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Cormac McCarty, "Suttree"

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Academic year: 2021

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Cormac McCarthy, SUTTREE, ed. originale 1979, trad. dall’inglese di Maurizia Balmelli, pagg. 560, 23 euro, Einaudi, Torino 2009.

“Eccoci arrivati in un mondo dentro il mondo. In queste lande straniere, queste foibe e sodaglie interstiziali che i giusti vedono dalle auto e dai treni, un’altra vita sogna. Deformi o neri o folli, fuggiaschi di ogni risma, stranieri in ogni contrada”. Cito dalle prime, bellissime pagine di quello che in italiano ci arriva come l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy (pubblicato però esattamente trent’anni fa in America dopo una gestazione di altri vent’anni), nell’efficace traduzione di Maurizia Balmelli.

Prima che cominci il vero e proprio romanzo, siamo già trascinati dentro quel paesaggio che è sempre parte fondamentale delle opere dello scrittore (si pensi a La strada, Einaudi 2008), e che qui consiste di una perifericità tragicamente ridondante e nauseabonda nel suo intrico di squallore, disordine, macerie e rifiuti. Un paesaggio nuovo e sconcertante, innanzitutto perché popolato di metamorfosi e contaminazioni mostruose tra esseri umani, animali e oggetti (“Un mondo al di là di ogni immaginazione, malevolo e tattile e dissociato, lampadine bruciate come opalescenti polpi cimati color teschio ballonzolanti sul pelo dell’acqua e occhi spettrali di combustibile e qua e là forme maleodoranti di feti umani incagliati e gonfi come uccellini… ”); e, poi, perché tutto ciò che la città ha rimosso, accantonato, materialmente e simbolicamente rifiutato, riemerge qui come relitto, maceria scomoda e allucinante in cui la città stessa (e questo è uno degli aspetti più interessanti del romanzo), suo malgrado, si rispecchia e deve rispecchiarsi. Ed è proprio “il mondo occidentale” a comparire sulla scena quando si alza “il sipario”, per rappresentare in queste periferie lo spettacolo grottesco di se stesso.

Ci troviamo nell’orrido circondario di Knoxville, dove vive il pescatore di pesci gatto Cornelius “Buddy” Suttree, le cui avventure – e, con esse, le frequenti bevute e i miseri, malsani pasti – si svolgono tutte tra le rive del Tennesse e la città in cui talvolta egli approda. Come nei romanzi tradizionali, in Dickens e nell’Huckleberry Finn a cui è stato paragonato, l’avventura è infatti al centro dell’intreccio, ed è fatta scaturire dall’incontro del protagonista con altri personaggi, e da un’idea di movimento quasi patologica, brulicante e inarrestabile. Ma è un’avventura che non segue alcun fine, alcuna meta; perché non c’è nulla da conquistare o da riscattare. Da una parte, allora, il movimento tende a rivolgersi su se stesso e a imbrigliarsi sempre in quello spazio limitato, e, dall’altra, il paesaggio, nei suoi aspetti visivi e simbolici, supera sempre di significati il personaggio.

Eppure, attori in questo raccapricciante palcoscenico, gli strambi figuri in cui si imbatte Suttree non sono privi di tratti significativi, anche se raramente assumono un vero rilievo: ad esempio il “topo di campagna” Gene Harrogate che, rilasciato dopo la condanna per avere rubato e letteralmente violentato delle angurie, medita di fare fortuna scavando tunnel sotterranei per trovare le camere blindate che custodiscono le ricchezze cittadine; oppure le due donne con cui il protagonista ha una breve relazione, Wanda e la prostituta Joyce, in fondo dotate di un’umanità che intenerisce. Gli altri hanno i nomi bizzarri di Ulysses e J-Bone, Oceanfrog, Bucket, Hoghead, Blind Richard etc., e si mischiano a cenciaioli e pescivendoli, pastori di capre e mucche, pescatori di molluschi e disperati di varia origine, tutti accomunati dal desiderio di stare a galla e di soddisfare i propri bisogni materiali, viziosi per insensatezza o per necessità, malati, ubriaconi e giocatori. Uniti senza

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sapere neanche bene da che cosa, tutti quanti dialogano (a volte in maniera un po’ ripetitiva) senza virgolette, travolti dal racconto. Sono pezzi del paesaggio, appunto, rifiuti e relitti a loro volta, simboli di una violenza e di una malattia che hanno poche speranze di riscatto, di liberazione o di ‘guarigione’.

Eppure, la poesia e l’umanità – sempre rivendicata pur attraverso la sua negazione – filtrano anche in questo mondo senza luce, che è un po’ inferno e un po’ allucinazione (non a caso il protagonista alla fine si ammala di febbri tifoidi e soffre di allucinazioni); illumina e stupisce come gli occhi delle mucche che svegliano Suttree nelle prime ore del giorno, “una dozzina di occhi incandescenti”, “soltanto occhi”, collocati ad un’altezza diversa, “misteriosi nani amaurotici i cui globi oculari vagavano nell’oscurità, all’amazzone sopra un’altalena […]. Mucche, concluse. Sono mucche. Spense la torcia e tornò a distendersi. Adesso ne sentiva l’odore, dolci fragranze d’erba e latte nel vento freddo da monte. L’aria umida era satura di ogni genere di profumi”.

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