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Il rischio infettivo nella sostituzione protesica di anca e ginocchio. Creazione di un nuovo score: ST.R.I.P.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in

Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia

Il rischio infettivo nella sostituzione protesica di anca e

ginocchio. Creazione di un nuovo score: ST.R.I.P.

Candidato:

Alberto MORELLI

Anno Accademico 2016/2017

Relatore:

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INDICE

RIASSUNTO ... 4

CAPITOLO 1: ANATOMIA E BIOMECCANICA DELL’ARTO INFERIORE ... 6

1.1 Anatomia di bacino, femore e gamba ... 6

1.2 L’articolazione dell’anca ... 11

1.3 L’articolazione del ginocchio ... 13

1.4 La biomeccanica articolare di anca e ginocchio ... 16

CAPITOLO 2: PATOLOGIA ARTICOLARE ... 21

2.1 Patologia articolare infiammatoria ... 21

2.2 Patologia articolare non infiammatoria ... 22

2.3 Le conseguenze di una patologia articolare avanzata ... 28

CAPITOLO 3: LA PROTESICA D’ANCA E DI GINOCCHIO ... 31

3.1 Evoluzione storica degli impianti ... 31

3.2 Protesi d’anca: componenti e tipologie... 38

3.3 Protesi di ginocchio: componenti e tipologie ... 42

3.4 Indicazioni all’intervento di protesi ... 46

3.5 L’epidemiologia ed il successo dell’intervento ... 49

3.6 Cause dei fallimenti degli impianti protesici ... 54

3.6.1 Aspetti epidemiologici ... 54

3.6.2 Classificazione eziologica ... 55

CAPITOLO 4: L’INFEZIONE PERIPROTESICA ... 60

4.1 Epidemiologia ... 60

4.2 Classificazione ... 61

4.3 Patogenesi ... 62

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4.5 Manifestazioni cliniche ... 64

4.6 Diagnosi ... 64

4.7 Il ruolo dei fattori di rischio nell’infezione periprotesica ... 66

CAPITOLO 5: L’IMPORTANZA DELLA PREVENZIONE NELL’INFEZIONE

PERIPROTESICA E L’ELABORAZIONE DI UN NUOVO SCORE

PREDITTIVO ... 74

5.1 Introduzione ... 74

5.2 Materiali e metodi ... 75

5.3 Risultati e Discussione ... 76

5.4 Conclusioni... 84

BIBLIOGRAFIA ... 86

RIASSUNTO

L’intervento di sostituzione protesica di anca e di ginocchio rappresenta oggigiorno una delle pratiche chirurgiche più diffuse al mondo. Ripristinare la fisiologica motilità di un'articolazione permette al paziente affetto da degenerazione artrosica di non perdere o di riconquistare la deambulazione allontanando la temibile complicanza della sindrome da allettamento.

Dai primi anni ‘60 quando per la prima volta Dr Charnely propose un rudimentale prototipo di protesi d'anca, l’avanzamento degli standard nell’ambito della tecnica chirurgica, della qualità dei materiali impiegati e dei livelli di assistenza anestesiologica hanno permesso l'impiego della sostituzione protesica di Anca e Ginocchio in un sempre più ampio numero di pazienti. Sotto la spinta di un sempre più elevato tasso di successo, si è assistito all'aumento esponenziale del numero di interventi; alcuni lavori scientifici hanno ipotizzato un incremento nel periodo

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5 2005-2030 delle operazioni svolte negli Stati Uniti, del 174% per gli interventi di artroprotesi totale di anca e del 673% per quelli di ginocchio.

Tuttavia, il fallimento di un impianto protesico rappresenta una temibile complicanza che spesso obbliga il paziente a un iter diagnostico-terapeutico molto lungo e gravoso quoad vitam e quoad valetudinem oltre a rappresentare una voce sempre più importante della spesa globale sanitaria.

L’infezione periprotesica, seconda causa di fallimento, con incidenza intorno al 2%, è la complicanza più temuta per il Paziente e per il Chirurgo Ortopedico. Al fine di non veder aumentare parallelamente al numero di interventi chirurgici il numero di complicanze infettive, la comunità scientifica ha rivolto sempre più attenzione alla prevenzione. Strategia fondamentale di Prevenzione è sicuramente l'analisi dei fattori di rischio.

È scopo di questa tesi descrivere il procedimento analitico dei fattori di rischio che ha portato alla creazione dello score di Stratificazione di rischio di infezione periprotesica di anca e ginocchio (ST.R.I.P.). Si riportano così i dati preliminari del processo di validazione del suddetto score attraverso applicazione retrospettiva dello stesso su 25 pazienti con diagnosi di infezione periprotesica.

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6

CAPITOLO 1: ANATOMIA E

BIOMECCANICA DELL’ARTO INFERIORE

1.1 Anatomia di bacino, femore e gamba

Anatomia del bacino

L’osso iliaco - o emibacino - è un osso piatto, pari e simmetrico che deriva dalla fusione delle tre ossa della cintura pelvica primitivamente divise: ileo, ischio e pube. L’ileo ha forma irregolarmente quadrilatera e presenta una faccia interna, una faccia esterna e quattro margini. La faccia esterna ospita al centro una profonda cavità pressoché sferica detta acetabolo. 1

Essa è delimitata da un lembo osseo circolare, il ciglio cotiloideo o margine dell’acetabolo, ed è interrotto in tre punti, corrispondenti ai punti di fusione dei primitivi abbozzi ossei: il più evidente è quello posto tra ischio e pube e viene detto incisura dell’acetabolo. Solamente una porzione della superficie interna della cavità acetabolare è destinata all’articolazione, cioè la porzione liscia più periferica che prende il nome di faccia semilunare, mentre la porzione centrale quadrilatera più profonda è la fossa dell’acetabolo e contiene tessuto adiposo e il legamento rotondo. La faccia esterna dell’emibacino ospita, superiormente all’acetabolo, una vasta superficie piana, la faccia glutea, percorsa da tre linee, le linee glutee anteriore, posteriore e inferiore. Inferiormente all’acetabolo si trova il forame otturatorio delimitato dai corpi e dai rami dell’ischio e del pube. La faccia interna dell’osso iliaco è divisa in due porzioni dalla linea arcuata o linea innominata; al di sopra vi è la fossa iliaca che accoglie il muscolo omonimo.

Posteriormente all’origine della linea arcuata è presente una faccetta articolare piana, la faccia auricolare dell’osso dell’anca. Posteriormente ad essa prendono origine dalla tuberosità ischiatica i legamenti sacroiliaci posteriori. Il margine anteriore mostra dall’alto in basso i seguenti elementi: due protuberanze separate da un incisura, le spine iliache superiore e inferiore; un incisura per il passaggio del muscolo ileopsoas; una cresta smussa detta eminenza ileopettinea, sulla quale si inserisce la benderella ileopettinea; la superficie pettinea per l’inserzione del

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7 muscolo omonimo, la quale termina formando una cresta tagliente detta cresta pettinea; ed infine presenta una protuberanza che prende il nome di tubercolo pubico, destinata all’inserzione del legamento inguinale.

Il margine posteriore mostra nella sua parte superiore due spine separate da un’incisura, cioè le spine iliache posteriori superiore e inferiore. Inferiormente si trova la grande incisura ischiatica delimitata più in basso dalla spina ischiatica, che a sua volta forma il margine superiore della piccola incisura ischiatica. Al di sotto di essa si trova la tuberosità ischiatica. Il margine superiore è detto cresta iliaca, ed è delimitato da un labbro esterno e da un labbro interno. Il margine inferiore, comincia posteriormente con la tuberosità ischiatica e termina in avanti con una faccetta articolare, la faccia della sinfisi pubica che si andrà ad articolare con la faccia omologa dell’emibacino controlaterale. 2

Anatomia del femore

Il femore è l’osso che costituisce lo scheletro della coscia. Esso è classificato come osso lungo ed è costituito da un corpo e da due estremità prossimale e distale che si articolano con bacino e tibia.

Il corpo del femore, detto anche diafisi, presenta una convessità anteriore ed ha una sezione prismatica triangolare; presenta quindi tre facce con superficie liscia: una faccia anteriore, una posterolaterale e una posteromediale che sono separate dai margini laterale, mediale e posteriore. Il margine posteriore, a differenza degli altri due, è rugoso, ed è detto linea aspra lungo la quale si trova il foro nutritizio. La linea aspra è costituita da un labbro laterale e uno mediale, accostati nella parte centrale del corpo e divergenti in prossimità delle estremità. Nella parte prossimale, la biforcazione laterale della linea aspra costituisce la tuberosità glutea dove si inserisce il muscolo grande gluteo; la biforcazione mediale invece è detta linea pettinea dove si va ad inserire il muscolo omonimo. Nella parte distale, le biforcazioni laterale e mediale si continuano con le linee sopracondiloidee laterale e mediale che finiscono a livello degli epicondili dell’estremità distale a delimitare la faccia poplitea2.

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8 L’estremità prossimale del femore presenta la testa del femore, un’eminenza a forma di segmento di sfera ricoperta da cartilagine ialina che si articola con l’acetabolo dell’osso dell’anca. Nella testa è presente una porzione priva di cartilagine, la fossetta della testa, su cui si inserisce il legamento della testa del femore. La testa termina in corrispondenza del collo anatomico che ha forma di segmento cilindrico appiattito. L’asse della testa e del collo ha un angolo di torsione anteriore di circa 12° e forma un angolo di circa 130° con l’asse del corpo del femore. Alla base del collo sono presenti il grande trocantere superolateralmente e il piccolo trocantere inferomedialmente. I trocanteri sono uniti anteriormente dalla linea intertrocanterica e posteriormente dalla cresta intertrocanterica; medialmente al grande trocantere si trova la fossa trocanterica. Il confine tra diafisi e epifisi è dato dal collo chirurgico che si trova subito distalmente al piccolo trocantere. 2

L’estremità distale del femore è formata da due grosse masse convesse ovalari a maggior asse anteroposteriore, i condili laterale e mediale che si articolano con la tibia e, in avanti, continuano con la faccia patellare per l’articolazione con la patella. Posteriormente, i condili sono separati dalla fossa intercondiloidea, una profonda depressione che è a sua volta separata dalla faccia poplitea per mezzo della linea intercondiloidea. Sopra i condili si possono vedere due eminenze, l’epicondilo laterale e mediale che danno inserzione a legamenti; superiormente all’epicondilo mediale è presente un rilievo, il tubercolo dell’adduttore, sul quale si inserisce il muscolo grande adduttore. Tra il condilo e l’epicondilo laterale è presente il solco popliteo per l’inserzione del muscolo omonimo2.

Anatomia della tibia

La tibia è l’osso lungo che costituisce la parte anteromediale dello scheletro della gamba. Presenta in alto una leggera convessità mediale, seguita in basso da una convessità laterale. È formata da un corpo e due estremità, prossimale e distale.2

Il corpo ha forma prismatico triangolare e presenta le tre facce laterale, mediale e posteriore divise dai tre margini anteriore, mediale e interosseo.

La faccia laterale in alto è concava per poi farsi convessa in basso dove volge anteriormente. La faccia mediale corrisponde alla cute ed è liscia e convessa. La

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9 faccia posteriore è anch’essa liscia e convessa e, in alto, presenta una linea obliqua detta linea del muscolo soleo al di sotto della quale è visibile il foro nutritizio. Il margine anteriore presenta nella parte superiore la tuberosità tibiale su cui si inserisce il legamento patellare; è smusso nella sua parte prossimale e distale, mentre nella parte centrale si fa tagliente. Il margine mediale è poco pronunciato. Il margine interosseo è tagliente e dà inserzione alla membrana interossea.

L’estremità prossimale della tibia è molto voluminosa ed è estesa sul piano trasversale con i condili laterale e mediale. Il condilo mediale è il più voluminoso dei due. La faccia prossimale dei due condili rivestita da cartilagine ialina costituisce la faccia articolare superiore che si rapporta con i condili femorali. Tra le facce superiori dei condili è presente l’eminenza intercondiloidea, un rilievo fatto dai due tubercoli intercondiloidei, laterale e mediale. Davanti e dietro all’eminenza sono presenti due superfici triangolari, le aree intercondiloidee, anteriore e posteriore. 2

Le superfici superiori dei due condili assieme alla regione intercondiloidea formano il piatto tibiale. La superficie articolare di entrambi i condili è concava, soprattutto centralmente. La superficie superiore del condilo mediale ha forma ovale e supporta maggior peso rispetto alla controparte laterale. La superficie superiore del condilo laterale è invece più circolare. La superficie posteriore del condilo mediale ospita un solco orizzontale per parte dell’inserzione del muscolo semimembranoso, mentre il condilo laterale ha una faccia circolare per l’articolazione con la testa della fibula.3

L’estremità distale della tibia è più piccola di quella prossimale. Si continua medialmente e in basso col malleolo mediale. Presenta in basso la faccia articolare inferiore che corrisponde alla troclea dell’astragalo, una superficie concava in senso anteroposteriore divisa in due versanti da una cresta sagittale. La superficie articolare si prolunga sulla faccia laterale del malleolo dove costituisce la faccia articolare del malleolo mediale. Sulla faccia mediale del malleolo è situato il solco malleolare per l’inserzione dei tendini di muscoli flessori. Sulla faccia laterale dell’estremità distale della tibia, è presente l’incisura fibulare per l’articolazione con la fibula.2

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10 Anatomia della fibula

La fibula, o perone, è l’osso lungo che costituisce la porzione laterale dello scheletro della gamba. È molto più esile della tibia.

Il corpo della fibula ha forma prismatica triangolare; presenta quindi tre facce, laterale, mediale e posteriore, separate da tre margini molto acuti: anteriore, posteriore e interosseo; su quest’ultimo si inserisce la membrana omonima. La faccia laterale è liscia e smussa. La faccia mediale presenta la cresta mediale, un rilievo longitudinale che continua con il margine interosseo. La faccia posteriore è convessa superiormente e piana inferiormente. 2

L’estremità prossimale della fibula si configura come un’escrescenza arrotondata, la testa, che termina superiormente con una sporgenza detta apice della testa; medialmente è presente la faccia articolare della testa per il rapporto col condilo laterale della tibia. Il collo è un restringimento della testa situato al limite col corpo. L’estremità distale della fibula presenta un rilievo, il malleolo laterale. Superiormente, la faccia mediale del malleolo si articola con l’incisura fibulare della tibia; inferiormente, invece presenta la faccia articolare del malleolo laterale che prende rapporto con la faccia laterale dell’astragalo. Dietro alla faccia articolare, è presente la fossa del malleolo laterale su cui si inserisce il legamento talofibulare posteriore. Sulla faccia laterale del malleolo è visibile il solco malleolare al livello del quale passano i tendini dei muscoli peronieri.

Anatomia della rotula

La patella (o rotula) è un grosso osso sesamoide presente nello spessore del tendine del muscolo quadricipite femorale. È un osso breve dalla forma triangolare costituito da una faccia anteriore, una faccia articolare (o posteriore), una base superiore e un apice inferiore.

La faccia anteriore, dotata di numerosi solchi verticali, è convessa e corrisponde alla cute. La faccia articolare, divisa da una cresta verticale in due semifacce, è rivestita da cartilagine per il rapporto con la faccia patellare del femore. La base della patella dà inserzione al tendine del muscolo quadricipite femorale, mentre l’apice al legamento patellare. 2

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1.2 L’articolazione dell’anca

Figura 1: Rappresentazione grafica dell’anatomia dell’articolazione dell’anca

Si tratta di un’enartrosi a solido incastro formata dall’acetabolo dell’osso dell’anca e dalla testa del femore. 2

La testa del femore corrisponde a circa 2/3 di sfera ed è rivestita da cartilagine ialina. La cavità dell’acetabolo è meno ampia, ma è dotata di un labbro acetabolare che estende la cavità stessa e passa a ponte sopra l’incisura dell’acetabolo costituendo il legamento trasverso dell’acetabolo. La cavità dell’acetabolo entra in articolazione con la testa del femore solo per mezzo della faccia semilunare. La parte corrispondente alla fossa dell’acetabolo è riempita da un cuscinetto adiposo e non entra in articolazione.

La capsula articolare, i legamenti di rinforzo e il legamento della testa del femore rappresentano i mezzi di unione dell’articolazione. Si tratta di un’articolazione molto stabile, tanto da essere quella che più difficilmente va incontro a lussazione. La capsula articolare si fissa sul contorno dell’acetabolo e sul labbro acetabolare; mentre sul femore si fissa, davanti, sulla linea intertrocanterica e, indietro, tra i due

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12 terzi prossimali e il terzo distale del collo anatomico. Sulla superficie esterna della capsula, si visualizzano tre legamenti di rinforzo: il legamento ileofemorale, il più esteso, prende origine dalla porzione iliaca del contorno dell’acetabolo e giunge al femore, decorrendo sulla faccia anteriore della capsula, per poi dividersi nel fascio trasverso che raggiunge il margine anteriore del grande trocantere, e nel fascio discendente che raggiunge la parte più distale della linea intertrocanterica. Il legamento pubofemorale parte dal tratto pubico del margine dell’acetabolo e arriva davanti al piccolo trocantere. Il legamento ischiofemorale decorre sulla faccia posteriore della capsula articolare congiungendo la parte ischiatica del margine dell’acetabolo alla fossa trocanterica. 2

Tutti i tre legamenti di rinforzo irrobustiscono la capsula e prevengono un’eccessiva ampiezza di movimento dell’articolazione. Di questi, il legamento ileofemorale è il legamento più robusto. In posizione eretta previene che il tronco cada all’indietro senza la necessità di intervento muscolare. In posizione seduta diventa rilassato così da permettere alla pelvi di inclinarsi all’indietro. Il legamento ileofemorale previene inoltre l’eccessiva adduzione e rotazione interna del bacino. Il legamento ileofemorale previene la rotazione interna mentre quello pubofemorale contiene l’abduzione e la rotazione interna dell’anca. 4

La zona orbicolare è un elemento di fissaggio del femore all’acetabolo costituito da fibre della capsula poste profondamente ai precedenti legamenti che formano un’ansa che va a circondare il collo del femore.

Il legamento della testa del femore congiunge la fossa dell’acetabolo alla fossetta della testa del femore passando sotto al legamento trasverso dell’acetabolo. Esso non è importante come legamento, ma spesso dà passaggio al ramo acetabolare dell’arteria otturatoria la quale può garantire flusso sanguigno sufficiente a evitare la necrosi avascolare della testa del femore quando l’apporto sanguigno proveniente dalle arterie circonflesse laterale e mediale viene compromesso ad esempio durante la frattura del collo del femore 5.

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1.3 L’articolazione del ginocchio

L’articolazione del ginocchio è una troclea (o ginglimo angolare) che collega lo scheletro della coscia a quello della gamba e rappresenta l’articolazione più ampia e complessa del corpo umano. È costituita dal femore, con i condili e faccia patellare, dalla tibia, con la faccia articolare superiore, e dalla patella, con la faccia articolare. 2

La troclea femorale è formata dalla superficie convessa dei condili che anteriormente convergono nella faccia patellare, mentre posteriormente divergono e sono divisi dalla fossa intercondiloidea.

La faccia articolare superiore della tibia consiste nelle due cavità glenoidee dei condili tibiali divise dall’eminenza intercondiloidea. La patella è situata al di sopra della tibia, cui è fissata dal legamento patellare, ed è posta al davanti all’estremità distale del femore con il quale si articola.

Tra le superfici articolari di tibia e femore sono posti due menischi fibrocartilaginei col ruolo di rendere concordanti suddette superfici dato che le cavità glenoidee sono più pianeggianti rispetto ai condii femorali. In sezione i menischi hanno

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14 forma triangolare con base esterna aderente alla capsula articolare, apice rivolto internamente verso la cavità articolare. 2

Il menisco laterale ha la forma di un cerchio quasi completo che si interrompe medialmente al livello dell’inserzione all’eminenza intercondiloidea dove aderisce anche ai legamenti crociati anteriore e posteriore. La parte periferica del menisco aderisce al legamento collaterale fibulare. Due fasci, i legamenti meniscofemorali anteriore e posteriore dipartono dal menisco laterale e giungono al condilo femorale mediale. Il menisco mediale è più ampio di quello laterale. Ha forma di semiluna e si inserisce con le sue estremità alle aree intercondiloidee anteriore e posteriore.

Le estremità anteriori dei due menischi si congiungono per mezzo del legamento trasverso del ginocchio. Questo legamento ha spessore variabile e talvolta è assente. Il suo ruolo non è esattamente stabilito, ma si pensa che aumenti l’aderenza anteriore dei menischi e che aumenti la resistenza alla tensione creata nelle fibre circonferenziali longitudinali dei menischi quando sotto carico 6

La capsula articolare e numerosi legamenti di rinforzo sono i mezzi di questa complessa articolazione.

La capsula fibrosa si fissa ad alcuni millimetri dei capi articolari; davanti, si inserisce sopra la faccia patellare, lateralmente e medialmente, al di sotto degli epicondili, indietro, sopra ai condili e nella fossa intercondiloidea. Aderisce alla tibia subito al di sotto del margine della cartilagine articolare. Indietro e lateralmente, la capsula è piuttosto tesa e densa mentre davanti, dove si fissa al contorno della patella, è più lassa.

La membrana sinoviale riveste internamente la membrana fibrosa e si fissa sul contorno della cartilagine articolare; si interrompe a livello dei menischi e si sdoppia per l’adesione degli stessi alla membrana fibrosa. Superiormente la membrana sinoviale si porta tra il femore e il muscolo quadricipite femorale dando origine alla borsa sovrapatellare. Posteriormente, la sinoviale circonda i legamenti crociati che sono quindi intracapsulari ma al di fuori della cavità articolare.

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15 Esistono altre borse sinoviali, non comunicanti con la cavità articolare: la borsa prepatellare che si dispone tra la cute e la patella, e la borsa infrapatellare profonda tra il legamento patellare e la tibia. Superiormente a quest’ultima borsa, tra il legamento patellare e la rima articolare, è presente un cuscinetto di tessuto adiposo, il corpo adiposo infrapatellare, dalla cui parte superiore origina la piega sinoviale infrapatellare che lo fissa alla fossa intercondiloidea.2

Diversi legamenti rinforzano la membrana fibrosa anteriormente, ai lati e posteriormente.

Il legamento patellare è un robusto cordone fibroso appiattito disposto tra il margine inferiore della patella e la tuberosità tibiale; rappresenta il prolungamento in basso del tendine del muscolo quadricipite femorale in cui la patella è inserita come osso sesamoide. I retinacoli laterale e mediale della patella sono due lamine fibrose che prendono origine dalle aponeurosi dei muscoli vasti laterale e mediale e, passano lateralmente alla patella per poi inserirsi ai lati della tuberosità tibiale. Il legamento collaterale tibiale si presenta come una larga lamina che diparte dall’epicondilo mediale del femore per poi inserirsi sulla faccia mediale della tibia aderendo alla capsula articolare e al menisco mediale.

Il legamento collaterale fibulare si presenta come un cordone fibroso che diparte dall’epicondilo laterale del femore per poi inserirsi sulla testa della fibula senza aderire alla capsula articolare.

Il legamento popliteo obliquo rappresenta l’espansione del tendine del muscolo semimembranoso sulla faccia posteriore della capsula. Si porta superolateralmente, verso la porzione della capsula che riveste il condilo laterale del femore.

Il legamento popliteo arcuato origina dall’estremità laterale del legamento precedente e termina sulla testa della fibula dopo aver incorociato il tendine del muscolo popliteo.

I legamenti crociati sono i mezzi di unione più importanti tra il femore e la tibia. Consistono in due robusti cordoni fibrosi che si incrociano all’interno della fossa intercondiloidea del femore, all’interno della capsula ma all’esterno della cavità articolare; Dipartono dalle aree intercondiloidee anteriore e posteriore e si

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16 inseriscono alla faccia interna dei condili. Il legamento crociato anteriore prende origine dall’area intercondiloidea anteriore della tibia e termina sulla faccia mediale del condilo laterale del femore.2

Il legamento crociato posteriore, più robusto di quello anteriore, origina invece dall’area intercondiloidea posteriore della tibia e si inserisce sulla faccia laterale del condilo mediale del femore.

1.4 La biomeccanica articolare di anca e ginocchio

I movimenti dell’articolazione dell’anca

L’articolazione dell’anca ha il ruolo di orientare l’arto inferiore in tutte le direzioni dello spazio, quindi è caratterizzata da tre assi, trasversale, anteroposteriore e verticale attorno ai quali si effettuano i vari movimenti articolari. 7

• Movimenti di flessione ed estensione della coscia: si effettuano sul piano sagittale lungo l’asse trasversale che passa per i centri delle teste femorali. La flessione è il movimento che porta la parte anteriore della coscia verso il tronco. La flessione attiva dell’anca e la presenza del ginocchio esteso sono fattori che limitano la flessione dell’’anca stessa. L’estensione è il

movimento che porta l’arto inferiore in un piano posteriore a quello frontale passante per l’articolazione. È un movimento assai più limitato della flessione a causa dalla tensione della parte anteriore della capsula articolare, in particolare del fascio verticale del legamento ileo-femorale. L’estensione attiva e la flessione del ginocchio sono anche in questo caso fattori limitanti.

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17 • Movimenti di abduzione e adduzione

della coscia: si effettuano sul piano frontale attorno ad un asse sagittale. Durante il movimento di abduzione, che arriva al massimo a 90°, si porta l’arto esternamente al piano di simmetria del corpo e la testa femorale si muove dall’alto verso il basso. Il movimento risulta più ampio se la

coscia è flessa. L’abduzione è limitata dal legamento pubo-femorale, dal legamento ileo-femorale, dai muscoli adduttori e dal contatto tra il collo femorale e ciglio cotiloideo. Durante il movimento di adduzione della coscia, si porta l’arto in dentro, avvicinandolo al piano di simmetria del corpo e la testa del femore si muove verso l’alto. Dato che gli arti inferiori nella posizione indifferente sono a contatto l’uno con l’altro, non si può parlare di “movimento di adduzione puro”. Tuttavia, partendo da una posizione di abduzione, esistono movimenti di adduzione relativa quando l’arto inferiore si porta verso l’interno. Il movimento è limitato dalla tensione del fascio obliquo del legamento ileo-femorale e dal legamento rotondo del femore.

• Il movimento di rotazione della coscia esterna o interna: avviene intorno all’asse longitudinale del femore e porta la punta del piede rispettivamente in fuori e in dentro. La rotazione esterna della coscia si arresta per la tensione del fascio

obliquo del legamento ileofemorale. La rotazione interna è limitata se la coscia è estesa, dalla tensione del fascio verticale del legamento ileo-femorale e se, la coscia è flessa, dalla tensione del legamento ischio femorale.

Figura 5: Movimenti di rotazione esterna e interna della coscia

Figura 4: Movimenti di abduzione e adduzione della coscia

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18 • Il movimento di circonduzione della

coscia è formato dalla combinazione di movimenti elementari attorno ai tre assi. In circomduzione massima l’asse dell’arto va a descrivere un cono col

vertice posto al centro

dell’articolazione. Questo cono non è regolare a causa della differente

ampiezza dei movimenti

dell’articolazione nei diversi piani dello spazio; l’estremità dell’arto non va così a descrivere un cerchio, bensì una curva sinuosa.

I movimenti del ginocchio

Il movimento di flessoestensione: rappresenta il pressoché unico grado di libertà dell’articolazione che prevede l’allontanamento o l’avvicinamento dell’estremità dell’arto dalla sua radice. Lavora quasi sempre sotto l’azione della forza di gravità imposta dal peso del corpo sovrastante.

Si effettua sul piano sagittale lungo un asse trasversale che attraversa orizzontalmente i condili femorali.

Mediante l’estensione si allontana la superficie posteriore della gamba dalla superficie posteriore della coscia. Non si può parlare propriamente di estensione assoluta a partire dalla posizione di riferimento in cui l’asse della gamba è situato nel prolungamento dell’asse della coscia anche se è possibile effettuare soprattutto

Figura 6: Movimento di circonduzione della coscia

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19 passivamente una estensione di 5-10°. L’estensione relativa è invece il movimento che completa l’estensione del ginocchio a partire da qualsiasi posizione di flessione.

Mediante la flessione invece si avvicina la faccia posteriore della gamba alla faccia posteriore della coscia. La flessione attiva ad anca estesa arriva a 120°. La flessione passiva può arrivare a 160° e permette il contatto tra tallone e natica.

Durante il movimento di flesso estensione i condili compiono un movimento di scivolamento e allo stesso tempo di rotolamento sulle superfici articolari: nella posizione di massima estensione, i condili iniziano a rotolare senza scivolare, dopodiché lo scivolamento diviene progressivamente predominante tanto che al termine della flessione scivolano senza rotolare. 7

Rotazione assiale del ginocchio:

Oltre alla flessoestensione si può descrivere un secondo tipo di movimento, la rotazione sull’asse longitudinale della gamba. Esso è ottenibile solo quando è la gamba è flessa a causa della conformazione del ginocchio che prevede che l’eminenza

intercondiloidea tibiale si trova incastrata nel fondo della fossa intercondiloidea. In completa estensione l’asse della gamba è sovrapposto all’asse meccanico dell’arto inferiore e la rotazione assiale non si effettua più sul ginocchio, ma nell’anca.

Nella valutazione della rotazione assiale attiva, il ginocchio deve essere flesso all’angolo retto in modo che venga eliminata la rotazione dell’anca, stando il soggetto seduto con le gambe che pendono senza toccare terra.

La rotazione interna porta la punta del piede all’interno. Contribuisce anche al movimento di adduzione del piede.

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20 La rotazione esterna porta la punta all’esterno. Contribuisce anche al movimento di abduzione del piede.

Secondo Fick la rotazione esterna è di 40° mentre quella interna è di 30°.

Nella valutazione della rotazione assiale passiva il soggetto deve essere in decubito prono, con ginocchio flesso ad angolo retto e l’esaminatore fa ruotare il piede portando la punta all’esterno e all’interno. La rotazione passiva è maggiore di quella attiva.

Esiste anche una rotazione assiale automatica in quanto è inevitabilmente connessa coi movimenti di flesso-estensione. Quando il ginocchio si estende, il piede subisce una rotazione esterna, mentre l’opposto accade quando viene effettuato il movimento di flessione. 7

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21

CAPITOLO 2:

PATOLOGIA ARTICOLARE

Stando alle pubblicazioni dell’iniziativa mondiale Bone and Joint Decade, patrocinata dall’Oms, dall’Onu, dalla Banca mondiale e del Vaticano, cui hanno aderito più di 60 governi e molte società scientifiche, le malattie muscolo-scheletriche sono la causa più comune di patologie croniche ad alto potenziale di disabilità rappresentando il 50% delle malattie croniche nei soggetti di età superiore a 65 anni. 8

Le patologie che possono colpire le articolazioni sono numerosissime: possono essere monoarticolari o poliarticolari, simmetriche o asimmetriche, con coinvolgimento solamente articolare oppure sistemico.

Una possibile classificazione suddivide le patologie articolare in due gruppi: 1. Patologia articolare infiammatoria

2. Patologia articolare non infiammatoria

2.1 Patologia articolare infiammatoria

Questo gruppo di patologie è molto ampio ed impone una attenta anamnesi e uno scrupoloso esame obiettivo, con l’ausilio di appropriate indagini di laboratorio e radiografiche per ottenere una corretta diagnosi eziologica.

Le caratteristiche cliniche che suggeriscono una malattia infiammatoria rispetto a una non infiammatoria includono: esordio acuto, presenza di articolazione calda e tumefatta con cute eritematosa, dolore articolare e febbre. Indagini di laboratorio e reperti radiografici suggestivi comprendono leucocitosi, aumento di VES, fluido sinoviale torbido e cellulato, soffusioni dei tessuti molli, erosioni ossee e perdita di cartilagine.

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22 Le patologie articolari infiammatorie si possono dividere in quattro differenti gruppi:

1. Malattie connettivali: artrite reumatoide, artrite idiopatica giovanile, Lupus eritematoso sistemico, sclerodermia, artrite psoriasica, connettivite mista e dermatomiosite-polimiosite.

2. Malattie da cristalli: gotta, pseudogotta, da cristalli di idrossiapatite

3. Malattie da agenti infettivi: artrite batterica, virale, da spirochete, tubercolare e da funghi.

4. Spondiloartropatie sieronegative: spondilite anchilosante, sindrome di Reiter e malattie infiammatorie cronice intestinali

2.2 Patologia articolare non infiammatoria

Questo gruppo di patologie articolari comprende:

1. Patologia degenerativa: l’osteoartrosi 2. Patologia post-traumatica

3. Forme ereditarie / metaboliche / displastiche: emocromatosi, emoglobinopatie, malattie da accumulo lisosomiale, displasia congenita dell’anca

4. Forme tumorali: tumore dell’acetabolo e dell’epifisi prossimale del femore

La patologia articolare di maggior impatto epidemiologico che verrà approfonditamente discussa nella tesi è l’osteoartrosi.

L’osteoartrosi

L'osteoartrosi è una malattia cronica a coinvolgimento articolare, ad eziologia multifattoriale, contraddistinta da lesioni degenerative e produttive a carico delle articolazioni.9

(23)

23 Essa è caratterizzata da dolore, infiammazione e rigidità articolare, come risultante di un interessamento della cartilagine articolare, dell’osso sottostante e dei tessuti molli. 10

L'osteoartrosi, essendo la malattia articolare più comune con una prevalenza in Italia di circa 4,5 milioni di pazienti, rappresenta la principale causa di sostituzione protesica dell’articolazione dell’anca e del ginocchio. Colpisce prevalentemente soggetti con età superiore ai 60 anni (si stima che siano coinvolti più del 50% dei pazienti in questa fascia d’età), massima incidenza per pazienti di età superiore a 75 anni. Nell’adulto è più coinvolto è il sesso femminile. 9 11

L’OMS stima che globalmente il 25% degli adulti al di sopra dei 25 anni soffra di dolore e disabilità associati con questa malattia. 12

Le sedi più comunemente coinvolte dal processo artrosico sono: l'anca, il ginocchio, la colonna e l'articolazione trapezio-metacarpale. Meno frequentemente sono coinvolte le articolazioni interfalangee prossimali, distali, l’articolazione della spalla, del gomito e della caviglia; spesso, in questi ultimi casi, si tratta di forme secondarie a traumi, fratture o esercizio fisico eseguito in maniera scorretta.

911

Esistono diversi metodi classificativi nell’ambito della patologia artrosica. Uno di questi si basa sul movente eziopatogenetico dividendola in primaria o secondaria.

13

L’artrosi primaria o idiopatica si verifica in assenza di un meccanismo eziopatogenetico noto. Nel corso del tempo la cartilagine si riduce progressivamente in virtù di un substrato genetico favorevole o di un sovvertimento dei carichi articolari. Fattori di rischio possono essere ad esempio l’obesità (si consideri che durante la deambulazione si trasmette 5 volte il peso corporeo sul ginocchio, quindi è intuitivo come le articolazioni di ginocchio e anca nei soggetti obesi siano sottoposte a sollecitazioni abnormi) oppure l’uso ripetitivo e continuativo delle articolazioni per cause lavorative e ricreative, come negli

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24 agricoltori (anca) o nei minatori (ginocchio e colonna) o in alcuni sportivi come i calciatori. 9

L’artrosi secondaria presuppone invece fattori noti di tipo locale e generale. Vi si riconoscono forme dovute a malformazioni scheletriche (malallineamenti, displasie congenite articolari), forme secondarie a patologie di tipo osteoarticolare (osteonecrosi asettica, spondiloartrite), forme secondarie a patologie metaboliche ed endocrine (gotta, acromegalia, diabete, iperparatiroidismo, obesità, malattia di Wilson, emocromatosi), forme secondarie a eventi di tipo traumatico (fratture, emartrosi), forme legate a processi infettivi (artrosi settiche), forme dovute a processi infiammatori (come l’artrite reumatoide).

Tra le forme secondarie più comuni che si manifestano a livello dell’anca abbiamo la lussazione congenita dell’anca, l'epifisiolisi, gli esiti di fratture del collo del femore o di lussazione traumatica dell’anca, la coxa plana, l'artrite reumatoide, gli esiti di artrodesi o gli insuccessi di osteotomie e la necrosi settica della testa del femore; mentre per quanto riguarda il ginocchio, ricoprono un ruolo molto importanti i malallineamenti articolari in varismo-valgismo e la presenza di precedenti traumi. 9

L’osteoartrosi può essere classificata anche sulla base di reperti radiologici.

Secondo la classificazione di Kellgren-Lawrence si identificano 5 gradi sulla base della riduzione dello spazio articolare e della presenza di osteofiti.

• Grado 0: non visibili modificazioni in senso artrosico

• Grado 1: dubbio restringimento della rima articolare e possibile minima formazione di osteofiti;

• Grado 2: possibile restringimento dello spazio articolare e formazione limitata di osteofiti

• Grado 3: multiple modeste formazioni osteofitotiche, restringimento visibile dello spazio articolare e sclerosi ossea iniziale non marcata;

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25 • Grado 4: severo restringimento dello spazio articolare con marcata sclerosi

ossea, deformazione ossea e ampia formazione di osteofiti.

La fisiopatologia dell’osteoartrosi prevede uno squilibrio tra processi degradativi e riparativi della cartilagine articolare. Entrano in gioco mediatori dell'infiammazione come citochine, prostaglandine, metalloproteasi e fattori di crescita, che amplificano il danno, portando al coinvolgimento secondario della membrana sinoviale.

Da un punto di vista anatomopatologico si ha un coinvolgimento panarticolare che prevede quindi il coinvolgimento della cartilagine, dell'osso subcondrale e anche della membrana sinoviale. 14

Le alterazioni della cartilagine articolare portano a fibrillazione con distacco di frammenti cartilaginei all’interno del liquido sinoviale scatenando una reazione infiammatoria che amplifica il meccanismo di danno. Macroscopicamente questo danno porta all'assottigliamento della rima articolare fino ad arrivare ad un possibile sfregamento dei capi articolari.

L'osso subcondrale va incontro a processi di sclerosi osteoaddensanti, si ha un aumento del rimodellamento osseo e della vascolarizzazione. Caratteristica è anche la formazione di osteofiti, delle espansioni ossee formate dall’osso subcondrale per migliorare la distribuzione del carico.

L'osteofitosi nasce dunque come meccanismo di protezione da stressor meccanici, salvo poi diventare essa stessa elemento di danno perché l'osteofita va a danneggiare le strutture adiacenti.

Figura 9: Classificazione di Kellgren-Lawrence dell’osteoartrosi

(26)

26 La membrana sinoviale risulta iperemica, ed è caratterizzata dalla presenza di infiltrati, piccoli granulomi e piccoli follicoli.

L'infiammazione della membrana determina accumulo di liquido che va a distendere la cavità articolare, producendo un versamento.

La membrana sinoviale può generare introflessioni che formano pseudocisti subcondrale, o geoidi.

Vi sono alterazioni anche a livello del liquido sinoviale come l'ipercellularità, anche se non è paragonabile a quella delle artriti. 14

L'artrosi dell'anca o coxartrosi è una delle più frequenti modalità di presentazione della patologia degenerativa artrosica.

Secondo uno studio spagnolo del 2008 la prevalenza dell’artrosi d’anca si attesta al 7,4% con maggior interessamento del sesso femminile (8,0%). 15

L’osteoartrosi d’anca viene generalmente diagnosticata con una radiografia in anteroposteriore del bacino che mostrerà ristringimento eccentrico dello spazio articolare, formazione di osteofiti, la presenza di pseudocisti e la presenza di sclerosi subcondrale.

La patologia esordisce con un dolore localizzato alla regione inguinale, che successivamente si propaga alla faccia anteriore o interna della coscia fino a raggiungere il ginocchio. Il dolore artrosico è un

dolore meccanico da carico, alleviato in genere dal riposo, più intenso la sera, assente di notte. L'articolazione può essere calda e tumefatta per presenza di un versamento, più tipicamente nelle fasi più avanzate, dove diventa importante il processo infiammatorio. Si può inoltre avere una rigidità articolare che è caratteristicamente di breve durata, a differenza di quanto accade nelle artriti. Il dolore conseguente al processo artrosico determina limitazione funzionale

Figura 10: Rappresentazione schematica della coxartrosi

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27 dell’anca che colpisce in primis il movimento di intrarotazione, seguito dal movimento di abduzione, extrarotazione, adduzione ed infine flessione. Nei casi più gravi si può arrivare all'anchilosi.16 Caratteristica è inoltre la deambulazione

con zoppia di fuga provocata dal tentativo di abbreviare l’appoggio sull’arto malato. 13

L’artrosi del ginocchio o gonartrosi

Rappresenta la sede più frequentemente coinvolta nell’osteoartrosi con una prevalenza dell’11,1% negli uomini e del 18,1% nelle donne. 17

Tra i fattori principali fattori predisponenti vi sono l’obesità e la deviazione in varismo o valgismo dell’asse femoro-tibiale; essi determinano uno stress sulla cartilagine articolare riducendone lo spessore: ciò causa un ulteriore disassamento che instaura così un circolo vizioso.

La diagnosi di gonartrosi è prevalentemente radiologica: l’esame radiografico sotto carico in anteroposteriore e laterolaterale è l’indagine di imaging d’elezione che mostrerà la formazione di cisti e sclerosi subcondrali, il ristringimento della rima articolare e la presenza di osteofiti, oltre che la presenza di concomitanti malallineamenti. 18

Una caratteristica tipica della gonartrosi in fase precoce è l’appuntimento delle eminenze intercondiloidee tibiali. 19

Da un punto di vista clinico i pazienti affetti possono presentarsi in diversi modi, ma più spesso presentano dolore al ginocchio che può avere un esordio insidioso, spesso protratto da diversi anni. Il paziente riferisce dolore, che insorge tipicamente la mattina e che si affievolisce con la ripresa del movimento, per poi riproporsi durante l’esercizio fisico prolungato.

Al dolore si associa la limitazione funzionale articolare con ripercussioni sulla deambulazione. L’analisi del passo rivela un atteggiamento di tipo antalgico, con

Figura 11: Rappresentazione schematica della gonartrosi

(28)

28 diminuzione della fase d’appoggio dell’arto affetto. Talvolta, nelle fasi tardive in pazienti con concomitante deformità in varo, si può osservare un “cedimento” laterale del femore rispetto alla tibia durante la fase di appoggio dovuto alla lassità del legamento collaterale laterale.

In una prima fase l’obiettività non è eclatante, successivamente il ginocchio può presentarsi tumefatto e lievemente flesso. La palpazione mostra positività della manovra del ballottamento rotuleo e pastosità dei tessuti periarticolari.

È possibile inoltre percepire crepitii alla mobilizzazione passiva assieme a marcata riduzione dei movimenti di flesso-estensione. All’ispezione si può notare nel paziente in posizione eretta la presenza di malallineamenti, più spesso in senso varo.

2.3 Le conseguenze di una patologia articolare avanzata

Una patologia articolare avanzata, a prescindere dalla patogenesi della stessa, porta inesorabilmente a un progressivo deterioramento della qualità di vita del paziente fino alla completa immobilizzazione con tutto ciò che ne consegue.

Inattività Condizione di malattia Aumento della disabilità

Ridotta attività muscolare

Ridotta capacità funzionale del Sistema muscoloscheletrico

Inattività Ridotta capacità funzionale del sistema cardiovascolare e degli altri apparati

Decadimento generale dell’organismo

Figura 12: Schema del decadimento generale nel paziente inattivo

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29 Nel soggetto allettato si innescano infatti tutta una serie di meccanismi che conducono a un decadimento generale delle funzioni dell’organismo attraverso un circolo vizioso innescato dalla inattività.

L’immobilità riduce le riserve funzionali del sistema muscolare, determinando indebolimento e atrofia. L’attività metabolica e l’utilizzo di ossigeno nel muscolo si riducono degradando così anche la capacità funzionale del sistema cardiovascolare; tutto ciò condiziona in negativo il livello di attività del soggetto stesso alimentando il circolo vizioso.

Si viene così a configurare la cosiddetta sindrome da immobilizzazione che generalmente presenta ripercussioni sistemiche. Essa determina in primis alterazioni al sistema osteoarticolare con atrofia muscolare, crampi e osteoporosi da disuso con conseguente aumentato rischio di fratture e ipercalcemia da immobilizzazione. Gli effetti sul sistema cardiovascolare comprendono aumento della frequenza cardiaca a riposo, ipotensione ortostatica e calo della gittata. Le ripercussioni sul sistema respiratorio includono debolezza della muscolatura addominale e respiratoria, diminuzione dei movimenti diaframmatici e toracici, diminuzione dei volumi polmonari con conseguente predisposizione a atelettasia e polmonite. Si hanno conseguenze anche sul sistema gastrointestinale con perdita di appetito, diminuito tasso di assorbimento, aumento del tempo di transito e stipsi. Viene coinvolto l’apparato genitourinario con ritenzione urinaria, calcolosi e ipercalciuria, ed anche il sistema nervoso con difficoltà di concentrazione, disorientamento spazio-temporale, ansia, insonnia e depressione. Si viene così a creare una sindrome che se non adeguatamente prevenuta contribuisce all’aumento di mortalità.20

Tuttavia, la conseguenza più temibile che può far seguito all’allettamento del paziente è la tromboembolia venosa.

La trombosi venosa profonda è un quadro patologico caratterizzato dalla formazione di un trombo ostruttivo all’interno di un vaso venoso; la sua patogenesi è basata sulla la triade di Virchow: stasi venosa, danno endoteliale e

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30 ipercoagulabilità, per cui la trombosi rappresenta il risultato dell’interazione tra componenti vascolari, piastriniche e plasmatiche.21

Il paziente allettato è esposto a due fattori contenuti nella triade di Virchow, ovvero la aumentata coagulabilità del sangue e la stasi venosa (che porta a un danno alle cellule nella tasca valvolare esponendo a sua volta il paziente al terzo fattore della triade di Virchow, ovverosia il danno endoteliale). La stasi venosa nelle estremità inferiori è soprattutto dovuta ad una diminuita attività di pompa muscolare del polpaccio e ad una aumentata pressione ortostatica. Altri fattori che possono contribuire alla stasi sono la chirurgia, l’età, l’obesità, SCC. La formazione

del trombo comincia di solito nelle valvole delle vene profonde della gamba entro una settimana di immobilizzazione. Il 20% dei trombi del polpaccio si estendono alla poplitea e alle vene della coscia e metà di questi embolizzerà ai polmoni minacciando cosi la vita del paziente (la mortalità in questi casi raggiunge il 30% se non si tratta con la terapia anticoagulante22).

Oggi, la sostituzione protesica permette ai pazienti artrosici in stadio terminale un recupero dalla funzionalità articolare consentendo loro di tornare a deambulare e di riprendere le proprie attività quotidiane, scongiurando così l’immobilizzazione cronica.

Figura 13: Rappresentazione della fisiopatologia dell’embolia polmonare

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CAPITOLO 3:

LA PROTESICA D’ANCA E DI GINOCCHIO

Con il termine protesi articolare si fa riferimento a una sostituzione di una o più componenti che formano un’articolazione con componenti artificiali dette protesi.23

L’obiettivo di una protesi è quello di riprodurre un sistema che ripristini per quanto possibile la cinematica fisiologica e che permetta di sopportare i carichi sull’articolazione.

3.1 Evoluzione storica degli impianti

Evoluzione nella protesica dell’anca

I primi tentativi di ricostruzione dell’articolazione dell’anca risalgono al 19 secolo. Negli anni compresi tra il 1885 e il 1890 la scuola francese pubblicò diversi trattati aventi ad oggetto tentativi di ricostruzione dell’articolazione con materiali biologici autologhi come grasso, muscoli o osso decalcificato. 24 I risultati, però,

furono piuttosto deludenti.

Il concetto di “impianto ortopedico” nacque nel 1891 grazie all’intuizione di Themistocles Gluck che permise di impiantare per la prima volta una testa in avorio fissata al femore con viti nickel. 25

Tuttavia, il tentativo a lungo termine si rivelò fallimentare. L’ortopedia “moderna” per la prima volta dovette fare i conti con i problemi della biocompatibilità, della fissazione stabile e della resistenza dei materiali usati.

Nel 20° secolo le scienze mediche ed ingegneristiche, seguendo il concetto di protesi, provarono diverse combinazioni di materiali finalizzate alla ricerca dei giusti elementi per la protesizzazione totale di anca.

(32)

32 Nel 1936 Smith e Petersen crearono una coppa realizzata con materiale non biologico (vetro, celluloide, bakelite, metallo) dando vita a quella che venne definita artoplastica di rimodellamento. 26

Successivamente, nel 1950, i fratelli Judet misero in atto una protesi ad ancoraggio cervicale in poli-Metilmetacrilato (PMMA) e poi in lega CoCrMo. 27

Nel 1954 Thompson e in seguito Moore nel 1957 installarono le prime protesi ad ancoraggio diafisario in lega Cobalto-Cromo-Molibdeno (CoCrMo) fornite di un lungo stelo e che non includevano l’utilizzo di viti e chiodi. 28

Questo esperimento fu riservato solo a pochi candidati a causa della facile rottura dei materiali sotto sforzo e la produzione, sotto attrito, di frammenti bio-incompatibili di piccolo diametro.

Questo esperimento fu riservato solo a pochi candidati a causa della facile rottura dei materiali sotto sforzo e la produzione, sotto attrito, di frammenti bio-incompatibili di piccolo diametro.

Figura 14: coppa acetabolare in materiale

non biologico di Smith&Petersen

Figura 15: protesi ad ancoraggio diafisario proposta

(33)

33 Un grande cambiamento arrivò nei primi anni

’60 quando sir John Charnely mise a punto la metodica dell’ “artoprotesi totale a basso attrito”. 29 Da questo lavoro emersero due

concetti importanti ancora oggi validi e immodificati. 30

Il primo concetto fu quello di basso attrito: minore è l’attrito che si sviluppa fra gli elementi articolari e minore sarà l’usura degli stessi. Egli pensò di mettere in relazione una lega metallica lucidata a specchio e polietilene di peso molecolare ultraelevato.

Il secondo concetto fu quello di garantire una fissazione rigida delle parti all’osso diminuendo in questo modo il continuo insulto meccanico che i micro movimenti della protesi provocavano sull’osso. Realizzò così come mezzo di vincolo meccanico all’osso trabecolare l’uso di un cemento a base di metilmetacrilato e cemento acrilico.

Lo stelo femorale proposto era in lega di Titanio, la testa era in lega CoCr e la parte acetabolare era formata da polietilene ad alta densità.

Gli esiti furono sorprendenti per l’epoca: si passò infatti dal 77% all’ 80% di sopravvivenza. Tuttavia, dopo un follow up di 25 anni si presentarono delle nuove complicanze in quanto l’usura del materiale e quindi la modificazione dei movimenti tridimensionali delle componenti provocava lo sviluppo di coxalgia

Figura 16: Sir John Charnley

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34 ingravescente. Inoltre il polietilene presentava una spiccata induzione dell’attività macrofagica dimostrando all’analisi anatomopatologica un’intensa reazione infiammatoria periprotesica.

Il cemento, che sembrò in un primo momento una novità clamorosa, si rivelò deludente in questa formulazione.

Si mise in evidenza quella che fu chiamata malattia da cemento contraddistinta da una graduale lisi dell’osso periprotesico con susseguente perdita di tenuta dell’impianto.

Per risolvere questo problema la chirurgia ortopedica e l’industria proposero soluzioni che furono dirette sostanzialmente in due direzioni: 31

1. Migliorare le tecniche di cementazione

2. Raggiungere un fissaggio osso-protesi di tipo biologico o non cementato. In letteratura si annovera un numero sempre maggiore di studi che pongono in analisi soluzioni di materiali e trattamenti delle superfici degli impianti al fine di raggiungere un’ ottimizzazione dell’ impianto.

Nel 1978 Lord introdusse il rivestimento della protesi composto da materiale madreperlaceo per individuare una maggiore osteointegrazione grazie al trattamento delle superfici.

Il concetto dell’osteointegrazione apre la strada della ricerca di un materiale “biologico” in grado di integrarsi nel tessuto che lo ospita.

Durante tutto il secolo si assiste a studi disparati.

Nel 1972 si assiste alla nascita dei metalli porosi grazie ai lavori di With et. Al; successivamente la ricerca scientifica ha ottimizzato le tecniche di produzione passando da materiali rivestiti a componenti con porosità a tutto spessore.

Si registrano così svariati studi finalizzati alla ricerca del materiale poroso che meglio garantisca l’osteointegrazione.

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35 Evoluzione nella protesica di ginocchio

I primi tentativi, seppur embrionali e rudimentali, di sostituire l’articolazione del ginocchio risalgono addirittura all’antico Egitto: l’esame radiografico della mummia di Usermontu (650- 525 a.C.) ha mostrato, all’altezza del ginocchio sinistro, una protesi rudimentale metallica di 23 cm.

Il concetto di recuperare la funzione del ginocchio, modificando le superfici articolari, ha cominciato a farsi largo in maniera concreta nel XX secolo.

Nel 1860 Verneuil suggerì di interporre tessuti molli per ricostruire le superfici articolari dell’articolazione. I risultati però non furono positivi.

A questo primo tentativo ne seguirono altri ad opera di Ollier, Murphy e Campbell i quali impiegarono invece altri materiali (muscolo, tessuto adiposo e fascia lata e vescica di maiale rispettivamente).

Nel 1860 il chirurgo tedesco Themistocles Gluck ideò la prima protesi del ginocchio utilizzando un prototipo in avorio.

I primi concreti tentativi di sostituzione dell’articolazione del ginocchio vennero realizzati tuttavia negli anni ‘40.

Si trattava di protesi parziali, che rimpiazzavano la sola componente articolare femorale oppure tibiale.

Fra quelle femorali ricordiamo Boyd nel 1938, Campbell che nel 1940 impiegò per la prima volta il Vitallium, Smith e Petersen che nel 1940 utilizzarono come rivestimento della superficie condilare femorale una coppa in Vitallium, Platt che nel 1955 produsse la sua Condylar Cup in acciaio inox che veniva adattata alla superficie condilare ma non era bloccata ad essa.

I primi risultati di interposizione di superfici metalliche furono però negativi.

Figura 18: Condylar Cup in acciaio inox proposta da Platt nel 1955

(36)

36 Tra quelle tibiali ricordiamo Macintosh che nel 1958

utilizzò un emipiatto tibiale, ovvero una emiartoprotesi dapprima in materiale acrilico interposto tra i capi articolari e successivamente in metallo, ideato da McKeever che ebbe un grande successo soprattutto nei casi di artrite reumatoide.

Successivamente i primi modelli capaci di imporsi e trovare ampia diffusione furono costituiti da protesi a cerniera: queste protesi potevano assicurare la stabilità dell’articolazione, ripristinando solo parzialmente la cinematica del ginocchio. La funzione stabilizzante era affidata totalmente alla protesi: ciascuna delle due metà della protesi medesima dovevano trasmettere un momento flettente all’osso e quindi dovevano avere steli abbastanza lunghi.

I vari modelli sono stati la protesi Walldius (1954) ad asse centrale; la protesi Shiers (1954) posteriorizzata; il piatto di appoggio è ridotto e la trasmissione degli sforzi avveniva tramite il lungo stelo a cuneo; la protesi Guepar (1970) ad asse rotatorio posteriore; le protesi di Bousquet-Trillat (1971) rappresentano un’evoluzione dei

precedenti modelli a cerniera perché prevedevano, movimenti rotatori che ammortizzassero gli stress torsionali della tibia.

La sollecitazione che tali protesi trasmettevano all’osso era completamente diversa da quella fisiologica e poteva dare luogo al rimodellamento osseo.

John Charnley negli anni ’60 elaborò una protesi metallo-polietilene cementata a cerniera. La parte femorale era costituita da una lega cromo-cobalto mentre quella tibiale in polietilene. Essendo il raggio di curvatura unico, le due superfici articolari avevano una elevata conformità. La protesi veniva ancorata tramite uno stelo femorale e un fittone tibiale.

Figura 19: emiartroprotesi proposta da McKeever

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37 Kodama e Yamamoto nel 1968-70 idearono una protesi non cementata in lega cobalto molibdeno per la componente femorale e in polietilene a forma di ferro di cavallo per quella tibiale conservando i legamenti crociati.

Gunston negli anni ’70 sviluppò una protesi con due superfici metalliche convesse da collocare sui condili femorali e da due conformazioni a doccia in polietilene sul piatto tibiale.

La protesi di Gunston, la prima “a scivolamento”, cambiava sia il versante mediale che quello laterale del ginocchio, lasciando in sede i legamenti crociati e collaterali.

Successivamente furono realizzate protesi “a scivolamento” bicondilari monoblocco poiché le precedenti scaricavano le forze in una sola zona dell’epifisi tibiale con il rischio di affondamento.

Insall, Walker e Ranawat nel 1970-73 elaborarono la “Total Condylar Knee” che insieme a quella di Gunston segnava la nascita delle protesi moderne. Il raggio di curvatura dei condili femorali in CrCo e della faccia articolare tibiale in polietilene veniva notevolmente ridotto e per diminuire la traslazione antero-posteriore femoro-tibiale, veniva realizzata una curvatura sagittale sul polietilene insieme ad un fittone tibiale. Questo per avere una maggiore stabilità in flessione. Questa protesi prevedeva l’asportazione dei legamenti crociati per ottenere una maggiore stabilità.

Tuttavia, le forze torcenti e la traslocazione anteriore del femore, logoravano anteriormente il polietilene, da ciò derivava una limitazione della flessione articolare (circa 90°). Per ovviare a questo problema, nel 1975 Insall e Burstein, posteriorizzarono il punto di contatto tra i due capi articolari, dando più stabilità al ginocchio. Per ostacolare la traslocazione anteriore del femore, aggiunsero un meccanismo spina-camma, ottenendo così una flessione del ginocchio fino a 115°. La lega CrCo venne utilizzata anche per la componente tibiale solo nel 1980.

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38 Precedentemente, nell’anno 1973, Townley e Seedhom utilizzarono protesi cementate. La caratteristica di queste protesi era che la componente femorale aveva un raggio di curvatura più grande sia sul piano frontale che sagittale. Per la prima volta venne utilizzata una protesi di rotula in polietilene.

Nel periodo dal 1975-77 Buechel e Pappas idearono una protesi che consentiva un rivestimento condilare a menischi mobili, tali da ottenere una ottima flessione del ginocchio. Per consentire la rotazione assiale del femore questi menischi mobili erano indipendenti e scivolavano su binari curvi. Era una protesi non cementata in quanto aveva una superficie porosa che consentiva la fissazione.

3.2 Protesi d’anca: componenti e tipologie

La protesi d’anca è stata uno dei trionfi della moderna ortopedia chirurgica tant’è che in un articolo del Lancet si definisce l’intervento di sostituzione protesica d’anca come l’intervento chirurgico del secolo. 32

Le principali componenti di una protesi d’anca sono:

1) Componente Acetabolare o Cotile:

È composta da una parte esterna emisferica in metallo che viene fissata all’acetabolo per mezzo di viti, cemento chirurgico, avvitamento o press-fit. Può presentarsi all’esterno rivestita di idrossiapatite, filettata o porosa; le componenti acetabolari non

cementate vengono fissate alla pelvi tramite una neoapposizione ossea nell’involucro di metallo poroso che circonda la coppa. La parte interna è invece chiamata inserto e rappresenta la parte che si articola con la testa della protesi; esso può essere fatto di materiali differenti, spesso polietilene ad alto peso molecolare oppure ceramica.

(39)

39 2) Componente Femorale, formata da:

• Testa (o epifisi protesica); è la parte prossimale della componente femorale. Ha forma sferica e si articola con la cupola cotiloidea a formare l'articolazione protesica. Può essere un tutt’uno con lo stelo (non più utilizzata) oppure modulare, ovverosia viene fissata allo stelo femorale mediante accoppiamento troncoconico durante l’operazione.

I materiali utilizzati sono leghe metalliche (acciaio, cromo, cobalto) o da materiale ceramico. La scelta del diametro viene effettuata nel planning preoperatorio: sebbene in passato siano state utilizzate teste femorali di piccole dimensioni per limitare l’attrito tra la componente acetabolare e femorale, oggigiorno si tende a utilizzare teste femorali di maggiori diametri per limitare il rischio di lussazione e migliorare l’articolarità.

• Collo: corrisponde alla porzione di stelo che unisce la testa al corpo dello stelo. In commercio vi sono diverse tipologie con svariate lunghezze e inclinazioni; inoltre, soprattutto quando si vuole ripristinare una corretta biomeccanica articolare nei casi in cui è presente elevata aberrazione anatomica si può utilizzare un collo mobile, con la possibilità di essere posizionato successivamente all’inserimento dello stelo, modificando così lunghezza, inclinazione e anti-retroversione.

• Stelo: rappresenta la componente che si inserisce nella cavità femorale, ed è fissato in vario modo all’osso. Può essere standard (indifferentemente a destra o a sinistra) oppure anatomico, che segue la curvatura femorale (stelo destro o stelo sinistro); possono inoltre essere monoblocco oppure modulari. I metalli più comunemente utilizzati sono leghe di acciaio inossidabile, leghe di titanio-alluminio-vanadio e leghe di cromo-cobalto. Il titanio, essendo il metallo più inerte

Figura 23: Testa della protesi

Figura 24: Collo e stelo della protesi d’anca

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40 e con una elasticità molto vicina a quella fisiologica della corticale ossea, contribuisce a generare una corretta distribuzione del carico, meno dolore di coscia e meno stress shielding. 33

Sulla base della modalità di impianto all’osso si possono distinguere due tipi di protesi, le cementate, usate soprattutto per i pazienti anziani, e quelle non cementate, da prediligere nei pazienti giovani con maggiore aspettativa di vita. 23 Le protesi cementate prevedono l’utilizzo del polimetilmetacrilato, un polimero che garantisce la fissazione della protesi all’osso ed è iniettato nel canale femorale sotto pressione; l'impianto è mantenuto nel cemento fin quando non avviene la polimerizzazione del metilmetacrilato ed il suo indurimento. 34

Le protesi non cementate invece vengono fissate all’osso senza l’utilizzo del metilmetacrilato prevalentemente mediante tecnica press-fit. L’ancoraggio è garantito dalla rugosità del rivestimento esterno e dalla preparazione di un alloggiamento che sia leggermente più piccolo della misura della componente selezionata per l’impianto. La stabilità meccanica iniziale favorisce la successiva osteointegrazione. 35 In questi impianti la stabilità primaria è garantita dal

press-fitt dello stelo nell’osso, mentre la stabilità secondaria è garantita dalla crescita del tessuto osseo sulle scabrosità della protesi (bone ingrowth e bone ongrowth). 34

Oggigiorno le protesi non cementate sono tendenzialmente più utilizzate e preferite rispetto agli impianti cementati, nonostante questa scelta sia ancora non del tutto evidence-based. 32 33

La protesi ibrida invece prevede l’utilizzo di due metodi di fissazione diversi per la coppa al cotile e per lo stelo alla diafisi femorale. Generalmente si utilizza stelo cementato e coppa non cementata, oppure viene utilizzata talvolta la coppia stelo non cementato - coppa cementata.

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41 Esistono tre principali tipologie di sostituzione protesica d’anca:

- Sostituzione totale dell’anca, o total hip replacement, o artroprotesi. Essa prevede la sostituzione di entrambe le componenti

dell'articolazione, ovverosia la testa del femore e l’acetabolo. Rappresenta l’intervento d’elezione in caso di osteoartrosi, garantendo almeno 15-20 anni di buona funzione articolare dipendentemente dalle abilità del chirurgo, dal tipo di protesi e dallo status funzionale dell'articolazione prima dell’intervento. 23

- Sostituzione parziale dell’anca, o endoprotesi. Essa prevede la sostituzione solamente di una parte dell'articolazione, ad esempio solo la testa del femore. Questa procedura è quindi indicata in situazioni dove è coinvolta solo una parte dell’articolazione, per esempio nelle fratture del collo del femore. La scelta di applicare un'endoprotesi riduce i tempi chirurgici e permette una più veloce ripresa, ideale per un soggetto anziano, mentre nel giovane comporta una usura precoce del cotile. 36

- Protesi di rivestimento, o resurfacing.

Essa consiste nel ricoprire con un guscio metallico la testa femorale e di accoppiarla con una coppa cementata con inserto in metallo o polietilene; ha avuto un periodo di grande impiego negli anni 70, mentre oggi è usata di rado. 32 Inizialmente è stata concepita per i pazienti più giovani; la preservazione dell’osso rende potenzialmente più semplice

una eventuale revisione futura 37 sebbene l’inevitabile rimodellamento del collo

femorale si traduce in un aumento della percentuale di revisioni degli impianti. 38

Purtroppo questo sistema è anche molto sensibile agli errori di posizionamento aumentando il rischio di frattura del collo del femore e di usura. Tutto ciò ha determinato un ampio calo nell’utilizzo di questa tecnica. 34

Figura 25: Radiografia di una protesi totale d’anca

Figura 26: Radiografia di una endoprotesi

Figura 27: Radiografia di una protesi di rivestimento

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