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Un profilo sierico specifico dei microRNA, il MiR-B-Index, identifica il controllo immune dell'infezione cronica da HBV

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Academic year: 2021

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INDICE

1.

INTRODUZIONE

………...4

HBV

………...4

1.1 Classificazione e Tassonomia……….………..4

1.2 Morfologia virale, genoma e proteine virali………..5

1.2.1 Morfologia del virione.……… ………5

1.2.2 Genoma... ...….6

1.2.3 Gene S /HBsAg...8

1.2.4 Gene PreC e C / HBeAg e HBcAg……….………....19

1.2.5 Gene P / Polimerasi……….………10

1.2.6 Gene X / Proteina X……….………...10

1.3. Ciclo replicativo………11

1.4 Eterogeneità virale………15

1.4.1 Varianti del Gene S………15

1.4.2 Varianti del Gene PreC/C………...16

1.4.3 Varianti del Gene P………17

1.4.4 Genotipi e sierotipi di HBV………...18

1.5 Infettività………...19

1.6 Patogenesi e storia naturale……….20

1.7 Quadri clinici di epatite cronica……….………….23

1.7.1 Epatite cronica HBeAg positiva………23

1.7.2 Epatite cronica HBeAg negativa/anti-HBe positiva………..24

1.8 Diagnosi d'infezione e malattia………26

1.8.1 Diagnosi sierologica di primo livello ………...….27

1.8.2 Diagnosi sierologica di secondo livello: caratterizzazione dell’infezione e identificazione del paziente con malattia epatica da HBV ………..28

(2)

1.9 Terapia……….……….……..32

MicroRNA

……….…………....34

1.10 Biologia dei miRNA……….……….35

1.10.1 I geni dei miRNA………...35

1.10.2 Biogenesi………37

1.11 Attività modulatoria e controllo della traduzione……….………39

1.12 MiRNA, sistema immunitario e infezioni……….…………..40

1.12.1 Infezioni………..42

1.12.2 MiRNA e Mycobatteri…..……….….42

1.12.3 MiRNA e Virus………..42

2. RAZIONALE DELLO STUDIO

………..……….48

3. PAZIENTI E METODI

………...…...50

3.1 Popolazione oggetto dello studio……….50

3.2 Test sierologici………..51

3.3 Isolamento dell'RNA, sintesi del cDNA e RT-q-PCR……….………….……..52

3.3.1 Purificazione delle particelle HBsAg circolanti nel siero……….……….52

3.3.2 Estrazione dell'RNA, retrotrascrizione e real-time PCR……….…………..52

3.4 Elaborazione dei dati e analisi statistica……….………53

4. RISULTATI

………..………55

4.1 Identificazione e profilo dei miRNA nelle particelle HBsAg ……….……..55

4.2 Analisi dei profili sierici dei miRNA……….……… 60

4.2.1 Portatori cronici di HBV non trattati……….………… 60

4.2.2 Pazienti con epatite cronica HBeAg negativa, trattati con Peg-IFN……….……… 64

4.2.3 Pazienti trattati con NUCs……….……… 68

(3)

5. DISCUSSIONE

……….……….………..74

6. RIASSUNTO SINTETICO

……….……….………..78

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1. INTRODUZIONE

HBV

1.1 Classificazione e Tassonomia

Gli Hepadnaviridae rappresentano una famiglia di virus a DNA a spiccato epatotropismo, con uno spettro d’ospite estremamente ampio, comprendente sia l’uomo che molteplici animali [1]. Il virus dell’epatite B dell’uomo (HBV), il virus dell’epatite della scimmia lanosa (WMHV) [2], il virus dell’epatite dello scoiattolo (GSHV) e quello dell’epatite della marmotta americana (WHV) [3], fanno tutti parte del primo grande genere di suddivisione della suddetta famiglia, gli

Orthohepadnavirus. Il secondo genere è rappresentato dagli Avihepadnavirus: il virus dell’epatite

(5)

1.2 Morfologia virale e ciclo replicativo

1.2.1 Morfologia del virione

La forma infettante di HBV è rappresentata da un virione di forma sferica e di diametro variabile compreso tra i 42 e i 47 nm, particella di Dane. Il virione è costituito da un doppio involucro che racchiude il genoma (Figura 1): l’involucro esterno, detto envelope, è costituito da un doppio strato fosfolipidico, derivato dalla cellula ospite, contenente tre differenti proteine di superficie dotate di reattività antigenica HBsAg (Hepatitis B Surface Antigen), distinte in base al peso molecolare in small (SHBsAg), medium (MHBsAg) e large (LHBsAg). Le proteine di superficie sono proteine transmembrana di tipo II glicosilate, organizzate in multimeri stabilizzati da ponti disolfuro tra i residui di cisteina presenti nel dominio S [5] [6]. L’involucro interno è rappresentato da un nucleocapside a struttura icosaedrica elettrondensa del diametro di 28 nm, costituito da circa 180 molecole della proteina core codificata con reattività antigenica HBcAg (Hepatitis B Core Antigen). All’interno del nucleocapside è contenuta una singola copia del DNA genomico, circolare a doppio filamento incompleto, ad una estremità del quale è legata la polimerasi virale.

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Figura 1. Struttura del virione di HBV

1.2.2 Genoma di HBV

Il genoma di HBV è rappresentato da una piccola molecola di DNA circolare, a doppio filamento incompleto (uno a polarità positiva ed uno a polarità negativa) formato da circa 3.200 paia di basi (le dimensioni variano a seconda del genotipo).

Il filamento a polarità negativa ricopre l’intera lunghezza del genoma e presenta all’estremità 5’ un piccolo residuo oligomerico di RNA derivante dall’RNA pre-genomico (pgRNA) legato covalentemente. Al filamento negativo è legata mediante legame fosforico la polimerasi virale [7].

Il filamento a polarità positiva si estende solo per 2/3 della lunghezza del DNA, interrompendosi in porzioni variabili all’estremità 3’. Alle due estremità del filamento troviamo due regioni ridondanti di circa 8-9 nucleotidi essenziali per la replicazione virale, note come regioni R [8] [9] [10].

Il genoma virale presenta un’organizzazione estremamente compatta: le regioni codificanti sono infatti parzialmente sovrapposte e ciò permette al virus di codificare per un numero elevato di proteine nonostante le piccole dimensioni dell’acido nucleico (Figura 2). Il DNA virale presenta

Nucleocapside (HBcAg) Doppio strato lipidico

DNA Polimerasi (Trascrittasi inversa) Proteina terminale del DNA

DNA

SHBsAg=S

LHBsAg=PreS1/PreS2/S MHBsAg=PreS2/S

(7)

rispettivamente codificano per le 3 proteine dell’envelope, per la polimerasi, per la proteina core e

per la proteina X [11].

Figura 2. Organizzazione del genoma di HBV. Il genoma è costituito da una molecola di DNA

circolare a doppio filamento incompleto, estremamente compatto e presenta regioni codificanti sovrapposte.

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1.2.3 Gene S / HBsAg

Il Gene S codifica per tre differenti proteine di superficie che, in base alle dimensioni, sono chiamate small (S), medium (M) e large (L). Il gene S ha una lunghezza compresa tra 389 e 400 codoni, a seconda del genotipo virale; presenta 3 codoni d’inizio dai quali originano le proteine corrispondenti ai domini S, PreS1 e PreS2. Le tre proteine hanno in comune lo stesso dominio carbossi-terminale, mentre differiscono all’estremità amino-terminale [12]. Dalla trascrizione dei gene S derivano gli mRNA di 2.1 kb e di 2.4 kb, che producono rispettivamente le proteine small e

medium e le proteine large. Numerosi fattori sono coinvolti nella regolazione della trascrizione,

agendo su regioni promotrici (enhancer), e nel processo partecipano anche altri elementi regolatori, compresi quelli responsivi ai glucocorticoidi [12]. L’espressione delle 3 proteine è controllata da enhancer differenti; una TATA box è presente come promoter solo per la proteina L.

La traduzione degli mRNA avviene nel reticolo endoplasmatico e da origine alle seguenti proteine:

- small, composta da 226 amminoacidi

- medium, che a livello dell’estremità N-terminale presenta 55 amminoacidi in più rispetto alla

small, corrispondenti alla regione preS2

- large, con ulteriori 108-119 amminoacidi all’estremità N-terminale codificati dalla regione preS1.

Le 3 proteine S formano l’envelope del virione. Le proteine S e L sono indispensabili per la produzione della particella di Dane, in particolare la proteina L ha un ruolo fondamentale nell’assemblaggio, nella secrezione e dell’infettività del virione stesso. Nel PreS2 i 5 aa all’estremità N-terminale hanno un ruolo fondamentale nell’interazione tra envelope e nucleocapside, i 17 aa all’estremità C-terminale nella morfogenesi del virione. Nel PreS1 gli aa 3-7 sono importanti per l’infettività. Il ruolo della proteina M nel ciclo vitale rimane ancora da definire, in quanto la mancanza di tale molecola amminoacidica non altera la morfogenesi del virus e nemmeno la sua capacità infettante [13].

Oltre ai virioni completi, nel siero dei pazienti infetti sono presenti in ampio eccesso particelle difettive, non infettanti, composte solo da proteine dell’envelope. Si tratta di strutture subvirali, prive di nucleocapside, del diametro di 20 nm e di forma sferoidale o filamentosa, che si formano a livello delle membrane del Golgi [13] [14]. Il rapporto tra i virioni e queste particelle subvirali è nettamente a favore di quest’ultime, le quali sono da 102

a 105 volte più numerose dei virioni nel circolo periferico e raggiungono concentrazioni di centinaia di µg per mL di siero. I virioni circolanti sono espressione dell’attività replicativa del virus, mentre le particelle subvirali

(9)

derivano dalla trascrizione del cccDNA e dalla traduzione di specifici mRNA, processo indipendente dalla replicazione.

Ognuna delle 3 proteine è presente in percentuali diverse nell’envelope del virione e nelle particelle difettive: la proteina L rappresenta il 10% nel virione completo e nella forma filamentosa e solo l’1% nelle particelle sferiche mentre la proteina M costituisce il 20% nella particella di Dane e nei filamenti e il 10% nelle forme sferiche. La proteina small è la più rappresentata rappresentando il 70% e oltre del totale in tutte le forme [13].

Ai fini della maturazione dei virioni è necessario che sia mantenuto il corretto rapporto stechiometrico tra la proteine L e S. L’eccesso di sintesi della forma L porta ad un accumulo nel complesso di Golgi delle particelle di HBsAg e ne impedisce la secrezione. Tale evento può essere il risultato della selezione di varianti virali che, a causa di mutazioni della regione PreS (S1/S2), possono portare ad uno sbilanciamento del rapporto tra le diverse proteine.

Le proteine S possono essere prodotte attraverso la trascrizione di sequenze di HBV integrate nel genoma cellulare (l’integrazione è un evento pressoché costante nel corso dell’infezione da HBV, anche se non costituisce una tappa utile o necessaria ai fini replicativi) [15]. Dal momento che le sequenze di HBV-DNA integrate sono in genere parziali è possibile che le proteine S prodotte dalla loro trascrizione siano incomplete, tronche e possano non solo accumularsi a livello intracitoplasmatico, ma anche avere un'attività transattivante su geni cellulari, con potenziali implicazioni nel processo oncogenetico epatico [15].

1.2.4 Gene PreC e C / HBcAg e HBeAg

L’ORF PreC/C contiene due domini diversi caratterizzati rispettivamente da due codoni di inizio della traduzione, distanti 28 codoni l’uno dall’altro. Il trascritto che origina a partire dal codone di inizio interno codifica per la proteina del core, HBcAg [8]. L’HBcAg è la proteina strutturale essenziale per la formazione del nucleocapside ed è implicata nei processi di assemblaggio e reclutamento dell’RNA pregenomico e nella costituzione del complesso RNA pregenomico-polimerasi virale, necessario per l’inizio della trascrizione inversa [16] [17] [18]. La traduzione del trascritto più lungo dà origine al polipeptide pre-Core, che si differenzia dalla proteina del core per la presenza di una sequenza leader di 29 aminoacidi all’estremità N-terminale che ne permette la traslocazione nel reticolo endoplasmatico liscio: da qui, dopo clivaggio dei primi 19 amminoacidi dell’estremità C-terminale da parte di una peptidasi, viene secreto in circolo come proteina HBeAg. L’HBeAg non svolge né un ruolo strutturale né un ruolo funzionale ai fini replicativi virali, ma nonostante questo, la sua produzione e secrezione sono finemente regolate a

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livello trascrizionale e traduzionale ed è una proteina virale conservata in tutti gli Hepadnaviridae. [19] [20] [21]. Tali evidenze suggeriscono un ruolo importante dell'HBeAg nella biologia degli Hepadnaviridae, in effetti tale proteina avrebbe un importante ruolo nell'interazione fra virus e ospite, modulando la risposta immune di quest'ultimo.

Sebbene l’HBeAg e l’HBcAg abbiano sequenze amminoacidiche omologhe, si associano a reattività antigeniche differenti e la risposta immunologica nei loro confronti è regolata in modo indipendente.

1.2.5 Gene P / Polimerasi

La replicazione di HBV è incentrata sull’azione di un particolare enzima, la Polimerasi virale, proteina multifunzionale codificata dal gene P, che corrisponde a circa l’80% della sequenza genomica di HBV [22]. La polimerasi consiste di quattro differenti domini con tre distinte attività enzimatiche: il primo all’estremità N-terminale, denominato primasi o TP (Terminal Protein), lega covalentemente la sequenza di riconoscimento all’estremità 5’ dell’RNA pre-genomico, permettendo così l’inizio della sintesi della catena negativa dell’HBV-DNA [23] [24]; un secondo dominio funge da spacer, ma non si esclude che possa avere ulteriori funzioni ancora non note. Il terzo dominio, RT, è dotato di attività polimerasica DNA- e RNA-dipendente (trascrittasi inversa) [25], ed infine il quarto dominio, RH, presenta una attività ribonucleasica [26]. All’interno del dominio RT infine si distinguono 5 regioni, A-E, a livello delle quali si verificano mutazioni che vengono selezionate in corso di trattamento con analoghi nucleos(t)idici ad azione antivirale.

1.2.6 Gene X /Proteina X

La proteina X è codificata dal gene X, attraverso la trascrizione di un mRNA di 0.8 kb. L’ORF X si sovrappone parzialmente sia alla regione P (a livello N-terminale) che alla regione PreC/C (all’estremità C-terminale) [11]. Varie funzioni sono state attribuite alla proteina X, prima fra tutte la capacità di attivare la trascrizione di geni sia virali che cellulari [27], anche se non avviene un legame diretto tra questa proteina ed il DNA; la proteina X è inoltre implicata nella regolazione del ciclo cellulare, nell’inibizione dei processi di riparazione del DNA e nella regolazione dell’apoptosi [28] [29] [30].

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1.3 Ciclo replicativo

La replicazione virale si basa su una serie di determinati e consequenziali processi biologici di interazione virus-ospite, il primo e più importante di questi riguarda l’adesione virale e l’entrata del virus all’interno della cellula. Solo recentemente si è iniziato a meglio comprendere i processi che regolano l'adesione, il riconoscimento e l'internalizzazione del virus: per l’entrata del virus nell’epatocita è necessario che sia conservata la porzione N-terminale della proteina “Large” [31] [32]. Dopo l’adesione alla superficie della cellula il virione viene internalizzato per endocitosi, il nucleocapside viene rilasciato dall’envelope e viene trasferito all’interno del nucleo. A questo punto il DNA virale, a doppia elica parziale, viene completato ad opera di enzimi dell’ospite con la realizzazione di un filamento a doppia elica completa, che viene trasformato in Supercoiled DNA o

cccDNA, ovvero “DNA circolare chiuso covalentemente”; esso rimane all’interno del nucleo

assemblato con proteine istoniche sotto forma microsomiale, rappresentando il reservoir replicativo del virus. Dal cccDNA verranno trascritti sia gli RNA messaggeri (mRNA) sub-genomici, necessari per la sintesi delle proteine virali, sia l’RNA pre-genomico, che funge da stampo per la produzione di nuove molecole di DNA virale, ma anche da messaggero per la produzione delle proteine del capside (core) e della polimerasi. Questi due processi virali intracellulari appena descritti sono del tutto indipendenti, e avvengono in sedi diverse della cellula: il primo (traduzione degli mRNA subgenomici) avviene nel reticolo endoplasmatico e porta alla sintesi di proteine dell’envelope e della proteina X; il secondo (sintesi del DNA genomico ad opera della DNA polimerasi virale, sintesi delle proteine capsidiche e della polimerasi) avviene direttamente nel citoplasma. Gli RNA pre-genomici vengono incapsidati dalle proteine del core in una struttura che prende il nome di provirione, al cui interno vengono trascritti in DNA ad opera della DNA-polimerasi RNA-dipendente (trascrittasi inversa) virale, che si colloca all’estremità 5’ dell’RNA pregenomico in corrispondenza di una struttura secondaria chiamata “epsilon” (ε) che funge da sito di riconoscimento (pregenomic encapsidation signal) [33]. Dopo la produzione di un complesso intermedio RNA/DNA, la polimerasi virale opera la rimozione dello stampo di RNA pregenomico attraverso la funzione ribonucleasica e la successiva sintesi (parziale) della catena complementare di DNA (attività di polimerasi DNA-dipendente). La sintesi del filamento S (+) non sarà completata a causa delle proteine del nucleocapside che si legano all’elica L (-), quindi il genoma virale della progenie sarà circolare, rilassato e parzialmente bicatenario [34]. Una volta completato l’assemblaggio del nucleocapside, l’ultima fase del processo replicativo si compie con l’acquisizione dell’involucro pericapsidico (envelope) dalle membrane del reticolo endoplasmatico,

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in cui sono inserite le glicoproteine virali di superficie. Il virione completo, seguendo la pathway secretoria, può essere quindi liberato all’esterno della cellula (Figura 3).

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Accanto al ciclo replicativo, l’infezione da HBV può seguire parallelamente un’altra via evolutiva all’interno dell’epatocita: l’integrazione di più o meno ampie sequenze nucleotidiche del genoma virale all’interno del genoma cellulare. Nonostante questo processo molecolare non sia necessario ai fini replicativi, l’integrazione è un evento che avviene quasi costantemente e precocemente nella storia naturale dell’infezione. L’inserimento di sequenze virali nel genoma dell’ospite non avviene necessariamente in siti specifici, e può portare in taluni casi all’attivazione e/o all’alterazione di particolari geni deputati al controllo e alla regolazione del ciclo cellulare. L’integrazione pertanto costituisce un potenziale meccanismo patogenetico nell’epatocarcinogenesi.

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1.4 Eterogeneità virale

HBV presenta una spiccata tendenza alla formazione di popolazioni virali eterogenee e “quasi specie” virali, in quanto la trascrittasi inversa che sintetizza il filamento di DNA nascente è dotata di scarsa attività di correzione degli errori (delezioni, sostituzioni e/o inserzioni di nuovi nucleotidi), processo noto come “proof-reading”[35]. Rispetto ad altre classi di virus a DNA, si possono verificare con maggiore probabilità durante la replicazione virale delezioni, sostituzioni o inserzioni di nuovi nucleotidi nel filamento di DNA nascente che in ultima analisi determinano la formazione di popolazioni virali eterogenee, conosciute come “quasi-specie”. Tale probabilità è stimata essere circa 10 volte superiore rispetto agli altri virus a DNA e compresa tra 1.4 e 2.310-4

sostituzioni nucleotidiche per sito per anno [35]. Data l’organizzazione estremamente compatta del genoma di HBV, con regioni codificanti parzialmente sovrapposte, mutazioni anche puntiformi possono alterare in modo rilevante i processi di regolazione e/o la sintesi proteica. Pertanto il numero di mutazioni tollerato senza che il virus perda capacità infettiva e replicativa è piuttosto limitato [36], e solo una quota ridotta di “quasi specie” può diventare una popolazione virale dominante. La selezione di un “mutante” dipenderà dalla sua capacità replicativa e dalla capacità di sfuggire alla pressione immunologica e/o ambientale (ad esempio in presenza di terapia con farmaci antivirali) [37]. A tale proposito, a carico dei geni S, C e Pol sono state dimostrate alcune mutazioni con sicura rilevanza clinica, per le implicazioni sulla persistenza virale e sulla patogenesi [38].

1.4.1 Varianti del gene S

Le proteine dell'envelope dell'HBV (HBsAg), codificate dalle regioni PreS/S della ORF S costituiscono un bersaglio della risposta immunitaria, in particolare della risposta anticorpale (anti-HBs) neutralizzante [39] [40]. Di particolare interesse sono quelle mutazioni che si verificano a livello del determinante antigenico "a" (124-147aa) di HBsAg. Questa porzione della proteina S, costituisce non solo l'epitopo riconosciuto dalla maggior parte delle metodiche commerciali utilizzate per la determinazione di HBsAg [41], ma è anche la regione target di vaccini ricombinanti [42]. La selezione di varianti virali in tale regione potrebbe portare all'emergenza di virus in grado di sfuggire al vaccino ("escape mutants"). Il primo mutante "escape" di questo tipo mostrava la sostituzione dell'aminoacido glicina in posizione 145 con arginina e fu descritto inizialmente in Italia in un bambino infettatosi dalla madre nonostante avesse sviluppato anticorpi anti-HBs a

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seguito della profilassi vaccinale [43]. Gli studi di sorveglianza epidemiologica non hanno tuttavia evidenziato una significativa tendenza alla selezione di varianti di questo tipo, tale da far temere la compromissione delle campagne vaccinali. Sono state messe in evidenza molte altre varianti in grado di eludere la risposta immune [44], ma la forma G145R resta la più comune. Un altro sito di mutazione è localizzato a livello della regione Pre-S2 dell’ORF-S. Oltre alla regione S anche le porzioni Pre-S dell'ORF possono essere oggetto di mutazioni, che sono state descritte in portatori cronici di infezione [45]. La più comune di queste mutazioni interessa la regione Pres-2 e modifica un epitopo presentato in associazione con le molecole di MHC di classe I target dei linfociti T citotossici. Si ritiene quindi che tali mutanti siano selezionati dalla pressione immunologica e che il loro sviluppo sia importante per la persistenza virale; non può, tuttavia, essere esclusa un'implicazione nella patogenesi del danno epatico [46]. Tali mutazioni, infatti, possono portare all'accumulo intraepatico di proteine HBsAg, dando luogo alle cosiddette "ground glass cells" (cellule a vetro smerigliato) e in particolari condizioni potrebbero dar luogo ad un danno epatico secondario all'accumulo di proteine virali [47].

1.4.2 Varianti del gene PreC/C

La regione Pre-C/C del genoma di HBV codifica la sintesi della proteina del nucleocapside (HBcAg) e dell'antigene "e" (HBeAg). La secrezione dell'HBeAg dipende dall'espressione di uno specifico peptide segnale codificato dalla regione Pre-core e può essere modulata sia a livello trascrizionale [20] che traslazionale [46] [21]. La principale mutazione della regione Pre-core che interferisce con l'espressione di HBeAg a livello traslazionale è la sostituzione Guanina-Adenina in posizione 1896, che converte il codone 28 della regione Pre-core in un codone di stop traslazionale (UAG), impedendo in tal modo la produzione di HBeAg [49]. La prevalenza di tale mutazione è differente nei diversi genotipi di HBV (B, D, E > C, F > A) e ciò risulta essere condizionato dalla sequenza nucleotidica della regione Pre-core. Quest'ultima, infatti, oltre a codificare per le proteine Pre-core, costituisce il segnale di encapsidazione del pregenoma (). Quest'ultimo è caratterizzato da una specifica struttura secondaria derivante da un preciso appaiamento di basi. Lo switch GtoA al 1896 porta al consolidamento della struttura secondaria di per quei genotipi (B, D, E, parte di C, F) che hanno una timidina al 1858. Al contrario, nel genotipo A, che presenta una citidina in posizione 1858, la comparsa della mutazione G1896A porta alla destabilizzazione di tale struttura creando uno svantaggio selettivo del mutante [50].

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livello di queste sequenze regolatrici, influendo sul rate trascrizionale del Pre-core m-RNA, sono in grado di modulare, ma non di bloccare, la sintesi dell'HBeAg [51]. Gli studi di storia naturale hanno dimostrato come la selezione di varianti difettive per la secrezione di HBeAg (rappresentata, ad esempio nell'area Mediterranea, per il 90% da mutanti G1896A [21]) sia una costante nel caso dell'infezione e malattia cronica da HBV. In particolare, tali mutanti iniziano ad emergere non appena si attiva una specifica risposta immune, mentre divengono la popolazione prevalente nella fase HBeAg negativa dell'infezione. Si ritiene che le varianti HBeAg difettive siano una strategia virale volta a garantire la persistenza dell'infezione e replicazione in presenza di una specifica risposta immune antivirale.

1.4.3 Varianti del gene P

Le mutazioni a carico del gene Polimerasi sono state descritte con l'introduzione in terapia degli analoghi nucleos(t)idici, la cui azione si esplica attraverso l'interferenza con l'attività della polimerasi.

Durante tale terapia si possono selezionare mutazioni nel sito catalitico della polimerasi che conferiscono resistenza a tali farmaci. La prima mutazione ad essere identificata è stata la sostituzione dell'amminoacido metionina con una valina o isoleucina in posizione 204 nel dominio C dell'enzima [52], in pazienti sottoposti a trattamento con lamivudina. I gruppi laterali dell'isoleucina e della valina alterano il legame della lamivudina al sito catalitico della polimerasi impedendone così l'attività di blocco dell'enzima.

Nei mutanti resistenti alla lamivudina sono spesso presenti ulteriori mutazioni compensatorie a livello dei domini A e B della polimerasi ( L80V/I, V173L, L180M, A181T), o in altre porzioni del genoma, che conferiscono una maggior efficienza replicativa al virus o ulteriore resistenza ai farmaci [48].

Nel complesso sono molte le mutazioni associate a resistenza o ridotta suscettibilità ai farmaci antivirali nucleos(t)idici, come la mutazione A181V o T o S, che causano resistenza all'Adefovir ed Entecavir. In generale la selezione di mutanti resistenti dipenderà dalla fitness replicativa, dalla creazione di uno spazio cellulare per la diffusione della variante e dalla capacità di controllo immune endogeno del paziente.

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1.4.4 Genotipi e sierotipi di HBV

Inizialmente vennero distinti 4 diversi sierotipi di HBV (adr, adw, ayr ed ayw) sulla base dei determinanti antigenici dell'antigene di superficie e questi a loro volta sono stati ulteriormente suddivisi in 9 sottosierotipi (ayw1, ayw2, ayw4 ayr, adw2, adw4, arq+, adrq-), distribuiti con prevalenza diversa a seconda dell'area geografica. Le tecniche di biologia molecolare hanno in seguito permesso la caratterizzazione dei genotipi virali in base al grado di divergenza nucleotidica pari o superiore all'8% [54] [55].

I genotipi, A-H, sono distribuiti in aree geografiche diverse come sintetizzato in Tabella 1.

GENOTIPI SIEROTIPI DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA

A adw2, ayw1 Nord ed Est Europa, Nord America, Filippine, Hong Kong, Africa centrale

B adw2, ayw1 Sud est Asia, Cina, Giappone C ayr, adrq-,

adrq+, adw2 Sud est Asia, Cina, Giappone

D adw2, ayw3 Bacino del Mediterraneo, Asia centrale e India

E ayw4 Africa sub-Sahariana

F adw4q America Latina, Polinesia

G adw2 Francia e Stati Uniti; di solito in coinfezione insieme con A

H Messico e America Latina

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1.5 Infettività

L’HBV è un virus altamente infettivo. L’infezione può essere trasmessa sia attraverso il sangue che con gli altri liquidi biologici e la trasmissione è facile attraverso i contatti interpersonali in ambito familiare.

Nei paesi ad elevata endemia (Africa ed Estremo oriente) la probabilità di esposizione ad HBV nell’arco della vita supera il 60% e l’infezione è contratta prevalentemente per via verticale, da madre a figlio, in epoca perinatale [56].

Nelle regioni ad endemia intermedia (Bacino del Mediterraneo e Giappone) il rischio di infezione per ogni soggetto varia dal 20 al 60% e la trasmissione avviene frequentemente per via orizzontale, tramite contatti intimi-sessuali e l’uso in comune di oggetti contaminati (strumenti di igiene personale come rasoi, spazzolini da denti, etc.,) [57] [58]. La diffusione dell’infezione all’interno dello stesso nucleo familiare è frequente.

Infine nei paesi occidentali a bassa endemia, meno del 20% della popolazione è esposto al virus nel corso della vita; la trasmissione dell’infezione interessa prevalentemente gruppi a rischio come tossicodipendenti, omosessuali, personale sanitario, residenti in istituti e nuclei familiari dei quali entra a far parte un soggetto portatore cronico di HBV (ad esempio dopo adozione) [59] [60].

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1.6 Patogenesi e storia naturale

Il virus dell’epatite B non è direttamente citopatico [60], pertanto l’infezione da HBV non si associa necessariamente a danno epatico. Il danno che si verifica durante l’infezione da HBV è mediato dalla risposta immunitaria: in soggetti immunocompetenti l’espressione, a livello della membrana cellulare epatocitaria, di antigeni virali in associazione con gli antigeni di istocompatibilità (HLA) porta al riconoscimento degli stessi antigeni da parte del sistema immune con conseguente innesco della risposta cellulo-mediata e umorale [61] [62]. Una efficace e polivalente risposta cellulo-mediata rivolta verso epitopi delle proteine del nucleo capside, dell’envelope e della polimerasi virale può determinare un efficace controllo della replicazione virale, lo spegnimento del danno necroinfiammatorio e il controllo dell’infezione [62]. E’ ciò che si osserva nell’epatite acuta che esita nella guarigione: l’intensità della reazione immunitaria da parte dei linfociti CTL è tale da essere rilevabile anche nel sangue periferico, assieme alla presenza di linfociti CD4+ attivati contro le proteine nucleocapsidiche. Quando la risposta immune è insufficiente, si produce una sorta di continuo “braccio di ferro” tra virus e sistema immunitario che comporta la persistenza del danno epatico nel tempo e lo sviluppo di epatite cronica.

Qualora il soggetto infettato non riconosca come estranei gli antigeni virali a causa della loro modalità di presentazione (es. esposizione durante la vita intrauterina) oppure a causa di immaturità o compromissione (congenita o acquisita) del sistema immune, si instaura una condizione di “Tolleranza Immunologica” nei confronti dell’infezione, caratterizzata da alti livelli replicativi in assenza di segni bioumorali e istologici di danno epatico. Questa condizione è frequente nei bambini nati da madri HBeAg positive che acquisiscono l’infezione in epoca perinatale [62] [64] [65]: l’esposizione, durante la gravidanza, all’HBeAg prodotto dall’HBV infettante la madre induce nel feto la delezione timica dei linfociti deputati al riconoscimento di antigeni non autologhi [67]. Ciò favorirebbe l’instaurarsi di uno stato di tolleranza nei confronti degli antigeni nucleocapsidici virali HBcAg e HBeAg, che costituiscono i principali bersagli della risposta immune. Il soggetto può mantenere per anni tale condizione di Immunotolleranza, caratterizzata dalla presenza nel siero dei marcatori di infezione (HBsAg e anti-HBc), e di replicazione (HBeAg, HBV-DNA) e dall’assenza di quelli di danno virus indotto (IgM anti-HBc) [56] [58]. Nel momento in cui avviene il riconoscimento degli antigeni virali da parte del sistema immunitario inizia da parte di quest’ultimo il tentativo di controllo dell’infezione, che si esplica attraverso meccanismi di blocco della replicazione virale (citochino-mediati) e di eliminazione degli epatociti infetti [61] [62]. Quest’ultima modalità, insieme al richiamo di linfociti attivati in modo aspecifico, costituisce il

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può esitare in un efficace controllo dell’infezione caratterizzato dalla scomparsa dell’antigene “e” e dalla produzione di anticorpi anti-HBe (siero conversione), dalla drastica riduzione dei livelli replicativi, dalla normalizzazione delle transaminasi e dallo spegnimento del processo necroinfiammatorio epatico. Il portatore raggiunge questa condizione, definita fase di

Immuno-Controllo, presenta bassi livelli replicativi (HBV-DNA sierico costantemente inferiore a 2000

IU/mL, spesso non dosabile con le attuali tecniche di biologia molecolare) e viene definito

portatore inattivo di infezione da HBV. Il rischio di riattivazione spontanea della replicazione

virale è molto basso, significativo solo in caso di trattamento immunosoppressivo o chemioterapico [67].

Il processo di immuno-eliminzione non sempre risulta efficace e in un sottogruppo di soggetti la fase di immuno-attivazione può mantenersi per anni, alternando fasi di remissione a fasi di riacutizzazione [68]. È proprio in queste condizioni che, sotto la pressione immunologica, si selezionano varianti virali; si sviluppano mutazioni in grado di alterare gli epitopi bersaglio della risposta immunitaria cellulo-mediata, oppure, più frequentemente, di evadere la risposta immune arrestando la sintesi di proteine riconosciute dal sistema immune: è questo il caso delle varianti della regione pre-core [21] [69] [70]. Come già precedentemente accennato, nella nostra area geografica la mancata produzione dell’HBeAg dipende in oltre il 95% dei casi da una mutazione puntiforme (GA) in posizione 1896 della regione PreC che produce uno stop traslazionale con conseguente arresto della sintesi della proteina [49] Questo mutante è stato dimostrato nelle fasi di massima esacerbazione dei fenomeni di immuno-eliminazione che precedono la sieroconversione HBeAganti-HBe e costituisce la popolazione virale prevalente nella forma anti-HBe positiva dell’epatite cronica B [71]. Pertanto, a differenza di quanto si credeva un tempo, la sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe non corrisponde costantemente all’eradicazione della replicazione virale, che invece si può mantenere perché sostenuta dalla variante HBeAg difettiva. In questo caso i livelli viremici tendono ad essere più bassi (valore medio 5 Log10 IU/mL, range 4-7 Log10 IU/mL) e

fluttuanti rispetto a quelli osservati nella fase HBeAg positiva (valore medio 6 Log10 IU/mL, range

5-9 Log10 IU/mL). Per tale motivo nel corso del monitoraggio del paziente con epatite cronica B

anti-HBe positiva l’HBV-DNA risulta frequentemente non dosabile nel sangue con le tecniche di semplice ibridizzazione molecolare (sensibilità 5 Log10 IU/mL), nonostante si osservi la persistenza

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1.7 Quadri clinici di epatite cronica

Negli ultimi decenni si è osservato nel nostro paese un cambiamento dell’epidemiologia dell’infezione da HBV, che ha contribuito a modificare anche la prevalenza assoluta dell’epatite cronica B e la prevalenza relativa delle 2 forme, HBeAg e anti-HBe positive. Negli anni settanta era prevalente la forma HBeAg positiva, che rendeva conto di oltre il 55% dei casi di epatite cronica B. Attualmente in Italia circa il 10-12% delle epatiti croniche di nuova diagnosi sono causate dall’HBV e circa il 90% di queste è costituito dalla forma anti-HBe positiva [72]. A tale cambiamento epidemiologico hanno contribuito sia la riduzione delle nuove infezioni, e di conseguenza dei soggetti HBeAg positivi, sia l’aumentata accuratezza diagnostica con la quale sono identificati i pazienti anti-HBe positivi.

1.7.1 Epatite cronica HBeAg positiva

Come già accennato, l’acquisizione dell’infezione da virus “selvatico” alla nascita o nel periodo perinatale generalmente induce nel bambino una prolungata fase di immunotolleranza, caratterizzata da elevati livelli di replicazione virale in assenza di attivazione immunologica e quindi di danno necro-infiammatorio [72]. Nell’età dell’adolescenza la maggior parte dei soggetti passano spontaneamente ad una fase di immuno-attivazione sviluppando un danno epatitico. Nell’adulto è alquanto inusuale, in particolare in soggetti infettati dal genotipo D e in condizione di immunocompetenza, osservare portatori immunotolleranti, mentre tale condizione può essere riscontrata nei pazienti immunocompromessi.

Circa il 50-70% dei pazienti HBeAg positivi, osservati per un periodo medio di 5-10 anni, va incontro a sieroconversione spontanea, che è seguita da normalizzazione degli enzimi di citolisi epatica e spegnimento della necroinfiammazione a livello istologico [62] [73]. Fattori predittivi di sieroconversione sono: l’età avanzata, il sesso femminile e elevati livelli di transaminasi [73].

I pazienti HBeAg positivi che non vanno incontro a sieroconversione e mantengono una florida attività necroinfiammatoria, che può essere caratterizzata da episodi intercorrenti di esacerbazione necrotica, hanno un elevato rischio di progressione della malattia [73]. Si stima che il tasso annuale di progressione a cirrosi sia del 2 - 5.5% e che l’incidenza annua di complicanze cliniche della cirrosi (ascite, ittero, sanguinamento da varici) e di epatocarcinoma sia rispettivamente del 3.3% e 2% [58] [73].

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1.7.2 Epatite cronica anti-HBe positiva

Gli studi clinici che hanno caratterizzato il profilo dell’Epatite B anti-HBe positiva sono stati condotti prevalentemente nei paesi del bacino del Mediterraneo, area in cui l’infezione sostenuta dal mutante G1896A è maggiormente diffusa [50]. Nella maggior parte dei soggetti anti-HBe positivi l’infezione è stata acquisita in età infantile, come suggerito dalla presenza di una elevata diffusione dell’infezione in ambito familiare e dall’assenza di fattori di rischio maggiori, quali l’esposizione parenterale, e di storia di HBeAg positività [74]. In questi pazienti l’epatopatia decorre in maniera silente per 3-4 decadi, raggiungendo lo stadio di cirrosi ad un’età media di 45 anni; successivamente circa il 25% dei pazienti progredisce nell’arco di 10 anni verso le complicanze della cirrosi [74]. Il profilo di malattia dei pazienti con epatite cronica anti-HBe positiva variabile e spesso caratterizzato da significative fluttuazioni sia della replicazione virale (con livelli di HBV-DNA frequentemente inferiori a 5 log IU/ml) che dell’attività citolitica.

L’epatite B anti-HBe positiva può presentare 3 differenti profili biochimici:

1. periodiche esacerbazioni necrotiche alternate a fasi di remissione biochimica con completa normalizzazione della citolisi epatica;

2. periodiche esacerbazioni necrotiche senza remissione biochimica nei periodi intercorrenti; 3. costante alterazione della citolisi.

Il sistematico e stretto monitoraggio dei pazienti ha dimostrato come le periodiche esacerbazioni necrotiche siano sempre precedute da un aumento dei livelli di replicazione virale e seguite da un rialzo dei livelli sierici di IgM anti-HBc, che costituiscono un marcatore surrogato di danno virus indotto [74]. Mentre le fluttuazioni della viremia ed i picchi citolitici possono essere eventi estremamente fugaci e quindi rilevati solo con un monitoraggio ravvicinato, gli anticorpi hanno una maggior latenza sia nel raggiungimento del picco che nel decremento successivo. Per tale motivo la cinetica degli anticorpi IgM anti-HBc ha una rilevante implicazione diagnostica, in quanto il riscontro di aumentati livelli di IgM anti-HBc può permettere di sospettare un recente danno epatitico in un soggetto con infezione da HBV in temporanea fase di remissione biochimica [75]. Uno studio nel quale sono stati seguiti per un periodo medio di 6 anni 164 pazienti anti-HBe positivi (102 con quadro istologico basale di epatite cronica e 62 con cirrosi in stadio Child A), ha dimostrato che il 50% dei soggetti con epatite cronica al basale (età media 36 anni) ha avuto progressione a cirrosi nel corso dell'osservazione, mentre solo l’8% dei pazienti ha avuto la

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la presenza di steatosi, la tendenza ad avere viremia sempre dosabile con tecniche di ibridizzazione, profilo virologico generalmente associato al profilo biochimico caratterizzato da persistente alterazione delle transamiansi con esacerbazioni intermittenti, sono i fattori associati ad un maggior rischio di progressione. Il trattamento con interferone si è dimostrato in grado di rallentare la progressione di malattia. Il 22.6% dei pazienti con cirrosi al basale ha sviluppato complicanze nel corso del monitoraggio, mentre il 13% è guarito dopo trattamento con interferone. L’età e l’evidenza di fluttuazione delle IgM anti-HBc (condizione associata alla presenza di picchi necrotici intercorrenti, con o senza normalizzazione delle transaminasi) sono risultati fattori associati alla progressione della cirrosi [74]. E’ interessante notare come la condizione che favorisce la progressione della malattia nella fase iniziale di epatite cronica è la presenza di florida replicazione virale associata a costante attività di malattia con picchi necrotici ricorrenti, mentre quando è già instaurata la cirrosi sono gli episodi di esacerbazione che favoriscono lo sviluppo delle complicanze cliniche [74]. In particolare nel cirrotico una necrosi severa può causare una grave compromissione della funzionalità epatica con scompenso clinico e inoltre indurre uno stimolo rigenerativo con possibile viraggio verso la trasformazione neoplastica.

La risoluzione spontanea del danno epatico con acquisizione di un efficace controllo immune dell’infezione è un evento assai infrequente nell’epatite cronica B anti-HBe positiva [74]. La mortalità a 5 anni dei pazienti con epatite cronica senza cirrosi è dello 0-2%, mentre sale al 14-20% nei soggetti con cirrosi compensata e al 70-80% nei cirrotici che hanno già avuto episodi di scompenso [73].

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1.8 Diagnosi

La florida produzione di antigeni (HBsAg e HBeAg) da parte dell'HBV e la vivace risposta anticorpale (anti-HBc, anti-HBs, anti-HBe) da parte del sistema immune hanno favorito la messa a punto di tecniche immunometriche permesso quindi lo sviluppo di una fine diagnostica dell’infezione e malattia da HBV, molti anni prima che le metodiche di biologia molecolare entrassero nell’uso corrente del laboratorio di virologia clinica.

Dagli anni ’80 in poi l’introduzione di metodiche per la determinazione dell’acido nucleico virale (HBV-DNA) con sensibilità man mano crescente ha ulteriormente contribuito a migliorare la gestione del portatore di infezione da HBV [70]. Nello specifico, le metodiche suddette consentono di individuare: i soggetti che sono stati esposti al virus; i soggetti immunizzati; i soggetti infetti e tra questi quelli con replicazione virale e/o malattia epatica virus indotta.

Attualmente l’ampio spettro di marcatori disponibili permette di rispondere ai quesiti diagnostici principali, che sono:

- se il soggetto è stato esposto al virus; - se è immunizzato o è infetto;

- qualora infetto, se presenta replicazione virale e/o malattia epatica virus indotta.

La Tabella 2 sintetizza il significato dei principali marcatori diagnostici utilizzati per HBV.

MARCATORI VIRALI CATEGORIE DIAGNOSTICHE

Anti-HBs Immunità

Anti-HBc Esposizione

HBsAg Infezione

HBV-DNA, HBeAg Infezione/Replicazione IgM anti-HBc Malattia HBV indotta

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1.8.1 Diagnosi sierologica di primo livello

Si definisce portatore dell’infezione da HBV il soggetto che presenta nel suo organismo il virus. Quest’ultimo può essere identificato attraverso la dimostrazione della presenza dell’antigene di superficie (HBsAg) nel siero o, in assenza di HBsAg sierico, la presenza dell’acido nucleico (HBV-DNA) nel siero o nel fegato: nel primo caso l’infezione è definita conclamata, nel secondo occulta.

La diagnosi dell’infezione conclamata si basa sulla dimostrazione dell’HBsAg nel sangue. Occorre tener presente che la determinazione degli antigeni (e anticorpi) è influenzata dall’affinità e avidità di riconoscimento di questi ultimi nei confronti dell’anticorpo (o antigene) presente nel test. La variazione dei determinanti antigenici, quale la mutazione G145R a carico del determinante “a” dell’HBsAg porta alla produzione di un antigene di superficie che è meno rilevabile, quantomeno da alcuni dei kit commerciali per Ia determinazione dell’HBsAg [41].

La diagnosi di infezione occulta da HBV si basa sulla dimostrazione di HBV-DNA nel sangue e/o nel fegato di soggetti HBsAg negativi. L’infezione occulta, di grandissimo interesse dal punto di vista dello studio della biologia del virus, presenta importanti implicazioni cliniche in particolare per ciò che concerne il rischio di riattivazione dell’infezione in pazienti sottoposti a chemioterapia e il ruolo dell’HBV come cofattore di danno in pazienti con epatopatia di altra eziologia. Tuttavia, al momento, le criticità che sussistono nella diagnosi di infezione occulta (mancanza di protocolli e metodiche standardizzate; invasività delle stesse per la necessità di ricercare l’HBV-DNA nel fegato, possibilità di errori di campionamento) non permettono di considerarla una pratica “routinaria”.

Nella pratica clinica, il medico deve ricordare che:

- il soggetto con marcatori di avvenuta esposizione ad HBV (anti-HBc positività) presenta una elevata probabilità di mantenere tracce del virus nel suo organismo;

- l’infezione da HBV è distinta in fasi sulla base della presenza nel sangue degli antigeni o degli omologhi anticorpi: HBsAg/anti-HBs, HBeAg/anti-HBe. In realtà, lo studio della risposta umorale con tecniche specifiche, ha dimostrato come gli immunocomplessi antigene/anticorpo omologo siano presenti molto tempo prima e dopo le fasi di sieroconversione, quando anche con i test commerciali è spesso possibile dimostrare la coesistenza di antigene e anticorpo. Ne consegue che un basso titolo di anti-HBs può indicare sia la persistenza di una risposta anticorpale anamnestica anni dopo l’esposizione primaria risolta, sia un’infezione cronica con bassa produzione antigenica. La presenza, invece, di anti-HBs ad alto titolo indica una florida risposta anticorpale in assenza di una significativa produzione antigenica. Nel caso dell’anti-HBc, dato che l’antigene (HBcAg) non circola in forma libera nel sangue, un basso titolo

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anticorpale indica una minima o assente esposizione antigenica, mentre l’alto titolo è suggestivo di una persistente e significativa stimolazione antigenica. Per tale ragione la presenza di titoli medio-alti (>1/100) di anti-HBc, in assenza di anti-HBs, possono essere la spia di un’infezione da HBV occulta. Pertanto, in caso di immunosoppressione o chemioterapia, i soggetti con profilo sierologico di pregressa esposizione ad HBV devono essere monitorizzati per cogliere precocemente l’eventuale ricomparsa di infezione conclamata.

Nel soggetto con infezione da HBV deve sempre essere esclusa la presenza dell’infezione da HDV con la ricerca degli anticorpi anti-HDV.

1.8.2 Diagnosi sierologica di secondo livello: caratterizzazione dell’infezione e identificazione del paziente con malattia epatica da HBV

La storia naturale dell’infezione e malattia da HBV è condizionata dall’esito dell’interazione fra virus e sistema immune dell’ospite; sulla base dei diversi equilibri raggiunti si possono identificare 3 fasi principali: tolleranza, immuno-attivazione e controllo-immune, corrispondenti a specifici profili virologici e biochimici.

La fase di immuno-tolleranza (specificatamente definita dall’HBeAg) è caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di HBsAg e HBV-DNA, in assenza di significativo danno epatico, per l’assenza di risposta immune specifica [76] [121].

Al contrario, una risposta immune specifica richiama nel fegato linfociti specifici e aspecifici con il conseguente sviluppo di danno epatico, tipico della fase di immuno-attivazione (che può essere sia HBeAg positiva che anti-HBe positiva). In questa fase si riducono i livelli di HBsAg e la viremia può fluttuare ampiamente, passando da livelli simili a quelli osservati nella fase di tolleranza, a livelli propri della fase di controllo (sempre anti-HBe positiva).

Nella fase di controllo, infatti, il prevalere di una risposta immune competente ed efficace porta ad una riduzione del cccDNA intraepatico, ma sopratutto ad un suo controllo funzionale con riduzione dei livelli di HBsAg circolanti e della replicazione virale senza l’induzione di un significativo danno epatico.

La caratterizzazione del profilo virologico nel portatore cronico HBsAg positivo è finalizzata a definire la fase di infezione, stimare il rischio evolutivo in caso di epatite e valutare l'indicazione al trattamento antivirale. A tale scopo vengono determinate alcune proteine (antigeni) e l'acido nucleico virali e la risposta immunologica umorale (anticorpi) del soggetto infettato: il profilo di tali marcatori risulta dall'equilibrio virus/ospite, varia nel corso dell'infezione e nel tempo nello stesso

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individuo. L'unico marcatore virale che descrive una caratteristica costitutiva del virus infettante è il genotipo.

L’HBV-DNA è un marcatore di replicazione virale e di infezione, ma non è mai un marcatore diretto di malattia epatica [76].

Secondo le linee guida dell’AASLD, livelli di HBV-DNA al di sopra di 2000 IU/mL identificano la presenza di infezione attiva. Tale condizione, nel soggetto con specifica attivazione immunologica nei confronti di HBV, cioè nel paziente HBeAg positivo in fase di immunoattivazione (ovviamente non nel soggetto HBeAg tollerante) e nel paziente anti-HBe positivo, associa usualmente alla presenza di malattia epatica. Al contrario, livelli persistentemente al di sotto di 2000 IU/mL definiscono la condizione di infezione inattiva. Il valore soglia di viremia per identificare l’infezione inattiva era stato inizialmente posto a 20000 IU/mi, solo negli ultimi anni la soglia è stata ridotta a 2000 IU/ml, allo scopo di migliorare la capacità di identificazione dei soggetti con infezione attiva, in quanto circa il 40% dei pazienti anti-HBe positivi presentano importanti fluttuazioni della viremia con transitorie cadute al di sotto di 2000 IU/mL. L’abbassamento della soglia, tuttavia, espone al rischio di identificare erroneamente come malati i portatori con livelli di replica costantemente compresi fra 2000 e 20000 IU/mL, che generalmente non presentano un significativo danno HBV indotto.

In realtà un’accurata definizione dello stato replicativo nel soggetto anti-HBe positivo con livelli viremici ≤20000 IU/mL alla diagnosi non può essere effettuata con una singola valutazione, ma richiede una valutazione dinamica, monitorando la replicazione virale con controlli almeno trimestrali per 12-18 mesi. In tal modo è possibile cogliere eventuali risalite della viremia e identificare così il soggetto con vera infezione attiva.

Negli ultimi anni alla misura della viremia si è aggiunta la possibilità di quantizzare i livelli

di HBsAg circolanti, come nuovo strumento diagnostico per la definizione dello "stato

dell'infezione" [77] [121]. Infatti i livelli circolanti di HBsAg variano significativamente nelle diverse fasi dell'infezione, riducendosi progressivamente dalla fase di immuno-tolleranza (4.5-4.96 log10 UI/mL) alla fase di immuno-controllo/bassa replicazione virale (2.86–3.09 log10 IU/mL) [78]

[79]: quanto più bassi sono i livelli di HBsAg, tanto maggiore è il controllo immune dell'infezione [78] [121]. In particolare, uno studio condotto su oltre 200 portatori anti-HBe positivi (genotipo D) ha dimostrato come bassi livelli di HBsAg (<1000 IU/ml) correlino con lo stato di infezione

inattiva e che la misura combinata, in singolo punto, di HBV-DNA e HBsAg, utilizzando un cut-off

di 2000 IU/ml per l'HBV-DNA e 1000 IU/ml per l'HBsAg, identifichi il portatore inattivo con un’accuratezza diagnostica del 94.3% (sens. 91.1%, spec. 95.4%, PPV 87.9%, PPN 96.7%) [80].

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Tali dati sono stati recentemente confermati su casistiche orientali in portatori infettati da genotipo B e C [81].

Gli anticorpi IgM anti-HBc sono il marcatore di danno HBV indotto universalmente utilizzato per fare diagnosi di epatite acuta B [76]. Il loro utilizzo diagnostico in corso di infezione cronica è limitato dal fatto che i test commerciali sono stati standardizzati esclusivamente per la diagnosi di epatite acuta, pur avendo la sensibilità analitica per determinare anche i livelli anticorpali più bassi presenti nell’infezione cronica. La mancanza di una validazione per l’utilizzo del test nel cronico riconosciuta dalle agenzie regolatorie internazionali, nonostante la disponibilità di uno standard internazionale al Paul Erlich Institute di Gottinga, ha contribuito alla mancata introduzione degli anticorpi IgM anti-HBc nelle flow chart diagnostiche delle linee guida internazionali. In letteratura sono presenti numerose e consistenti evidenze dell’utilità degli anticorpi IgM anti-HBc nell’identificazione del soggetto con danno HBV indotto. Tali studi hanno dimostrato come livelli di IgM anti-HBc >0.200 IMx Index o >7 IU PEI correlano con Ia presenza di epatite cronica B [81].

L’inquadramento del portatore di infezione da HBV comporta quindi:  la ricerca dell’HBeAg e dell’anti-HBe:

- nel caso di HBeAg positività il soggetto potrà essere un portatore in fase di tolleranza immune o in fase di immunoattivazione (epatite cronica HBeAg positiva);

- nel caso di anti-HBe positività il portatore potrà essere in fase di immunoattivazione (epatite cronica anti-HBe) o di controllo immune (portatore inattivo);

 il dosaggio quantitativo dell’HBV-DNA:

- nel caso del portatore HBeAg positivo i livelli viremici non ci permettono di distinguere il soggetto in fase di tolleranza dal paziente con epatite cronica, anche se usualmente il soggetto tollerante presenta livelli viremici stabilmente elevati (>108 IU/mL);

 nel caso del portatore anti-HBe positivo livelli viremici >20000 lU/mL (anche in un’unica determinazione) identificano il paziente con epatite cronica B; livelli <20000 IU/mL richiedono invece un periodo (12-18 mesi) di monitoraggio per la corretta caratterizzazione della fase di infezione; dosaggio quantitativo dell’HBsAg:

- nel caso del portatore HBeAg positivo, livelli di HBsAg >50000 IU/mL identificano il potatore in fase di immuno-tolleranza se si associano a livelli viremici stabilmente elevati (>108 IU/mL); nel caso del paziente con epatite cronica i valori tendono a ridursi gradualmente, usualmente sono compresi fra 25000-10000 IU/mL

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usualmente presenta livelli di HBsAg <1000 IU/mL. Al contrario nel paziente con epatite cronica i valori tendono a essere compresi fra >1000-9000 IU/mL [80].

- nel caso del portatore anti-HBe positivo livelli viremici >20000 lU/mL (anche in un’unica determinazione) identificano il paziente con epatite cronica B; livelli <20000 IU/mL richiedono invece un periodo (12-18 mesi) di monitoraggio per la corretta caratterizzazione della fase di infezione;

 il dosaggio delle IgM anti-HBc (se eseguibile con metodiche di adeguata sensibilità analitica): - nel caso del portatore HBeAg positivo permette di distinguere il soggetto in fase di

tolleranza (IgM anti-HBc negativo) dal paziente con epatite cronica (IgM anti-HBc positivo);

- nel caso del portatore anti-HBe positivo contribuisce ad identificare il paziente con epatite cronica (IgM anti-HBc positivo) dal portatore inattivo (IgM anti-HBc costantemente non dosabili).

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1.9

Terapia

L’obiettivo principale della terapia antivirale è quello di prevenire la progressione dell’epatite cronica verso la cirrosi e della cirrosi (se già presente) verso le sue complicanze cliniche, attraverso il controllo dell’infezione e della replicazione virale. Tale obiettivo può essere perseguito grazie al raggiungimento di un nuovo equilibrio tra virus e sistema immunitario dell’ospite, con l’acquisizione di una maggiore competenza da parte del sistema immune o attraverso la continua inibizione farmacologica della replicazione virale [83].

Per il trattamento dell’epatite B sono attualmente disponibili commercialmente, e rimborsabili da parte del Sistema Sanitario Nazionale, 6 farmaci, appartenenti a due classi distinte:

 Interferone alfa ricombinante (IFN);

 Inibitori della polimerasi virale (lamivudina, adefovir dipivoxil, entecavir, telbivudina, tenofovir).

I farmaci disponibili possono essere utilizzati seguendo due diversi approcci terapeutici:  un trattamento curativo, che cerca di ottenere la guarigione dell’epatite grazie al

raggiungimento di un controllo stabile dell’infezione con un ciclo terapeutico definito nel tempo. Il farmaco che si è dimostrato più efficace per questo approccio è l’interferone alfa, che combinando l’attività antivirale con quella immunomodulatrice [84] [85] può modificare l’equilibrio virus-ospite da patogenetico in non patogenetico;

 un trattamento soppressivo, che mira a spegnere il processo necroinfiammatorio e quindi a bloccare la progressione della malattia attraverso un trattamento indeterminato con farmaci (gli inibitori della polimerasi virale) in grado di inibire la replicazione virale.

La probabilità di successo del primo approccio varia dal 15 al 35% ed è influenzata da diversi fattori legati al tipo di epatite (minore per la forma HBeAg negativa, maggiore per quella HBeAg positiva) e allo schema terapeutico adottato [83]. Tra i soggetti che raggiungono una risposta sostenuta (definita come sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe, persistente caduta dei livelli viremici al di sotto di 20000 IU/mL e spegnimento del danno infiammatorio epatico) si osserva negli anni successivi al trattamento un elevato tasso di perdita dell’HBsAg con siero conversione ad anti-HBs (dal 40 all’80%), indicativo del raggiungimento di un elevato controllo dell’infezione [83].

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esso: il farmaco ideale è quindi quello dotato di alta potenza antivirale, per abbattere rapidamente livelli viremici anche molto elevati e con elevata barriera genetica, per garantire un basso tasso di resistenza [87]. Appartengono a questa categoria gli analoghi nucleos(t)idici di ultima generazione (entecavir e tenofovir), che costituiscono, al momento attuale, il farmaco di prima scelta qualora si consideri un trattamento soppressivo [87]. Infatti con farmaci con bassa barriera genetica, quali la lamivudina, il rischio di sviluppare resistenza, cioè di selezionare una popolazione virale non più suscettibile alla terapia, era del 20% a 1 anno e di oltre il 60% a 5 anni [88].

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MicroRNA

Nel 1993 Victor Ambros, Rosalind Lee e Rhonda Feinbaum scoprirono che un particolare gene di C.Elegans, implicato nel controllo delle tempistiche evolutive del nematode, lin-4, non codificava per una proteina, bensì per una coppia di piccoli RNA, di cui uno costituito da 22 nucleotidi, l’altro da 61. Gli studi successivi hanno dimostrato che la molecola di RNA risultante dalla trascrizione di lin-4 era una sequenza complementare antisenso nella regione 3’-UTR dell’RNA messaggero trascritto dal gene lin-14, e che l'interazione fra la piccola molecola di RNA di lin-4 e l'mRNA di lin-14 portasse alla repressione della traduzione e quindi ad una riduzione dei livelli della proteina LIN-14, in assenza di una riduzione dei livelli intracellulari di RNA messaggero del gene lin-14. L'identificazione di tale processo di interferenza a livello post-trascrizionale ha permesso di comprendere il processo evolutivo del nematode, ma sopratutto ha identificato una modalità fino ad allora ignota di regolazione dei processi cellulari. La rilevanza della scoperta non è stata immediatamente compresa e solo dopo 7 anni Reinhart e colleghi riuscirono a dimostrare come un altro miRNA, let-7 RNA, fosse in grado di promuovere un altra fase del processo maturativo del nematode [89] [99]. Successivamente, geni omologhi a let-7 furono identificati sia nella Drosophila che nell’uomo [91]. Inizialmente tutti questi piccoli RNA furono soprannominati come "small temporal RNAs, stRNAs" visto il loro ruolo nello scandire le fasi evolutive del nematode. Gli studi successivi hanno portato alla rapida identificazione di circa 30 geni diversi codificanti per altrettanti miRNA, tutti di 22 nucleotidi, e processati a partire da un precursore più lungo con conformazione a stem loop. La differenza sostanziale rispetto ai miRNA identificati nel nematode era che i miRNA dei geni umani venivano espressi costitutivamente e differentemente in relazione al tipo di cellula presa in analisi. Il lavoro di Ambros, Lee e Feinbaum ha aperto le porte allo studio di una delle più abbondanti classi di molecole implicate nella regolazione dell’espressione genica negli organismi multicellulari: nel tempo sono stati identificati più di 17000 miRNA, in 142 specie animali, di cui almeno 1000 nell’uomo, e ognuno di questi, proprio come nel nematode, è in grado di modulare la traduzione di più RNA messaggeri [92]. I miRNA si sono dimostrati essere coinvolti nella regolazione di cruciali processi cellulari quali proliferazione, differenziazione e morte. Ne consegue che svolgono un ruolo critico nella modulazione delle funzioni d'organo e che una loro alterazione può svolgere un ruolo critico nello sviluppo di processi patologici compreso quello oncogenetico. Infine, la funzione regolatrice cellulare comporta che l'espressione dei miRNA possa modificarsi anche significativamente a seguito dell'interazione dell'organismo con agenti esterni quali virus e batteri.

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1.10 Biologia dei miRNA

1.10.1 I geni dei miRNA

I geni codificanti i miRNA possono essere situati nel genoma cellulare sia in loci distanti dal gene bersaglio, sia all’interno del gene bersaglio stesso, e derivano dalle sequenze introniche dei pre-mRNA trascritti. Nella maggioranza dei casi i caso di geni codificanti miRNA sono molto distanti dal gene da silenziare ( es: lin-4 e let-7 per C. elegans), in tal caso sono prodotti da unità di trascrizione indipendenti [93] [94]. Nel caso in cui la sequenza codificante dei miRNA si trovi all’interno del gene bersaglio stesso (circa 1/4 di tutti i miRNA umani), il promotore sarà quello del gene bersaglio [95]. Tale meccanismo risulta essere molto conveniente dal punto di vista biologico per la cellula e per l’organismo di appartenenza in quanto garantisce un’espressione coordinata e contemporanea del gene e del suo regolatore post-trascrizionale. Anche le relazioni genomico-topografiche tra i vari miRNA sono variabili, anche se la maggioranza dei miRNA sono isolati e non clusterizzati [96].

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Figura 5. Esempi di miRNA [tratto da Bartel DP et al., “MicroRNAs: Genomics, Revie

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1.10.2 Biogenesi

I miRNA originano da precursori (pri-miRNA, o miRNA primari) che vengono trascritti a livello nucleare dall’enzima RNA polimerasi II [97]. I pri-miRNA, che presentano al loro interno

una o più strutture secondarie del tipo stem-loop, subiscono un processo maturativo che comporta il clivaggio da parte dell’enzima nucleare Drosha (RNAasi III endonucleasi)/ co-fattore DCGR8 [97].

Il clivaggio avviene alla base dello stem loop portando alla formazione di un’estremità con cappuccio al 5’ e coda di poli(A), che identifica nel pre-miRNA (o miRNA precursore) la prima estremità del miRNA maturo, l’altra originerà dal clivaggio di Dicer ( RNAasi III endonucleasi citoplasmatica) nel citoplasma [96]. Il trasporto a livello citoplasmatico del pre-miRNA avviene ad opera di due trasportatori nucleari, Ran-GTP e Exportin-5. A livello citoplasmatico Dicer processerà la parte terminale dello stem loop creando così una molecola di RNA costituita da un doppio filamento di 22 nucleotidi ciascuno. Questa reazione richiede la presenza di una proteina stabilizzante il legame tra enzima e substrato, (Dicer e il pre-miRNA) nota come TRBP (Transactivating response RNA-binding protein), la quale contiene tre diversi domini di legame con l’RNA a doppio filamento e stabilizza l’interazione tra Dicer e il pre-miRNA [96]. Il miRNA ancora associato a Dicer e TRBP, viene incorporato all’interno del complesso ribonucleoproteico RISC (RNA-induced-silencing-complex) assieme alla proteina "Argonaute" (Ago). Nel caso di miRNA formati a partire da sequenze introniche dei mRNA, mirtron [97], il processing post-trascrizionale porta alla produzione del pre-mRNA [97].

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Figura 6. Schema rappresentativo della biogenesi dei miRNA. [Tratto da Thirion M, Ochiya T. “Roles of microRNAs in the Hepatitis B Virus Infection and Related Diseases” Viruses 2013, 5,

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1.11 Attività modulatoria e controllo della traduzione

L'appaiamento del miRNA al proprio mRNA bersaglio porta al riconoscimento di specifici siti a livello dell'estremità 3’UTR dell’mRNA bersaglio con conseguente inibizione della traduzione oppure l’RNA messaggero viene degradato [92]. Pochi nucleotidi (2-8) a livello del 5’ del miRNA sono responsabili del destino del mRNA bersaglio, in quanto il perfetto e complementare appaiamento di questi pochi nucleotidi con sequenze omologhe sul mRNA porta al riconoscimento del bersaglio e all’induzione del suo clivaggio. La precisa sequenza di eventi che induce la modulazione post-trascrizionale dei miRNA è tutt'oggi oggetto di studio [92] [98].

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