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Donne straniere con figli: che "genere" di conciliazione? Una fotografia quantitativa

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Academic year: 2021

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C

APITOLO

U

NO

DONNE STRANIERE CON FIGLI:

CHE “GENERE” DI CONCILIAZIONE?

UNA FOTOGRAFIA QUANTITATIVA

Francesca Bergamante e Cristina Solera

Dagli anni sessanta del secolo scorso, dopo essere stata per decenni un paese di emigrazione, l’Italia è diventata un paese di forte immigrazione, passando, secondo le stime Istat, da una quota di residenti stranieri del 2,5% nel 2000 all’8,3% nel 2016. Negli ultimi anni in particolare si è assistito a una progressiva stabilizzazione e femminilizzazione degli immigrati, dovuta a traiettorie migratorie “della cura”, ai ricongiungimenti familiari e all’ incremento dei minori nati in Italia. Le prime ad arrivare nel corso degli anni ‘60 e ‘70 sono state le donne provenienti dall’Eritrea, da Capo Verde, dalle Filippine, seguite poi da donne latino-americane, donne che partivano spesso con progetti individuali di tipo emancipatorio, e avvalendosi soprattutto delle catene migratorie attivate dalle associazioni religiose e dalla chiesa, trovavano impiego come badanti o domestiche. Nel corso degli anni ‘80 a queste presenze, via via sempre più consolidate, si aggiungono le donne cinesi e, con la via dei ricongiungimenti familiari, le donne egiziane, tunisine, marocchine. Nel corso degli anni ‘90 approdano in Italia anche le donne colombiane e nigeriane (spesso coinvolte nel traffico della prostituzione) insieme ad albanesi, rumene e polacche, che trovano impiego ancora una volta per lo più nel settore domestico e di cura [Silva 2003; Tognetti Bordogna 2012], diventando il pilastro di quel regime di welfare mediterraneo chiamato familistico “a variante migrante” [Bettio et al 2006].

Sulla scia di queste importanti trasformazioni, in letteratura si è sempre più andati verso lo studio dell’intreccio tra regimi di cura, regimi occupazionali e regimi migratori, analizzando le donne migranti come nodo chiave delle strategie di cura e di conciliazione dei welfare state e delle famiglie autoctone, strategie che, a seconda del grado di controllo e formalizzazione del lavoro di “badante” e del tipo di politiche sociali (via servizi domiciliari, servizi residenziali, o assegni di cura), hanno effetti diversi sia sui care-receivers (spesso anziani, ma anche bambini), che sulle care-givers (siano esse le badanti o le donne in famiglia da cui in “genere”, in qualità di nuore, mogli, figlie, ci si aspetta la cura). Molto meno analizzati sono stati i bisogni di conciliazione delle donne migranti, in quanto madri lavoratrici con figli a carico in Italia [Wall e Jose 2004; Bonizzoni 2014; Santero 2016].

In questo lavoro, utilizzando l’indagine campionaria sulle nascite e sulle madri dell’Istat, indagine che nel 2012 ha incluso anche un campione di donne migranti, esploriamo la situazione delle madri straniere che hanno partorito in Italia. Saranno analizzati nello specifico il tipo di servizi socio-sanitari utilizzati in area materno-infantile, i modelli di partecipazione al mercato del lavoro attorno alla maternità, le strategie di cura tra formale e informale adottate, e la loro variazione a seconda del titolo di studio, al fine di osservare se anche tra le donne straniere, come succede per le donne italiane, alti titoli di studio guidino comportamenti “diversi”, vincendo i “dettami” del genere, oppure se, usando la famosa espressione di Bittman et al [2003], gender trumps money.

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1- L’indagine campionaria sulle nascite e le madri del 2012

L’Istat ha condotto tre edizioni dell’Indagine campionaria sulle nascite al fine di offrire un utile strumento per la comprensione delle dinamiche relative ai comportamenti riproduttivi, anche nel loro legame con la tendenza verso l’innalzamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. I dati qui presentati fanno riferimento all’ultima rilevazione realizzata nel 2012 in cui sono state intervistate le madri che hanno avuto un figlio nel 2009/2010 (le precedenti edizione facevano riferimento a madri con figli nati rispettivamente nel 2000/2001 e nel 2003). Questa edizione dell’Indagine è stata progettata con il contributo dell’Isfol che ha permesso la rivisitazione e l’arricchimento dei contenuti inerenti il tema dell’interazione tra maternità e lavoro.

Nell’edizione del 2012 sono state condotte due indagini distinte: la prima è stata realizzata (con tecnica C.A.T.I) su un campione di circa 17.000 nascite rappresentativo dell’universo dei nati italiani iscritti in anagrafe nel 2009/2010; la seconda sulle madri straniere è stata condotta su un campione di circa 2.000 nascite riferito all’universo dei nati stranieri iscritti in anagrafe nel 2009/2010 (con tecnica P.A.P.I.). L’indagine sulle madri straniere ha previsto la somministrazione di un questionario in versione short rispetto a quello utilizzato nella versione telefonica e alcuni quesiti sono stati rimodulati al fine di adattarli maggiormente alla popolazione oggetto della rilevazione. Successivamente le due indagini sono state armonizzate ed è stato creato un unico database comprendente in modo congiunto le informazioni rilevate con le due tecniche. I dati a disposizione a seguito del processo di riporto all’universo sono rappresentativi sia per la componente italiana, sia per la componente straniera1. Il campionamento utilizzato per l’estrazione delle madri da intervistare ha seguito un disegno diverso considerando le due diverse indagini. Nel caso delle madri italiane si è trattato di un campione a uno stadio stratificato rispetto alla classe di età della madre e alla regione di residenza. Per l’indagine sulle madri straniere invece il disegno di campionamento è a due stadi con stratificazione delle unità di primo stadio; le unità di primo stadio sono rappresentate dai comuni, stratificati per dimensione in termini di nati, mentre quelle di secondo stadio sono le madri di bambini con entrambi i genitori stranieri nati nella seconda metà del 2009 e nella prima metà del 2010, classificate in base alla macro-area geografica di provenienza (U.E. più altri paesi europei, America settentrionale e Oceania; Europa centro-orientale; Africa; Asia; America centro-meridionale).

Tabella 1 mostra le caratteristiche del campione, per cittadinanza della madre, titolo di studio, età, numero di figli, status occupazionale e periodo di residenza in Italia. Nonostante la notevole ampiezza campionaria totale dell’indagine, per particolari disaggregazioni e soprattutto per le madri straniere, numericamente inferiori, non è possibile produrre delle stime con un alto livello di precisione. In particolare, non è possibile distinguere per paesi di provenienza oltre che per aree, provando ad esempio a cogliere le differenze nei comportamenti tra peruviane, rumene e marocchine, i tre gruppi oggetto delle interviste qualitative su cui si basano il resto dei contributi in questo volume. Mancano anche per le straniere, perché assente come domanda nel questionario P.A.P.I, informazioni sulla divisione di genere del lavoro famigliare, su, quindi, il tipo e grado di partecipatone maschile la lavoro domestico e di cura, su nuovi eventuali modelli di paternità, informazione disponibile solo nel questionario C.A.T.I. Tutte le altre informazioni invece, uso dei servizi perinatali e tipo di parto, condizione e posizione occupazionale durante e dopo la gravidanza, affidamento dei bambini ad asili nidi o rete informali sono comuni ai due tipo di questionari e campioni. Ad esse quindi si rivolgono i paragrafi successivi.

Tabella 1- Le caratteristiche del campione

1 Per approfondimenti cfr. Avere figli in Italia negli anni 2000. Approfondimenti dalle indagini

campionarie sulle nascite e sulle madri”, Istat, temi, dicembre 2014, http://www.istat.it/it/archivio/147180.

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Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

2- Avere figli in Italia: l’uso dei servizi perinatali e i modelli di parto

In questa fase storica caratterizzata da un elevato tasso di invecchiamento delle popolazioni occidentali, il binomio riproduzione/migrazione è diventato sempre più urgente. In linea generale le donne migranti sono “in età fertile” con un’alta propensione a fare figli, ed è a loro a cui sempre più si deve la crescita demografica dei paesi occidentali, anche se negli ultimi anni in Italia si assiste ad una diminuzione dei ritmi di crescita dei livelli di fecondità anche per le madri straniere. Coloro che approdano in Italia, vuoi per ricongiungimento famigliare o per un progetto di vita singolo, sono consapevoli che una potenziale maternità si compirà nel Paese di arrivo, e che comporterà forti aggiustamenti sia materiali che simbolici, con scelte e attribuzione di senso in contesti multiculturali complessi in cui le voci che definiscono i sistemi di nascita, le culture del parto, i modelli di maternità (e paternità) sono molteplici e spesso contradditorie, provenienti da famigliari e reti amicali di connazionali, da relazioni con

Valori

assoluti % assolutiValori %

Tipo di coppia Titolo di studio

Genitori entrambi

italiani 16456 86,9 *Madre italiana

Coppie miste 814 4,3 Alto (laurea) 5314 31,4

Genitori entrambi

stranieri 1676 8,8 Medio (diploma) 8433 49,8

Basso 3181 18,8

Tipo di madre *Madre straniera

Madre italiana 16929 87,9 Alto (laurea) 405 17,6 Madre straniera 2327 12.,1 Medio(diploma) 1003 43,2

Basso 912 39,2

Macroarea di provenienza Età

Italia 16929 87,9 *Madre italiana

UE, America sett.,

Oceania 634 3,4 <25 2363 14,0

Europa centro-orientale 524 2,7 25-34 8460 50,0

Africa 506 2,6 35 + 6106 36,0

Asia 346 1,8 *Madre straniera

America

centro-meridionale 317 1,6 <25 565 24,3

25-34 136 58,6

Anni di residenza in Italia 35 + 396 17,1

0-2 anni 121 5,2

3-5 anni 843 36,2 Numero di figli

6+ 1363 58,6 *Madre italiana

1 7527 44,5

Status professionale

all’intervista 2 7045 41,6

*Madre italiana 3+ 2357 13,9

Occupata 10493 62,0 *Madre straniera

Non occupata 6436 38,0 1 1071 46,0

*Madre straniera 2 829 35,6

Occupata 869 37,3 3+ 427 18,4

Non occupata 1458 62,7

Totale madri italiane

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autoctoni, dagli esperti “scientifici” dei servizi sociali e sanitari con cui si entra via via in relazione [Balsamo 1997]. Queste maternità compiute in Italia hanno ripercussioni sia per le donne e famiglie migranti che per quelle italiane, e per la società di arrivo nel suo complesso. Da un lato, infatti, comportano forti cambiamenti sia nelle strutture e relazioni famigliari in terra di partenza, sia in quelle di transito e permanenza [Balsamo 2003]. Dall’altro, incidono sugli equilibri delle società di arrivo, innanzitutto sulla ristrutturazione del sistema sanitario e del welfare, per poi ripercuotersi su tutti i settori della vita sociale [Tognetti Bordogna 2005] e sul suo grado e tipo di disuguaglianza e inclusione [Saraceno et al 2013].

Ma nel percorso della gravidanza e della nascita, che uso fanno le donne straniere, rispetto alle autoctone, dei servizi socio-sanitari? Utilizzando l’Indagine campionaria sulle nascite e le madri del 2012, le figure 1, 2, 3 e 4 mostrano come varia la frequenza di corsi preparto, il ricorso a ginecologi privati o pubblici, il luogo e tipo di parto a seconda si tratti di (neo)madri in coppie dove entrambi sono italiani, solo uno dei due o entrambi stranieri. È evidente come le madri straniere frequentino meno spesso delle madri italiane corsi preparto, soprattutto quando anche il partner è straniero: solo circa il 24% delle coppie straniere ne fa uso, contro il 32,8% delle coppie italiane e circa il 35% delle coppie miste (fig. 1). Sembra comunque opportuno segnalare il fatto che, indipendentemente dalla tipologia di coppia, il luogo più utilizzato per i corsi preparto è l’ospedale.

Figura 1 - Frequenza di un corso preparto per tipologia di coppia

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Figura 2 - Persona che ha seguito la madre durante la gravidanza per tipologia di coppia

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

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Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Figura 4 – Tipo di parto per tipologia di coppia

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Al contempo però le coppie straniere, che in linea teorica versano più frequentemente in condizioni economiche svantaggiate, si affidano maggiormente al sistema sanitario nazionale, quasi gratuito: solo il 16% di loro si fa seguire da ginecologi privati e il 4,5% partorisce in strutture private, contro rispettivamente l’84,3% e il 9,7% delle coppie italiane (fig. 2 e 3). Sul tema del tipo di parto solo il 27,5% delle madri straniere ricorre a parto cesareo contro il 41% di quelle italiane, la qualcosa può essere quasi certamente imputabile alla più giovane età in cui mediamente le donne straniere diventano madri rispetto alle italiane (fig. 4).

L’esistenza di un divario tra italiani e stranieri nel campo della salute e dell’accesso ai servizi perinatali, come traspare dai dati sopra presentati, è in linea con altre analisi. Ad esempio, Lariccia et al [2013], usando la rilevazione annuale sui parti e sui nati che il Ministero della salute conduce dal 2003 in Italia, contrariamente alla nota ipotesi dell’“emigrante” sano, mostrano sistematici svantaggi delle donne straniere rispetto alle italiane negli esiti riproduttivi, e soprattutto delle donne straniere non residenti (in primis le irregolari). Rispetto alle donne autoctone, le donne straniere hanno per esempio percentuali di nati morti superiori, soprattutto se da poco in Italia, se aventi un partner anch’esso straniero e con titolo di studio basso, se facenti ricorso tardivo alle cure sanitarie (come avere il primo contatto con i servizi solo al momento del parto). Rispetto alle donne italiane, le donne straniere sono anche in generale più a rischio di nascite pretermine, di aborto, di insufficienze del bambino alla nascita, di non utilizzo di servizi diagnostici specifici come esami ultrasuoni, corsi preparto e visite ostetriche. Analogamente, analizzando i dati provenienti dai certificati di assistenza al parto (CEDAP) nella città torinese, Musumeci [in questo volume] mostra che tra le straniere la quota che si sottopone a più di quattro visite nel punto nascita di riferimento durante la gravidanza è la meta rispetto a quella riscontrata tra le italiane.

Come messo in luce dalla ricerca comparata guidata dalla Fondazione Brodolini su Better health for Better integration: Building Capacities to Improve Health Equity for Ethnic

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Minorities Women [Solera 2013], un misto di barriere organizzative e culturali indebolisce l’accesso delle donne migranti ai servizi legati alla maternità, anche in quei paesi quali l’Italia e la Svezia dove i diritti alla salute sono garantiti come diritti di cittadinanza, per ciò universalistici. Certamente contano la minor informazione sui loro diritti, le difficoltà linguistiche, e l’adesione a una cultura del parto e della maternità meno medicalizzata. A questo si aggiungono culture e prassi degli operatori socio-sanitari ancora troppo eurocentriche, che faticano a riconoscere modelli culturali diversi e il loro impatto su concezioni della salute, della maternità (e indirettamente della paternità), dei rapporti di genere. Pesano anche vincoli di bilancio per una maggiore assunzione di mediatori culturali, cambi legislativi come l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009, o, in generale, discorsi pubblici che richiamando alla diversità culturale del migrante e alla sua tendenza “naturale” alla criminalità, ne indeboliscono il riconoscimento sociale e contribuiscono a una inclusione differenziata alla cittadinanza.

Le politiche tuttavia possono fare la differenza, sviluppando buone pratiche nel ridurre le barriere che trattengono le donne migranti dall’accedere ai servizi a cui hanno invece diritto: ad esempio come il progetto “Lo sapevi che..” attivato nel quartiere Aurora di Torino, finanziato dalla Regione e dal Comune, volto a informare le donne migranti sui servizi esistenti attraverso la formazione di animatrici sanitarie della stessa etnia, ossia attraverso un sistema di peer education; o come il progetto sulla salute nella moschea in Orebro, in Svezia, che, ispirandosi all’iniziativa europea MFH (Migrant Friendly Hospitals) e puntando, attraverso un approccio sia top-down che bottom-up, al superamento di un paradigma assimilazionista, organizza incontri sia nelle strutture sanitarie che nei luoghi delle comunità migranti (come le moschee) per promuovere il dialogo tra operatori socio sanitari autoctoni, mediatori culturali e cittadini stranieri [Solera 2013]. Si tratta cioè, come nella riorganizzazione del “Percorso nascita” e l’implementazione della cosiddetta “Agenda di Gravidanza” avvenuta nel 2008 nella regione Piemonte, di tentare di promuovere una cultura della salute e della cura più responsabilizzante, e più orientata a logiche di empowerment piuttosto che di compliance [Musumeci in questo volume].

3- Occuparsi dei figli in Italia: modelli di partecipazione al mercato del lavoro intorno alla maternità

Se si confrontano i corsi di vita delle donne italiane di oggi con quelli delle loro madri o nonne è evidente come le donne italiane siano “uscite dalla sfera domestica” per investire innanzitutto nello studio e nel lavoro, e come lavorare sia diventata per molte un’esperienza “normale” del corso di vita, non più così incompatibile con il far nascere e crescere figli. Le donne delle generazioni più giovani, infatti, non solo sono entrate più massicciamente nel mercato del lavoro, ma ne escono di meno intorno al matrimonio o alla maternità, o, se lo fanno, riducono il tempo delle interruzioni. Cosi, seppure con ancora importanti differenze tra aree e tra gruppi sociali, in primis tra donne e coppie a bassa o ad alta istruzione [Mencarini e Solera 2015], in Italia la famiglia male breadwinner sta via via lasciato il passo alla famiglia a doppio reddito.

Da un semplice sguardo ai dati dell’Indagine Forze di Lavoro dell’Istat, lo stesso si può dire per le donne straniere. I tassi di occupazione 15-64 delle donne extra-Ue in media non sono diversi da quelle italiane, intorno al 46%, ma con forti variazioni per paesi di provenienza: oltre il 60% tra le donne peruviane, ecuadoriane, moldave o ucraine, intorno al 34% tra le albanesi e le ganesi, il 23% tra le marocchine e tunisine, e solo il 14% tra le egiziane. Dietro questi diversi tassi di occupazione stanno percorsi migratori e modelli di famiglia e di genere diversi, più spesso connessi a una partenza autonoma alla ricerca di un lavoro per le donne dell’Est-Europa e del Sud America, connessi invece a ricongiungimenti familiari per le donne mediorientali o africane. Un altro elemento da tenere in considerazione è quello relativo all’inattività; in questo caso le donne italiane mostrano un tasso particolarmente elevato pari al 61,6% nel 2014 e ben

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lontano dalla media UE del 33,4%, superato solo dalle donne provenienti dal Pakistan (90%), Bangladesh (80,4%), Egitto (74,3%), India (71,4%) e Marocco (66,3%) e identico a quello relativo alle donne Tunisine. Tra i motivi dati all’inattività, inoltre, circa la metà delle egiziane, delle bengalesi e delle srilankesi è inattiva per prendersi cura dei figli, di bambini e/o di altre persone non autosufficienti, così come poco più del 40% delle tunisine, delle indiane e delle marocchine. All’opposto una quota rilevante di cittadine filippine (49,8%), peruviane (41,1%), ecuadoriane (40,2%) e moldave (37,6%) risulta inattiva per ragioni legate allo studio, dunque ben più della corrispondente platea delle italiane (25,2%) [Ministero del lavoro e delle politiche sociali 2015, tabella 2.5 e figura 2.9].

Figura 5 – Modelli di partecipazione al mercato del lavoro intorno alla maternità, per numero di figli

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Figura 6 – Modelli di partecipazione al mercato del lavoro intorno alla maternità, per numero di figli e titolo di studio

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Attraverso l’Indagine campionaria sulle nascite e le madri è possibile analizzare la realzione tra le donne e il lavoro in due momenti nel tempo, prima e dopo la nascita del figlio.

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Le figure 5, 6 e 7 mostrano, rispettivamente per numero di figli, titolo di studio e macro area di provenienza, i modelli di partecipazione al mercato del lavoro delle donne straniere e italiane intorno alla maternità, ossia la quota di coloro per cui si osservano modelli continui (“lavora sia prima che dopo”), modelli discontinui (“lavora solo dopo” o “lavora solo prima”) oppure che risulta sempre fuori dal mercato del lavoro (“non lavora né prima né dopo”).

La quota di donne straniere che interrompe il lavoro dopo la nascita di un figlio non è tanto dissimile da quella delle italiane, rispettivamente 15,9% e 13,6%; il discorso non è molto diverso nel caso si tratti del primo o del secondo figlio o più: circa il 16% per le madri italiane e 18.5% per le straniere se si tratta del primo figlio, 11,5% per le italiane e circa 13% per le straniere per il secondo o più. Piuttosto, ciò che marca la differenza con le donne italiane è l’assenza prolungata dal mercato del lavoro e il ruolo dell’istruzione: una donna straniera su due già non lavorava durante la gravidanza, contro meno di una su tre tra le italiane (figura 5) e il gap tra donne con o senza laurea aventi carriere continue intorno alla maternità è di solo 10 punti percentuali per le donne straniere (il 36% delle donne laureate continua a lavorare dopo il primo figlio contro il 28% delle meno istruite), di 25 punti percentuali per le donne italiane (il 78% delle donne laureate continua a lavorare dopo il primo figlio contro il 52% delle meno istruite) (figura 6). Pare cioè che tra le straniere, più che tra le italiane, permanga un modello di partecipazione al mercato del lavoro ancora ancillare all’assunzione di responsabilità famigliari, che concepisce il lavoro femminile extradomestico come incompatibile non solo col ruolo di madri ma anche di mogli (vista la quota che già non lavorava prima della nascita del figlio) e che nemmeno un alto titolo di studio, normalmente segnale di investimenti sia strumentali che cognitivi-morali extrafamiliari, mette davvero in discussione. I dettami del genere, ossia le aspettative sociali sul posto della donna e dell’uomo prima e dopo il matrimonio e prima o dopo la maternità-paternità, sembrano contare più dei “soldi” [Bittman et al 2003], ossia dei rendimenti che un investimento in istruzione potrebbe avere o semplicemente della maggiore sicurezza che un secondo reddito porterebbe all’intero nucleo famigliare (soprattutto, con la crisi economica, di fronte all’alto rischio di disoccupazione o sottooccupazione dei male breadwinners).

La maggiore adesione delle donne straniere a modelli di genere più tradizionali che le collocano maggiormente fuori dal mercato del lavoro è però un dato “medio” che nasconde forti eterogeneità, innanzitutto per area geografica: con solo il 19% delle donne africane che lavora sia prima che dopo la nascita di un figlio, rispetto al 30% circa delle donne asiatiche o dell’Europa centro orientale, al 38,9% circa di quelle provenienti dall’America centro meridionale o al 36,8 per coloro che arrivano da altri paesi dell’Unione Europea, dall’America meridionale o dall’Oceania e a quasi il 53% delle italiane (Figura 7). Le culture di genere delle donne sudamericane a prevalenza cattolica, unite a percorsi migratori a carattere più individuale emancipatorio, e, grazie alle catene migratorie attivate dalle associazioni religiose, con sbocchi abbastanza certi nel campo del lavoro di cura, sono certamente diverse dalle culture di genere e dai percorsi migratori delle donne arabe, per lo più migranti al seguito dei mariti, o di molte donne dell’Est, donne che sotto i regimi socialisti lavoravano e che partono nubili o “lasciando mariti e figli a casa” alla ricerca di lavoro come badanti o domestiche.

Ma i diversi modelli di partecipazione delle donne intorno alla maternità non possono ricondursi solo a socializzazioni e pratiche culturali nei paesi e nelle famiglie di origine. Contano anche i processi di ibridazione-integrazione-conflitto con le culture e le pratiche dei paesi d’arrivo, nonché i vincoli posti dal mercato del lavoro, dalle politiche migratorie e dalle politiche sociali [Williams 2010, 2012]. Come noto, sul mercato del lavoro, i migranti, donne incluse, mostrano forti svantaggi: hanno redditi medi sistematicamente molto inferiori agli autoctoni, tassi di povertà da lavoro molto alti (con conseguenze anche sui tassi di povertà infantile: più della metà dei minori stranieri vive in famiglie al di sotto della soglia di povertà). Sia per un meccanismo di domanda del mercato del lavoro, e quindi di autoselezione di chi vi arriva (l’Italia attrae migranti mediamente meno qualificati rispetto a quello che accade in altri paesi), che per processi di declassamento e discriminazione, i migranti tendono infatti a

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collocarsi prevalentemente nelle fasce basse della stratificazione occupazionale e a rimanervi, con scarse prospettive di mobilità ascendente [Saraceno et al 2013; Istat 2015] e a questo si aggiungono i noti fenomeni di overeducation decisamente più frequenti tra i lavoratori stranieri rispetto a quelli italiani. Gli svantaggi sono ancora più evidenti quando alla dimensione della nazionalità si aggiunge quella del genere: più della metà delle donne straniere svolge un lavoro non qualificato (58% vs. 9% delle italiane), di cui il 40% di tipo domestico presso le famiglie (1,7% le italiane), una su due svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto (51% vs. 20%), con una paga mensile media di 788 euro vs. 1.131 euro delle italiane [Sabbadini 2012]. Inoltre, solo una minoranza delle assistenti familiari (colf, badanti) si trova in una condizione di completa regolarità: nel 2013 il 26% risulta lavorare e risiedere irregolarmente in Italia, trattandosi di straniere senza permesso di soggiorno valido; il 36%, pur se regolari, lavora senza contratto; il 38% lavora in regola con un contratto seppure, tra di esse, il 60% dichiari meno ore di lavoro rispetto a quelle effettivamente prestate [Pasquinelli e Rusmini 2013].

Figura 7- Quota di madri con carriere continue intorno alla maternità, per numero di figli e macro area di provenienza

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Questi svantaggi nel mercato del lavoro, unitamente allo status migratorio e alle politiche del mercato del lavoro e della famiglia, possono rendere problematica la conciliazione famiglia-lavoro delle donne migranti, spingendole, al di là o in interazione con modelli culturali più tradizionali, ad uscire dal mercato del lavoro prima o dopo la nascita di un figlio o non entrarvi mai. Se da un lato le politiche migratorie obbligano al mantenimento di un lavoro informale (l’unico possibile per chi ha status irregolare) o alla sua regolarizzazione per garantirsi il soggiorno, dall’altro i modelli di flessibilizzazione del mercato del lavoro, se non accompagnati da sicurezza (la cosiddetta flexsecurity) come avviene nei paesi del Sud Europa [Barbieri 2009], possono tradursi in forti segmentazioni anche nei diritti alla conciliazione, escludendo di fatto molte donne e uomini lavoratori regolari ma atipici da misure di conciliazione (quali congedi, permessi remunerati, servizi aziendali) pensate per rapporti di lavoro standard, o da servizi

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pubblici (quali asilo nido) aventi costi troppo elevati e posti disponibili troppo scarsi. Le politiche migratorie poi, che restringono fortemente i parenti aventi diritto a ricongiungimento famigliare, tendono a nuclearizzare la famiglia migrante, impendendo quindi ai genitori migranti con figli in Italia l’attivazione di risorse di cura informali [Kofman 1999]. In contesti cosi vincolanti, quali sono dunque le strategie di cura che le donne lavoratrici migranti mettono in atto quando hanno figli piccoli con sé? Quanto si affidano ai nidi, ai mariti, ai nonni, altri parenti, o ad altre soluzioni? Il paragrafo successivo mostra cosa emerge su questo dai dati Istat dell’Indagine campionaria sulle nascite e le madri del 2012.

4- Strategie di cura tra formale e informale: nidi, famigliari o mariti?

L’affidamento della cura del bambino ai servizi per la prima infanzia o ad altre persone diverse dai genitori è chiaramente dipendente dallo status e dalla storia occupazionale della madre: tra le madri lavoratrici continue, che avevano un lavoro durante la gravidanza e continuano ad averlo dopo la nascita del figlio, circa il 96% delle italiane e quasi l’83% delle straniere si affida a sostegni esterni (Fig. 8). I tipi di sostegno variano molto però per cittadinanza: tra le italiane il 35,2% usa il nido e il 57,1% i nonni o altri familiari, mentre tre le straniere il 55,3% usa il nido e il 30,8% i familiari o i nonni (Fig. 9). Inoltre, dietro il non utilizzo del nido paiono esserci meno ragioni di tipo economico: “retta troppo cara” risponde quasi il 52% delle italiane contro il circa 36% delle straniere (Fig. 10). In assenza di reti familiari “a portata di mano” come per le italiane, le donne straniere paiono anche contare maggiormente sul tempo di cura dei padri-mariti: il 6,5% dichiara di affidare il bambino prevalentemente al partner, contro il 2,9% delle italiane (Fig. 9).

Come vari studi ben tematizzano, le strategie di conciliazione e di cura delle donne e coppie migranti dipendono fortemente dalla natura e dall’intersezione dell’employment, immigration and care regimes [Williams 2010, 2012; Bonizzoni 2014; Santero 2016]. Poiché le norme sulle immigrazioni nuclearizzano la famiglia migrante, ostacolando il farsi raggiungere da parenti oltre il coniuge e i figli, nella famiglia transnazionale prevalgono piani di conciliazione centrati sulla coppia e sui servizi. L’assenza della risorsa “rete famigliare d’origine” sicuramente riduce le possibilità e aumenta la fatica della conciliazione, ma con esiti non necessariamente solo negativi, poiché obbliga nuove negoziazioni, sia nella coppia, e nelle sue pratiche e orientamenti di genere, sia nel territorio, nelle sue forme di integrazione e inclusione sociale. Vuoi più per vincoli che per scelta, vari studi segnalano infatti cambiamenti nei ruoli del marito nel paese d’ arrivo sia durante la gravidanza, con ad esempio mariti tunisini più pronti ad assistere la moglie in ricongiungimento famigliare negli aspetti medici e pratici per offrire traduzione linguistica [Chinosi 2002], sia una volta nati i bambini, con una maggiore partecipazione degli uomini nel lavoro familiare, anche se questa partecipazione è oggetto di continua negoziazione nella coppia e poco condivisa nella rete sociale, specie, sembrerebbe, nel caso delle donne arabe [Naldini e Santero in questo volume]. Inoltre, la minor disponibilità di parenti a cui affidare la cura dei figli spinge maggiormente le donne e coppie migranti all’utilizzo dei servizi per la prima infanzia, con esiti positivi sullo sviluppo dei bambini e sull’integrazione sociale in contesti sempre più stratificati per etnia e classe ormai comprovati [OECD 2006; Brilli et al 2011; Del Boca e Pasqua 2010].

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Figura 8 – Affidamento del bambino a servizi per l'infanzia o ad altre persone per modello di partecipazione della madre al mercato del lavoro (% di sì)

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Figura 9 – Persone a cui viene affidato il bambino, madri occupate

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat – Indagine campionaria sulle nascite e le madri, 2012

Figura 10- Motivo per cui il bambino non frequenta il nido, madri occupate

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I vincoli posti da mercati del lavoro sempre più incerti, pressanti e destandardizzati e da politiche sociali di impronta familistica con budget sempre più limitati condizionano fortemente le possibilità di scelta delle coppie e donne che vivono in Italia. Infatti, sebbene l’offerta di servizi sia andata crescendo negli ultimi anni, gli asili nido comunali in Italia riescono attualmente a coprire solo l’11,8% della potenziale utenza, con notevoli differenze tra Nord, Centro e Sud. Elevate differenze territoriali si riscontrano anche relativamente ai costi sostenuti dalle famiglie. Nel 93% dei capoluoghi di provincia italiani la retta è calcolata in base all’indicatore Isee: in media per un Isee basso (fino a 5.500) la tariffa minima corrisponde a 77 mensili (ma varia tra 15 e 350), mentre per un Isee alto (a partire da 30.500) la tariffa massima risulta essere in media 425 mensili (ma varia tra 110 e 750 ). Secondo le stime effettuate dall’ Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva, se si considera una ipotetica famiglia composta da tre persone (genitori più un bambino di 0-3 anni) che percepisce un reddito lordo annuo pari a 44.200 euro (al quale corrisponde un Isee di 19.900 euro), la spesa media mensile per la retta del nido comunale ammonta al 12% della spesa media mensile, per un ammontare medio di 309 euro al mese [Osservatorio prezzi & tariffe di Cittadinanzattiva 2014].

La scarsa copertura dei servizi per la prima infanzia, unita a costi che, pur se modulati sulla base delle condizioni socio-economiche, rimangono alti, ostacolano la conciliazione famiglia-lavoro delle donne (e degli uomini) che vivono in Italia. Nel caso delle donne e coppie straniere, le possibilità e la fatica della conciliazione sono aggravate dalla loro collocazione svantaggiata nel mercato del lavoro. Come Bonizzoni mette in luce nella sua ricerca sulle madri latino-americane e dell’Est Europa residenti a Milano [2014], frequenti sono le narrazioni di difficoltà di accesso a congedi con indennità, di licenziamenti dopo gravidanze o ricongiungimenti con i figli, di faticose conciliazioni per orari di lavoro troppo lunghi o atipici, o per rette dei nidi (soprattutto privati) troppo alte, di abbandono del lavoro quando occupate nel mercato del lavoro informale. In un mix interessante tra vincoli e preferenze, tra dimensioni strutturali, istituzionali e culturali, le strategie di conciliazione diventano così molteplici e composite, dal promuovere la precoce autonomia dei figli, al cercare lavori saltuari o con la possibilità di portarsi il figlio a presso, dall’incentivare una maggiore partecipazione del marito (sue condizioni e orari di lavoro permettendo), fino alla pratica di forme di maternità transazionale, come far rientrare i figli nel paese di origine o, in assenza di nonni o parenti stretti vicini, creare a attivare reti di cura allargate a vicini e conoscenti, connazionali ma anche italiani.

5- Conclusioni

I dati Istat provenienti dall’Indagine campionaria sulle nascite e le madri, che per la prima volta includono un campione e questionario ad hoc di madri immigrate, offrono spunti interessanti sui comportamenti che donne e coppie assumono nei percorsi di gravidanza, di nascita, e di lavoro intorno alla maternità. Ciò che emerge è un quadro composito ed eterogeneo, non solo tra donne italiane e donne straniere, ma, all’interno di esse, tra donne di diversa istruzione o provenienza geografica. Così, se da un lato le donne straniere paiono utilizzare meno i servizi in area materno-infantile (quali i corsi preparto), dall’altro lato, per condizioni economiche generalmente peggiori o per assenza in Italia dei nonni o altri parenti, “bloccati” nei paesi di origine, sembrano dipendere maggiormente dal sistema pubblico, rivolgendosi molto raramente a ginecologi, ospedali o asili nido privati. Eterogenei sono anche i modelli di partecipazione femminile al mercato del lavoro: modelli che, per le donne migranti, in misura maggiore rispetto alle italiane, sembrano sancire una incompatibilità tra l’essere lavoratrici e il diventare e l’essere mogli-madri, anche quando si è altamente istruite, ma con forti differenziazioni geografiche, con percentuali di donne che lavorano anche dopo la nascita dei figli oscillanti dal

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20% se africane, al 30% se dall’Est-Europa o asiatiche, al 40% se provenienti dal Sud Centro America, fino al 50% se italiane non laureate, oltre il 70% se italiane con laurea.

Dalle analisi proposte in questo capitolo, e in assenza di informazioni non solo sulle madri ma anche sui padri, e non solo su dimensioni oggettive ma anche soggettive (quali valori, intenzioni, motivazioni) è difficile dire quale mix di cause soggiacciano dietro i risultati emersi. Legandoli a quelli emersi in altri studi, qualitativi inclusi, è possibile però avanzare delle ipotesi. I diversi modelli di parto e uso dei servizi, cosi come i diversi modelli di conciliazione lavoro-cura hanno sicuramente radici culturali, sono riconducibili a specifiche socializzazione e pratiche di genere, oltre che di famiglia, che donne e uomini di istruzione diverse o provenienze geografiche diverse hanno. Come vari autori ben tematizzano [Williams 2010, 2012; Bonizzoni 2014], contano anche i vincoli e le opportunità poste dal mercato del lavoro, dalle politiche migratorie e dalle politiche sociali. Non sempre infatti le persone e le famiglie dispongono delle medesime risorse per poter seguire le proprie preferenze. Cosi, il fatto che l’istruzione differenzi poco le carriere lavorative delle madri migranti, se da un lato può essere ricondotto a fattori culturali, ossia all’esistenza di modelli di genere tradizionali ancora fortemente vincolanti tali da valere anche per donne e uomini più istruiti, normalmente “innovatori”, dall’altro chiama in causa elementi di ordine strutturale e istituzionale, come l’esistenza di un mercato del lavoro che, richiedendo soprattutto manodopera immigrata a bassa qualifica e faticando a riconoscere percorsi formativi non europei, quasi annulla il rendimento dell’ istruzione delle donne migranti. Analogamente, dietro il minor uso da parte delle donne straniere di servizi perinatali è probabile vi sia un mix di preferenze e di vincoli: da un lato le donne straniere sono portatrici di culture del parto e della nascita distanti dal paradigma biomedico occidentale; dall’altro, anche quando il sistema sanitario fornisce le cure necessarie come diritto di cittadinanza, sperimentano barriere all’accesso, quali quelle legati alla lingua, agli stili di comunicazione, ai differenti modelli culturali. Vincoli istituzionali e strutturali possono anche spingere a scelte diverse dalle preferenze culturalmente costruite: le politiche migratorie che impediscono la riunione di parenti, unitamente a disponibilità scarse e relativamente care di servizi per la prima infanzia, paiono spingere le coppie migranti a praticare strategie di conciliazione centrate sulla coppia, lontane dal modello ideale di affidamento alla rete famigliare allargata e che, se aprono anche a spazi di trasformazione importanti, obbligando ad esempio ad un maggiore coinvolgimento dei padri-mariti nella cura dei figli, possono tuttavia, in presenza di condizioni e orari di lavoro unfriendly, spingere la donna ad abbandonare il lavoro, con le conseguenze note in termini non solo di empowerment per se e per figli, ma anche di povertà e debole integrazione sociale più in generale.

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