Corso di Laurea magistrale
in Sviluppo Interculturale dei
Sistemi Turistici
Tesi di Laurea
Mafia e turismo:
criticità e linee
d’intervento in
accordo al
destination
management
RelatoreCh. Prof. Nicola Camatti Laureanda Giulia Vicentini
845450
Anno Accademico 2018 / 2019
Ringraziamenti
Ringrazio la mia famiglia, principale fonte di determinazione e motivazione allo studio. Grazie al sostegno dell’educazione fornitami e alla possibilità concreta di accedere e fondamenti come la formazione, l’istruzione e la preparazione è stato per me possibile realizzare l’importanza della mia affermazione personale.
Ringrazio chi mi è rimasto accanto con pazienza e tenerezza durante la stesura di questo lavoro, per la buona riuscita del quale ho impiegato tutte le energie, le risorse e le conoscenze in mio possesso, nella speranza di qualificare la presente tesi come un’effettiva competenza.
Ringrazio l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ed in particolare il corso di laurea magistrale di Sviluppo Interculturale dei Sistemi Turistici, il quale tramite un approccio innovativo all’apprendimento mi ha offerto gli stimoli necessari per proseguire negli studi con attitudine attenta e precisa. Un ringraziamento va al professor Nicola Camatti, il quale in quanto relatore non ha mai omesso di darmi ascolto, attenzione e consigli utili.
Ringrazio la me stessa più dedicata e la componente più preparata di me. Senza la dovuta dedizione forse non sarebbe stato possibile portare a termine questo risultato.
Indice
Introduzione ... 8
Capitolo I L’economia criminale
... 101.1 L’economia di stampo mafioso ... 10
1.2 Breve identikit ... 10
1.3 L’approccio alla criminalità in campo economico ... 11
1.4 L’analisi sociologica ... 12
1.5 L’origine del prototipo di impresa mafiosa ... 14
1.6 La partnership tra imprese legali e imprese mafiose ... 19
1.7 L’accumulazione di capitale ... 25
Capitolo II La mafia nel turismo
... 272.1 La matrice della rete di controllo su una destinazione ... 27
2.2 Le motivazioni dell’interesse congiunto per i settori edilizio e turistico .... 28
2.3 I meccanismi di estorsione e di aggiudicazione illecita di appalti pubblici 30 2.3.1 L’abusivismo turistico ... 31
2.3.2 La procedura di demolizione delle opere abusive ... 35
2.4 Gli schiavi del turismo ... 41
2.4.1 Il turismo sessuale ... 42
2.4.2 Lo sfruttamento dei lavoratori turistici ... 48
2.5 La droga “ad uso turistico” .. ... 53
2.6 Il turismo religioso viziato dalla malavita ... 55
2.7 La reputation di una destinazione turistica ... 57
Capitolo III I casi studio
... 603.1 Lo sfruttamento del turismo a Venezia ... 60
3.1.1 Il racket del Tronchetto ... 61
3.1.2 La Mala del Brenta e la “vocazione turistica” ... 65
3.1.3 Lo scandalo di Eraclea ... 70
3.2 Il caporalato nel settore turistico ... 72
3.2.1 I due boom di Gallipoli ... 72
3.2.2 Lo sfruttamento dei lavori turistici in Emilia-Romagna ... 74
3.3 La mafia “da esportazione”: il caso della Spagna ... 81
3.3.1 La Costa del Sol ... 84
3.3.2 Le implicazioni dell’inurbamento a fini ricettivi ... 86
3.4 La ricerca sul campo ... 90
Capitolo IV Il modello di gestione per una destinazione intaccata
dagli illeciti della mafia
... 954.1 Gli approcci strategici alla gestione ... 95
4.2 Il modello di governance territoriale ... 97
4.2.1 La denuncia dal basso ... 97
4.2.2 La trasparenza delle pubbliche amministrazioni ... 107
4.2.3 Le nuove competenze degli operatori e la dotazione high tech ... 110
4.3 Il modello di destination management, territorial marketing e DMO ... 111
4.4 Destination management e Pubblica Amministrazione ... 130
Conclusioni ... 142 Bibliografia ... 147 Sitografia ... 148
Introduzione
Questo lavoro si occupa dell’infiltrazione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso nel settore turistico. Le associazioni delinquenziali si introducono nelle circoscrizioni territoriali selezionate tramite strategie di azione economica strutturate e schemi metodologici finalizzati a trarre ingenti profitti dal comparto dell’ospitalità e della ricezione, localizzando la propria influenza in zone ad alta vocazione turistica e compromettendo i sistemi economici di interi comparti territoriali.
La materia presa in considerazione risulta pertinente con l’attuale andamento del settore in oggetto. Sebbene gli interessi paradigmatici dei gruppi criminali siano comprensibilmente associabili a settori caratterizzati da grandi scambi economici come quello turistico, il binomio mafia-turismo è ancora scarsamente esplorato da approcci tecnico-scientifici e ad esso prettamente riservati. Questa tesi si propone di rappresentare una risposta in tal senso.
La motivazione personale di questa ricerca risiede invece nella mia nazionalità e nel percorso accademico da me prescelto. In quanto cittadina italiana la mia appartenenza ad una nazione epicentro mondiale del turismo mi ha condotta a specializzarmi nelle lingue straniere e conseguentemente a qualificarmi come esperta del settore turistico. Al contempo la storica ingerenza dei gruppi mafiosi in Italia, il cui contrasto ha assunto ormai tratti atavici, ha contribuito alla scelta di questo controverso argomento per la mia tesi di laurea magistrale in Sviluppo Interculturale dei Sistemi Turistici. Ritenendo l’argomento di grande interesse sociologico ed economico, reputo imprescindibile l’importanza di introdurre nello scenario degli studi sul turismo un’analisi articolata della tematica.
Le domande di ricerca cui si desidera fornire una risposta corrispondono alle problematiche relative alla gestione di un sistema turistico territoriale intaccato dall’azione illecita della mafia, presentando un piano strategico, complessivo di approcci precauzionali e sanatori, per il rilancio di una destinazione colpita– sia nella sua totalità di offerta turistica sistemica, sia a livello di illegalità dei singoli immobili edificati dalla malavita.
Per i motivi sopra elencati questa trattazione si pone l’obiettivo di cimentarsi in uno studio attento e preciso del fenomeno, procedendo alla scomposizione di tutti i cavilli in grado di rappresentare i punti di vista ideali per l’osservazione del fenomeno, fornendone un vademecum rigoroso e pertinente. Il fine ultimo di questa tesi è l’introduzione di un punto di analisi peculiare sulle modalità
di inserimento nel settore economico e nel sistema socio-culturale delle destinazioni turistiche selezionate da parte dei gruppi criminali.
A tal proposito il primo capitolo, a seguito di una consistente revisione della letteratura scientifica, di atti giudiziari e di trattati sul fenomeno propone focus eterogenei ma complementari per operare coerentemente nell’osservazione delle questioni di economia criminale di stampo mafioso, di criminalità economica, di attività mafiosa di stampo imprenditoriale e di complicità con l’economia legale e di accumulazione di capitale di origine illecita.
Il secondo capitolo si approssima al fulcro della problematica attraverso la presentazione di una matrice delle rete di controllo della mafia su una destinazione turistica, che si configura in esternalità di tipo economico, ambientale, ecologico e urbanistico, sociale, lavorativo e culturale nel settore turistico di una destinazione. Verrà analizzato materiale giuridico e letterario per esporre con pertinenza le motivazioni della combinazione di interessi tra i settori edilizio e turistico, i meccanismi di aggiudicazione illecita degli appalti pubblici, l’abusivismo in campo turistico, lo sfruttamento dei soggetti finiti nel giogo della schiavitù generata dall’apparato turistico ed altre questioni sociali viziate dal turismo corrotto. A conclusione del secondo capitolo si affronterà la questione della reputation di una destinazione, cui questa tesi offre una particolare interpretazione. Il terzo capitolo è dedicato ai casi studio tramite osservazione diretta sul campo e analisi di studi statistici: accanto al tema dello sfruttamento turistico a Venezia verrà presentato il fenomeno del caporalato nel settore e il caso di speculazione turistica perpetrato delle mafie in terra iberica. La conclusione del quadro verrà affidata all’intervista all’ex presidente e futuro giudice antimafia dell’Associazione Libera, il cui contributo ha offerto spunti fondamentali per questa tesi.
Il capitolo conclusivo costituisce il nucleo centrale di questa tesi e presenta l’idea proattiva concepita per un effettivo rilancio competitivo di una “destinazione x”, protagonista di tutte esternalità considerate. Per mezzo di ricerche empiriche e verifiche di riscontro nel diritto e nell’ordinamento giuridico nazionale e internazionale verranno presentanti i presupposti per un’efficace gestione territoriale che tenga in considerazione differenti approcci strategici per un’azione sistematica e funzionale in grado di rappresentare una guida pratica per i professionisti del settore, per gli operatori preposti, per gli studiosi del fenomeno e per la cittadinanza.
Capitolo I
L’economia criminale
1.1 L’economia di stampo mafioso
Per operare in modo coerente nell’esplorazione del fenomeno è necessario in primo luogo fornire un approfondimento esplicativo delle modalità di azione economica delle organizzazioni mafiose. A questo proposito è perciò indispensabile presentare un’analisi economica del crimine.
Il fenomeno criminale mafioso è caratterizzato da una natura organizzativa ben articolata, che ne determina le azioni e i comportamenti, all’interno di un contesto istituzionale dove differenti strategie corrispondono a diversi settori di inserimento (Catino, 2015). Errore comune è quello di considerare la mafia un comportamento o una pratica sociale di tipo criminoso ma di carattere casuale, negandone l’impronta unitaria e fortemente gerarchizzata delle organizzazioni. Adottando tale approccio si esclude un aspetto fondamentale di queste associazioni, ossia quello dell’attività finanziaria finalizzata al guadagno. Come verrà approfonditamente trattato, la macchina della mafia opera a livello economico in maniera scientemente strutturata, attuando le proprie strategie economiche e le proprie modalità di coordinamento. Il sistema imprenditoriale mafioso forma le proprie risorse finanziarie da attività criminose, risorse che poi utilizza nella produzione di nuove attività illegali, inserendosi così nel sistema economico legale – con cui si fonde parallelamente – per investirne i profitti. Come dice Saviano,<<l’organizzazione criminale coincide direttamente con l’economia, la dialettica commerciale è l’ossatura del clan>> (2006, pg. 44). L’imprenditoria mafiosa potenzia il proprio controllo all’interno della vita economica, politica e sociale di interi settori produttivi, mimetizzandosi col sistema e violando i diritti dei lavoratori.
1.2 Breve identikit
Con il termine mafia si indica qualsiasi organizzazione ti tipo criminale volta a perseguire, tramite mezzi spesso illegali, fini privati; queste organizzazioni sono fondate su principi generali che i cosiddetti affiliati sono tenuti a rispettare, anche a danno degli interessi pubblici. Si tratta nelle linee essenziali di un sistema basato sul potere e sull’influenza sociale che sfocia spesso in collaborazioni con enti pubblici, Stato e apparati politici.
L’organizzazione mafiosa più conosciuta al mondo è Cosa Nostra, la mafia siciliana. In ragione di ciò quando si parla di mafia si tende ad iniziare l’analisi proprio dall’Italia, anche se in realtà il lemma, a livello etimologico, viene spesso associato ad un’origine spagnola o araba a causa della sua assenza nella filologia latina o greca. Normalmente in Italia il termine mafia è usato per denotare indistintamente le organizzazioni criminali di un certo rilievo, quali “Cosa nostra”, con campo d’azione in Sicilia; la “camorra” campana; la “’ndrangheta”, localizzata in Calabra e infine la “sacra corona unita” pugliese. Esclusi gli elementi comuni, come la violenza e l’intimidazione, le quattro organizzazioni presentano modelli organizzativi diversi e strategie di azione differenti. Tutte e tre però sono apparati di organizzazioni criminali di carattere segreto la cui finalità primaria è individuabile nel controllo e nel governo del territorio al fine di accumulare risorse economiche da spartire all’interno del nucleo organizzativo stesso, i cui membri operano in mercati criminali, illegali e legali (Catino, 1997). E’ storicamente comprovato che i primi fenomeni di mafia sono nati nel nostro Mezzogiorno, ma è risaputo che non abbiano faticato a infiltrarsi anche nei palazzi politici romani e nella finanza milanese e del centro Italia. Gli anni settanta hanno poi visto sullo sfondo Veneto la “Mala del Brenta”, altrettanto spietata organizzazione criminale. La mafia è prolifica anche a livello internazionale, dove troviamo affiliazioni mafiose antiche e salde quali la “yazuca” giapponese, le “triadi” cinesi, i più recenti cartelli della droga latino-americani e le mafie nigeriana, albanese e russa – solo per citarne alcune.
Una caratteristica fondante dei clan mafiosi è certamente la componente familiare in senso biologico, che vede al vertice la figura incontrastata del mafioso. Vedremo in seguito come l’importanza dell’individualità di questo soggetto abbia ripercussioni anche economiche, in quanto egli si erge ad unità fondatrice dell’impresa mafiosa, gestendola personalmente e anche in maniera simultanea allo svolgimento di altre attività criminali anche efferate. Nella struttura piramidale mafiosa tutto il nucleo familiare è collocato saldamente al di sotto del capo. La famiglia è coinvolta direttamente nella formazione delle imprese e gestita in linea retta dal soggetto primario. I parenti del mafioso vengono talvolta investiti del ruolo di prestanome di un’impresa a cui egli fa capo, e in questo caso i soggetti selezionati devono essere in possesso di una fedina penale perfettamente pulita. Di questa figura si tratterà ampiamente in seguito.
1.3 L’approccio alla criminalità in campo economico
Risulta piuttosto sterile scavare nei meandri di assenza di moralità tipici dell’agire malavitoso, anche dato il carattere sfuggente del fenomeno; lo stesso vale per una delle conseguenze scatenate dalla
potrebbe sembrare. Come testimonia Enzo Fantò, <<Tutte le fonti sono concordi nel rilevare che le dimensioni del patrimonio mobiliare ed immobiliare delle varie organizzazioni mafiose sono immense, ma nel merito delle cifre c’è confusione e spesso grande approssimazione>> (1999, pg. 13). Probabilmente è più efficace accingersi a capire come, nella pratica, la criminalità economica mafiosa si caratterizza e, in un secondo momento, come avviene l’infiltrazione all’interno del comparto turistico.
Se le prime osservazioni sul comportamento criminale – preso in considerazione tra i comportamenti umani – risalgono alla fine degli anni ’60, l’analisi teorica di tali comportamenti risale ai primi anni ’90 sia per quanto riguarda l’Italia che a livello europeo. Essa proviene dagli Stati Uniti e da alcuni importanti economisti iconici quali Becker, Ehrlich e Stigler. Tuttavia, Guido M. Rey testimonia che <<In generale la criminalità è stata poco studiata, nonostante la vistosissima (ma difficile da consultare) documentazione prodotta dagli atti processuali. In particolare è stata poco studiata come organizzazione economica. Razionalità, irrazionalità, ambiente sociale, fattori ereditari, fattori antropologici, etica, religione: questi ed altri elementi sono stati utilizzati per analizzare la criminalità e i comportamenti illeciti. Scarsa considerazione è stata invece dedicata all’utilizzabilità dei modelli economici per spiegarne i comportamenti e soprattutto per analizzarne le relazioni con l’economia illegale>> (1994, pg. 109). Un’importante tappa per la materia dell’economia criminale avviene nel 1992, durante la riunione annuale della Società Italiana degli Economisti. In quest’occasione il fenomeno, dapprima relegato ad un interesse prettamente psico-sociologico, viene investito del coinvolgimento degli studi economici. Ne consegue che <<le iniziative che manifestavano interesse per un’analisi dell’economia criminale condotta in prima persona dagli economisti, si sono infittite ed hanno acquisito un peso via via maggiore>> (Becchi, Rey, 1994, pg. 6). Dalle considerazioni emerse nel tempo risulta attualmente necessario concepire l’attività criminale quasi come una branca dell’economia, degna di essere analizzata dagli studiosi della stessa.
1.4 L’analisi sociologica
Esistono due teorie sul fenomeno dello sviluppo criminale in Italia: la prima vede la mafia come una conseguenza dell’arretratezza, a livello di sviluppo, delle nostre regioni meridionali. La seconda associa invece il diffondersi della criminalità alla crescita del reddito: gli anni ’70, protagonisti del primo aumento considerevole della criminalità italiana, coincidono con una notevole crescita del PIL a prezzi correnti. In quest’ottica l’economia criminale, da sempre individuata come la causa di
arretratezza economica e disagio sociale, ne sarebbe invece la conseguenza. Esisterebbe quindi un legame serrato tra mafia e ciclo economico. Il “filo scoperto” per stanare un’organizzazione criminale è individuabile proprio nell’imprenditore che ne è a capo, insieme ai suoi più stretti collaboratori; il problema è che questi soggetti operano mimetizzandosi tra un’enorme vastità di lavoratori autonomi e imprenditori, e mai l’espressione “è come cercare un ago in un pagliaio” fu più azzeccata. Uscendo dal Mezzogiorno incontriamo una pluralità di realtà a sé stanti, dove le criminalità non sembrano associate alla crescita del reddito (e alle disparità sociali che ne conseguono), quanto alla resistenza allo sviluppo di stampo capitalistico: è il caso, per esempio, delle criminalità asiatiche, che non approvavano un’etica del lavoro coerente alla logica capitalistica. Per quanto riguarda il meridione è nell’opinione di Rey che la prima ipotesi sia un’interpretazione a dir poco semplicistica. Egli sostiene che gli alti livelli di disoccupazione del Mezzogiorno non siano direttamente correlabili alla criminalità, soprattutto giovanile: è credenza diffusa che le situazioni sociali degradanti che dilagano in alcune zone del Sud Italia costituiscano la più grande spinta ad una vita criminosa, ma l’economista esclude che i giovani disoccupati del meridione optino per una carriera criminale in modo automatico e leggero, e sottolinea che <<ipotizzare che un qualsiasi giovane in cerca di un posto di lavoro si dedichi, nell’attesa, ad attività illecite o criminali […] ha poco senso per varie ragioni>> (1994, pg. 39). Secondo questa linea considerare che la risposta al problema coincida con sviluppo economico, sociale e politico sarebbe fuorviante. Per rifarci al discorso del substrato sociale apparentemente favorevole nel meridione, Rey assume che il reale ostacolo risiederebbe invece nella legislazione e nella sua gestione da parte dell’amministrazione, dimostratasi troppo permissiva nei confronti di questione come l’abusivismo urbanistico ed edilizio, l’evasione ed altre violazioni da parte di singoli, le cui azioni si sono trasformate in veri e propri comportamenti collettivi generalizzati, mascherati da chi di dovere da arretratezza economica e sociale. Della stessa idea è anche Fantò, che individua nella Pubblica Amministrazione di quegli anni una corresponsabilità nell’accordo tra impresa legale e impresa mafiosa, ma anche nella mancata tempestività da parte delle autorità pubbliche (Fantò, 1999).
Per gli studi sociologici del fenomeno criminale in Italia ricordiamo Pino Arlacchi, Raimondo Catanzaro e Diego Gambetta, i cui lavori sono in un certo senso un plus l’uno dell’altro, partendo da un’interpretazione della mafia – con Gambetta (1992) – come esercizio di un’attività unica senza la presenza di un organigramma con tentacoli in diversi campi; passando per Arlacchi (2007), che identifica la mafia come un’organizzazione dedicata principalmente ad attività imprenditoriali; arrivando a Catanzaro (2002), secondo cui le attività economiche della mafia si intrecciano col territorio, esercitando su di esse una coercizione quasi militare. La menzione del territorio ci riporta ad un concetto fondamentale: quello del power syndacate, protagonista – insieme all’enterprise
indica le organizzazioni che operano all’interno di un territorio. Si evidenzia perciò l’imprescindibilità del legame col territorio per la criminalità, che su tali territori dà vita a piccole e medie imprese – i cui costi sono limitati ad una circoscrizione non troppo vasta – che sfuggono agilmente ai controlli fiscali: << […] la cura dedicata al controllo del territorio può precludere, per ragioni organizzative, un’attività economica rivolta a un mercato vasto, certamente più concorrenziale e quindi con profitti unitari più bassi […]. Infatti, il controllo del territorio garantisce un livello di sicurezza […] >> (Becchi, Rey, 1994, pg. 75,77). Questo tipo di giurisdizione è caratterizzante delle mafie italiane perché al contrario, ad esempio, della criminalità organizzata newyorkese, quella sicula e quella di altre regioni italiane tende a erigersi a Stato, sostituendosi ad esso: il controllo del territorio diventa il fulcro del potere e si concretizza << la necessità di supportare il controllo del territorio fornendo alla popolazione occasioni di reddito; […] la criminalità consolida il suo dominio sul mercato del lavoro, fornendo un reddito, in forme più o meno legali, ad una quota sovente non trascurabile della popolazione, e rafforzando il controllo del territorio. Quando investe in attività legali, la criminalità diventa un datore di lavoro a pieno titolo […]. Così, mentre in realtà comprime le occasioni di sviluppo legale e diffuso, si presenta paradossalmente in un ruolo “benefico”>> (Becchi, Rey, 1994, pg. 93,95).
1.5 L’origine del prototipo di impresa mafiosa
Sull’origine dell’”impresa mafiosa” vi è oggi un’abbondante letteratura – prevalentemente saggistica – in gran parte derivata dagli atti giudiziari. Questo tipo di forma imprenditoriale, caratterizzata dall’introduzione di una struttura economica all’interno di un’organizzazione criminale, è un fenomeno relativamente recente. Nel 1982 dalla legge n. 646 del codice penale, conosciuta come legge Rognoni - La Torre, ha rappresentando una vera svolta, definendo <<”impresa mafiosa” quella struttura economico-aziendale, gestita dal mafioso o che comunque a lui faccia direttamente capo, che ha incardinata in sé “la forza di intimidazione del vincolo associativo” e il cui capitale […] è “in tutto o in parte” frutto dell’azione criminale>>.1 Questa definizione qualifica il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso nel codice penale italiano ed è attualmente riconosciuta dalla
1 La legge introduce per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di
tipo mafioso” – corrispondente all’art. 416-bis, accanto al già esistente art. 416 – e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali. L’onorevole Pio La Torre aveva presentato alla Camera dei deputati la proposta di legge già il 31 marzo 1980 (Atto camera n. 1581) con la partecipazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, allora giovani
magistrati della Procura di Palermo. Dicitura completa e testo in pdf della legge disponibili al link in sitografia. Testo completo in pdf del codice penale disponibile al link in sitografia.
giurisprudenza e dalla quasi totalità degli studiosi. L’articolo rende inoltre sanzionabili penalmente le attività economiche gestite o controllate, direttamente o indirettamente, dalla mafia.
Le origini del fenomeno specifico di impresa mafiosa sono legate alla seconda metà degli anni Sessanta, per culminare negli anni Settanta con il consolidarsi dell’attività d’impresa mafiosa nel settore edilizio e nel campo dei lavori pubblici. Le prime forme di impresa mafiosa si agganciano proprio al comparto edilizio, cruciale nell’economia di questo tipo di organizzazione e al contempo settore trainante per quanto riguarda l’economia di quegli anni nel Sud Italia. Intenzionata a trovare canali più redditizi per far fruttare il capitale di origine criminale, l’impresa si focalizza sulle opere infrastrutturali e pubbliche tramite subappalti e concessioni. E’ dalla metà degli anni Sessanta fino alla metà degli anni Settanta che la mafia inizia a prescindere dalla sue caratteristiche più arcaiche quali “il pizzo” o “le mazzette”, in quanto in questi anni l’obiettivo diventa la costituzione di vere imprese facendo leva su ingenti proventi di capitale accumulato criminalmente. E’ perciò proprio quello edilizio e delle opere pubbliche il settore più prolifico per le attività imprenditoriali mafiose nascenti. E’ in questo campo delicatissimo che si gettano le basi per la collaborazione tra mafia e politica. Se fino a quel momento la mafia si è rivolta all’apparato politico per ostacolare magistratura e polizia, ora comincia a chiedere ben altro tipo di favori. Se si vuole accumulare capitale di maggior valore non è più sufficiente avere il controllo del territorio: è necessario penetrare attivamente nei comparti politici preposti a gestire i flussi di spesa pubblica. <<La rendita urbana>>, spiega Fantò, <<è il perno dello sviluppo edile e assicura, come rendita assoluta prima e differenziale poi, un’altissima valorizzazione del capitale […]. Dovrebbe perciò essere evidente, per quanto la cosa sia paradossale, come la spesa pubblica sia stata nei fatti la risorsa principale dell’affermazione dell’impresa mafiosa e come non sia per nulla peregrino parlare di un vero e proprio finanziamento pubblico per la costituzione delle imprese mafiose, effettuato attraverso la stipulazione di contratto di appalto, di subappalto e di cottimo da parte di imprese private legali, ma anche di compiacenti imprese pubblica o a partecipazione statale>> (1999, pg. 51). E’ in questi anni e in questo contesto sociale che si forma il circolo vizioso impresa legale-politica-mafia tristemente noto alle cronache. Scambi e favori reciproci tra queste tre entità fanno sì che da questa compartecipazione ognuno tragga il proprio guadagno. Il nuovo ceto politico è intenzionato a raccogliere consensi elettorali e ad accrescere il proprio potere attraverso il settore dell’edilizia, gestendone la spesa, e quello dei lavori pubblici. Dapprima il mafioso “collabora” o lavora come dipendente per l’impresa legale che lo ha introdotto, ripagandolo con pizzi sempre più sostanziosi. Dopodiché inizia a pretendere un ruolo sempre meno marginale all’interno dell’impresa. Come già visto, infatti, è intenzionato a individuare canali fruttuosi per investire l’ingente capitale di cui
dispone.2 L’imprenditore, costretto a emettere quantità troppo esose rispetto al “ servizio” fornitogli dal mafioso, viene man mano sottratto della sua connotazione di padrone dell’impresa a favore dell’accrescimento del potere e del prestigio del soggetto mafioso. Arrivati a questo punto non gli resta che riconoscere che è maggiormente conveniente per entrambi che il mafioso ottenga un ruolo attivo.
Dunque in questa fase embrionale non vediamo ancora configurarsi l’impresa mafiosa in formula autonoma, ma solo ritagliarsi un importante spazio nel processo produttivo dell’impresa legale originaria. Tuttavia, bastano pochi anni per arrivare alla formazione d’imprese “a conduzione mafiosa” che non solo gestiscono dall’interno l’impresa iniziale ma ottengono subappalti e concessioni anche da ulteriori imprese. Incontrandosi con le attitudini comportamentali del ceto politico di quegli anni, che aiuta l’impresa legale nell’ottenimento dell’appalto, quest’ultima concede il subappalto alla nascente impresa mafiosa, ben contenta di favorire il consenso elettorale del politico in questione. Il mafioso, non più “dipendente” può trarre ora guadagni finanziari, ma soprattutto può essere finalmente considerato imprenditore. Il circuito di reciproci interessi vede l’impresa legale ottenitrice dell’appalto, dal canto suo, non più costretta al pizzo e per concludere la figura politica di governo accrescere consenso popolare grazie alla sua attività di “mediazione”. Tornando dunque al dilemma causa-conseguenza, e riprendendo la logica in precedenza esplicata, si rimarca il fatto che l’impresa mafiosa non sia la conseguenza di arretratezza e disagi sociali, poiché è proprio nel periodo maggiormente fiorente a livello economico del meridione che essa nasce e prolifera. E’ in questo centennio cruciale che il semplice criminale si trasforma in uomo d’affari, che tralascia, come visto, le caratteristiche più antiche della sua attività in vista dall’avvio di un’attività produttiva lecita di tipo imprenditoriale. In questo secondo momento, coincidente con gli anni Ottanta, assistiamo ad un riassetto delle modalità imprenditoriali mafiose. Si fa sempre più viva la necessità per il mafioso effettivamente proprietario di condurre indirettamente l’azienda, e comincia la modalità di servirsi dello schermo a livello legale tramite la figura dei prestanome. Per questa funzione, spesso vengono selezionati parenti, figure “fidate”, ma anche soggetti esterni, regolarmente stipendiati; ancora, i prestanome possono essere dei soggetti professionalmente “qualificati”, ossia debitamente formati e proposti alla gestione dell’impresa. In ogni caso si tratta di persone senza alcun precedente penale, in quanto funzionali al mafioso nel momento della spartizione delle quote sociali (si pensi al caso di un affiliato al clan dei corleonesi intento a
2A seguito di decenni di contrabbando di sigarette, sequestri di persona, estorsioni e racket, il
suddividere le quote tra le donne della sua parentela).3 Vediamo quindi come a partire tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta moltissimi amministratori d’impresa vengono sostituiti; non solo, a livello giuridico un gran numero di società viene trasformato in s.a.s.4 e s.r.l.5, forse perché i vantaggi tipici di questo tipo di società rispondono alle esigenze dell’imprenditore-mafioso. Nel primo assetto giuridico la figura dei soci accomandatari consente la gestione da parte dei prestanome – e quella degli accomandanti la mimetizzazione del soggetto mafioso; nel secondo caso, è vantaggiosa la possibilità di rispondere limitatamente al capitale conferito in caso di confisca. Inoltre, un vantaggio si riscontra nelle società di capitali rispetto a quelle di persone nell’individuazione della figura del possessore di una seconda società, che in alcuni casi può essere fittiziamente intestata ad un prestanome. Infatti, mentre nella s.a.s. il titolare dell’impresa può essere esclusivamente una persona fisica, nell’s.r.l. si può trattare anche di una persona giuridica, ossia anche di un’altra società: verosimilmente in questi casi si tratterà si tratterà di una società di comodo.6 Questo ostacola indubbiamente il passaggio diretto dalla scoperta della società X all’effettivo soggetto. Sempre in questi anni assistiamo alla formazione di società cooperative, soggette a legislazione ancora differente, particolarmente adatte all’infiltrazione di soci occulti. Infine, alcune imprese mafiose vengono trasformate in S.p.a.7 ma solo a livello fittizio: tipico di
questo assetti societari è la spartizione delle azioni sotto forma di partecipazioni dei soci, ma in realtà in questo caso l’impresa rimane gestita a livello individuale e le azioni non si spostano dalle mani del vecchio titolare. In ogni caso questo processo di riorganizzazione risponde all’esigenza di spostare la titolarità da un unico soggetto, ed ha a che fare soprattutto col problema della confisca: la confisca totale corrisponde alla proprietà e alle quote unipersonali della società; nel caso di sequestro delle quote, gli altri “collaboratori” si adopereranno per alzare il capitale sociale, in quanto il valore del bene confiscato ne è inversamente proporzionale (Figura 1).
3 Tribunale di Palermo, 1992. 4 Società in accomandita semplice. 5 Società a responsabilità limitata.
6 Società la cui costituzione risponde, essenzialmente, a finalità di evasione ed elusione fiscale, o
Figura 1 Il riassetto societario dell’imprenditoria mafiosa
Fonte: elaborazione personale
Un red flag di una compartecipazione economico-finanziaria è l’ingiustificato aumento di capitale sociale (mirato alla diversificazione degli investimenti), incongruente rispetto all’andamento storico di una determinata impresa; altri campanelli d’allarme sono rintracciabili in repentini e frequenti cambi d’amministratore e in numerose sottoscrizioni tra soci (che nascondono l’ingresso in società di nuovi soci occulti portatori di capitale fresco).
In economia vige la distinzione tra acquisizione e partecipazione. La prima situazione ha luogo quando un’impresa A acquista una quota azionaria di un’impresa B, garantendosi il controllo dell’impresa B. Se, al contrario, l’acquisto della quota non prevede questo, si tratta di “partecipazione” (Grillo, Silva, 1989). Ma nei casi oggetto di analisi in questa sede il confine tra le due situazioni è labilissima, e anche solo tramite “partecipazione” può essere garantita la gestione dell’impresa. In parole povere, la sola presenza del mafioso nell’orbita societaria compromette irrimediabilmente gli assetti esistenti, perché di fatto il controllo delle operazioni aziendali – in soldoni, degli investimenti – si troverà in capo al mafioso e soltanto formalmente la gestione rimarrà dell’imprenditore.
Per quanto riguarda la diffusione attuale della tendenza di impresa a partecipazione mafiosa troviamo la regione Campania al primo posto.8 Il numero di imprenditori che hanno rilevato la presenza del fenomeno al Nord è assai più cospicuo, tuttavia tale dato è ingannevole in quanto potrebbe essere riconducibile al semplice fatto che in queste aree la compartecipazione avviene con
8 Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni
criminali, anche straniere, 2017. Testo completo in pdf disponibile al link in sitografia.
Società di
persone
S.a.s.
- Accomandatari prestanome - Accomandanti mafiosiSocietà di
capitali
S.r.l.
S.p.a.
- Risponde limitatamente alla confisca - Società di comodoSocietà
modalità ancora più occulte e mimetizzate. Una più faticosa rilevazione è anche dovuta alla mancanza empirica di analisi sociologiche e culturali su queste zone. Tuttavia, anche al Centro-Nord è comprovata l’interazione di soggetti mafiosi e imprenditoriali, denunciata in un primo momento dalla Commissione parlamentare antimafia della Procura di Milano nei primi anni Novanta9 e poi più volte segnalato dalla Guardia di Finanza.10
1.6 La partnership tra imprese legali e imprese mafiose
Va chiarito che le organizzazioni topiche e tristemente note citate in precedenza differiscono dalle attività svolte da imprenditori legali che trascurano imposte e contributi sociali, norme di tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori e quant’altro; lo stesso vale per gli illeciti commessi dai cosiddetti “colletti bianchi” (come industriali, uomini d’affari, alti funzionari, dirigenti, personaggi legati ad un alto status sociale), altra categoria che da tempo pervade l’attualità italiana – si ricordi Tangentopoli. Le “operazioni sommerse”, quindi, legate all’evasione fiscale, all’elusione fiscale e alla corruzione non vanno iscritte nell’economia illegale. Tuttavia la loro stessa esistenza produce il perfetto substrato per permettere al fenomeno criminale di proliferare e mimetizzarsi in maniera ottimale (Figura 2).
Figura 2 La differenziazione tra “operazioni sommerse” ed economia illegale
Fonte: elaborazione personale
Esiste infatti una categoria particolare: quella composta da imprenditori criminali alla conduzione di attività legali. La necessità di mimetizzazione e di regolarizzazione, almeno sul piano formale,
9 Commissione parlamentare antimafia, 1990.
Imprenditori legali scorretti Colletti bianchi Evasione e corruzzione F e n o m e n o criminale Evasione Corruzione
diventa indiscutibile nel momento in cui un’impresa a conduzione mafiosa decide di immettersi nella logica di mercato. Essa ne seguirà le regole e rimarrà fedele alle sue modalità, operando a tutti gli effetti come una normale impresa. Quali sono le modalità in questo caso? <<La nostra magistratura più impegnata ha in genere ritenuto che l’imprenditore criminale, quando opera sul mercato legale, non abbandoni i propri schemi comportamentali. Agisca ricorrendo facilmente alla violenza e all’intimidazione, o violando le norme in vigore, per massimizzare il profitto. Mantenga una visione del profitto legata all’esercizio del potere e allo sfruttamento della rendita derivate da questo potere. Si avvalga di strumenti coercitivi […] e limiti così l’ingresso dei concorrenti sul mercato o espella quelli che già c’erano>> (Becchi, Rey, 1994, pg. 30). L’attore economico entrato in scena negli ultimi decenni non è altro che la famigerata impresa a partecipazione mafiosa. Oggi i casi più frequenti sono quelli in cui normali imprenditori si ritrovano costretti da soci occulti, apparsi improvvisamente, a collaborare con soggetti mafiosi in operazioni di reinvestimento del denaro. Questa terza categoria è la più complicata da individuare e quantificare da parte dello Stato e dagli economisti stessi, a causa della sua pressoché completa mimetizzazione. Risulta estremamente difficoltoso contrastare questo nuovo tipo di impresa nel momento in cui ricicla e investe i capitali di provenienza criminale. Nonostante la difficoltà, e un apparente ritardo, nell’individuazione di questa tipologia di casi, a queste situazioni oggi è riservata una casistica ben precisa a livello giudiziario, in quanto si è fatto della compartecipazione mafiosa alle imprese un oggetto specifico di indagine. Comunque, la legge Rognoni - la Torre ha certamente sortito i suoi effetti in questo campo, ostacolando la facilità di avvalersi di prestanome. A livello investigativo si riscontrano indubbie inefficienze: gli investigatori indagano sui rapporti imprenditore-mafioso, senza indagare sulla sostanza di tale rapporto. Molto spesso, infatti, i primi si dipingono come vittime dei secondi (tendenzialmente parlano di pizzo o mazzette elargite sotto pressione, insomma di rapporto estorsivo), quando la realtà dei fatti è una vera e propria compartecipazione, volontaria e consapevole da entrambe le parti. In altri casi, come vedremo successivamente, si tratta di una compartecipazione volontaria ma non del tutto consapevole delle conseguenze. Ad ogni modo mancata collaborazione da parte di molti imprenditori in questione ha costituito un importante tassello mancante nelle ricerche investigative. Per capirci, sarebbe necessario attuare nel campo della cooperazione mafia-imprenditoria un’azione simile a quella svolta per quanto riguarda la situazione mafia-politica. Un altro motivo del ritardo investigativo risiede nelle caratteristiche insite dell’impresa a partecipazione mafiosa, particolarmente difficile da stanare a causa dei suoi meccanismi occulti, della sua nascita pressoché recente, e, appunto, in veri e propri ostruzionismi effettuati in questo senso dagli imprenditori. E’ opinione di molti che non si tratterebbe di omertà o timore, bensì di interessi. Il rapporto non sarebbe, come dichiarato da molti, di estorsione o di tipo intimidatorio, ma consensuale (Fantò, 1999). Secondo questo filone di pensiero, certamente la paura
delle ripercussioni causata dall’intimidazione entra in gioco in un secondo momento, quello in cui l’imprenditore diventa consapevole di essere ormai totalmente compromesso e di non poter assolutamente compromettersi collaborando, ma questo avverrebbe successivamente all’accettazione di tale rapporto. Tuttavia alcune argomentazioni della presente tesi porteranno alla luce realtà collaborative quasi “obbligate” dalle circostanze della crisi economico-finanziaria, dal sistema creditizio e da altre circostanze che verranno analizzate. Appare chiaro come sia difficile ottenere una reazione in questi panorami da parte dei soggetti imprenditoriali coinvolti, in quanto il costo molto spesso è la perdita non solo dell’impresa ma anche della vita. Come già detto, non è da sottovalutare l’esistenza di una connivenza d’interessi da entrambe le parti, che semplicemente si traduce in una scelta. Ad ogni modo, a dispetto delle speranze di non risultare inficiati, la compromissione della posizione dell’imprenditore si rivela fatale sin dal primo coinvolgimento: il soggetto mafioso avrà la meglio in qualsiasi caso, potendo rilevare a suo piacimento l’impresa a carico del vecchio imprenditore e donandola ad altre sue “conoscenze” cui farebbe comodo, dirigendola da dietro le quinte. L’imprenditore potrebbe essere indotto al fallimento e in seguito eliminato fisicamente. Una volta formata l’impresa a partecipazione mafiosa, potrebbe ucciderlo nel momento di un suo rifiuto a collaborare, o nel momento della richiesta di una collaborazione più stretta, o semplicemente perché, espropriato della sua azienda, non serve più a nulla se non a custodire (e malauguratamente raccontare) segreti inconfessabili. In realtà nella maggior parte dei casi l’eliminazione fisica non è più necessaria, in quanto gli imprenditori coinvolti si rendono conto in maniera molto celere delle circostanze nelle quali consapevolmente o loro malgrado si ritrovano, e non gli resta alternativa che ritirarsi e cedere l’impresa.
Nel panorama dell’impresa a partecipazione mafiosa la modalità si configura come di seguito: il mafioso offre uno dei requisiti fondanti del suo operato: “la protezione”. In cambio non chiederà il famigerato pizzo, ma una quota sociale dell’impresa o addirittura la direzione della stessa. Inizialmente l’imprenditore originario rimane il possedente della sua impresa, mantenendone dunque titolarità e gestione. E’ frequente anche che, dopo aver erogato una serie di “servizi” a favore dell’impresa, il soggetto mafioso non si accontenti più di venire “retribuito” sulla base di tali servizi, ma pretenda una quota di partecipazione all’impresa. In breve tempo l’imprenditore realizza che gli è conveniente questa seconda modalità rispetto al pagamento del pizzo. Questo sfocia nello stadio finale, dove il mafioso lascia la titolarità e la rappresentanza al vecchio proprietario, ma acquisisce (attraverso il socio “occulto” che ha inserito – il suo prestanome) l’effettiva gestione. Ecco che il mafioso investirà i suoi capitali all’interno dell’impresa, con la garanzia che sarà proprio l’imprenditore a far fruttare i suoi interessi. Il capitale di origine criminale, fulcro dell’impresa a partecipazione mafiosa, si va in questo modo a fondere e intrecciare con quello legale. L’operazione,
che ovviamente non avviene in forma scritta ma esclusivamente a parole, si configura praticamente come un finanziamento da parte del mafioso all’interno dell’impresa. Questo tipo di compartecipazione è difficilissima da individuare, in quanto la mimetizzazione alle spalle del vecchio imprenditore e detentore dell’impresa è completa nonostante la citata legge Rognoni - La Torre.
Una categoria ancora distinta, che è più adeguato mantenere slegata dalle precedenti, è il caso in cui l’impresa mafiosa produca più o meno esplicitamente beni illeciti (per esempio droga): in questo caso non si tratterà né di impresa criminale-legale, né di impresa legale-illegale, ma soltanto di impresa criminale, connotata su tutti i gradi da una natura illegale ed illecita.
Tra gli altri, anche Becchi e Rey sostengono che ci sia una commistione tra mafia e sistema, ossia delle interazioni tra attività illegali e attività legali. Nel caso italiano, peculiare per quanto riguarda il fenomeno mafia, l’economista e la sociologa evidenziano che lo Stato si è dimostrato transigente nei confronti di determinate attività. <<Può non essere percepita dai singoli operatori, […] ed entrare in contraddizione […] con l’economia debole delle regioni in cui il mercato non riesce a radicarsi e garantire il pieno impiego delle risorse disponibili>>. Insomma, si riscontra un’”accettazione” del fenomeno <<perché vi si vedeva una compensazione al mancato o incerto sviluppo dell’economia legale>> (1994, pg. 8, 10).
Viene spontaneo pensare a una sorta di consenso sociale nei confronti di tali dinamiche. A questo punto del discorso si arriva a uno snodo fondamentale in ambito malavitoso: la corruzione. Il problema, infatti, risiede anche nel terreno fertile costituito dalla contaminazione dell’integrità degli apparati repressivi e della politica in tal senso, come anche delle stesse imprese legali, le quali, comunque avvantaggiate da quelle criminali, si scoprono desiderose di partecipare ai loro profitti. Ad avvalorare questa tesi, anche Fantò: <<I due settori – quello economico-criminale e quello economico-legale – sono ormai un continuum, nel senso che le risorse finanziarie, e spesso anche quelle umane, circolano dall’uno all’altro campo senza soluzione di continuità. […] poiché queste ultime ormai si presentano, almeno sul piano formale, con una veste “legale”>>. Non troviamo tuttavia in accordo Fantò per quanto riguardo la teoria, soprattutto di origine americana, che studia il fenomeno mafioso identificandolo come una vera e propria impresa: <<Una cosa è analizzare l’impresa del mafioso come uno degli strumenti operativi di questa organizzazione criminale sul settore economico (e in questo possono essere utili alcuni aspetti della stessa teoria economica sull’impresa), ben diversa cosa è, evidentemente, analizzare la mafia nel suo complesso come “impresa” di carattere economico, sia pure di natura criminale […]. Questi approcci “economistici” non fanno comprendere la natura e la complessità del fenomeno mafioso, le cui finalità non sono
solo di tipo economico. […] Anche se l’attività economica o imprenditoriale facente capo al mafioso gode di una sorta di autonomia funzionale rispetto al resto dell’attività criminale, essa è in fin dei conti sempre subordinata alle esigenze primarie e generali dell’organizzazione, costituite dall’esercizio di un particolare tipo di potere. La mafia, infatti, […] opera sia nei mercati illeciti e illegali sia nei mercati leciti e legali, assumendo, a volte e in alcuni campi, una propria fisionomia territoriale>> (1999, pg. 15, 24, 25).
Ma quali sono i vantaggi che, soprattutto in un primo momento, l’imprenditore intravede nel collaborare con un soggetto mafioso? Innanzitutto l’impresa criminale è in grado di sbaragliare la concorrenza, agendo sul mercato intimidendo le altre imprese; non solo, un’impresa di questo tipo è abile nell’inserimento in un mercato territoriale selezionato, accelerando questioni burocratiche. Inoltre va menzionato tutto ciò che comprende la cosiddetta “protezione”, ossia una serie di “servizi” apportati all’impresa da parte del substrato criminale. L’impresa illegale è particolarmente pericolosa anche perché in un certo senso agevola quella legale, che non percepisce di essere esposta ad un rischio e non chiede con troppa convinzione allo Stato di contrastare tale influenza. In buona sostanza la presenza di un’impresa illegale in un mercato territoriale ostacola l’entrata di concorrenti e la vita stessa delle imprese già gravitanti nel sistema. Il tema della concorrenza è sostanziale in ambito economico-turistico. Il mercato “nero” è notoriamente un mercato protetto, associato alla non concorrenzialità, in quanto le imprese legali tendono a rifiutarsi di entrare nell’ambito di un’attività vietata per legge. L’impresa criminale risulta perciò monopolista, e agisce proibendo la concorrenza altrui o impedendo atteggiamenti concorrenziali alla luce di una sottoposizione ad un accordo di cartello.
Insomma, per arrivare al nocciolo della questione, è errato pensare di riconoscere l’impresa mafiosa solo quando ci si aspettano dinamiche evidenti. Sarà molto probabile che questo tipo di imprenditoria operi “pacificamente” a livello formale, che appaia “legalizzata” e “rispettabile” apparentemente lontana dall’uso della violenza… Ma la <<la forza di intimidazione>> di cui parla la legge n. 646 ne rimarrà l’indubbio centro di riferimento. <<L’impresa mafiosa rimarrà sempre legata […] “ai fattori criminogeni” da cui è originata, ma ciò non toglie che essa svolta attività produttive lecite e che operi all’interno dei mercati legali. […] In sostanza ciò che definisce il carattere “mafioso” di un’impresa non è il tipo di attività, ma essenzialmente, da una parte, la natura del processo di accumulazione che ha determinato la sua formazione e che continua a sorreggerla, e, dall’altra, la “forza” specifica che costituisce insieme il suo retroterra e il suo principale strumento di affermazione sul mercato, ossia la forza di intimidazione su cui essa è incardinata>> (Fantò, 1999, pg. 39). Il fulcro rimane perciò nell’origine e nella natura del capitale accumulato e investito. Dallo
la cosiddetta forza d’intimidazione, esercitata più o meno direttamente; un elemento che le contraddistingue e le avvantaggia rispetto alle imprese regolari. La violenza è da sempre protagonista dei riferimenti teorici e storici, e sappiamo che quando essa viene strumentalizzata in economia diventa un vero e proprio paradigma. Un’attività economica violenta, progredita col passare degli anni tramite riassetti, riordinamenti e capovolgimenti vari, ma pur sempre mirata all’accumulazione di capitale, oggi risulta in realtà potenza economica perfettamente adeguata alle logiche capitalistiche. E’ errato semplicizzare, abbracciando l’idea secondo cui la forza intimidatoria sia funzionale solo in un primo momento, quello dell’entrata nel mercato da parte di tali imprese. Al contrario ne rappresenta l’elemento fondante ma anche indubbiamente costitutivo, mai imprescindibile o trascurabile. Ne è la vera forza motrice. Questa caratteristica dell’imprenditoria mafiosa, ma anche dell’impresa a partecipazione mafiosa, rappresenta oggi un vantaggio a livello competitivo rispetto alle altre imprese.Tuttavia Fantò si pronuncia in modo magistrale nel momento in cui individua proprio nella violenza la falla del sistema imprenditoriale mafioso: sì risorsa primaria, ma anche contraddizione e maggiore debolezza delle imprese che fanno capo alla mafia. Fantò sostiene che essa si porrà ad impedimento principale alla crescita e alla stabilizzazione di queste imprese, non adempiendo più efficientemente alle dinamiche capitalistiche, bloccando il processo di accumulazione. Le imprese di questo tipo riescono a sopravvivere nel mercato a causa delle risorse strategiche già trattate. Ma giunge un momento in cui la conformazione violenta, seppur a tratti insabbiata e nascosta, delle organizzazione fa a pugni con la logica razionale ed ordinata tipica del principio economico. L’impresa e l’economia mafiosa cercano di svincolarsi della componente violenta per meglio aderire alle esigenze del mercato capitalistico e dell’economia legale, senza mai tuttavia riuscirci (1999).
Ad ogni modo, appurato che senz’altro vi è una forte ingerenza della presenza mafiosa all’interno dell’imprenditoria, prendiamo atto di questo dato inconfutabile e torniamo al punto di vista di Becchi e Rey. E’ pretenzioso e semplicistico additare sempre il settore pubblico e lo Stato, quando le imprese per vocazione o costrizione sono disposte a collaborare per la buona riuscita degli affari criminali se da tali affari possono trarre compensi considerevoli o risollevare la propria impresa in crisi. Anche ritenere i politici necessariamente degli “affiliati” è errato, perché la mafia – il cui obiettivo è il potere, in questo caso economico-finanziario – non regalerà certo i propri traguardi a vantaggio dei politici. Ne deriva che le problematiche sono molteplici e radicate, ma non scontate come le piste già tante volte vagliate possono far credere. Ci si potrebbe chiedere se la soluzione sia un mercato concorrenziale, fortemente controllato dallo Stato; ma non è sempre vero. Sappiamo che l’intervento repressivo ha in ogni caso un margine di errore. La risposta allora potrebbe essere una maggiore chiarezza nella selezione del personale politico e delle modalità di organizzazione delle amministrazioni; un check-up degli apparati istituzionali, per incentivarne la trasparenza e
l’affidabilità degli albi professionali; un miglioramento nella designazione degli operatori; una politica economica punitiva nei confronti delle attività illegali; ancora, comportamenti opportuni da parte delle pubbliche amministrazioni per quanto riguarda la presenza criminale in determinate aree. A tutti questi spunti si cercherà di dare una terminazione concreta nei passi successivi della trattazione.
1.7 L’accumulazione di capitale
Dopo aver preso in considerazione una panoramica complessiva analizziamo il processo di arricchimento mafioso nello specifico. Questo processo intricato rimane pressoché standard e si sviluppa sostanzialmente su tre punti cardine. Come evidenziato dalla figura 3, durante il primo passaggio avviene il processo di accumulazione: attraverso una serie di attività criminali si verifica l’estrazione delle risorse finanziarie. Successivamente parte di tali risorse viene impiegata ai fini del mantenimento della struttura associativa, ma soprattutto nella produzione di nuove attività criminali. Questo secondo passaggio è anche il più cruciale in quanto è qui che hanno luogo due snodi fondamentali:
a. Il reinvestimento di cui sopra;
b. Il riciclaggio (in gergo money laundering) della parte restante dei capitali;
Una volta “ripulito” il denaro è possibile procedere al recycling, accedendo ai mercati finanziari ufficiali e quindi all’economia “reale”, realizzando pienamente la compenetrazione con l’economia e la finanza legali. Nel caso di un’attività lecita che diventa strumento del mafioso trasformandosi in attività criminale si tratterà comunque di formazione di risorse derivanti da attività criminali. Per quanto riguarda invece il secondo passaggio, i capitali di tale origine sono funzionali alla costruzione del <<capitale fisso>> dell’organizzazione, da non sottovalutare: il costo di ammortamento di un’organizzazione di questo tipo è notevole, e va dal mantenimento della famiglia del mafioso ucciso al pagamento dei legali per i procedimenti penali; insomma, nelle ricchezze di questi soggetti non vanno contati solo i ricavi illeciti, ma anche le spese necessarie al non deperimento del clan. Un’altra componente delle risorse finanziarie viene reinvestito in nuove operazioni illecite, rimanendo quindi all’interno dello stesso circuito illegale. A questo punto rimane quel coefficiente di capitali, per così dire, in eccesso, mirato alla fuoriuscita dai circuiti illegali, per inserirsi in contesti finanziari regolari. Ed ecco che avrà luogo il reinvestimento del denaro ripulito, che però con il secondo passaggio alla lettera b., <<ossia con il riciclaggio in senso proprio, (che si muove in un circuito in cui azioni chiaramente illegali ed azioni legali si confondono e si intrecciano). Il riciclaggio è operazione tecnicamente distinta dal reinvestimento e consiste
sostanzialmente nella separazione della liquidità o di altri beni dalla sua matrice illegale e criminale, ossia nella “pulitura” o “lavaggio”, nella circolazione e nell’occultamento del denaro sporco>> (Fantò, 1999, pg. 15, 16).
Figura 3 Il processo di accumulazione mafiosa
Fonte: elaborazione personale
Questa discrepanza non facilmente individuabile ha creato parecchie problematiche a livello investigativo, in quanto gli inquirenti stessi tendenzialmente associavano i due processi andando alla ricerca dei canali per la ripulitura del denaro senza individuare dove tale denaro ripulito fosse destinato. Ancora, gli analisti impiegati nelle strutture investigative dello Stato erroneamente deducevano che le operazioni di riciclaggio e il reinvestimento fossero la stessa procedura, mirata a rendere utilizzabile il denaro. In realtà tale denaro svaniva nel nulla, senza aver lasciato tracce tangibili.
Oggi il codice penale considera il riciclaggio un passaggio propedeutico al reinvestimento del capitale, tanto che la legislativa è stata riformulata aggiungendo accanto all’art. 648 bis, l’art. 648
ter,11 a punire il re-impiego di capitali illegali in attività economiche o finanziarie. L’articolo
individua, al contrario del primo che trattava del riciclaggio in senso stresso, nel reinvestimento un’azione di reato a sé stante. Questa moderna forma di accumulazione nasce, come già visto, con la creazione dell’impresa mafiosa tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, quando grazie alla ripulitura del denaro sporco la maggior parte del capitale può essere incanalato in attività produttive. Come portato alla luce dai comparti investigativi e dalle Procure impegnate nel contrasto all’organizzazione mafiosa12 e dalla Guardia di Finanza,13 l’impresa a partecipazione mafiosa, sorta
11 Testo completo degli articoli del codice penale in pdf disponibile al link in sitografia. 12 Tribunale di Palermo, 1990. Estrazione risorse a. Reinvestimento b. Money laundering Recycling Interation stage
27 negli anni Ottanta, rappresenta lo sbocco ideale per la strategia di reinvestimento dei capitali ripuliti, coprendo al meglio gli investimenti in ambito imprenditoriale ed impedendo la risalita al reale vertice criminale di accumulazione del capitale. Questa posizione è portata avanti anche da una ricerca sociologica effettuata dai giovani imprenditori di Confindustria, i cui dati hanno evidenziato che il 53% dei titolari di imprese campane, calabresi e siciliane ammette la frequenza del fenomeno di cessione di quote a soggetti sospetti.14
Un orizzonte inquietante è il fatto che pare che le forme imprenditoriali della mafia stiano cercando di accorciare sempre più il lasco di tempo tra le due operazioni, in modo da lasciare meno piste possibile in aiuto agli inquirenti, i quali in quel lasco di tempo hanno individuato più probabilità di risalire alla fonte del problema. La chiave della fusione delle due operazioni sembrerebbe proprio risiedere nella cooperazione tra mafia e imprese legali. Questo momento sostanziale sembra potersi presentare nella circostanza, di cui si è già parlato, della compartecipazione tra economia ed impresa legale e impresa mafiosa: pare che in quest’orizzonte si riuscirebbe ad avere addirittura una fusione tra il momento del riciclaggio e quello del reinvestimento. Ecco che si presenta la necessità di una nuova modalità di contrasto espressamente mirata al momento del reinvestimento, ancor più che alla “pulitura” del capitale sporco. Infatti, è <<tanto più efficiente e quindi pericolosa l’organizzazione criminale – osserva il magistrato Angelo Mambriani – che riesca, con pochi passaggi ed in breve tempo a rendere irriconoscibile il provento del delitto e a reimmetterlo sul mercato in modo produttivo>>15 (Corso, Insolera, Stortoni, 1995, pg. 494). Tuttavia non sarà possibile per lo Stato agire in tal senso se non si sarà in grado di colpire quell’aria di commistione specifica tra economia legale e non. Come infatti sostiene Fantò, questo fenomeno <<è oggi il pericolo principale per l’economia nazionale nel suo complesso>>.
Capitolo II
La mafia nel turismo
2.1 La matrice della rete di controllo su una destinazione La mafia opera nel settore turistico provocando scompensi:
13 Questa tesi è avvalorata anche dal capo della polizia. Commissione parlamentare antimafia, 1994. 14 Associazione giovani imprenditori della Confindustria, 1994.
• Economici;
• Ambientali, ecologici, urbanistici; • Sociali; • Lavorativi; • Culturali;
Figura 4 La matrice della rete di controllo della mafia su una destinazione
Fonte: elaborazione personale
In questo capitolo si analizzerà questa matrice ordinata di elementi appartenenti all’insieme della rete di controllo della mafia. Verranno infatti analizzate le esternalità che i movimenti della mafia in tutti questi campi producono nel settore turistico.
Il binomio mafia-turismo presenta un tratto comune, quello del territorio: un’area definita e delimitata, in ambo i casi da rendere proficua e produttiva. La discrepanza è labile e risiede nella semantica, poiché laddove il turismo si approvvigiona della fruttuosità di un territorio, la mafia lo sfrutta sistematicamente. Le organizzazioni mafiose adottano un territorio di riferimento su cui agire tramite attività di coordinamento, regolazione e controllo. In questo modo le mafie, grazie al carattere organizzativo ed unitario del fenomeno, intaccano dapprima il tessuto socio-economico del territorio per poi introdursi illecitamente nel settore turistico di un determinato contesto geografico a più o meno alta attrattività.
2.2 Le motivazioni dell’interesse congiunto per i settori edilizio e turistico
La rete di controllo della mafia su una
destinazione
Economia
Ambito culturale Settore lavorativo
Ambiente, ecologia, urbanistica
Secondo i dati Istat quello turistico è il secondo settore in cui la mafia ha maggior ingerenza dopo quello edilizio.16 Procediamo ad un’analisi puntuale delle motivazioni per cui il settore edilizio e quello alberghiero sono favoriti dai gruppi mafiosi (Figura 4):
a. Entrambi garantiscono grandi profitti;
b. Entrambi rappresentano ottimi canali di riciclaggio: sono settori in cui vige la garanzia dell’anonimato in quanto raccolgono e fanno circolare grandi quantità di denaro liquido; c. Sono settori altamente consolidati, dove immettersi non richiede particolari competenze o
capacità innovative17: ciò comporta un basso rischio d’impresa;
d. Sono settori caratterizzati da un buon indice di reddittività del capitale investito (o “ritorno sugli investimenti”): il ritorno sugli investimenti è un indice di redditività ed efficienza economica. Esprime quanto il capitale investito rende in un’attività. Il soggetto mafioso è abituato a questo tipo di garanzia nelle sue attività precedenti e tende a cercarla nei settori in cui infiltrarsi;
Figura 5 I vantaggi di investire nei settori edilizio e alberghiero da parte della mafia
Fonte: elaborazione personale
Non meno importante, il settore turistico di una località è fortemente gestito dagli apparati pubblici. Creare rapporti privilegiati con enti, operatori ed organi pubblici è un obiettivo primario delle cosche, che tramite tali rapporti possono agevolmente ottenere il controllo sugli appalti e rifugiarsi in una nicchia di mercato ben protetta.
16 Istat, 2018.
17 Si è visto che la criminalità organizzata non necessariamente è tenuta ad avere competenze
Grandi profitti
Canali di riciclaggio
No rischio d'impresa
Ritorno sugli investimenti
2.3 I meccanismi di estorsione ai danni del turismo e di aggiudicazione illecita di appalti pubblici Il turismo è un’espressione di contesti culturali che ben s’intreccia con le tradizioni folkloristiche di un determinato popolo. L’azione criminale effettuata con raggio d’azione territoriale va a minare l’equilibrio delle relazioni sociali e della vita pubblica e associativa. Per avere una misura della vocazione territoriale della mafia basti pensare all’origine del fenomeno stesso: i latifondi, espressione di controllo e giurisdizione sul suolo. Suolo che nella realtà mafiosa diventa quasi un campo di gioco. <<Caratteristica tipica del crimine economico è la percezione che gli autori hanno di se stessi, nonché il modo in cui la collettività a sua volta li percepisce, modalità che condizionano la reazione sociale nei confronti di questo tipo di reati>>. Nel 1968 Becker, supportato più tardi da Ehrlich e Stigler, sottolineava come un soggetto che operi illegalmente lo faccia perché crede di ottenere di più in questo modo rispetto a quanto otterrebbe agendo legalmente. Secondo Becker, un soggetto con queste intenzioni opera un’analisi costi/benefici che comprende sì la valutazione dei costi necessari alla suddetta operazione, ma anche l’aspettativa di punizione. <<L’entità di quest’ultima dipende a sua volta dalla gravità della sanzione prevista […] e dall’effettiva probabilità che il reato sia scoperto e punito>> (Martucci, 2006, pg. 51, 53).
Tra il 2004 e il 2006 un numero sconfinato di alberghi e pubblici esercizi di attività ricettiva sono stati costretti a chiudere. Gli albergatori e i proprietari di villaggi turistici a cui viene imposto il pagamento il pizzo, interesse della mafia che si aggira attorno al 10% mensile, sono sempre più numerosi. Per poter continuare ad esercitare la propria attività commerciale, infatti, moltissimi albergatori e titolari di strutture ricettive sono costretti ad emettere somme di denaro estorsive alla mafia. Gli esercenti non solo garantiscono alla mafia un notevole riscontro economico, ma contribuiscono al consolidarsi del controllo sul territorio. La frequenza e l’ammontare dei pagamenti vengono stabiliti a piacimento del mafioso, che intima all’albergatore di doversi “mettere in regola”. L’importo viene calcolato in base alla zona, all’afflusso di clienti e al giro d’affari dell’attività presa di mira. Il meccanismo dell’estorsione è una realtà talmente radicata che in alcuni business plan per il lancio di una nuova attività la voce “pizzo” ricade accanto alle altre voci formali. Molto spesso sono i nuovi commercianti stessi, per paura, a informarsi in zona per capire a chi siano tenuti a pagare la somma di denaro. L’impadronirsi del potere di richiedere una “tassa” trova le sue motivazioni nella tendenza della mafia di erigersi a Stato.
Un altro filone è quello costituito dall’aggiudicazione impropria degli appalti pubblici tramite la corruzione delle relative gare. In questo caso, servendosi del dominio su un intenso reticolato di corruzione, le mafie riescono a far sì che intere aree vengano affidate direttamente nella mani di imprese gestite dalle organizzazioni criminali.