in caso di dispute. Sempre nel 1947 fu inoltre emanata la Rōdōsha saigai hoshō hokenhō 労 働 者 災 害 補 償 保 険 法 (Legge per

l’assicurazione di indennizzi per infortunio sul lavoro) 8 che definisce innanzitutto

“l’infortunio sul lavoro” quale quello occorso durante lo svolgimento del lavoro o durante il percorso di andata e di ritorno dalla propria abitazione al luogo di lavoro e determina come calcolare i sussidi economici a seconda del tipo di infortunio occorso.

Nel 1949, a integrazione della Legge sulla regolazione dei rapporti di lavoro, viene

emanata la Rōdō kumiaihō 労働組合法 (Legge sui sindacati)9, che garantisce non solo il

diritto inviolabile a organizzarsi e contrattare collettivamente, ma impone al datore di lavoro di confrontarsi con il fronte sindacale. L’art. 5 stabilisce inoltre la “struttura” di un sindacato, le regole finanziare e amministrative che lo regolano e gli impongono di rimanere economicamente indipendente per poter effettivamente rappresentare l’interesse dei lavoratori. L’art. 7 vieta inoltre al datore di lavoro di discriminare un dipendente a causa della sua

       8 Disponibile all’indirizzo  web http://www.japaneselawtranslation.go.jp/law/detail/?ft=2&re=02&dn=1&yo=accident+compensation+ins urance&x=0&y=0&ky=&page=1 .  9 Disponibile all’indirizzo  web http://www.japaneselawtranslation.go.jp/law/detail/?ft=5&re=02&dn=1&gn=99&sy=1949&ht=A&no=174 &x=25&y=19&ky=&page=1 . 

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appartenenza a un sindacato, ma anzi vincola il dipendente a entrare nel sindacato aziendale quando esso rappresenti la maggioranza dei dipendenti di un dato posto di lavoro se tale condizione è stata posta in un contratto collettivo. Questo articolo, in particolare, evidenzia come nei confini di un dato luogo di lavoro, fabbrica o azienda che sia, il contratto collettivo sia uno strumento apprezzato se inserito nel sistema del sindacato aziendale. Avere dei dipendenti “liberi” o appartenenti ad altri sindacati estranei all’azienda potrebbe infatti portare a “strappi” pericolosi in caso di dispute.

A partire dal 1952, ovvero dalla fine dell’occupazione americana attraverso la SCAP, il Giappone ha provveduto a continuare la legislazione sul lavoro integrando le leggi esistenti ed emanandone altre che completassero il quadro giuridico indispensabile alla potente crescita economica che stava vivendo. Di particolare interesse in quanto frutto del mercato del lavoro nipponico sono la Koyō no bunya ni okeru danjō no kintōna kikai oyobi taigū no kakuhonado ni kansuru hōritsu 雇用の分野における男女の均等な機会及び待遇の確保等に関する法 律 (Legge volta a garantire ecc. parità di opportunità e trattamento di uomini e donne nel campo del lavoro)10 del 1972. All’art. 6 questa legge dispone che il genere di appartenenza

del lavoratore non possa essere causa di una discriminazione nell’assegnazione di incarichi, promozioni, retrocessioni o addestramento. Stabilisce inoltre all’art. 9 che matrimonio, gravidanza e maternità non sono motivi validi al licenziamento dei dipendenti.

Una forte presenza della mentalità giapponese si avverte anche nell’art. 2 della Kobetsu rōdō kankei funsō no kaiketsu no sukoshin ni kansuru hōritsu 個別労働関係紛争の 解決の促進に関する法律 (Legge per la promozione della risoluzione individuale delle dispute di lavoro)11 del 2001. Si legge infatti che nel caso di disputa tra datore di lavoro e dipendente un tentativo di risoluzione volontaria e in buona fede è obbligatorio, prima di ricorrere all’iter classico della risoluzione giudiziaria.

       10 Disponibile all’indirizzo  anslation.go.jp/law/detail/?ft=3&re=02&dn=1&x=62&y=34&bu=2048&ky=&pa web http://www.japaneselawtr ge=30 .  11 Disponibile all’indirizzo  anslation.go.jp/law/detail/?ft=3&re=02&dn=1&x=90&y=18&bu=2048&ky=&pa web http://www.japaneselawtr ge=3 . 

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