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Impatto degli ungulati selvatici sulla biodiversità in aree naturali protette.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

TESI DI LAUREA

Corso di Laurea Magistrale:

“Produzioni Agroalimentari e Gestione degli Agroecosistemi”

Curriculum: “Produzioni Agroalimentari”

Impatto degli ungulati selvatici sulla biodiversità

in aree naturali protette

Candidato: Pietro Bertolotto

Matricola: 478670

Relatore: Prof. Alessandro Pistoia

Correlatore:

i

Prof. Guido Ferruzzi

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iii

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v

Chi infatti ha

contemplato una volta con i propri occhi la bellezza della natura non è destinato alla morte, bensì alla natura stessa, di cui ha intravisto le meraviglie. E se ha davvero degli occhi per vedere, costui diverrà inevitabilmente un naturalista.

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vii

INDICE

PREMESSA ... 1

P a r t e g e n e r a l e ... 3

Capitolo 1 GLI UNGULATI SELVATICI ... 5

1.1 Introduzione ... 5

1.2 Il Cinghiale ... 9

1.2.1 Considerazioni generali ... 9

1.2.2 Biologia ... 11

1.3 La Capra domestica inselvatichita ... 13

1.3.1 Considerazioni generali ... 13

1.3.2 Biologia ... 14

1.4. Il Capriolo ... 19

1.4.1 Considerazioni generali ... 19

1.4.2 Biologia ... 20

Capitolo 2 – IMPATTO AMBIENTALE DA UNGULATI SELVATICI ... 21

2.1 Introduzione ... 21

2.2 Impatto degli ungulati sull’agricoltura ... 25

2.2.1 Impatto sui muri a secco ... 27

2.2.2 Strumenti e tecniche di prevenzione dei danni del Cinghiale ... 31

2.3 Impatto degli ungulati sugli ecosistemi ... 35

2.3.1 Impatto ambientale del Cinghiale ... 35

Capitolo 3 IMPATTO SULLA BIODIVERSITA’ DA UNGULATI SELVATICI 43 3.1 Introduzione ... 43

3.1.1 Biodiversità in Italia ... 44

3.2 Impatto sulla conservazione della natura ... 45

3.3 Impatto del Cinghiale sulle comunità vegetali ... 47

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Capitolo 4 – PROBLEMATICHE FAUNISTICO-AMBIENTALI IN AREE NATURALI

PROTETTE ... 53

4.1 Le Aree naturali protette ... 53

4.2 Alcune problematiche faunistiche in aree naturali protette ... 59

4.3 Il Parco nazionale delle Cinque Terre ... 62

4.3.1 Gli ungulati selvatici presenti nel Parco nazionale delle Cinque Terre .... 69

P a r t e s p e r i m e n t a l e ... 71

Capitolo 5 – INTRODUZIONE ... 73

Capitolo 6 MATERIALI E METODI ... 75

6.1 Ubicazione della prova e scelta delle aree di saggio ... 75

6.1.1 Descrizione delle aree di saggio ... 76

6.2 Controlli sperimentali effettuati ... 80

6.2.1 Impatto sulla vegetazione ... 81

6.2.2 Impatto sulla biodiversità animale ... 82

6.2.3 Impatto al suolo ... 84

-6.2.4 Osservazioni sperimentali effettuate in territori esterni all’area di studio caratterizzati da simili problematiche ... 86

Capitolo 7 – RISULTATI ... 87

7.1 Monitoraggio aree di saggio ... 87

7.2 Risultati ottenuti ... 93

7.3 Osservazioni sperimentali effettuate in territori esterni al Parco ... 102

Capitolo 8 – CONCLUSIONI ... 105

8.1 Considerazioni e prospettive ... 108

BIBLIOGRAFIA ... 111

NOTE ... 123

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PREMESSA

La presente Tesi di Laurea Magistrale sviluppa ed estende ad altri ambienti e specie gli studi condotti durante il percorso di Laurea triennale, esposti nell’Elaborato finale “Aspetti faunistico-ambientali in aree naturali protette: la presenza della Capra domestica inselvatichita nel Parco naturale di Portofino”.

La complessità delle tematiche affrontate ha richiesto specifici approfondimenti relativi alle scienze biologiche ed ambientali in quanto l’indagine ha riguardato sia sistemi biologici che ecosistemi.

La Tesi “Impatto degli ungulati selvatici sulla biodiversità in aree naturali protette” è articolata in due parti: la prima inquadra gli aspetti generali della “problematica ungulati”, la seconda, sperimentale, riguarda il Progetto di sistema dei Parchi nazionali, denominato “Impatto degli ungulati sulla biodiversità dei Parchi italiani”, svolto nel Parco nazionale delle Cinque Terre a decorrere dal 2015.

Essa è motivata dall’interesse di esaminare le problematiche faunistico-ambientali connesse ad alcune specie di ungulati e di approfondire le interazioni e gli effetti che questi esercitano sull’ambiente e sulle comunità biologiche ospitate.

In via prioritaria intende analizzare l’impatto sulla biodiversità in aree naturali protette causato da diverse specie di ungulati selvatici presenti anche nel territorio del Parco nazionale delle Cinque Terre: il Cinghiale, la Capra domestica inselvatichita e il Capriolo.

Secondariamente, impostare l’avvio di indagini di medio e lungo termine, atte a definire la complessità delle interazioni e dell’impatto attribuibile agli ungulati selvatici sugli ecosistemi naturali.

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Capitolo 1 - GLI UNGULATI SELVATICI

1.1 Introduzione

Gli Ungulati rappresentano la categoria di animali definita per la presenza di astucci cornei, unghie, a protezione delle estremità distali degli arti.

Nel caso in cui abbiano subito un processo di domesticazione sono definiti “domestici”, altrimenti sono detti “selvatici”. Gli ungulati selvatici infatti sono in parte i progenitori di quelli domestici, come nel caso del Cinghiale per il Suino o del Muflone per la Pecora (Marsan et al., 2000; M. A. Zeder & Hesse, 2000; Rooney & Hayden, 2002; Naderi et al., 2008).

Gli ungulati selvatici presenti in Italia sono artiodattili, cioè forniti di un numero pari di dita (dal greco ἄρτιος «pari» e δάκτυλος «dito») e l’asse di sostegno del corpo passa fra il 3° e il 4° dito. Il Superordine Ungulati è composto da tre Famiglie: Bovidi, Cervidi e Suidi. Al contrario dei primi due gruppi, che sono poligastrici, i Suidi, rappresentati dal Cinghiale, sono monogastrici.

Gli ungulati selvatici rappresentano un gruppo di mammiferi di grande importanza ecologica in quanto sono una componente di rilievo delle zoocenosi terrestri, di cui spesso costituiscono le specie (e le prede) di maggiore taglia, attirano un notevole interesse venatorio e costituiscono un difficile impegno gestionale.

A livello internazionale, sono stati oggetto di molti studi scientifici di vario indirizzo tanto da essere uno dei gruppi di mammiferi maggiormente studiati (Apollonio, 2004).

In Italia negli ultimi decenni gli ungulati selvatici hanno sensibilmente espanso i propri areali di distribuzione e incrementato la loro consistenza numerica, nonostante che nel Centro e nel Meridione vi siano popolazioni tuttora ridotte e frammentate (Ispra, 2013).

Recenti indagini certificano che oggi il Cinghiale (Sus scrofa) è distribuito nell’83,5% delle province italiane, il Capriolo (Capreolus capreolus) nel 64,1%, il Daino (Dama dama) nel 52,4%, il Cervo (Cervus elephus) nel 44,7%, il Muflone (Ovis orientalis musimon) nel 32%, il Camoscio alpino (Rupicapra rupicapra) nel 21,4%, lo Stambecco (Capra ibex) con il 14,6% ed infine dal Camoscio appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata) nel 3,9% (Apollonio, 2004; Monaco, Carnevali, & Toso, 2001).

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- 6 -

Relativamente a Cervidi e Bovidi selvatici, l’attuale distribuzione nazionale delle popolazioni non occupa omogeneamente il territorio potenzialmente idoneo alle specie, eccezion fatta per il Camoscio alpino e per il Capriolo che, oltre ad aver saturato un’ampia parte dell’areale potenziale, si sono diffusi molto rapidamente (Ispra, 2013).

Tabella 1 Status e tendenza delle popolazioni di Ungulati presenti in Italia (Riga & Toso, 2012).

BRUCATORI TIPI INTERMEDI PASCOLATORI

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- 7 - Per quanto concerne l’alimentazione, il Cinghiale è monogastrico e onnivoro; i ruminanti, invece, sono erbivori, e per il modo in cui si nutrono sono definiti: brucatori, pascolatori e pascolatori intermedi (Hofmann, 1984).

Il Cinghiale è un Suide selvatico e appartiene alla stessa specie del maiale con cui può accoppiarsi generando prole fertile.

In Italia è la specie più diffusa, con un’ecologia comportamentale di elevata plasticità (Vatore et al., 2007). Il notevole incremento numerico delle popolazioni registrato in tutta Europa è dovuto alla combinazione di più fattori: lo spopolamento delle aree rurali, i cambiamenti nelle pratiche agricole, le reintroduzioni e le immissioni effettuate, la scarsità di predatori naturali, l’avanzamento in età e la progressiva riduzione in numero dei cacciatori e i cambiamenti climatici (Massei & Genov, 2004).

Originario dell’Eurasia e del Nord Africa, nel corso dei millenni ha subito continue decimazioni e reintroduzioni, ma per la sua resistenza e la grande adattabilità ambientale, in molti Paesi europei è oggi l’ungulato più diffuso e meglio radicato.

Le popolazioni, presenti in 95 Province del Paese tendono all’aumento. Per comprendere l’entità del fenomeno si consideri che nella stagione 2004/2005 il carniere nazionale di cinghiali consisteva in 122.674 capi (+23% rispetto al 1998/1999, secondo Canevali & Cimino, 2006) e il danno complessivo all’agricoltura in 8.900.000 Euro, pari a circa il 90% dei danni causati dalla fauna selvatica.In Italia un cinghiale abbattuto costa in media all’agricoltura circa 62 Euro. La consistenza stimata complessiva del Cinghiale oscilla tra i 500 e gli 800.000 esemplari (Morimando, 2008).

Tabella 2 Comportamento al pascolo dei ruminanti

Brucatori

(selezionatori di cibo energetico)

Tipi intermedi Pascolatori

(si nutrono di erbe e foraggi freschi)

Apparato digerente di dimensioni ridotte, in cui gli alimenti transitano velocemente. Per tale motivo gli animali sono portati a selezionare cibi molto nutrienti e digeribili (apici fogliari, gemme…)

In genere questa tipologia di animali ha una dieta molto varia in funzione dell’ambiente e della stagione, per cui il comportamento alimentare può talvolta assomigliare ai brucatori o ai pascolatori.

Apparato digerente molto sviluppato con conseguente capacità digestiva molto elevata, per cui gli animali possono assumere alimenti ricchi di cellulosa e con bassa o nulla attività di selezione.

Ad es. Capriolo ed Alce. Ad es. Cervo, Camoscio, Stambecco e Capra.

Ad es. Muflone, Vacca e Pecora.

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Nella seguente tabella viene proposta una sintesi quantitativa del fenomeno relativa a molti dei Paesi europei.

Tabella 3 - IL CINGHIALE IN EUROPA NEL TERZO MILLENNIO (Morimando, 2008)

Paese Superficie della Nazione (km2) Stime di popolazione di cinghiali Densità (c./km”) Carniere annuo Cacciatori (dati FACE 2007)

Tendenza delle popolazioni di cinghiali

Austria 83.858 50.000 0.6 25000 115.00 Incremento costante Belgio 30.510 25.000 0.8 14.370 20.000 Espansione, 220% in 2 anni

Bulgaria 110.910 50.000 0.5 --- 110.000 ---

Danimarca 43.094 250 0,0 30 165.000 ---

Francia 675.417 1.000.000 1,5 443.600 1.313.000 Incremento costante dell’8% annuo Germania 357.022 1.200.000 3.4 477.500 340.000 Incremento esponenziale

Grecia 131.940 19.000 0.1 --- 270.000 ---

Irlanda 70.273 --- --- --- 350.000 Cinghiale assente

ITALIA (Toscana) 301.338 (22.990) 600.000 (150.00) 2,0 (6,0) 114.831 (65.000) 750.000 (120.000) In aumento (Incremento esponenziale)

Lussemburgo 2.586 8.000 3.1 3000 2000 Accrescimento esponenziale fino al 2000,

poi lenta stabilizzazione

Norvegia 385.199 100 0.0 15 190.000

Incremento dovuto a fughe e immissioni. Probabile colonizzazione a partire dalla

Svezia

Paesi Bassi 41.526 2.300 0,1 200 26.500 ----

Polonia 312.685 200.000 0.6 104.500 106.000 ---

Portogallo 92.391 16.000 0.2 8.254 230.000 In espansione Regno Unito 243.900 380 0.0 --- 800.000 Introduzione e costante aumento

Repubblica

Ceca 78.866 250.000 3.2 121.956 110.000

Incremento costante di areale e di popolazioni

Romania 237.500 --- --- --- --- ---

Slovenia 20.273 7.500 0.4 4.334 22.000 Incremento del 12% annuo Spagna 504.645 600.000 1.2 161.500 980.000 Forte espansione

Svezia 449.964 60.000 0.1 200 290.000 Incremento 13% annuo Svizzera 41.285 12.000 0.3 5.800 30.000 Incremento esponenziale Ungheria 93.030 81.000 0.9 64.389 54.500 Fluttuante ma incremento deciso

dal 2002 TOTALE 4.311.930 4.311.930 1 1.614.509 6.684.000

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1.2 Il Cinghiale

1.2.1 Considerazioni generali

L’areale di origine del Cinghiale è uno dei più vasti tra quelli propri degli ungulati selvatici e si estende su gran parte del continente europeo. La specie risulta assente in Islanda, Irlanda,

Scozia, Inghilterra e in gran parte della penisola scandinava, invece è distribuita in maniera discontinua o caratterizzata da basse densità in Finlandia, Svezia e Danimarca (Toso, S. et al., n.d.).

Figura 2 Due femmine adulte di Cinghiale in formazione per proteggere la prole, in fuga dai cacciatori, nel Parco regionale dell’Aveto.

Figura 3 Distribuzione del Cinghiale in Europa. [Fonte: “Societas Europaea Mammalogica - The European Mammal Society,” n.d.]

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Sebbene in tutta Italia siano presenti le tre forme Sus scrofa scrofa, majori e meridionalis, in diversi nuclei possono entrare in equilibrio con l’ambiente con la conseguente presenza di ecotipi (Marsan et

al., 2000).

Il Cinghiale è oggi l'Ungulato più diffuso nel nostro Paese, sia in termini di distribuzione che di consistenza. L'areale si estende per circa 190.000 Km2, il 64% del territorio italiano, senza soluzione di continuità dalla Valle d'Aosta sino alla Calabria, in Sardegna, in Sicilia, presso l’isola d’Elba ed in altre isole minori, per conseguenza di recenti immissioni. E’ presente in modo ancor più frammentario e

discontinuo anche in alcune zone prealpine e dell'orizzonte montano di Lombardia, Veneto, Trentino e Friuli (Apollonio, Randi, & Toso, 1988; Canevali, Pedrotti, Riga, & Toso, 2009; Giménez-Anaya, Herrero, Rosell, Couto, & García-Serrano, 2008).

La sua recente e rapida espansione geografica ne ha determinato la comparsa anche in territori in cui non si aveva memoria, causando sia interferenze sensibili con gli ecosistemi agro-forestali sia complicazioni e problematiche di natura gestionale e sociale. In particolare, la comparsa del Cinghiale in importanti zone agricole, ma anche in territori

Schema 1 Alcune delle problematiche innescate dagli ungulati selvatici.

Figura 4 La distribuzione del Cinghiale in Italia. Dati aggiornati al 2000 (Pedrotti, L. et al. 2001, 2001. Banca Dati Ungulati. Biol. Fauna 109).

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- 11 - marginali ha suscitato un’accesa conflittualità per il crescere dei danni alle colture e dei conflitti di interesse connessi (ambientali, economici, venatori, igienico-sanitari e di pubblica incolumità) (Geisser, Reyer, & Krausman, 2004).

Attualmente, è evidente la tendenza all’incremento numerico e all’espansione della specie (Sáaez-Royuela & Tellerìia, 1986), tuttavia, le conoscenze relative alla densità e all'evoluzione delle diverse popolazioni in Italia rimangono carenti. Secondo una stima orientativa e largamente approssimata sul territorio nazionale sarebbero presenti non meno di 900.000 capi (Banca Dati degli Ungulati Italiani, Ispra 2010). In particolare, nel settore centrale delle Alpi la presenza è discontinua e frammentata in nuclei più o meno numerosi.

La presenza di cinghiali a macchia di leopardo in molte aree alpine potrebbe derivare da immissioni (A. Monaco, Carnevali, Riga, & Toso, 2007; A. Monaco et al., 2001), in quanto sembra che nel 40% delle province alpine vi siano state introduzioni illegali, probabili o accertate.

Sebbene la manifestazione più nota dell’impatto esercitato dal Cinghiale sul territorio nazionale sia quella a danno delle colture, non sono da trascurare gli effetti che l’animale è in grado di produrre nei confronti dell’ambiente. Infatti, si ritiene che possa alterare la composizione e l’abbondanza delle comunità vegetali con la ricerca selettiva di cibo e la sommovimentazione spinta del suolo; può inoltre ridurre la “capacità portante” degli ecosistemi nei confronti delle altre componenti della fauna e alterare le condizioni idrologiche dei territori in cui si trova. Riguardo all’impatto sulle zoocenosi, numerose fonti riportano fenomeni di predazione attiva o di competizione del Cinghiale nei confronti di uno spettro molto ampio di specie animali (Massei & Genov, 2004; Monaco et al., 2001; Schley & Roper, 2003).

1.2.2 Biologia

Il Cinghiale è caratterizzato morfologicamente da dimorfismo sessuale: i maschi adulti raggiungono un peso vivo compreso tra gli 80 e i 200 kg e hanno un’altezza al garrese di 90 – 110 cm; le femmine, più piccole, raggiungono un peso vivo variabile fra i 60 e i 150 kg e un’altezza al garrese di 70-90 cm. Le dimensioni dell’animale variano non solo in funzione del potenziale genetico, ma anche dell’ambiente in cui vive. Può raggiungere l’età massima di 12 anni, dove però insiste l’attività venatoria, l’aspettativa di vita è inferiore ai 2 anni; la mortalità media è circa del 20% (Marsan et al., 2000).

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Il Cinghiale occupa una ampia varietà di habitat, ma preferisce quelli forniti di alimenti altamente energetici e riparati dai predatori (cacciatori inclusi), in cui trova le migliori condizioni per le interazioni sessuali e sociali (Spitz & Janeau, 1995).

I vegetali variano dall’80 al 90% della dieta del Cinghiale, che tuttavia si nutre anche in modo opportunistico di un numero elevato di specie animali. Impiega la maggior parte del proprio tempo a grufolare alla ricerca di radici, tuberi, bulbi ed invertebrati, si ciba comunemente anche di frutta, di funghi, di molte specie di vertebrati e di piante coltivate e di uccelli nidificanti (Corrado, 2005; Schley & Roper, 2003).

I cinghiali sono monogastrici e quindi, diversamente dai ruminanti, non riescono a sfruttare i carboidrati strutturali come la cellulosa. Alimenti molto energetici come castagne, nocciole, ghiande e faggiole rappresentano la dieta naturale preferita. La non disponibilità anche solo temporanea degli alimenti energetici ricercati influenza negativamente la prolificità della specie e spinge gli animali a migrare anche oltre 100-150 km di distanza (Jerina, Pokorny, & Stergar, 2014; G. Massei, Genov, Staines, & Gorman, 2009). La annuale dimensione della home-range dell’animale può variare tra i 3-400 e i 15000 ettari (Massei & Genov, 2004).

Detenendo il più alto tasso di incremento riproduttivo tra gli ungulati, i cinghiali sono capaci di aumentare annualmente di oltre 150%. La densità di popolazione varia da 0,2 a 43 animali/km2 mostrando un’elevata variazione annuale. Alte densità animali sono correlate all’estensione di ampie zone sottoposte a grufolamento, attività che - come verrà dettagliato in seguito - può incidere sull’equilibrio delle comunità animali e vegetali (Massei & Genov, 2004).

Secondo Marsan et al., (2000) ne “Il Cinghiale in Liguria”, il Cinghiale predilige un habitat in cui siano contestualmente presenti:

 una sufficiente copertura boschiva in grado di offrire alimenti e ricoveri diurni;  qualche radura;

 terreno in cui sia possibile le ricerca di insetti e radici;

 acqua in abbondanza, soprattutto fangosa e poco profonda, dove effettuare un quotidiano bagno di fango, detto insoglio, al fine di rimuovere gli ectoparassiti e la presenza di piante resinose su cui strofinarsi.

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1.3 La Capra domestica inselvatichita

1.3.1 Considerazioni generali

La Capra è un mammifero artiodattilo appartenente alla famiglia dei Bovidi; allo stato selvatico la specie è conosciuta con il nome di "egagro", con areale compreso tra Asia Minore, Caucaso, Turkestan, Iran, Belucistan, Pakistan e India.

Figura 6 L’Asia Minore è l’areale di origine di Capra hircus aegagrus [Wikipedia]. Figura 5 Esemplare di Capra domestica inselvatichita nel Promontorio del Mesco [Foto del CTA del Corpo Forestale dello Stato - Parco nazionale delle Cinque Terre].

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Tra le possibili etimologie, Toubin, (1886) riconduce il termine “capra” alla radice sanscrita UCCA e CA che significa, “in alto” associato a PRU ovvero “andare” e quindi CA-PRU, “quella che va in alto”.

La Capra, primo ungulato ad essere stato addomesticato, è progenitrice delle diverse specie di Capra domestica diffuse nel bacino del Mediterraneo. Anticamente, infatti, nuclei di capre sono stati introdotti in molte isole al fine di costituire una riserva di carne per i naviganti; attualmente, dove non sono state eradicate, le greggi ircine vivono allo stato brado e in alcuni casi sono inselvatichite (Zeder, M. & Hesse, B., 2000; Bertolotto, P., 2014; Naderi et al., 2008; Vigne, 2011).

1.3.2 Biologia

Dal punto di vista alimentare la Capra è collocata fra i selettori intermedi: fra il Capriolo, brucatore, e la Pecora, pascolatrice (Hofmann, 1984).

Sia gli esemplari domestici che quelli selvatici (Aldezabal & Garin, 2000) hanno una stessa dieta molto varia e la capacità di nutrirsi di quasi tutte le specie vegetali in quanto la produzione dell’enzima prolina che può disattivare sostanze tossiche come i tannini.

L’animale è avvantaggiato dalla

considerevole dimensione dell'intestino (27 volte maggiore della lunghezza del corpo), dalla grande capacità di riciclo di urea e dal risparmio di acqua. L'animale è in grado di nutrirsi delle piante scartate da altri erbivori e perfino delle cortecce di alberi. L'azione selettiva esercitata sugli alimenti varia in relazione a fattori ambientali, alla disponibilità di erba, alla composizione floristica del pascolo, alle caratteristiche morfologiche delle piante, alla loro composizione chimica, alla natura e alla modalità di distribuzione degli

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- 15 - alimenti. Sui pascoli naturali, in genere ricchi di specie, la scelta avviene per gradiente di appetibilità: la Capra bruca prima le specie più appetite e poi a mano a mano le altre.

Nelle zone di pascolo sono visibili chiazze di vegetazione più sviluppata composte in gran parte dalle specie rifiutate. Queste sono caratterizzate per un basso contenuto in sostanza secca, in glucidi parietali (FG, NDF, ADL) e in azoto solubile, mentre quelle appetite, da un più alto contenuto in principi nutritivi e per un basso tenore in azoto totale, calcio, fosforo e ferro.

Le capre in genere manifestano una maggiore preferenza per le piante a più ampia superficie fogliare, a maggior fogliosità, a più grande diametro del fusto e a minor contenuto in lattice. Difficilmente brucano completamente la pianta, piuttosto tendono, in rapporto alla specie e allo stadio vegetativo, ad effettuare una utilizzazione differenziata degli organi epigei.

La caratteristica dell'apparato masticatore è la mancanza nella mascella di incisivi e canini. Questi sono sostituiti da un tessuto cartilagineo cheratinizzato contro il quale viene premuto e strizzato dalla lingua e dagli incisivi inferiori il bolo alimentare durante il processo di ruminazione.

Pascolo Estivo Pascolo Autunnale

Molinia arundinacea +++ Castanea sativa (frutti) +++ Cytisus scoparius +++ Rubus fruticosus +++ Betula pendula +++ Corylus avellana +++ Vaccinium myrtillus +++ Sambucus nigra +++ Agrostis tenuis ++ Cytisus scoparius +++ Corylus avellana ++ Tilya sp. ++

Composite ++ Castanea sativa (foglie) +

Abies alba ++ Urtica dioica +

Rubus fruticosus ++ Molinia arundinacea + Alnus viridis ++ Agrostis tenuis + Brachypodium pinnatum ++ Pteridium aquilinum + Urtica dioica +

Calluna vulgaris + Fagus sylvatica + Larix decidua + Pteridium aquilinum +

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La dentatura consta di 32 denti con formula dentaria:

La struttura di tale dentatura, peculiare la mancanza di elementi di taglio, costringe l'erbivoro ad una particolare modalità di alimentazione. Rompe a forza tanto le specie erbacee quanto quelle legnose e, abbassando la testa al petto, squarcia e lacera l'arbusto; costituito il bolo, i molari

selenodonti provvedono a triturare e sminuzzare la parte fibrosa. Le ridotte dimensioni dei prestomaci, e in particolare dell'apparato ruminale, fanno in modo che le sostanze ingerite abbiano a disposizione un tempo limitato per il transito nella zona pregastrica cui consegue una minor efficienza di resa in termini

energetici espressi con una minor produzione di AGV (Acidi Grassi Volatili), rispetto ad altri erbivori quali i bovini che hanno un rapporto rumine/massa più alto. Per questo si dice che la Capra abbia un'elevata costante di passaggio (Kp) nei confronti dell'alimento ingerito e, conseguentemente, una costante di digeribilità (Kd) molto scarsa. Il permanere dell'alimento per tempo ridotto nel complesso ruminale, che funziona da "fermentatore" di sostanza organica per la produzione di AGV, ha fatto qualificare la Capra erbivoro "selettivo", cioè specializzato nella ricerca e nella selezione di un'alimentazione preferenziale e specifica in grado di conferirle maggior energia e sostanze nutritive a parità di sostanza ingerita; tipicamente predilige le parti vegetali, apici o gemme, che hanno un alto contenuto di zuccheri e amido e scarsa quantità di fibra. Tuttavia, la Capra è la migliore utilizzatrice della vegetazione legnosa (di cui si alimenta anche grazie alla

0 0 3 3 3 1 3 1

Figura 9 Altezza di pascolamento della Capre su Macchia e foresta (Molle & Decandia, 2005).

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- 17 - possibilità di stazionare in posizione eretta) e dei foraggi ricchi di fibra e/o poveri in azoto (Nastis A., 1996).

L’elevata efficienza di utilizzo è attribuita ad una maggiore capacità di proliferazione di batteri ruminali, a cui si deve un più efficiente attacco del substrato alimentare, una più elevata attività fermentativa e una maggior produzione di acidi grassi volatili e di ammoniaca. Quest'ultima, una volta trasformata in urea nel fegato, in parte viene eliminata attraverso i reni e in parte ritorna al rumine tramite saliva o per un processo di riassorbimento. Le capre alimentate con cibi poveri in proteina manifestano un intenso riciclaggio dell'azoto tale per cui tollerano il deficit di azoto, manifesto invece in altri animali che pascolano su vegetazione particolarmente povera (Bertolotto, 2014; Castellaro et al., 2007; Claps, Rubino, & Fedele, 1997; Fedele, Rubino, Claps, & Sepe, 1996; Pulina, 2005; Corti, M.)

Per le ragioni sopra descritte, il sovrapascolo caprino può interferire in modo incisivo con l’ambiente e modificarne sensibilmente gli ecosistemi (Spatz & Mueller-Dombois, 1973). Esemplificatrice, a tale riguardo, la considerazione riportata (Thirgood, 1981) in un documento del 1908 relativo all’uso del territorio presso l’isola di Cipro: “Questa distruzione, l'erosione e le inondazioni di acqua, sono dovute principalmente alle enormi greggi di capre che distruggono gli alberi giovani. La Capra è una maledizione peggiore della locusta: la locusta distrugge la vegetazione per una sola stagione, la Capra perennemente”.

La citazione si riferisce alle estreme conseguenze di un’intensa attività di pascolo in ecosistemi circoscritti, come ad esempio quelli insulari. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli ecosistemi insulari, o semi-insulari come i promontori, sono molto fragili e

Graminacee scartate da altri ruminanti

Molinia arundinacea, Deschampsia cespitosa, Calamagrostis arundinacea, Brachipodium pinnatus

Piante velenose Helleboro niger, Laburnum anagyroides, Ranunculus spp.; Pteridium aquilinum, Rhododendron; Rumex ssp.; Chenopodium

ssp.; Parietaria officinalis; Urtica dioica Essenze arbustive

appetite

Vaccinium myrtillus, Vaccinium uliginosus, Arctostaphylos uva-ursi, Juniperus sp, Rhododendrum ferrugineum, Calluna vulgaris

Piante spinose appetite

Robinia pseudoacacia; Rosa sp.; Crataegus oxycanta; Prunus sp.; Rubus fruticosus; Rubus idaeus,Cardus sp.

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- 18 -

l’introduzione di capre è una delle cause principali della perdita di biodiversità in favore del degrado degli ecosistemi (Coblentz, 1978; Desender, Baert, Maelfait, & Verdyck, 1999; Gizicki, 2016; Keegan, Coblentz, & Winchell, 1994).

A fronte dell’entità dell’impatto esercitato sull’ambiente, Campbell & Donlan, (2005) consigliano, come efficace soluzione della problematica, l’eradicazione delle popolazioni ircine dalle isole.

In generale, però, la presenza degli erbivori in ecosistemi “aperti”, dove le popolazioni sono controllate dai fattori naturali, come la predazione, riveste significativi ruoli ecologici (Olff & Ritchie, 1998).

Al riguardo, Perevolotsky Avi e G. Seligman, (1998) invitano criticamente a prestare attenzione alla interpretazione degli effetti esercitati dagli erbivori sugli ecosistemi, sottolineando la complessità delle interazioni pianta-erbivoro e suggeriscono di non sottovalutare che anche la trasformazione di un ecosistema possa costituire un impatto non necessariamente negativo.

Figure 10, 11, 12 Esempio dell'estrema adattabilità delle capre alle condizioni del pascolo: brucature su Fico d'India (Opuntia ficus-indica), nell’ l’isola di La Gomera, Parco nazionale Garajonay (Spagna).

(29)

- 19 -

1.4. Il Capriolo

1.4.1 Considerazioni generali

Il Capriolo (Capreolus capreolus Linnaeus, 1758), è diffuso in tutta Europa ed in Italia con continuità nell’arco alpino, dove raggiunge densità di 5-10 capi/100 ha. Un importante subareale è costituito dall’Appennino settentrionale e dalla Toscana sud-occidentale, dove le densità sono mediamente superiori a 10 capi/100 ha, con valori

Figura 13 Distribuzione del Capriolo in Europa. [Fonte: “Societas Europaea Mammalogica - The European Mammal Society,” n.d.]

Figura 14 Distribuzione del Capriolo in Italia. In verde la sottospecie Capreolus capreolus italicus. Da Ispra, (2013). Figura 13 Caprioli in allerta. [Foto di Alessandro Cappuccioni]

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- 20 -

più elevati in diverse situazioni locali. Nella porzione centrale della catena appenninica le popolazioni sono più rarefatte e meno consistenti; in quella meridionale sono assenti (Ispra, 2013).

1.4.2 Biologia

Il Capriolo è un animale dal comportamento sociale complesso ed articolato: è attivo prevalentemente di notte, durante l’estate è solitario e territoriale, in inverno forma gruppi familiari e femminili anche con maschi subadulti. È considerato un ruminante “brucatore”, poiché si nutre principalmente di vegetali facilmente digeribili come gemme, foglioline e tenere piante. D’inverno ripiega su cortecce e gemme apicali e subisce la concorrenza del Cervo.

L’habitat

preferito è

rappresentato da boschi aperti con fitto sottobosco, inframmezzati da radure e zone cespugliose, quindi dalla pianura, purché offra il rifugio della boscaglia, dalla collina, dalla

montagna e dalle zone umide. In montagna, il limite altitudinale è quello dell’innevamento, in quanto il Capriolo evita lo strato nevoso superiore a 60-80 cm (“IUCN - International Union Conservation of Nature,” n.d.).

Sebbene il pascolo dell’ungulato possa interferire con le finalità di gestione forestale (Putman & Moore, 1998), gli effetti sugli ecosistemi naturali variano al variare degli ambienti interessati e dipendono da fattori legati alle dimensioni delle popolazioni (Beguin, Tremblay, Thiffault, Pothier, & Côté, 2016).

Relativamente alla dieta, Gill et al., (1996) hanno costatato che, date l’ampia adattabilità alimentare e la considerevole plasticità ambientale della specie, alla diminuzione sensibile di alcune specie vegetali gradite, non corrisponde un altrettanto diretto decremento delle densità di popolazione locale del Capriolo.

Figura 15 Il Capriolo predilige ambienti boschivi inframezzati a radure [foto da http://www.camporignano.com/].

(31)

- 21 -

Capitolo 2 – IMPATTO AMBIENTALE DA

UNGULATI SELVATICI

2.1 Introduzione

Gli ungulati selvatici esercitano un ruolo ecologico decisamente importante per gli ecosistemi e per le loro funzioni (Perevolotsky & Seligman, 1998); modificano la vegetazione e il patrimonio forestale per alimentarsi, riprodursi, difendersi e svernare (Corrado, 2005). Tuttavia, in svariati casi, essi sono causa di differenti classificazioni di impatto distinte in “effetti”, nel caso in cui l’impatto sia rivolto ad ecosistemi naturali, e in “danni”, nel caso in cui danneggi le coltivazioni o gli interessi antropici (Reimoser & Putman, 2010; Riga, Genghini, Cascone, & Di Luzio, 2011; Friedrich Reimoser & Gossow, 1996a).

Da un punto di vista naturalistico, infatti, è complicato ad esempio definire oggettivamente il “sovrapascolamento”: non può essere quantificato in termini di “fattore di densità” proprio perché le interazioni tra erbivori e vegetazione dipendono da più elementi di difficile valutazione (stagione, tempo di attività degli erbivori, specie animale, caratteristiche della vegetazione, condizioni climatiche e presenza/assenza di altri erbivori) (Perevolotsky & Seligman, 1998).

Figura 16 Querce sempreverdi (ad es. Quercus coccifera e Quercus ilex), tipiche degli ecosistemi forestali mediterranei. In risposta alla brucatura le piante creano una superficie relativamente nutriente per gli erbivori, specialmente in estate. In assenza di pascolo gli stessi alberi cespugliosi possono in pochi decenni svilupparsi in altezza e diventare alberi ad alto fusto: manifestazione esemplare della plasticità degli ecosistemi di rispondere al sovrapascolo (Perevolotsky & Seligman, 1998).

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- 22 -

Oltre alle risposte di compensazione della vegetazione (Focardi & Tinelli, 2005; Spatz & Mueller-Dombois, 1973), esistono nelle popolazioni animali meccanismi densità-dipendenti e fattori sociali che riducono le popolazioni a limiti per cui il loro impatto sulle dinamiche immediate degli ecosistemi (composizione specifica e specie dominanti delle intere comunità) è difficilmente analizzabile (Barrios-Garcia & Ballari, 2012; Puerta-Piñero, Pino, & Gómez, 2012).

Gli ungulati selvatici, oltre al danno diretto alle produzioni agricole, possono interferire con gli ecosistemi tanto da indurre sensibili cambiamenti e modificazioni (Pistoia A. et al., 2015).

Relativamente al Cinghiale, l’impatto si estende anche alle comunità animali, al cui riguardo la letteratura scientifica fornisce prevalentemente informazioni di tipo qualitativo (Barrios-Garcia & Ballari, 2012; Massei & Genov, 2004). L’impatto sulle zoocenosi può essere “diretto”, nel caso in cui Cinghiale predi ad esempio artropodi, molluschi, rettili, anfibi, micromammiferi e mammiferi, uova, nidiacei a terra, oppure “indiretto”, allorquando l’azione di disturbo sia rivolta all’habitat, o comunque sia una conseguenza della sua presenza o attività.

Per l’aspetto politico-sociale il Cinghiale condiziona la gestione faunistico-venatoria in quanto provoca la monopolizzazione del territorio da parte delle squadre di

Schema 2 Influenza del Cinghiale su un ecosistema naturale (modificato da Tomei, 2015).

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- 23 - caccia, talmente numerose e diffuse da condizionare gli Enti amministrativi (Toso, Silvano).

Relativamente alla complessità della problematica e alla necessità che le categorie interessate trovino una convergenza, Mattioli, (1996) afferma “bisogna abituare zoologi e forestali a parlare uno stesso linguaggio e a lavorare insieme per obiettivi comuni”.

Ancor più diretto, Aldo Leopold dichiara che il problema non consiste nella gestione della fauna selvatica bensì “nella gestione degli uomini in essa coinvolti” (Bath AJ, 1998).

E’ riconosciuto che gli ungulati selvatici sono in grado di modificare gli ambienti in cui vivono (Macci et al.,

2012; Perevolotsky & Seligman, 1998) e conseguentemente contrastare con gli obiettivi di gestione territoriale.

Mentre in passato è stata rivolta molta attenzione verso i danni provocati dagli ungulati all’agricoltura, più recentemente è emerso che gli effetti del pascolamento, del sentieramento e dello scortecciamento negli ecosistemi forestali (Canevali et al., 2009; Corrado, 2005; Riga et al., 2011), possono creare problemi considerevoli (Brangi & Meriggi, 2003; Brugnoli, 2006), soprattutto nelle regioni centrali dell’Europa (McEvoy, Flexen, & McAdam, 2006; Perrin, Mitchell, & Kelly, 2011). Diversamente da quanto si verifica per le produzioni agricole, è difficile quantificare l’impatto arrecato agli ecosistemi forestali (Friedrich Reimoser, Armstrong, & Suchant, 1999; Friedrich Reimoser et al., 1999; Bianchi, Bartoli, Paci, & Pozzi, 2014) soprattutto per la complessità delle dinamiche di compensazione della vegetazione, sottoposta alla pressione degli erbivori (Ammer, 1996; Focardi & Tinelli, 2005; McEvoy et al., 2006).

Senza alcun dubbio, però, i danni arrecati all’agricoltura sono in costante aumento e costituiscono un problema sempre più importante (Apollonio, Andersen, & Putman, 2010; Brugnoli, 2006; Friedrich Reimoser et al., 1999). In alcuni Paesi, inoltre, sta emergendo anche la preoccupazione delle possibili alterazioni degli habitat, soggetti a tutela conservazionistica (Ispra, 2013; Monaco et al., 2001). Anche gli incidenti automobilistici causati dagli ungulati selvatici sono in deciso aumento (Groot & Hazebroek, 2008; Ponzetta & Sorbetti Guerri, 2009; Seiler, 2004) e - nel nostro Paese - hanno causato, nel solo 2015, 18 morti e 145 feriti (Coldiretti, 2015). Preoccupa anche

Figura 17 Adulto con "striati" alla ricerca di faggiole. [Google Images]

(34)

- 24 -

l’eventuale trasmissione di zoonosi con conseguenti problemi di ordine sanitario (F. Reimoser & Putman, 2010; Spiecker, 1969).

Il lupo (Canis lupus L.) è il principale predatore del Cinghiale: sebbene si stia riappropriando dei territori lungo ed oltre la dorsale appenninica (M. Apollonio et al., 2004; Corrado, 2005; Fabbri et al., 2007), ed abbia il Cinghiale al centro della sua dieta (Davis et al., 2012; Mattioli et al., 2011; Nores, Llaneza, & Álvarez, 2008), non sembra ancora in grado di controllarne l’espansione.

Il Cinghiale è in grado di occupare un range estremamente variabile di habitat, dove si nutre in modo opportunistico di piante e di animali (A Marsan, Spanò, & Tognoni, 1995), perciò la forte espansione, numerica e territoriale, può interferire drasticamente con molte specie animali e vegetali, con le strutture e con le funzioni degli habitat ospitanti.

Il brucare e il pascolare degli ungulati selvatici hanno da sempre ricoperto un ruolo determinate nella struttura e nella dinamica degli ecosistemi naturali, sia per quanto concerne gli effetti immediati sulle funzioni ecologiche delle comunità viventi determinati dalla presenza continuativa degli animali, sia in termini di pressione selettiva sullo sviluppo naturale di tali ecosistemi (Focardi & Tinelli, 2005; Olff & Ritchie, 1998; Perevolotsky & Seligman, 1998).

Nella maggior parte delle regioni a clima temperato, l’attuale densità dei grandi erbivori è relativamente bassa, anche dove l’uomo non abbia eliminato le specie più diffuse o controllato le dimensioni delle diverse popolazioni.

Gli erbivori, infatti, in condizioni non limitanti di pascolo e a bassa densità di animali, selezionano la composizione floristica perché si nutrono in media del 10% della copertura vegetale (nella maggior parte dei casi il valore si aggira intorno al 5%): non

(35)

- 25 - utilizzano quindi gran parte delle erbe presenti. Tuttavia, laddove le popolazioni raggiungono densità elevate, favoriscono profondi mutamenti della fitocenosi. L’impatto causato dalle attività di pascolamento e brucamento degli erbivori, la predazione di semi e il rooting del Cinghiale possono avere svariate implicazioni ecologiche (F Reimoser & Putman, 2010).

Tuttavia, prima di analizzare le interferenze esercitate dalla fauna è opportuno chiarire il significato del termine “impatto”. I danni causati dai grandi ungulati, sia nei confronti di interessi economici che conservazionisti, rappresentano l’estrema espressione di un intero susseguirsi di cambiamenti di ordine generale, sottili deviazioni nella struttura e nella dinamica delle comunità naturali o dei sistemi antropici. Pertanto il termine “danno” è attribuito alle conseguenze dell’azione degli ungulati contrarie agli interessi umani o alle finalità gestionali, anche se provocano numerosi e profondi effetti sulla struttura e sulle funzioni ecologiche dell’ecosistema. Il pascolamento e il brucamento, così come il sentieramento o il grufolamento, possono avere molti effetti positivi sull’ambiente naturale sia danneggiarlo; perciò, la drastica riduzione della popolazione di ungulati, effettuata in base ad un presunto danno, può perturbare maggiormente gli equilibri degli ecosistemi (F. Reimoser & Putman, 2010).

2.2 Impatto degli ungulati sull’agricoltura

Nel quadro della fauna selvatica di interesse gestionale per il nostro Paese, il Cinghiale rappresenta la specie più problematica in quanto responsabile di un pesante impatto negativo sulle attività e sulle produzioni agricole: mediamente l’80% dei rimborsi per i danni causati da fauna selvatica è attribuito a questa specie (Toso, S.). Nel 2015, il danno complessivo arrecato all’agricoltura dalla fauna selvatica è stato di 100 milioni di Euro (Coldiretti, 2015).

Negli ultimi anni il progressivo aumento dei danni inferti alle colture ha provocato un inasprimento dei rapporti tra i mondi agricolo, venatorio, naturalistico tale da pregiudicare l’operato degli Enti di gestione agli occhi della pubblica opinione (Riga et al., 2011).

Mentre una bassa densità di ungulati produce effetti benefici agli ecosistemi (Barrios-Garcia & Ballari, 2012; Massei & Genov, 2004; Perevolotsky & Seligman, 1998), invece negli agroecosistemi anche pochi esemplari possono originare gravi perdite produttive, specialmente alle coltivazioni ad alto reddito come nel caso della vite (Brangi

(36)

- 26 -

& Meriggi, 2003; Calenge, Maillard, Fournier, & Fouque, 2004; Mazzoni della Stella, Calovi, & Burrini, 1995).

I danni ricorrenti sono quelli alle coltivazioni di cereali (frumento, mais, orzo, avena etc.) e ai campi di foraggere, come i prati di medica, dove il Cinghiale prima con il rooting, poi con i sentieramenti ed infine, nel caso del mais, con la predazione delle spighe danneggia direttamente e indirettamete tutte le fasi della produzione (Juan Herrero, García-Serrano, Couto, Ortuño, & García-González, 2006; Morelle & Lejeune, 2015). I vigneti subiscono danni ancor più consistenti, non solo per l’uva sottratta, quanto per la rottura di tralci e fusti (Barrio, Villafuerte, & Tortosa, 2012; Schley & Roper, 2003) e lo scalzamento al piede del vitigno e coseguentemente la messa a nudo delle radici e lo stroncamento del ceppo.

L’analisi della “Dimensione umana” connessa ai danni provocati dal Cinghiale evidenzia le contrarietà e le insofferenze sociali nei confronti del “problema cinghiale”. Per Dimensione umana o Human dimension si intendono le aspettative, gli atteggiamenti e le attività del pubblico nei confronti della fauna selvatica e del suo habitat (Bath AJ, 1998). Specialmente nelle zone rurali, recentemente invase dal Cinghiale, la problematica alimenta conflitti interni e le conseguenze della sua presenza sono maggiormente avvertite dai contadini, ma ignorate dai cittadini. Nelle piccole realtà legate ad una agricoltura familiare, collinare o montana, l’intolleranza ai danni può indurre all’abbandono di terre marginali e alla scomparsa del presidio del territorio. Così accade nelle zone coltivate dell’Appennino settentrionale e nella fascia tirrenica dove le attività agro-silvo-pastorali, pur rivestendo un carattere economicamente marginale, assumono una notevole rilevanza sociale (Marsan et al., 2000).

Dall’analisi generale della Human Dimension è emerso come talvolta l’insoddisfazione psicologica dell’agricoltore dovuta al mancato raccolto non possa essere ricompensata dal mero indennizzo economico. Anzi, questo genere di danno conduce – in contesti particolarmente fragili – alla progressiva sfiducia nei confronti dell’attività agricola e al suo abbandono (Fulgione, D. et al., 2010).

(37)

- 27 -

2.2.1 Impatto sui muri a secco

Il Cinghiale non solo danneggia le produzioni agricole, ma, in zone terrazzate come in Liguria e in Toscana,

incentiva anche il dissesto idrologico, tramite la demolizione dei muri a secco, in quanto ne rimuove le pietre alla ricerca di cibo (bulbi, radici, larve di insetti, piccoli rettili…).

La distruzione dei muri

di contenimento in pietra a secco accresce l’erosione e il dissesto idro-geologico, poiché il terreno, non più sorretto, tende a franare. Inoltre, in corrispondenza dei punti di crollo si creano dei cunei di scorrimento delle acque superficiali che accelerano i fenomeni di smottamento e determinano il crollo dei muri sottostanti innescando pericolosi meccanismi a catena (Blasi & Pistoia, 2014).

Secondo il recente studio di Pistoia, Innamorati, & Bertolotto (2016), in cui si confrontano le varie cause del degrado dei muri a secco nel territorio terrazzato del Monte Pisano, il crollo totale dei manufatti murari causato dai cinghiali costituisce il danno più influente rispetto alle altre cause di degrado.

Figura 21 Danni ai muri a secco dovuti all'attività del Cinghiale. [Foto di Francesca Giannini].

Figura 20 Danneggiamento di un muro a secco in corrispondenza di un trattoio, in località Volastra (Parco nazionale Cinque Terre).

(38)

- 28 -

I muri a secco danneggiati, oltre ad esporre il suolo all’erosione, facilitano la predazione e la perdita delle specie animali e vegetali collegabili al particolare habitat, così profondamente da estendere l’impatto ad interi ecosistemi.

Figura 23 Danneggiamenti ai muri a secco causati dai cinghiali in località Tramonti nel Parco nazionale delle Cinque Terre (da Provitina, 2016).

Figura 22 Un muro a secco nel Parco nazionale delle Cinque Terre colonizzato da piante tipiche dell’ambiente sinantropico.

(39)

- 29 - Il muro a secco infatti, pur

essendo un ambiente sinantropico, è in grado di ospitare specie che diversamente non potrebbero vivere.

Il danno originato dal Cinghiale è quindi molto grave perché è a carico di un’area ecotonale che accresce la biodiversità degli “agro” ed “eco” sistemi.

Figura 25 Barlia robertiana (Loisel.) Greuter, 1967 cresciuta sul coronamento di un muro a secco nel Parco naturale di Portofino. [Foto di Benedetto Mortola].

Figura 26 Umbilicus rupestris (Salisb.) Dandy, 1948 cresciuto in un muro a secco (Regione Liguria, 2000).

Figure 27 e 28 Il muro a secco è anche un habitat idoneo per rettili e uccelli rupicoli (Regione Liguria, 2000). Figura 24 Le pietre dei muri a secco offrono riparo e microambienti adatti alla riproduzione di molte specie animali e vegetali (località Volastra, P.N.5T.).

(40)

- 30 -

Figura 29 La Liguria è una delle regioni più densamente ricche per paesaggi terrazzati e perciò molto suscettibile ai danni dai cinghiali (Regione Liguria, 2000).

(41)

- 31 -

2.2.2 Strumenti e tecniche di prevenzione dei danni del Cinghiale

Considerando solo l’anno 2015 il danno complessivo al comparto agricolo attribuibile alla fauna selvatica (principalmente cinghiali) ammonta a 100 milioni di Euro (Coldiretti, 2015).

Senza alcun dubbio, il modo migliore per attenuare i danni provocati dai cinghiali in agricoltura è quello di prevenirli. Alcune tecniche di gestione faunistica agiscono sul contenimento numerico delle popolazioni, anche tramite l’attività venatoria (Geisser et al., 2004). Se però il prelievo venatorio non viene effettuato discriminando attentamente le prede per classi di età e di sesso, i danni nei coltivi aumentano, in conseguenza alla reazione di ricomposizione sociale della popolazione di ungulati danneggiata (Marsan, A. et al., 2000).

Altri sistemi alternativi alla caccia, recinzioni meccaniche ed elettrificate proteggono le coltivazioni agrarie e forestali e dissuasori olfattivi o sonori allontanano gli ungulati dalle aree volute.

Dagli studi sperimentali di Toso & Pedrotti, (2001) è emerso che le tecniche di contenimento migliori, sotto il duplice profilo dell’efficacia e dell’efficienza, sono quelle che prevedono l’occlusione meccanica e/o elettrica di porzioni di territorio, in modo da impedire l’accesso del Cinghiale.

Di seguito la descrizione delle tecniche più comunemente adoperate.

Figura 31 Un esemplare di Cinghiale appena abbattuto in Liguria. [Foto di Michele Cuneo]

Figura 30 Cacciatore in battuta sulla cresta del Monte Ramaceto, Liguria.

(42)

- 32 -

- Recinzione meccanica

La recinzione meccanica permanente, con pali e rete parzialmente interrata, risulta, se ben realizzata, un sistema efficace per impedire l’accesso del Cinghiale a determinate superfici agrarie. Queste recinzioni hanno costi d’impianto elevati, ma di manutenzione ordinaria limitati. Consiste nella perimetrazione dell’area prescelta con pali in castagno o rovere di 220 cm di lunghezza e 12/15 cm di diametro, di cui 100 cm interrati dopo averli opportunamente trattati con prodotti preservanti. La distanza tra i pali consigliata

è di 4 m circa. La rete deve essere in acciaio galvanizzato di 3 mm di spessore con maglia di 20 cm di lato ed interrata per 20 cm. Oltre ad un filo tenditore galvanizzato di 3,4 mm di spessore posto a 60 cm dal piano di campagna, vanno previsti 3 fili supplementari posti sul bordo superiore ed inferiore della rete ed a 5 cm dal suolo per impedire al Cinghiale di sollevare la rete. In aree collinari e

Figura 32 Esempio di recinzione meccanica (Toso & Pedrotti, 2001)

Figura 33 Recinzione meccanica con griglia elettrosaldata presso il Parco Nazionale delle Cinque Terre.

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- 33 - montane ad elevata declività l’altezza della rete va incrementata proporzionalmente. In presenza di pendenze di 45° la rete deve avere altezza doppia. L’impatto ecologico della recinzione può variare in funzione della permeabilità per diverse specie di mammiferi selvatici.

.

- Perimetrazione con fili elettrificati

La perimetrazione elettrica è la tecnica che unisce la buona efficacia al soddisfacente rapporto costi/ benefici. Può essere composta da 2 o 3 fili elettrificati fissati ad una serie di paletti di sostegno di materiale vario (plastica, fibra di vetro, legno) mediante appositi isolatori. Nel caso si utilizzino 2 fili, essi dovranno essere posti rispettivamente a 25 e 50 cm dal suolo; utilizzando 3 fili le distanze saranno di 10, 30 e 60 cm.

Figura 34 Recinto elettrico installato presso Volastra, Parco nazionale delle Cinque Terre. Schema 3 Esempio di recinzione elettrificata [da http://www.fulgionegroup.com].

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- 34 -

Il metodo chimico prevede l’utilizzo di sostanze chimiche repellenti che, agendo sul

sistema gustativo e olfattivo dei Cinghiali, ne diminuiscono l’attrazione nei confronti delle specie coltivate. L’efficacia di tali sostanze ha una durata non superiore ai 3-4 giorni, trascorsi i quali, l’effetto repulsivo diminuisce sensibilmente, sia per l’insorgere di una certa assuefazione da parte degli animali, sia per il dilavamento del prodotto operato dagli agenti atmosferici. Le sostanze vengono applicate estensivamente sulle colture annuali e individualmente nel caso delle piante da frutto o dei vigneti. L’azione repulsiva è esercitata dall’odore che emanano alcune sostanze di degradazione delle proteine come acidi grassi volatili e composti solforati, oppure dal sapore conferito di tali sostanze o dall’azione irritante di alcuni composti utilizzati anche come antiparassitari.

Il metodo acustico prevede l’utilizzo di strumentazioni ad emissione sonore in grado di

spaventare i cinghiali ed allontanarli dalle aree da proteggere. Si tratta di cannoncini ad aria compressa o di apparecchi che emettono versi di allarme amplificati. Non è facile comunque individuare tecniche che associno ad un buon rapporto costi/benefici una continuità di efficacia nel tempo. Di norma le tecniche comunemente impiegate manifestano un declino di efficacia che è proporzionale al tempo di utilizzo; questo accade perché s’innesca, più o meno rapidamente, un fenomeno di assuefazione, per cui è importante concentrare queste azioni nel periodo in cui il danno manifesta il suo apice (Vatore et al., 2007).

Gli ultrasuoni. La start-up “Natech” ha di recente messo in commercio i dispositivi ad

ultrasuoni “Escape”, nelle due versioni “Basic” e “Plus”. L’innovativo prodotto è stato sviluppato dal Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, in collaborazione con partner privati e pubblici. Escape Plus è un apparecchio ad emissione di ultrasuoni in grado di modulare le frequenze attenuandone l’assuefazione da parte degli ungulati selvatici. Un solo apparecchio può proteggere una superficie di circa 2000m2 oppure 100 m lineari. L’utilizzo accoppiato di più dispositivi può fornire protezione ad intere aree. Le sperimentazioni preliminari condotte in Toscana, sia presso vigneti che all’interno dell’area protetta di San Rossore, hanno dato risultati positivi.

Escape Plus presenta le seguenti caratteristiche: - diagnostica e controllo remoto;

- alimentazione off grid con energy harvesting; - sistema antifurto con GPS integrato;

(45)

- 35 - - schede elettroniche modulabili;

- attuatore piezoelettrico totalmente ultrasonico da 120dB di potenza; - sensori di rilevamento.

2.3 Impatto degli ungulati sugli ecosistemi

Gli ungulati selvatici, in funzione delle specie, possono causare diversi effetti e modificazioni ambientali. Ai Cervidi sono attribuiti, a scapito della rinnovazione forestale, l’impatto da scortecciamento e sfregamento delle corna sui tronchi e sui rami per demarcare la territorialità ed eliminare il velluto (sfregoni), molto intenso nelle aree di svernamento delle popolazioni, quello da brucamento degli apici vegetativi e quello conseguente alla selettività nelle

preferenze alimentari (ribes e sorbi) (Mondino & Pividori, 1992; R. Motta & Quaglino, 1989; Friedrich Reimoser & Gossow, 1996b; Riga et al., 2011). Queste tipologie di impatto hanno un livello di gravità variabile con il tipo di ecosistema in cui ciò si verifica. Infatti alcune specie forestali, come l’Abete bianco, sono più sensibili al brucamento ed altre allo sfregamento, come il pino cembro, l’Abete rosso, il Pino silvestre, il Pino uncinato (Corrado, 2005).

2.3.1 Impatto ambientale del Cinghiale

L’impatto ambientale del Cinghiale è dovuto a molteplici fattori come le caratteristiche dell’ambiente, l’intensità dello sfruttamento della copertura erbacea ed arbustiva, la densità animale e le attitudini alimentari e comportamentali caratteristiche della specie.

Quando riducono la rinnovazione forestale, le modificazioni provocate dal Cinghiale provocano la diminuzione della biomassa vegetale (Corrado, 2005; Casanova, 1988).

Gli effetti sull’ecosistema sono generalmente riconducibili a due tipologie di impatto: l’impatto al suolo, determinato dal rooting (Sims, 2005; Singer, FJ Swank, WT,

Figura 35 Oltre agli effetti del pascolo e della brucatura, i Cervidi possono scortecciare le piante e limitare la rinnovazione naturale degli ecosistemi forestali (R. Motta & Quaglino, 1989). [National Geographic Italia]

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1984) e dal sentieramento e l’impatto sulla struttura e sulla composizione della vegetazione, determinato dalla pressione selettiva esercitata. L’animale, infatti, tende a selezionare le piante secondo un gradiente di appetibilità.

Dal punto di vista alimentare, il Cinghiale è caratterizzato da una notevole adattabilità, è infatti “eurifagico” ed opportunista, ovvero in grado di utilizzare alimenti di origine sia animale che vegetale, secondo le circostanze.

La tabella 6 fa notare come si diversifichi la percentuale di utilizzo rispettivamente di erba e frutta, in funzione della disponibilità stagionale.

In ambienti mediterranei il consumo di alimenti di origine animale può essere ulteriormente ridotto a favore di frutta e semi.

In considerazione dello spiccato opportunismo alimentare, il Cinghiale non ha praticamente competitori tra gli erbivori. Può invece essere in parziale contesa alimentare con altre specie onnivore come la volpe, in particolari condizioni, con i corvidi; in ogni caso l’ampio spettro trofico e la possibilità di rivolgersi a fonti alimentari alternative pongono il Cinghiale in vantaggio rispetto a

qualsiasi eventuale competitore (Toso et al., n.d.).

Relativamente alla ripartizione della dieta, lo studio di Baubet et al., (2004) condotto sulle popolazioni di cinghiali nelle Alpi francesi, indica che le parti sotterranee delle piante (radici e bulbi) sono le più consumate (39%), seguite dai frutti carnosi (21%)

Tabella 6 possibile composizione della dieta del Cinghiale in funzione della stagione (Toso et al., n.d.).

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% 1 8 1 7 17 6 39 21

Funghi Mais Animali

Frutti silvestri Parti verdi Humus

Radici Frutti carnosi

Grafico 1 Composizione media della dieta del Cinghiale nelle Alpi francesi (Baubet et al., 2004).

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- 37 - e dalle parti aeree (parti verdi) (17%); l’humus, i frutti silvestri e il mais usato da esca costituiscono meno del 10% ciascuno della dieta. La porzione più scarsa di cibo ingerito è rappresentata dalla componente animale (1%) e dai funghi (1%).

Per quanto riguarda l’impatto al suolo l’azione di disturbo si ripercuote sulle comunità vegetali in funzione della capacità di reazione al disturbo delle singole specie (Kozlowski, 1999).

La tabella sottostante elenca alcune piante capaci di diffondersi maggiormente nel caso che il disturbo sia dovuto al compattamento o al grufolamento (Tomei, 2011).

Inoltre, mentre una blanda attività di rooting può migliorare le condizioni del suolo e dell’ecosistema (Barrios-Garcia & Ballari, 2012; F Reimoser & Putman, 2010), recenti studi hanno evidenziato che un’attività intensa di grufolamento causa un impatto negativo sulla fertilità del suolo (Bondi et al., 2015; Pistoia et al., 2012); ciò dipende da un’accelerazione del turnover della sostanza organica del suolo, che altera le principali attività microbiche ed ossida velocemente la sostanza organica, limitando la protezione del suolo dall’erosione.

Tabella 7 Elenco di piante diffuse su terreno soffice (grufolato) e su terreno compatto (sentierato) (Tomei, 2015).

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Seguendo lo studio di Pistoia & Ferruzzi (Aspa, 2009), le tipologie di impatto e/o di danno determinate dal Cinghiale possono essere distinte e ripartite come segue:

- Grufolamento o “effetto rooting”

Il grufolamento o “rooting” consiste nel sommovimento degli orizzonti superficiali del terreno, con la formazione di assolcature, provocato dagli animali utilizzando il grifo a mo’ di aratro. Il grufolare degli animali è dovuto a molti fattori: può essere motivato sia dall’attività "esplorativa" per aumentare il grado di informazioni sull’ambiente circostante sia scaturire dall’appetito che porta l’animale alla ricerca delle risorse disponibili nel terreno. Il grufolamento, infatti, non viene provocato solo da stimoli di fame, ma

rappresenta un vero e proprio comportamento atto a soddisfare gli istinti

naturali; alcune

osservazioni hanno evidenziato che il grufolamento viene esercitato intensamente anche quando gli animali ricevono un’alimentazione ad libitum.

Il rooting viene considerato in grado di determinare un elevato impatto ambientale, poiché provoca gravi danni che possono essere così distinti: “danni diretti” comprensivi del degrado della cotica erbosa, della rottura della lettiera e dei danni alla fitocenosi per la distruzione dell’apparato radicale;

Figura 36 Campo "arato" dai cinghiali. [Google Images]

Figura 37 “Grufolata” in un felceto in località Sant'Antonio, Parco nazionale delle Cinque Terre.

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- 39 - “danni indiretti” provocati da altri fattori, ma predisposti dall’attività del Cinghiale, sono quelli di tipo idrometeorico su territori declivi. I solchi nel terreno, i danni all’apparato radicale alle piante arboree e arbustive, ma soprattutto la mancanza di inerbimento rendono la superficie del terreno particolarmente vulnerabile all’azione erosiva delle piogge intense.

Il rooting praticato dal Cinghiale esclusivamente per la ricerca di rizomi, tuberi, invertebrati arreca danni alle coltivazioni, ma anche al sottobosco, alla rinnovazione forestale e alle plantule che possono essere scalzate, anche se non ingerite.

È spesso accompagnato dal consumo di semi eduli (ghiande, castagne, faggiole) e quindi causa la riduzione della capacità riproduttiva forestale; inoltre danneggi e scalza organi ipogei (bulbi, rizomi o tuberi, ad es. orchidee, ciclamini) causandone la morte (Riga et al., 2011).

Figure 38 e 39 Segni di rooting e scalzamento di Asphodelus sp. in Corsica.

Figura 40 Grufolamento diffuso presso uno stagno temporaneo mediterraneo. Località Campo Mezzano, Corsica, aprile 2015. Foto L. Sorba (OEC).

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- Calpestamento del terreno

I cinghiali, come tutti i suini, sogliono muoversi lungo percorsi preferenziali, danneggiando il suolo e la cotica erbosa con l’eccessivo calpestio. Il compattamento riduce la porosità e la permeabilità del terreno, con conseguenze idrogeologiche particolarmente evidenti lungo i declivi. Inoltre, i sentieramenti causati dai frequenti spostamenti degli animali modificano il reticolo idrografico superficiale delle acque di scorrimento (Assouline, Tessier, & Tavares-Filho, 1997) e, nei terreni instabili, il ruscellamento che ne consegue incentiva l’erosione del terreno e i dissesti.

- Scortecciamento

Lo scortecciamento è provocato dal Cinghiale tramite la brucatura delle tenere cortecce di giovani piante, ma soprattutto quando, dopo avere effettuato bagni di fango, si sfrega contro i tronchi degli alberi per liberarsi dagli ectoparassiti. Questo comportamento provoca notevoli danni sia per la rottura e l’abbattimento delle piante di diametro ridotto che per la distruzione della corteccia degli alberi di grandi dimensioni causata dall’abrasione. Lo scortecciamento delle piante rappresenta un danno molto

grave, poiché gli alberi incorrono in una crescita stentata e al deperimento organico.

Figura 43 Un grattatoio su Abete rosso.

Figura 42 I sentieramenti animali modificano il reticolo idrografico superficiale e accelerano i processi erosivi. Figura 41 Un sentieramento (trattoio) riconoscibile per

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- Scavo nel terreno o insoglio

I cinghiali usano fare bagni fango per trovare refrigerio durante l’estate e per liberarsi dai parassiti annidati tra le setole; perciò scavano, soprattutto nei terreni poco compatti, delle buche grosse e profonde, riempite di acqua piovana. Questo effetto del comportamento danneggia soprattutto gli ambienti boschivi, perché provoca oltre che alla distruzione della superficie del terreno, quella dell’apparato radicale delle piante circostanti. Il danno è stato riscontrato e studiato soprattutto negli USA dove sono presenti numerosi suini selvatici, capaci di effettuare degli scavi di notevoli dimensioni in aree boschive e su pascoli, spesso nelle vicinanze di stagni e ruscelli.

Il comportamento è dovuto sia alla ricerca di cibo che per difendersi dal caldo e dai parassiti durante i mesi estivi. Lo scavo, oltre a danneggiare la cotica erbosa, le piante arboree e gli arbusti, altera gli habitat degli animali che vivono sopra o sotto terra: anfibi, rettili, mammiferi e uccelli nidificanti. I detriti e il terreno di scavo possono inoltre essere dilavati dalle acque correnti e peggiorarne la qualità.

(Ferruzzi & Pistoia, 2009)) descrivono una serie di difese adottate dalle piante per evitare la “aggressione” degli erbivori. In molti casi le reazioni vegetali condizionano a tal punto gli animali da modificarne l’appetibilità che si riflette sulla fitness delle diverse specie.

Figura 44 Insoglio di Cinghiale in stagno mediterraneo temporaneo della Corsica. Località Pietralba. Gennaio 2008. Foto di L. Sorba (OEC).

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